Un caso di ragione applicata: la storicità dei Vangeli
Sabato 27, ore 17
Relatore:
Juliàn Carròn, docente di Sacra Scrittura presso il Centro Teologico S. Damaso di Madrid
I. Dall’avvenimento presente all’avvenimento passato
Il cristianesimo è un’avvenimento che irrompe inaspettatamente, in maniera imprevista nella storia umana (DV 2). Per cui non c’è altro modo di conoscerlo che fare parte di quell’avvenimento. Sarebbe illusorio pensare di riscoprire ciò che è il cristianesimo attraverso un esame della sua storia, o attraverso una lettura diretta dei Vangeli, come fossero libri da cui attingere 'motti' e notizie. Quello che è il fatto dell’Incarnazione si comunica oggi come duemila anni fa attraverso un incontro umano che ci rende contemporanei ad esso, come avvenne per Giovanni e Andrea, i primi due che incontrarono Gesù e restarono con Lui. E dopo di loro, attraverso di loro, un flusso continuo di uomini e donne, investiti da una forza dall’alto, fino a noi (cfr. DV 8).
È attraverso di loro che l’avvenimento cristiano continua ad essere presente nella storia oggi. Uno lo riconosce perché, incontrandolo, percepisce in esso una corrispondenza con l’attesa del cuore. "In realtà – ha detto il card. Ratzinger – noi possiamo riconoscere soltanto ciò per cui si dà in noi una corrispondenza". Questo avvenimento corrisponde come nessun altro a quella attesa, perché è l’unico adeguato alla ragione e al sentimento dell’uomo. Proprio per questo si presenta a noi con la pretesa di essere la verità della nostra vita.
L’avvenimento del quale uno inaspettatamente comincia a far parte possiede la capacità di dilatare le dimensioni della ragione aprendola sempre a qualcosa che essa non può dominare ma che può riconoscere. Forse in nessun altro testo come nel racconto del cieco nato, che ci narra il vangelo di Giovanni, si rende evidente la capacità, che questo avvenimento possiede, di aprire la ragione. Replicando ai giudei che non volevano riconoscere il fatto della guarigione, per le conseguenze che questa comportava riguardo alla persona di Gesù, il cieco appena guarito dice loro: "Non si è mai sentito dire di nessuno che aprisse gli occhi a uno, cieco dalla nascita". In effetti, finché non ha luogo un avvenimento che possa documentare altro, la ragione si attiene a quello di cui ha esperienza: "Non si è mai sentito dire che un cieco nato vedesse". Però quando l’avvenimento accade, se la disposizione del cuore è adeguata, la ragione si vede sollecitata a riconoscere, come fa il cieco: "Io prima non vedevo e adesso ci vedo". Questa apertura della ragione a possibilità non previste da essa, provocata dalla guarigione, è quello che ha portato il cieco a credere ragionevolmente in Gesù(1).
Questo avvenimento presente che ha la pretesa di un significato definitivo, totalizzante per la propria vita, e che sollecita la ragione umana come nessun altro, può spiegarsi solo con un avvenimento passato nel quale questa pretesa comincia e al quale si arriva attraverso una memoria che, nata adesso, si compie nel contenuto di allora. È dunque in un avvenimento presente che uno scopre un avvenimento del passato che ha la stessa pretesa di significato dell’avvenimento presente, e stabilisce così una memoria che ha il suo significato ultimo in quell’avvenimento passato.
Se dei cristiani fossero sorpresi dal fatto che uno, da essi appena conosciuto, colpito dalla novità che portano, chiedesse loro: "Chi siete voi?", non potrebbero rispondere adeguatamente alla domanda, non darebbero ragione sufficiente della novità che portano con sé, se non risalendo ad un fatto del passato, dove cominciò la storia che li ha raggiunti. E dovrebbero cominciare dicendo che duemila anni fa un profeta di nome Giovanni Battista stava battezzando quando vide passare lì vicino un uomo chiamato Gesù di Nazaret e gridò: "Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo!". Due discepoli di Giovanni Battista, Giovanni ed Andrea, seguirono quell’uomo e rimasero con Lui tutto il giorno. Non sappiamo di cosa hanno parlato, però quei due son tornati a casa loro cambiati e han detto ai loro amici: "Abbiamo trovato il Messia. È Gesù di Nazaret". In realtà questi cristiani non farebbero niente di diverso da quello che fece Pietro in casa di Cornelio in risposta alla sua chiamata: "Voi sapete quello che è successo in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; come Gesù di Nazaret..." (Atti 10, 37 e seguenti).
Il percorso dal presente al passato serve per chiarire che quello che sperimenti adesso come comunità cristiana è lo stesso che hanno sperimentato i monaci del Medioevo e quelli che hanno ricevuto l’annuncio cristiano dopo la Risurrezione di Gesù, come ci narrano gli Atti degli Apostoli, e, prima di loro, Giovanni ed Andrea. Anzi, l’unico modo per capire quello che narra il Vangelo sull’incontro di Giovanni ed Andrea è proprio questa esperienza presente.
Ricordo una signora – che non aveva ricevuto in precedenza un’educazione cristiana e il cui primo contatto col cristianesimo era stato tramite l’incontro con una comunità cristiana – che un giorno ascoltando il racconto dei Vangeli disse: "Càspita! a loro è successo come a noi". Senza un’esperienza oggettiva e guidata nel presente di questo avvenimento, uno rimane fuori dall’esperienza documentata dai Vangeli, anche se li legge. Così, può cogliere l’esperienza d’amore da cui è nata una poesia soltanto chi, in qualche modo, ha avuto una vera esperienza di amore.
Il secondo valore di questo percorso dal presente al passato è educativo, implica tutta l’educazione che uno deve sviluppare per rendersi conto di quello che gli è accaduto. L’incontro che ha fatto è incomprensibile se non si riconosce l’avvenimento passato che ne è l’origine. In questo lavoro di educazione, la ragione funziona dentro l’avvenimento vissuto. Per usare le parole del Concilio Vaticano II, la Chiesa si accosta alla Scrittura nel solco "della Tradizione viva di tutta la Chiesa" (DV 12). Il cieco dalla nascita ragiona a partire da quello che gli è successo. Invece i giudei sono costretti a negare l’evidenza del miracolo per poter continuare a ragionare prescindendo dall’avvenimento della guarigione. L’immanenza all’avvenimento presente, come vediamo nel cieco, lungi dal sopprimere la ragione, la esalta, la apre a tutte le dimensioni, comprese le possibilità sconosciute fino allora, come il fatto che un cieco nato veda.
Questa dilatazione della ragione a tutte le sue dimensioni, provocata dall’esperienza dell’avvenimento cristiano, permette inoltre di seguire le tracce che questo avvenimento ha lasciato nella storia. Una ragione che si muove dentro l’avvenimento cristiano è in grado di riconoscere che la realtà storica è aperta al Mistero e che il Mistero ha lasciato in essa le sue tracce. Non si tratta assolutamente di scoprire e tanto meno di dimostrare cos’è il cristianesimo attraverso la misura della ragione, ma piuttosto di mostrare, nell’immanenza della fede, la possibilità che la storia sia aperta all’irruzione del Mistero. In altre parole: che storia e Mistero non sono due termini incompatibili.
Ecco il senso di questo mio contributo sulla storicità dei Vangeli e sulla tradizione contenuta nei documenti del Nuovo Testamento: rivendicare la possibilità dell’irruzione del Mistero nella storia, compito tanto più urgente in quanto la storicità del cristianesimo è una delle questioni con cui un certo uso pretenzioso e riduttivo della ragione, concepita come misura della realtà, ha creduto di poter liquidare il cristianesimo come avvenimento.
II. Dalla fiducia ecclesiale all’irruzione del sospetto
Negli scritti del Nuovo Testamento troviamo una notizia inaudita: vi si afferma che un uomo "potente in opere e parole", Gesù di Nazaret, morto crocifisso nei tempi in cui era governatore della Giudea Ponzio Pilato, è Dio. Per secoli la Chiesa si è accostata ai Vangeli e agli scritti neotestamentari a partire dall’esperienza che viveva nel presente, la quale le permetteva di essere certa che le cose affermate in essi corrispondevano a quello che Gesù aveva detto di se stesso, e che i fatti raccontati coincidevano sostanzialmente con quanto era accaduto (DV 19). I Vangeli non sono un libro di storia, bensì il veicolo di una tradizione oggettiva che permette di conoscere Cristo nei suoi termini essenziali cosicché l’avvenimento nel quale viviamo resti radicato nell’avvenimento in cui ha origine. È per questo che la Chiesa è sempre vissuta nella convinzione che la fede da Lei confessata in Cristo Gesù si basa su quello che Lui ha detto e fatto in un angolo dell’Impero Romano duemila anni fa. E questa fede è così vincolata ad un avvenimento accaduto nella Palestina nel secolo I della nostra era, che la Chiesa non ha esitato a includere nella sintesi di quella fede, il Credo, il riferimento ad un personaggio tanto odiato per la sua crudeltà e intransigenza come Ponzio Pilato, per dimostrare che la fede da Lei professata nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo è strettamente legata alla storia umana.
