cLunedì 21 agosto, ore 11
L’INQUIRENTE NELLA LETTERATURA, CIOE’ IL PROTAGONISTA DELL'INDAGINE
Tavola Rotonda
Partecipano:
Roberto Barbolini, Ioan P. Culianu.
Modera:
Pier Alberto Bertazzi.
P. Bertazzi:
(…) La figura dell'inquirente, di colui cioè che, attraverso segni e indizi, cerca di conoscere e mettersi in rapporto con la realtà, ci sarà illustrata da due relatori che partono dalla letteratura: il dott. Roberto Barbolini ed il professor Ioan Culianu. Barbolini partirà dalla letteratura poliziesca classica, dalle figure di questi detectives, indagatori, conoscitori del reale attraverso i segni e gli indizi, il professor Culianu dall'esperienza letteraria di colui che è stato uno dei suoi maestri, Mircea Eliade. Roberto Barbolini è giornalista e scrittore molto noto e collabora ad alcune delle più importanti riviste nel campo culturale e letterario italiano; si è occupato di immaginarlo e in questa sua ricerca è stato guidato soprattutto dalla lettura dei capolavori anglosassoni, così come dei classici polizieschi e dei maestri del grottesco. Roberto Barbolini ha di recente pubblicato presso la "Jaca Book" Il riso di Belmoth, un libro nel quale racconta la ricerca, o meglio, la scoperta del fantastico dentro le pieghe del reale. Joan Culianu, di origine rumena, attualmente insegna presso l'Università di Chicago. Ha studiato dapprima in Romania, ha poi condotto analisi e ricerche in Italia. Principale allievo di Mircea Eliade, è in un certo senso il prosecutore della sua opera. Dopo la morte del maestro, avvenuta nell'86, Culianu ha curato alcune delle più importanti opere che Eliade aveva impostato e iniziato. Fin dall'Università, Culianu ha avuto anche un'intensa attività letteraria (…).
R. Barbolini:
(…) In un certo senso Sherlock Holmes ci rassicura perché una idea di fondo lo guida: la verità non è opinione, è certezza, perché con un paradosso, con un trucco logico, identifica, in fondo, la verità con l’esattezza, che non sono la stessa cosa. L'esattezza attiene ai problemi della logica, la verità attiene anche alla dimensione etica dell’uomo. Quindi le sue indagini, così sobriamente dedite alla ricerca di indizi che poi, tutti assieme, costituiranno una specie di puzzle dove gli elementi si incastrano e alla fine il caso viene risolto, sono in realtà l'esatto contrario di quel racconto di tipo inquietante che in genere noi siamo abituati ad associare al giallo, al colore del thriller. È un qualche cosa che rassicura la ragione perché le dà l’illusione di poter dominare il caos, la complessità, il perturbante, se vogliamo usare il termine freudiano, che è in agguato nella realtà del mondo, anche all'interno delle nostre coscienze. Questo modello di Holmes è quello dell'investigatore classico che, dopo una serie di preludi esibizionistici (comincia a sbalordire il suo devoto biografo Watson dicendo: Ma lei, Watson, si è recato venti minuti fa all'ufficio postale e ha spedito una lettera... decifrando da piccole tracce sul fisico del personaggio le azioni che ha compiuto, applica la stessa tecnica alla ricostruzione del delitto: e per il criminale non c'è scampo. Il modello di ragione formale-logica di Sherlock Holmes, è chiaro, non poteva non intrigare un certo tipo di scienziato che in fondo ha bisogno di affidare solamente alla ragione la risoluzione dei problemi della sua ricerca, della sua inquisizione. Non è un caso che Holmes sia un modello di questo tipo anche per la scienza: la sua figura nasce in quell'orizzonte della fine del secolo scorso in Inghilterra ad opera di Sir Arthur Conan Doyle, in un contesto di cultura fortemente improntato al positivismo, quindi ad una scienza che bandisce ogni tentazione del soprannaturale per calarsi tutta nella registrazione empirica dei fatti. Da un lato, Holmes sembra l'eroe di questo tipo di ragione orgogliosa, sicura di sé, ecc. In realtà, poi, se andiamo a vedere le cose più da vicino, ci accorgiamo che la faccenda è più complessa ed intrigante; che lo stesso Holmes è da un lato l'implacabile risolutore di enigmi logici, mentre dall'altro ha un lato d'ombra che pudicamente, ma inesorabilmente, il suo devoto alter ego e biografo dottor Watson non può fare a meno di mettere in risalto narrando le sue avventure. Quando non trova un caso abbastanza stimolante per