Questa fiducia riguardo ai documenti cristiani si è incrinata in un certo momento della storia con l’irruzione del sospetto. Con l’inizio dell’indagine moderna sulle Scritture, s’introduce il sospetto sul valore storico degli scritti del NT in generale, e dei Vangeli in particolare. Il fatto che questi scritti fossero opera dei cristiani dava àdito a sospetti. Secondo la nuova mentalità, nata dall’Illuminismo, questi documenti ci trasmettono quello che i cristiani pensano di Gesù di Nazaret e non quello che realmente è stato, ha fatto e ha detto Gesù di Nazaret. Per poter arrivare al vero Gesù, al Gesù reale non travisato dalla fede cristiana, bisogna eliminare da quei documenti quello che i cristiani gli hanno attribuito, specialmente la Sua divinità.
Permettetemi di raccontarvi un episodio che mi è capitato mentre facevo lezione di religione in un liceo. Dopo un excursus attraverso l’esperienza umana, mi accingevo a presentare i documenti che raccontano le origini del cristianesimo. E scrissi sulla lavagna la parola "vangeli". Aveva appena finito di scriverla quando un alunno alzando la mano disse: "Quello non è valido, perché è soggettivo". Nel suo linguaggio questo significava che, siccome quei documenti erano stati scritti dai cristiani, non potevano servire per conoscere la verità storica delle origini cristiane. Gli risposi "Allora, secondo te, l’atteggiamento più adeguato di fronte alla realtà è il sospetto". "Certo", rispose. E si unirono a lui altri compagni. Allora gli dissi: "Se l’atteggiamento più adeguato di fronte alla realtà è il sospetto, questa mattina quando tua madre ti ha messo in tavola il caffè per colazione le avrai detto: "Mamma, se non lo fai analizzare, non lo bevo". Ricordo ancora perfettamente l’espressione del mio allievo mentre alzava le braccia dicendo: "Ma se è da sedici anni che vivo con mia madre!". "Allora – gli dissi – ci sono delle occasioni in cui l’atteggiamento più adeguato di fronte alla realtà non è il sospetto, no?". Rimase un po’ imbarazzato. E continuai "Ebbene, qual è la differenza tra l’atteggiamento che hai di fronte ai vangeli e quella che hai di fronte alla tazza di caffè? Che ti poni di fronte ai vangeli senza avere sedici anni di convivenza alle spalle, mentre di fronte alla tazza di caffè ti metti con sedici anni carichi di ragioni le quali ti danno la certezza che tua madre non ha messo del veleno nel caffè". Questo episodio mi ha fatto comprendere che l’unica posizione ragionevole di fronte ai documenti del Nuovo Testamento è quella della Chiesa Cattolica, che si accosta ad essi come il mio allievo alla tazza di caffè, cioè mediante un’esperienza di convivenza nel presente con l’avvenimento cristiano(2). Chi ha questa esperienza dietro di sé, non ha di fronte ai documenti una posizione ingenua ma una posizione carica di ragioni, accumulate durante una convivenza nel tempo. Una posizione che scopre fin dal primo momento la corrispondenza e che cresce con la convivenza nel tempo.
Da un certo momento in poi alcuni studiosi, come quel mio allievo, si mettono di fronte ai documenti del Nuovo Testamento senza che questa previa esperienza di convivenza con l’avvenimento cristiano determini il loro approccio. Il caso più emblematico è quello di G.E. Lessing. In uno scritto apparso anonimo nel 1777, intitolato "Sul cosiddetto argomento dello spirito e della forza"(3), G.E. Lessing parte da una citazione del Contro Celso di Origene che dice: "È da dire inoltre che a favore della nostra fede esiste un argomento particolare, che compete soltanto ad essa e che supera di molto gli argomenti greci condotti con l’ausilio della dialettica. Questo argomento superiore viene definito dall’Apostolo (Paolo) l’argomento 'dello spirito e della forza': argomento 'dello spirito', in ragione delle profezie che sono adatte a suscitare nel lettore la fede soprattutto là dove esse trattano di Cristo, e argomento 'della forza' in ragione degli stupefacenti miracoli, il cui esser effettivamente avvenuti è dimostrabile con molti altri argomenti, ma particolarmente in base al fatto che tracce di essi si sono ancora conservate presso coloro che vivono secondo il Verbo Divino"(4). In questo testo Origene sostiene che il miglior argomento della fede cristiana è quello "dello spirito e della forza", basato sull’avverarsi delle profezie e sui miracoli che continuano a verificarsi fra quelli che vivono secondo il Verbo divino. Lessing riconosce il valore dell’argomento portato da Origene: "Se fossi vissuto all’epoca di Cristo, le profezie adempiute riguardo alla sua persona avrebbero certamente attirato su di lui la mia attenzione. Se poi l’avessi addirittura visto compiere miracoli e non avessi avuto motivo di dubitare che si trattava di veri miracoli, allora, in un uomo preannunciato da così lungo tempo e che inoltre compiva miracoli, io certamente avrei avuto una fiducia tale da sottomettere volentieri il mio intelletto al suo e da aver fede in lui riguardo ad ogni cosa cui non si fossero opposte esperienze altrettanto indubitabili...".
"... Se personalmente sperimentassi ancora al giorno d’oggi il più indiscusso adempimento di profezie concernenti Cristo o la religione cristiana, cioè di profezie della cui priorità cronologica io avessi certezza da lungo tempo; e se tuttora ad opera di cristiani credenti venissero compiuti miracoli tali ch’io li debba riconoscere come veri, allora certamente nulla mi impedirebbe di accettare questo argomento 'dello spirito e della forza', come lo definisce l’apostolo".
Però di questi miracoli il Lessing non ha un’esperienza personale; e come Origene – secondo G.E. Lessing – basa la sua fede cristiana sui miracoli compiuti da Cristo, ma "principalmente e soprattutto" sui miracoli che accadevano ancora ai tempi di Origene, "questo argomento degli argomenti è interamente caduto". "Qualsiasi altra certezza di tipo storico è troppo debole per avere la pretesa di occupare il posto di questo argomento degli argomenti basato sull’evidenza". Perciò conclude: "Non nego dunque affatto che in Cristo si siano adempiute profezie; non nego affatto che Cristo abbia operato miracoli, ma poiché la loro verità ha completamente cessato di essere ancora confortata da attendibili miracoli attuali, poiché ci sono, soltanto, semplici notizie di miracoli (sia pure inconfutate e inconfutabili quanto si voglia), io nego che questi miracoli possano o debbano obbligarmi alla minima fede negli altri insegnamenti di Cristo". In realtà, la posizione del Lessing conferma il nostro punto di partenza. Senza l’esperienza di un cambiamento nella vita, uno non si interessa di Cristo. Gli argomenti storici sono troppo deboli per fare una opzione che implica la vita intera. "Cristo c’è, e pertanto è preso in considerazione, è creduto, è sentito, è amato, è seguito, se cambia"(5).
Non c’è dubbio che l’accostamento ai documenti cristiani, sia da parte del mio allievo che da parte di Lessing, non è più determinato dall’esperienza dell’avvenimento cristiano. In questo nuovo clima, nel quale non si fa più esperienza dell’avvenimento cristiano come avvenimento che cambia la vita, la ragione perde la condizione di apertura che le è propria, e si trasforma nella misura della realtà, come pure della pretesa contenuta nei documenti del Nuovo Testamento. Così si esprime già Strauss, uno dei pionieri di questo nuovo approccio ai testi del NT: "Non riesco ad immaginare – scrive D.F. Strauss – come la natura divina e la natura umana potrebbero essere parti integranti, diverse eppure unite, di una persona storica"(6).
Quello che Strauss "riesce ad immaginarsi" diventa misura di quello che può succedere nella realtà. Tutto quello che non entra nella misura della sua immaginazione deve essere rifiutato come assurdo.
Che cos’è quello che ora Strauss non può immaginarsi? Proprio quello che dice il cristianesimo: che Dio si è fatto uomo, che il Mistero è entrato nella storia. Come ha sintetizzato acutamente P. Benoit, "per questi studiosi 'storico' e 'soprannaturale' sono due termini incompatibili. Questo assioma è diventato il principio fondamentale della critica biblica moderna"(7). In questo modo si attribuisce alla comunità cristiana tutto quello che possiamo includere sotto il termine 'soprannaturale'. "Qui Bultmann è il più radicale. La lettura della sua opera produce un effetto sconcertante. Tutto, o quasi tutto, il materiale evangelico finisce per essere attribuito al genio creativo della comunità primitiva"(8).
L’intenzione degli scrittori neotestamentari non era quella di trasmettere degli avvenimenti storici ma una fede. La finalità dei loro scritti è catechetico-teologica. Il loro unico interesse era quello di propagare l’interpretazione data dalla comunità primitiva su quello che era successo: vale a dire, una idealizzazione o una mitizzazione della persona di Gesù, allo scopo di equipararlo agli eroi ed agli dei fondatori delle religioni esistenti in quel periodo storico. La tradizione evangelica è, secondo questa concezione, il prodotto della fede e della vita della comunità primitiva, e non una testimonianza attendibile che ci consenta di conoscere Gesù di Nazaret.
Secondo questi studiosi, tutto ciò è facilmente comprensibile se si considera il lungo lasso di tempo che intercorre tra la vita di Gesù e la stesura dei vangeli, scritti inoltre fuori dalla Palestina e in una lingua estranea a quella parlata comunemente. In questo modo si capisce più facilmente come abbiano introdotto delle cose che non sono successe o come abbiano ingigantito dei fatti normali. Ciò che afferma uno dei fondatori della ricerca storica su Gesù, H.S. Reimarus, riguardo ai miracoli, si può riferire anche a tutto quello che c’è di soprannaturale negli scritti evangelici: "Fino a trenta o sessanta anni dopo la morte di Gesù, non si è cominciato a scrivere un racconto dei suoi miracoli: e questo fu fatto, poi, in una lingua che gli ebrei non conoscevano. Inoltre queste cose succedevano in un periodo in cui la nazione ebraica si ritrovava nella più grande prostrazione e confusione... dove quelli che avevano conosciuto Gesù erano ormai molto pochi. Dunque, niente di più facile per gli autori dei vangeli che inventare tanti miracoli quanti ne volevano, senza timore che i loro scritti fossero compresi o smentiti... Anche altre religioni sono piene di miracoli... Non c’è religione senza miracoli ed è precisamente questo che rende tanto sospetti i miracoli cristiani, e ci obbliga a chiederci: sono realmente successi i fatti raccontati?"(9).
Attribuendo alla persona di Gesù i miracoli, la pretesa divinità e la resurrezione, la religione cristiana ha creato la figura di Gesù nel quale la Chiesa crede. Dunque, per una parte della ricerca critica moderna, quello che la Chiesa crede e annuncia è un’invenzione, non una realtà storica. Cioè si nega al cristianesimo la categoria di avvenimento storico. Ed è proprio questo ciò che la Chiesa ha affermato e difeso con certezza lungo il corso dei secoli.
Il compito che questo tipo di ricerca si assume è quello di spogliare la storia raccontata nei documenti cristiani di tutto il soprannaturale. Per questo lavoro di ripulitura è indispensabile un nuovo metodo d’indagine nel quale la fede non può più avere parte. "La fede non è un elemento costitutivo del metodo e Dio non è un fattore su cui contare nell’avvenimento storico"(10).
Una volta spogliato il racconto evangelico da questo rivestimento 'soprannaturale', apparirà lo 'storico', vero Gesù della storia, qual era prima di essere alterato, abbellito, dal genio creativo dei suoi seguaci: cioè un maestro che ha insegnato un’elevata dottrina su Dio e sull’uomo, un profeta simile a quelli dell’Antico Testamento.
Nello stesso modo basterebbe fare la storia delle origini cristiane per mettere in evidenza la falsità del dogma. "La vera critica al dogma è la sua storia", ha scritto D.F. Strauss. Però, come ha indicato M. Hengel, uno storico serio non può accettare di ripetere questa affermazione. Il suo compito deve includere "un esame critico delle critiche (perdonate il gioco di parole) fatte sino ad oggi"(11).
Il motivo l’aveva già segnalato A. Schweitzer, constatando che l’interesse per la storia professato da molti studiosi dell’epoca nascondeva un’intenzione ben precisa: "La ricerca storica sulla vita di Gesù non è nata da un interesse puramente storico, ma ricercava piuttosto il Gesù della storia come colui che poteva aiutarla nella lotta contro il dogma, per liberarsi dal dogma"(12).
Dinanzi a questo attacco frontale alla storicità del fatto cristiano, l’indagine ecclesiale non può accontentarsi dell’affermazione imperturbabile della storicità dei vangeli, come avrebbe potuto fare prima della loro messa in discussione. Deve rispondere sul terreno storico alla sfida lanciata dall’esegesi razionalista e liberale. "Questa ricerca storica – ha detto la Commissione Biblica Internazionale – è assolutamente necessaria onde evitare due pericoli: che Gesù venga considerato semplicemente un eroe mitologico o che il fatto di riconoscerlo come Messia e Figlio di Dio sia fondato esclusivamente su una specie di fideismo irrazionale"(13).
È proprio la passione per quello che ha incontrato nel presente ciò che spinge lo studioso cristiano alla ricerca delle sue origini. Così ha affermato recentemente Giovanni Paolo II: "La Chiesa di Cristo prende sul serio il realismo dell’Incarnazione ed è questa la ragione per cui attribuisce una grande importanza allo studio storico-critico della Bibbia"(14). Infatti, dato che non fa una confessione puramente formale del fatto dell’Incarnazione ma crede realmente che questa abbia avuto luogo nella storia umana, la Chiesa è convinta che l’Incarnazione ha lasciato le sue tracce nella storia, essendo un avvenimento che alla storia appartiene. Per questo non ha nessun problema ad accettare la provocazione dell’indagine storica moderna che la sfida a render ragione delle sue origini storiche. Anzi, questa sfida ha messo in evidenza, come mai prima avevamo avuto opportunità di comprovarla, la solidità storica della tradizione su Gesù. Nessun libro è stato sottoposto ad un’analisi così violenta e spietata com’è successo coi vangeli, che pure ne sono usciti vittoriosi. Così, riconoscendo l’utilità dei metodi storico-critici, la Chiesa dimostra ancora una volta la fiducia che ha nella sua posizione: crede che lo sforzo dello studio, in libertà e con tutta la strumentazione propria della scienza storica, potrà render ragione di quelle tracce meglio che qualsiasi altra posizione. In altre parole: un’apertura della ragione che non escluda nessuna possibilità, neanche quella dell’Incarnazione, spiega meglio la storia, che non un atteggiamento che, partendo invece da una delimitazione (l’impossibilità che il Mistero sia entrato nella storia), si vede poi obbligato a lasciare senza spiegazione i fatti della storia.
III. Antichità dei documenti
Abbiamo già accennato all’obiezione introdotta da H.S. Reimarus sui racconti dei miracoli. Secondo lui, il fatto che furono scritti trenta o sessanta anni dopo la morte di Gesù, quando erano morti i testimoni che potevano confermarli o smentirli, e in una lingua sconosciuta agli ebrei, il greco, era motivo per diffidare di essi. E quello che è successo coi miracoli documenta ciò che è successo con la tradizione evangelica nel suo insieme.
Diciamocelo chiaramente: tutte le affermazioni di H.S. Reimarus sono false. Nessuna di esse oggi si può sostenere dal punto di vista strettamente storico. In primo luogo, i quattro vangeli sono pieni di semitismi i quali possono spiegarsi soltanto se dietro di essi esiste un testo originale in aramaico o una tradizione orale perfettamente fissata. Tracce di questo originale semitico sono rimaste in tutti gli strati del greco della tradizione evangelica: in Marco, nella fonte dei detti di Gesù conservata nei vangeli di Matteo e Luca (Q), nella materia propria di Matteo, nella materia propria di Luca e in Giovanni. Molte delle anomalie, delle affermazioni assolutamente incomprensibili e disparate che oggi troviamo nel testo greco della tradizione evangelica – che in tali occasioni gli studiosi catalogano come "greco di traduzione" – non trovano spiegazione se non si risale all’originale semitico che ne è il sustrato, alla luce del quale tornano ad essere completamente trasparenti. Il fatto che la tradizione su Gesù non fosse soltanto orale ma anche scritta in aramaico, indica che essa ebbe luogo in data molto precoce(15). Questo dimostra, dunque, che inizialmente la tradizione su Gesù non è stata scritta in una lingua sconosciuta agli ebrei in una data già lontana dagli avvenimenti, bensì in una lingua perfettamente conosciuta da loro e in una data molto vicina ai fatti che raccontano, e dei quali molti di loro erano stati testimoni. Se a questo aggiungiamo che molte espressioni di Gesù sono spiegabili storicamente soltanto nell’area palestinese e durante il suo ministero terreno, non è strano che uno dei migliori specialisti del linguaggio dei vangeli, J. Fitzmyer, abbia potuto dire che "la discussione su Gesù e gli inizi della cristologia prima o poi inciampa nel cosiddetto sustrato aramaico dei suoi detti nel Nuovo Testamento"(16).
D’altra parte è ugualmente insostenibile l’ipotesi che nella Palestina del secolo I non si conoscesse il greco. Come ha dimostrato senza ombra di dubbio M. Hengel, il bilinguismo (e addirittura il trilinguismo, se si include l’uso dell’ebraico nella liturgia) era usuale nella Palestina del secolo I. Oggi sappiamo che era possibile acquisire un buon livello di conoscenza del greco. Non bisogna dimenticare che la Palestina era da tre secoli sotto il dominio greco. Questo ha stimolato tanti ad imparare il greco per poter così aspirare a introdursi nell’amministrazione pubblica. Il greco era indispensabile per poter partecipare alla vita sociale, politica ed economica. Per questi e per altri motivi che qui non è il caso di esporre, il bilinguismo era una realtà nella Giudea, Samaria e Galilea. Ci sono molti indizi che confermano questa affermazione. Per esempio, il fatto che un terzo delle iscrizioni trovate a Gerusalemme fossero scritte in greco, indica che una gran quantità degli abitanti parlavano il greco in una popolazione di 80.000 abitanti. "Data questa grande percentuale di persone che parlavano greco, nella popolazione, dobbiamo presumere una cultura indipendente giudeo ellenistica in Gerusalemme e dintorni, diversa da quella di Alessandria o Antiochia"(17). Questo spiega la necessità di creare delle sinagoghe per i grecofoni che ormai non capivano l’ebraico, e dove la versione greca dell’Antico Testamento, conosciuta come quella dei Settanta, ha avuto un’incidenza considerevole. Nella diaspora ebraica non c’è nessuna opera in greco paragonabile a quella che scrisse un ebreo della Palestina chiamato Flavio Giuseppe. Grazie a questa mole di dati, M. Hengel può affermare che "la traduzione in greco di alcune parti della tradizione di Gesù e lo sviluppo di una terminologia teologica peculiare devono essere cominciate molto presto, presumibilmente come conseguenza immediata dell’attività di Gesù che attirò ebrei della Diaspora in Gerusalemme, e non – come spesso si sente dire – dopo decenni, fuori dalla Palestina, in Antiochia o in altri luoghi"(18). Cioè, persino la traduzione in greco della tradizione su Gesù bisogna datarla presto. E non fuori dalla Palestina, dove sarebbe stata abbellita per i contatti con le religioni misteriche, ma in Palestina, nella comunità cristiana di lingua greca di Gerusalemme.
A ciò bisogna aggiungere che la conoscenza – che gli autori dei vangeli danno per scontata – della situazione della Palestina, la sua geografia, i suoi costumi, i tipi di costruzioni, i tipi di terreno per le colture, la storia, ecc., mostra che i vangeli possono essere stati scritti soltanto da gente a cui tutte queste cose erano molto familiari e rivolti a destinatari a cui non c’era bisogno di spiegarle. Basta pensare alla quantità di dati geografici, storici, letterari implicati dalle parabole per convincersi di ciò.
Inoltre, nei testi evangelici, ci sono dettagli che non si possono spiegare a meno che il testo non sia stato scritto prima della distruzione di Gerusalemme. Facciamo un esempio dal vangelo di Giovanni (che, anche se la sua stesura finale bisogna datarla più avanti, però ha degli elementi che si possono spiegare solo prima della distruzione di Gerusalemme). Nel racconto della guarigione del malato che aspettava l’agitazione delle acque per essere guarito nella piscina – contenuto nel vangelo di Giovanni – si dice: "C’è (e s t i n ) in Gerusalemme, vicino alla porta Probatica, una piscina chiamata in ebraico Betzata che ha cinque portici" (Gv 5,2). Il presente dell’indicativo in cui viene data la notizia dell’esistenza della piscina (e s t i n ), mentre tutto il racconto è scritto in aoristo (cioè al passato), come se facesse riferimento ad un fatto successo nel passato, mostra che quando questi racconti furono scritti esisteva ancora quella piscina. E questo si poteva affermare solo prima della distruzione di Gerusalemmme, nell’anno 70.
Ma in alcuni casi possiamo dire ancora di più. Dopo un confronto delle quattro versioni con cui ci è stata tramandata l’istituzione dell’eucaristia, J. Jeremias afferma che questo racconto esisteva già entro i primi dieci anni dopo la morte di Gesù. Non dopo dieci anni ma entro dieci anni dopo la morte di Gesù. Quindi poteva essere anche due, quattro anni dopo la sua morte. E aggiunge Jeremias che questo brano, scritto originalmente in una lingua semitica (ebraico o aramaico), non è un brano preso da un rituale ma da un racconto più ampio, cioè da un vangelo(19). A nostro avviso possiamo dire qualcosa di simile sul vangelo di Marco e sulla fonte dei detti di Gesù conservata nei vangeli di Mt e Lc. Questo rende perfettamente comprensibile il fatto che il papiro 7Q5 trovato a Qumran e sul quale ancora non si è fatto nessuna ipotesi che invalidi quella di padre O’Callaghan, possa contenere un testo del vangelo di Marco, del quale c’erano copie in circolazione già negli anni 40(20).
Abbiamo fatto solo alcuni esempi fra i tanti che si potrebbero citare. Questo dimostra che il presunto lasso di tempo tra l’avvenimento originale ed i documenti che lo raccontano è molto più breve di quanto ci ha voluto far credere un certo tipo di indagine storica. Oggi possiamo affermare che la antichità dei documenti è assolutamente fuori discussione, il che non esclude ritocchi redazionali posteriori di scarsa importanza.
Fin qui abbiamo solo mostrato l’antichità dei documenti che contengono la tradizione evangelica, l’ambiente palestinese delle sue origini e la lingua nella quale furono scritti originariamente. Soltanto questi fatti costituiscono già un’obiezione difficilmente sormontabile per chi ha attribuito ai primi cristiani una mitizzazione della persona di Gesù: il lasso di tempo fra gli avvenimenti e i documenti risulta così breve che difficilmente avrebbe permesso di fare una manipolazione del genere. Credere ancora in essa dal punto di vista storico esige più fede di quella che ci vuole per accettare la versione dei fatti che il cristianesimo ha trasmesso.
IV. Le origini del fatto cristiano
È indiscutibile il fatto che i cristiani della prima generazione credevano nella divinità di Gesù. Come M. Hengel ha evidenziato, "è così breve il tempo fra la morte di Gesù e la cristologia completamente sviluppata, presente nei documenti cristiani più primitivi (le lettere di Paolo), che la velocità di questo sviluppo può essere considerata stupefacente(21).
Però un esame più minuzioso permette di accorciare ancora di più questo lasso di tempo. Fra la prima lettera di San Paolo (1 Tes), scritta all’inizio dell’anno 50 d.C., agli albori della sua attività missionaria in Corinto, e l’ultima, la lettera ai Romani, scritta presumibilmente nell’inverno del 56/57 d.C. sempre da Corinto, non si può rilevare nessuna evoluzione in quello che Paolo pensa di Cristo. Il fatto che Paolo utilizzi nelle sue lettere titoli, formule e concetti cristologici conosciuti dalle comunità a cui erano indirizzate, il che è evidente visto che non ha bisogno di spiegarglieli, dimostra che i destinatari li conoscevano già grazie all’attività missionaria di quell’apostolo nelle loro comunità. Questo implica che tutte le caratteristiche essenziali della cristologia di Paolo erano già completamente sviluppate verso la fine degli anni 40, prima che iniziassero i grandi viaggi missionari. Il che vuol dire che disponiamo soltanto di un periodo di vent’anni per lo sviluppo della cristologia primitiva. Però questo lasso di tempo si riduce ancora di più se, in base a Gal 1,2, retrocediamo di 14 o 16 anni, fino alla conversione di Paolo. In Gal 1,18, Paolo dice che è salito a Gerusalemme tre anni dopo la sua conversione per incontrare Cefa, e in Gal 2,1 dice che 14 anni dopo è ritornato a Gerusalemme. Considerando la data in cui è stata redatta la lettera ai Galati, questi dati cronologici permettono di situare la conversione di Paolo fra il 32 e il 34 d.C. Quindi "adesso ci separano solo due o quattro anni dalla morte e risurrezione di Gesù, i fatti che fecero nascere la comunità cristiana"(22). Non c’è da stupirsi se di fronte a dati così schiaccianti M. Hengel ha affermato: "Se sfogliamo alcune opere sulla storia del cristianesimo più primitivo, potremmo avere l’impressione che in esse si sia dichiarata guerra alla cronologia"(23). Siamo agli antipodi rispetto alle affermazioni di Strauss. Per lui era sufficiente raccontare la storia per mettere in evidenza la falsità del dogma. Noi, adesso, possiamo affermare giustamente il contrario: la migliore difesa del dogma, cioè di quello che la Chiesa ha sempre confessato di Cristo, è raccontare la sua storia.
Come si spiega l’origine della fede che le comunità cristiane della Palestina confessano così poco tempo dopo la morte di Gesù? Per chi rifiuta di riconoscere che la nascita di questa fede è strettamente legata alla persona di Gesù di Nazaret, rimane solo un’opzione: attribuirla all’influenza di uno dei mondi culturali in cui questa fede è nata, l’ebreo o il pagano. Lo storico non deve mai chiudersi a priori a nessuna possibilità che possa spiegare determinati fatti della storia. Per questo è necessario esaminare ambedue le possibilità e verificare se sono in grado di dare ragioni esaustive di questi fatti.
La prima ipotesi, ossia che l’idea di proclamare Gesù come Dio sia dovuta all’influsso dell’ebraismo, crolla subito. È difficile immaginare che degli ebrei, per la loro fede radicalmente monoteisti, potessero creare l’idea che un uomo, inoltre condannato dal Sinedrio e morto in croce, fosse Dio. Era l’ultima cosa che avrebbe potuto pensare un ebreo. Nessuna religione ha stabilito una differenza così netta e radicale fra Dio e qualsiasi creatura. Questo abisso incolmabile fra Dio e tutto il creato non è stato diminuito nemmeno per il personaggio più stimato della tradizione ebrea, Mosé, che nessun ebreo avrebbe mai osato considerare nella sfera divina.
Ancora più insostenibile – se possibile – è la seconda ipotesi, alla quale si è ricorsi insistentemente da quando è stata messa in circolazione dalla Scuola della Storia delle Religioni (R. Reitzenstein, W. Heitmüller, W. Bousset): l’origine della fede nella divinità di Cristo è dovuta all’influenza pagana. Questa ipotesi spiegherebbe la supposta "divinizzazione" di Gesù come una versione cristiana della divinizzazione degli imperatori romani. Basta ricordare le drammatiche descrizioni dell’orrore che qualsiasi pio ebreo sentiva di fronte alle pratiche religiose pagane e risulta subito inconcepibile immaginare che il gruppo di ebrei che si presenta in Gerusalemme confessando la divinità di Gesù potesse cedere ad una simile aberrazione. Che un ebreo accettasse una così grande offesa alla sua fede monoteista, com’è la divinizazione di un uomo, è del tutto inconcepibile. A conferma di questo c’è la reazione del popolo giudeo di fronte alla pretesa di Antioco IV Epifane di instaurare il culto a Zeus nel tempio di Gerusalemme, che scatenò la ribellione maccabea e che fu catalogato dall’autore del libro dei Maccabei come "abominio della desolazione" (1Mac 1,54). Oppure la reazione di un ebreo ellenizzato come Filone di fronte alla proposta di erigere statue di Caligola nelle sinagoghe di Alessandria: "Era – disse egli – la cosa più abominevole"(24). A questo sincretismo qualsiasi ebreo, anche ellenista, non poteva che opporsi con tutte le sue forze, considerandolo appunto "abominevole". Perciò risulta inimmaginabile che qualcosa che era considerato abominevole da un ebreo potesse esser accettato tranquillamente dal gruppo di ebrei della Palestina che formarono la comunità cristiana. Ciò che abbiamo appena detto vale anche per coloro che attribuiscono a Paolo, o alla comunità ellenistica di origine pagana, la divinizzazione di Gesù. Questa concezione, ampiamente diffusa, che la cristologia sia il risultato di un processo evolutivo per tappe successive, risulta egualmente inconsistente. E difficile concepire che degli ebrei come S. Giacomo, Cefa e Giovanni, colonne della chiesa di Gerusalemme, avessero dato la mano a Paolo in segno di comunione – come dice egli stesso nella lettera ai Galati – se il vangelo che Paolo predicava fosse stato il risultato di un sincretismo. Se questioni come quella dei cibi o della circoncisione provocarono reazioni come quella che lo stesso Paolo ci racconta nella lettera ai Galati, cosa sarebbe successo se Paolo si fosse fatto portatore di un sincretismo abominevole?
Come si spiega allora che alcuni ebrei monoteisti confessino come Figlio di Dio un giustiziato dal governatore della Giudea, Ponzio Pilato, dopo la condanna del Sinedrio? A questa domanda l’esegesi razionalista non può rispondere in modo soddisfacente. La ragione è che si rifiutano di riconoscere qualsiasi continuità fra la vita e le opere del Gesù terreno e la predicazione della comunità cristiana primitiva. Però come afferma M. Hengel, "questo abisso senza ponte fra il Gesù terreno e la cristologia (affermata dalla comunità) si impone solo a quelli che desiderano e vogliono accettare il dogma moderno di un Gesù completamente non messianico, cioè senza pretese messianiche"(25). L’indagine moderna che aveva avuto origine per liberarsi dal dogma della Chiesa ha finito per soccombere ad un altro dogma più pernicioso, senza nessun appoggio nella realtà.
Per tutto ciò, l’unica spiegazione del fatto storico che alcuni ebrei monoteisti confessino un uomo, Gesù di Nazaret, come Figlio di Dio possiamo trovarla solo nella persona e nell’opera di Gesù. Come ha scritto recentemente P. Stuhlmacher, "a Gesù non furono attribuiti semplicemente dagli apostoli, dopo la Pasqua, proprietà e comportamenti che egli non possedeva (né pretendeva di possedere) sulla terra, ma nella professione di fede postpasquale della comunità cristiana si conferma e si riconosce invece ciò che lui voleva essere storicamente, e quello che è stato ed è ancora secondo la fede: il Figlio di Dio, il Messia. La storia realizzata da Dio in Gesù e con Gesù, il Cristo di Dio, è anteriore alla fede cristiana. Essa guida e determina la fede e non è, al contrario, creata da essa"(26). I cristiani l’hanno potuto affermare perché già Gesù lo aveva affermato di se stesso nella sua vita terrena e lo aveva confermato coi suoi miracoli. È vero che Gesù non ha mai detto di se stesso che era Dio ma realizzò opere e pronunciò parole che lo situano nella sfera della divinità.
a) Le controversie - Nel racconto sulla guarigione del paralitico che ci narra il vangelo di Marco (2,1-12) Gesù dice al paralitico: "Figlio, i tuoi peccati sono perdonati". Il significato di queste parole alle orecchie degli ebrei si manifesta nella reazione degli scribi, che pensano: "Bestemmia. Chi può rimettere i peccati se non Dio?" La reazione degli scribi è logica. Se soltanto Dio può rimettere i peccati, un uomo che concede al paralitico il perdono dei peccati bestemmia, si fa uguale a Dio. C’è solo una possibilità in cui una simile affermazione non sia una bestemmia: che quell’uomo sia veramente Dio. Il vangelo più antico di tutti, quello di Marco, in un racconto la cui versione originale greca ha un forte colorito aramaico e il cui contenuto è chiaramente palestinese, presenta in un episodio Gesù che proclama con un’azione il perdono dei peccati. Questa non è un’eccezione. Difficilmente si trova un altro fatto più inconfutabile dal punto di vista storico come quello di Gesù che usava sedere al tavolo dei pubblicani. I nemici di Gesù mormoravano scandalizzati. "Questo qui accoglie i peccatori e mangia insieme a loro" (Lc 15,2). Accogliere e condividere il tavolo in realtà sono sinonimi di perdonare. L’episodio del paralitico perdonato non è altro che un caso concreto della concessione del perdono, confermato inoltre dal miracolo della guarigione. Il fatto che gli ebrei considerassero ciò come bestemmia rende evidente che Gesù si attribuiva un potere che era esclusivo di Dio.
Nella discussione provocata da un’azione proibita nel giorno di sabato, compiuta dagli apostoli, e cioè quella di cogliere spighe, Gesù giustifica l’azione dei suoi discepoli dicendo davanti agli scandalizzati farisei: "Qui c’è qualcuno che è più del tempio... Il Figlio dell’uomo è il signore del sabato" (Mt 12,1-8). Il tempio era la casa di Dio e il sabato era il giorno consacrato a Dio. Gesù, dicendo che lui è più importante del tempio e del sabato, si attribuisce una categoria divina, un potere uguale a Dio, l’unico che per un ebreo era al di sopra del sabato e del tempio. "Questo modo di parlare è una maniera per dire che, con Gesù, Dio si è fatto presente in mezzo agli uomini in modo singolarissimo, addirittura scandaloso dal punto di vista dell’ortodossia ebraica. Con un linguaggio perfettamente ambientato nel mondo ebraico, nelle sue istituzioni – il tempio, il sabato, le leggi che regolavano l’osservanza del sabato –, in questo racconto Gesù dice in forma velata ma sufficientemente chiara per farsi capire dai suoi interlocutori ebrei che lui possiede un’autorità divina"(27). Questa pretesa risulta così scandalosa alle orecchie degli ebrei che alla fine dell’ultima controversia San Marco commenta: "E mentre uscivano, i farisei accordandosi con gli erodiani presero la decisione di eliminarlo" (Mc 3,6). Oltre che per il substrato semitico che contiene, la storicità di questo episodio viene confermata dal clima palestinese del racconto, poiché argomenti come quelli del tempio e del sabato non possono essere stati inventati da cristiani di origine pagana: suppongono un mondo di idee totalmente ebreo. Ma è inconcepibile che, se Gesù non avesse pronunciato queste parole, gli ebrei che hanno creduto in lui osassero dire che Gesù era più del tempio e del sabato. "La Chiesa quindi proclamò sin dai suoi inizi la sua fede nella divinità di Gesù perché Egli stesso si presentò 'uguale a Dio', come dice San Giovanni"(28).
b) I miracoli - H.S. Reimarus sosteneva che i primi cristiani inventarono i miracoli da attribuire a Gesù, perché non c’è religione senza miracoli. Ed è questo, secondo lui, quello che li rende tanto sospetti. Secondo questo pensiero, i racconti dei miracoli furono attribuiti a Gesù per ingrandire la sua figura. Ma questo è falso. Lo prova, innanzitutto, la testimonianza conservata dalle fonte ebree relative ad essi: lo storico ebreo Flavio Giuseppe (Ant Jud. 18.3,3) e il Talmud di Babilonia (b Sinedrio 43a). Il più interessante è il secondo, perché proviene dall’ebraismo che rifiutò Gesù. In esso si dà per assodato che Gesù sia stato condannato giustamente dal tribunale giudeo perché "ha praticato la stregoneria ed ha sviato Israele". L’accusa di stregoneria suppone le guarigioni miracolose di Gesù. In realtà questa interpretazione dei miracoli si trovava già nei vangeli. In effetti, in un’affermazione di Gesù – che costituisce l’argomento più forte a favore della storicità dei miracoli – possiamo leggere: "Se io scaccio i demoni con il potere di Belzebù, in nome di chi li scacciano i vostri figli? Perciò essi saranno i vostri giudici. Ma se io scaccio i demoni per lo Spirito di Dio, significa che il Regno di Dio è arrivato in mezzo a voi" (Mt 12, 27-28).
È evidente che l’accusa di essere posseduto dal demonio non può essere stata creata dalla comunità cristiana. Nessun cristiano avrebbe accusato Gesù di essere indemoniato. In queste parole, Gesù raccoglie le accuse dei suoi avversari che hanno avuto bisogno di spiegare in un altro modo una realtà che avevano davanti: i suoi miracoli. Sia per il potere di Belzebù o per il potere di Dio, in ogni caso scaccia demoni. Pertanto, dal punto di vista storico, è un fatto indiscutibile che Gesù fece miracoli. Però bisogna far notare che il fatto di fare miracoli, di per sé, non pone Gesù nella sfera della divinità. Anche ad alcuni personaggi dell’AT vengono attribuiti dei miracoli, senza che per questo vengano considerati Dio. Però i miracoli di Gesù non sono azioni fatte in proprio favore, sono al servizio di un’altra cosa: il regno di Dio. Sono segni che annunciano, confermano e rendono presente nella sua persona il regno di Dio. "Se scaccio i demoni per lo spirito di Dio significa che il regno di Dio è giunto a voi". Per questo le sue azioni sono segno del mistero della sua persona(29).
c) Il processo davanti al Sinedrio - Questa pretesa di divinità che attraversa il vangelo e dalla quale abbiamo segnalato solo alcuni esempi, spiega un fatto della sua vita al quale si è voluto negare valore storico: il processo e la condanna di Gesù da parte del tribunale giudaico, il Sinedrio. Eppure la storicità di questo fatto è incontestabile(30). Non solo resterebbero senza spiegazione i racconti evangelici del processo davanti al Sinedrio, ma anche le affermazioni che S. Paolo fa nelle sue lettere, le quali suppongono la condanna del Sinedrio, nonché le testimonianze delle fonti ebree. Perché allora questa insistenza nel negare la sua storicità? La ragione della negazione della sua storicità è ovvia: attribuendo la condanna di Gesù solo a Pilato si evita di dover spiegare il motivo della sua condanna da parte della più alta autorità religiosa ebraica. Non è sufficiente un motivo qualsiasi per giustificare una condanna a morte. I motivi come la sua pretesa messianica o il suo carattere rivoluzionario sono assolutamente insufficienti per giustificarla. Nella storia del popolo ebraico ci sono stati altri che hanno avuto la pretesa di essere il messia (gli Atti degli Apostoli ne menzionano due: Giuda il Galileo e Teuda). Nessuno di loro ha subito una condanna simile a quella di Gesù da parte del Sinedrio. Uno di loro, Bar Kochba, considerato messia dal rabbino più importante dell’epoca, Rabi Akiba, è considerato un eroe nell’ebraismo per il suo tentativo di liberazione dal giogo dell’oppressione romana. Eppure, la condanna di Gesù da parte del Sinedrio è perfettamente logica, dal punto di vista dell’ebraismo ortodosso, se il motivo della sua condanna è quella che attestano gli scritti neotestamentari: l’accusa di blasfemia (cfr. Mc 15,10; Gv 19,7; Gal 5,11; 1 Cor 1,23). Abbiamo visto che Gesù durante la sua vita terrena disse e fece cose che furono considerate blasfeme dai suoi avversari perché esse implicavano la pretesa di essere Dio. Innanzi ad una simile pretesa, il Sinedrio aveva solo un’alternativa: accettarla o rifiutarla come bestemmia (cfr. Mc 14,24; Gal 3,13, ecc). Tutti sappiamo verso quale lato si inclinò la bilancia. Però bisogna ricordare che il Sinedrio è il tribunale definitivo di Dio, un suo rifiuto è il rifiuto di Dio. Essere condannato dal tribunale ebreo come blasfemo, significava per qualunque pio ebreo che Gesù era considerato un empio, un eretico. Non c’è da stupirsi dello sconcerto che questo fatto produsse nei suoi seguaci, come testimoniano i vangeli e le lettere di san Paolo che addirittura parla di scandalo, cioè di una vera difficoltà per credere (1 Cor 1,23)(31).
d) La risposta di Dio alla condanna del Sinedrio: la resurrezione - Dopo la sentenza di morte pronunciata dal Sinedrio e la esecuzione della stessa da parte dell’unico che aveva potere di farlo, il governatore Ponzio Pilato, sembrava che Dio avesse detto l’ultima parola sulla pretesa di Gesù di essere Dio. Invece, Dio aveva ancora una parola da dire su Gesù. E la disse nella maniera più inaspettata: la sua resurrezione. "Il Gesù resuscitato da Dio non poteva essere dichiarato colpevole di 'empietà' dal tribunale di Dio; vale a dire, il Messia 'giustamente' condannato dai guardiani della legge e degli interessi di Dio, era il vero Messia. Resuscitandolo dai morti, Dio si è pronunciato in maniera categorica contro una sentenza che si presentava come pronunciata nel suo nome"(32). Così Dio conferma la pretesa di Gesù. Qui risiede la sua importanza, unica, nella storia cristiana. Solo in questo modo i primi cristiani poterono superare lo scandalo dalla croce.
Si potrebbe obiettare, com’è stato fatto, che il Mistero della resurrezione si rivela solo al credente, lo storico non può penetrare in esso, e che pertanto non può servire per confermare una pretesa di tipo storico. È vero che la resurrezione di Gesù è un avvenimento che ricade dentro il mistero di Dio. Effettivamente, nessuno dei vangeli descrive come fu il fatto della resurrezione. Però questo avvenimento ha lasciato tracce nella storia. Alcuni personaggi della storia, gli apostoli, testimoniano di averlo visto vivo poco tempo dopo la sua morte. Per questo, in qualche modo, lo storico può dire qualcosa su di Lui, se un minuzioso esame delle testimonianze porta alla conclusione che senza il fatto della resurrezione molte cose rimarrebbero senza spiegazione.
La prima cosa che rimarebbe senza spiegazione è l’esistenza della Chiesa. "Per questo si è detto giustamente che la testimonianza principale a favore della resurrezione è la Chiesa stessa. Gli scritti del NT ci fanno vedere che la Chiesa nascente è una costruzione sostenuta dalla resurrezione di Gesù, cioè che questa ne è l’imprescindibile fondamento. Se non ci fossero stati degli uomini che potevano dire: "Abbiamo visto il Signore", e le cui vite rimasero trasformate da questo fatto, non ci sarebbe stato ciò che chiamiamo cristianesimo né Chiesa"(33). Ciò vale anche per la sua diffusione. Sicuramente l’espansione del cristianesimo non è spiegabile con fattori sociologici, come è accaduto per l’espansione dell’Islam. Il cristianesimo non si è imposto con la forza delle armi e il potere. La sua rapida diffusione non si deve ad alcun fattore ad esso esterno (non coincide con l’espansione di una determinata classe sociale o di un’etnia particolare, non si spiega con un movimento migratorio, militare o economico, etc.). Gli Atti degli Apostoli non solo raccolgono per grandi linee questa espansione, ma ne danno il motivo: il fatto inaudito della resurrezione di Gesù, la forza della sua presenza in mezzo alla sua chiesa (At 25,19).
Il secondo fatto che non avrebbe spiegazione è il cambiamento del giorno di festa settimanale dal sabato alla domenica. Non si vede quale altra ragione avrebbe portato un gruppo di ebrei, per i quali il giorno sacro era il sabato, a celebrare come santo il primo giorno della settimana, cioè la domenica, soprattutto considerando la stima che gli ebrei avevano del sabato, come attestano le fonti ebraiche. Invece questo fatto è perfettamente comprensibile se il cambiamento è dovuto al giorno in cui avvenne la resurrezione.
Gli scritti evangelici testimoniano che delle donne trovarono il sepolcro vuoto. Non c’è dubbio che le autorità ebraiche, che si opposero alla predicazione della resurrezione di Gesù, avrebbero avuto un mezzo molto semplice di screditare come fandonia l’annuncio della resurrezione fatto dagli apostoli, se avessero potuto dimostrare che il corpo di Gesù era ancora nel sepolcro. Ma così non fu, il sepolcro era vuoto(34). Alcuni critici moderni hanno considerato questo racconto un’invenzione, creata – secondo loro – dalla comunità primitiva per avere una prova palpabile della resurrezione. Però questa interpretazione non regge. In primo luogo perché si offrirebbe come prova della resurrezione un fatto che di per sé non era prova sufficiente: il sepolcro poteva essere vuoto per un altro motivo (furto, trasferimento, ecc). In secondo luogo perché chiunque avesse inventato il racconto non avrebbe messo delle donne come testimoni della scoperta, perché in quell’epoca le donne non erano ammesse come testimoni. Non c’è dubbio che se l’episodio fosse stato inventato i testimoni sarebbero stati uomini. Se, sfidando la mentalità dominante, si afferma che furono le donne quelle che trovarono il sepolcro vuoto, è perché realmente fu così.
Ma il racconto del sepolcro vuoto non implica la resurrezione. Poteva essere vuoto per altri motivi. La spiegazione del fatto che era vuoto la conosciamo solo dalle apparizioni. I documenti più antichi attestano l’esistenza di apparizioni di Gesù risuscitato ai discepoli. Però anche qui la critica razionalista offre una interpretazione delle apparizione che contraddice quella della Chiesa. In effetti, mentre la Chiesa sostiene che le apparizioni sono visioni vere di Cristo risuscitato, visioni provocate dall’esterno, la critica razionalista le considera semplici proiezioni del subcosciente dei discepoli i quali si rifiutavano di credere che tutto fosse finito nel fallimento della croce. Contro questa interpretazione si battono diversi dati che sono conservati in documenti del NT. In primo luogo, la durata delle apparizioni. Se questi documenti affermassero questo fenomeno soggettivo, allucinatorio di una apparizione a una persona o a un gruppo di persone potrebbero esserci tracce di verosomiglianza. Però le nostre fonti parlano di una serie di apparizioni durante un lungo lasso di tempo; e un’allucinazione o una serie di allucinazioni in catena risulta certamente incredibile. Questa interpretazione risulta ancora più inconcepibile se consideriamo la diversità delle persone che vengono citate nelle nostre fonti come testimoni del Resuscitato. L’ipotesi che l’origine delle apparizioni fosse il rifiuto di accettare che tutto fosse finito con il fallimento della croce, potrebbe risultare valida per Pietro o alcuno dei Dodici. Però certamente non sarebbe valida per Giacomo, il fratello del Signore, che non apparteneva al gruppo dei discepoli di Gesù ma a quello dei familiari che andarono a cercare Gesù perché era fuori di sé (Mc 3,21). E certamente ancora meno per Paolo: quando fu sorpreso da Gesù risuscitato si dirigeva a Damasco per imprigionare i seguaci di Gesù (At 9,2). In lui non c’era nessun tipo di predisposizione per nessuna allucinazione. La persecuzione che faceva dimostra che il fallimento di Gesù non gli suscitava nessuna delusione che gli facesse desiderare che Gesù continuasse a vivere.
D’altra parte, qualsiasi proiezione soggettiva o fenomeno allucinatorio richiede che ci siano determinate condizioni nel soggetto che dice di averle. Chi non crede nel diavolo o in qualcosa di simile, non crederà di aver visto il diavolo. Però queste predisposizioni non ci sono in quelli che confessano di aver visto il risorto. Tutti sono ebrei e in quanto tali credevano che la resurrezione avrebbe avuto luogo alla fine dei tempi. Ricordiamo il caso della sorella di Lazzaro che, quando Gesù le annuncia che il suo fratello risusciterà, risponde: "Lo so che risorgerà nella resurrezione dell’ultimo giorno" (Gv 11,24). Non le passava neanche per la testa l’idea di una resurrezione in mezzo ai tempi. Che un gruppo di ebrei, che credono che la resurrezione ci sarà solo quando arriverà la fine del mondo e che interesserà tutti gli uomini, confessino che Gesù è risorto mentre il mondo segue il suo corso, si spiega solo con un fatto: le apparizioni di Gesù risorto.
Questo insieme di fatti storici, che abbiamo potuto elencare solo sommariamente (esistenza e espansione della Chiesa, cambiamento del sabato con la domenica, sepolcro vuoto, le donne come testimoni, le apparizioni durante un lungo periodo di tempo a persone diverse, alcune delle quali non avevano nessuna predisposizione a proiezioni soggettive) ha bisogno di una spiegazione sufficiente che dia ragione di tutte. Solo la resurrezione di Gesù è in grado di offrire per tutte una spiegazione valida. Perciò, "in una buona critica storica l’unico modo di spiegare il messaggio della Chiesa primitiva riguardo alla resurrezione è farlo scaturire da un’esperienza reale, non meramente soggettiva, che i primi testimoni avevano di Gesù risorto; esperienza che troviamo descritta nei racconti delle apparizioni. Con questo non vogliamo dire che l’indagine storica ci introduce nel mistero della risurrezione di Gesù; questo può farlo soltanto la fede. Però quello che si può fare è mostrare che credere in tutto il mistero che rappresenta questa opera di Dio, è un rationabile obsequium fidei(35).
Conclusione
Noi crediamo in Gesù Cristo, come il cieco nato, per l’incontro che abbiamo fatto nel presente. Questo incontro ha una spiegazione esauriente soltanto in un avvenimento del passato. L’amore per l’incontro fatto risveglia in noi il desiderio di conoscere la storia che ci ha raggiunti. La ragione aperta da questa esperienza torna sulle tracce che l’avvenimento ha lasciato nella storia, per poter comprendere in tutte le sue dimensioni l’incontro che ha avuto luogo. Solo una ragione investita da questo avvenimento è in condizioni di spiegare tali tracce come manifestazione della presenza del Mistero nella storia. Contrariamente all’idea di una ragione che non vive più all’interno di questa esperienza e che pertanto riduce tutto alla misura di ciò che conosce, ponendosi in una posizione di sospetto, l’avvenimento presente permette alla ragione di operare secondo la sua natura più genuina, ponendo problemi e domande. La nostra fede non solo non è un ostacolo all’indagine storica, bensì è la sua più grande promotrice aprendola volta per volta alla realtà secondo la propria natura.
Possiamo pertanto dire che l’indagine 'credente' sulla storicità dei vangeli è un caso di ragione applicata. In effetti, tiene conto di tutti i fattori della realtà con una globalità che la ragione autosufficiente è incapace di offrire. Il brevissimo excursus che abbiamo fatto ce lo dimostra. L’ipotesi che prende in considerazione la divinità di Gesù è più capace di rendere conto della natura dei testi e dei fatti cui essi si riferiscono che l’ipotesi che deriva dalla mentalità razionalistica. Ce l’ha dimostrato l’indagine recente sulla vera datazione dei documenti e sulla storicità dei fatti che in essi sono documentati, specialmente la resurrezione (cfr. DV 19).
Concludiamo. I dati che abbiamo esposto non costituiscono prove apodittiche, trattandosi, come si tratta, della razionalità inerente alla esegesi e alla scienza storica. Però non c’è dubbio che la sua quantità, la sua diversità e il suo peso sono talmente formidabili che possiamo dire, con le parole di uno dei maggiori esponenti dell’indagine esegetica moderna, P. Benoit: "Soltanto una personalità straordinaria, umanamente geniale e propriamente divina può spiegare il fatto del Vangelo, ed è la persona di Nostro Signore Gesù Cristo"(36).
NOTE
(1) La fede rende la ragione capace di penetrare "nel modo più limpido e profondo" la realtà. Cfr. P. Rousselot, Les ojos de la fe, Madrid, 1994, p. 39; J.H. Newman, Grammatica dell’assenso, Milano-Brescia, 1980.
(2) Per vedere la differenza fra le posizioni razionalista e protestante e la posizione ortodosso cattolica, cfr.
L. Giussani, Perché la Chiesa, tomo 1, La pretesa permane, Milano, 1990, pp. 17-36.
(3) G.E. Lessing, "Sobre la demostraciòn en espìritu y fuerza", in "Escritos filosòficos y teològicos", Barcellona, 1990, pp. 480-484.
(4) Origene, Contra Celsum, 1,2.
(5) L. Giussani, La comunione come strada, Tracce 7 (1994) IV. Per uno sviluppo più ampio, cfr. L. Giussani, È, se opera, Roma, 1993.
(6) D.F. Strauss, La vita di Gesù o Esame critico della sua storia, II, Milano, 1865, p. 628.
(7) P. Benoit, Réflexions sur la "Formgeschichttliche Methode", in "Exégèse et théologie", I, Parigi, 1961, p. 55.
(8) P. Benoit, op. cit., p. 44; cfr. R. Bultmann, History of the Synoptic Tradition, Oxford, 1968; Id., The New Testament and Mythology, in H.W. Bartsc (ed.), Kerygma and Myth, Londra, 1954.
(9) H.S. Reimarus, The Goal of Jesus and His Disciples, Leiden, 1970,
p. 119.
(10) J. Ratzinger, L’interpretazione biblica in conflitto. Problemi del fondamento ed orientamento dell’esegesi contemporanea, in AA.VV., L’esegesi cristiana oggi, Casale Monferrato, 1991, p. 94.
(11) M. Hengel, El Hijo de Dios. El origen de la cristologìa y la historia da la religiòn judeo-helenìstica, Salamanca, 1978, p. 19.
La citazione di Strauss è tratta da quest’opera di Hengel (p. 19).
(12) A. Schweitzer, Investigaciones sobre la vida de Jesùs, Valenza, 1990, p. 53.
(13) Pontificia Commissione Biblica, De Sacra Scriptura et Christologia, in Bibbia e Cristologia, Milano, 1987, p. 23. Per una valutazione dei diversi metodi di accostamento alla Scrittura, cfr. più di recente: Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Città del Vaticano, 1993.
(14) Giovanni Paolo II, Discorso sull’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, in Pont. Comm. Bibl., L’interpretazione, cit., p. 9.
(15) J. Carmignac, La naissance des Évangiles Synoptiques, Parigi, 1984.
(16) J.A. Fitzmyer, Methodology in the study of the Aramaic substratum of Jesus’saying in the N.T., in J. Dupont, Jesus aux origines de la Chritologie (BETL 40), Lovanio, 1989, p. 73. Per questo motivo, secondo questo studioso, coloro che vogliono affrontare "la questione delle origini della Cristologia non possono astenersi dall’affrontare il problema del sustrato aramaico".
(17) M. Hengel, The 'Hellenisation' of Judea in the I Century after Christ, Londra-Filadelfia, 1989, p. 11.
(18) Ibidem, p. 18.
(19) J. Jeremias, La ùltima cena. Palabras de Jesùs, Madrid, 1980, pp. 206; 214-221 (lingua) 210 (liturgia).
(20) J. O’Callaghan, Los papìros de la cueva 7 de Qumràn, Madrid, 1974. Cfr. anche C.P. Thiede, El manuscrito màs antiguo de los evangelios? El fragmlento de Marcos en Qumràn y los comienzos de la tradiciòn escrita del Nuevo Testamento, Valenza, 1989.
(21) M. Hengel, Christology and NT Chronology. The problem in the history of earliest Christianity, Londra, 1983, p. 31.
(22) Ibidem. Cfr. anche, più recente, M. Hengel, Christological Titles in Early Christianity, in J.H. Charlesworth (ed.), The Messiah Developements in Earliest Judaism and Christianity, Minneapolis, 1992, pp. 425-448, dove l’autore sostiene che un paragone fra la Lettera di Plinio il Giovane a Traiano (110-112 d.C.), in cui gli racconta che i cristiani adorano Gesù come se fosse Dio, il prologo di S. Giovanni, l’inno di Eb 1, 3 e segg., e quello di Fil 2,6-11, mostra che fra il 50 e il 150 d.C. la Cristologia è molto più uniforme nella sua struttura di base di quanto la ricerca del NT ha sostenuto.
(23) M. Hengel, Christology and N.T. Chronology, cit., p. 39.
(24) Citato in J. Danielou, Ensayo sobre Filòn de Alejandria, Madrid, 1962, p. 33.
(25) M. Hengel, Christology and NT Chronology, cit., p. 33.
(26) P. Stuhlmacher, Gesù di Nazaret, Cristo della fede, Brescia, 1992, p. 19.
(27) M. Herranz Marco, Los evangelios y la crìtica històrica, Madrid, 1978, p. 194. I due esempi sono dovuti a questo autore.
(28) Ibidem.
(29) P. Stuhlmacher Biblische Theologie des Neuen Testaments 1°: Grundlegung von Jesus zu Paulus, Göttingen, 1992, p. 71; J. Gnilka, Jesus von Nazaret Botschaft und Geschichte, Friburg-Basel-Wien, 1990, p. 156.
(30) Sulla ricerca moderna intorno al processo a Gesù, cfr.
J. Blinzler, Der Prozess Jesu, Resenburg, 1960.
(31) Sullo scandalo che implicava credere figlio di Dio un uomo giustiziato, v. M. Hengel, Crucifixion in the Ancient World and the Folly of the Message of the Cross, Filadelfia, 1977.
(32) M. Herranz Marco, El proceso ante el Sanhedrin y el ministerio pùblico de Jesùs: Est. Bib. 34 (1975), p. 105.
(33) M. Herranz Marco, Los evangelios y la crìtica històrica, Madrid, 1968, p. 164.
(34) Sul racconto del sepolcro vuoto e la storicità della resurrezione, cfr.
G. Lohfink, Die Auferstehung Jesu und die historische Kritik Bibel und Lebe, 9 (1968), pp. 37-57; F. Mussner, Die Auferstehung Jesu, Monaco, 1969.
(35) M. Herranz Marco, Los evangelios y la crìtica històrica, cit., p. 182.
(36) P. Benoit, Réflexions sur la "Formgeschichttliche Methode", cit., p. 61.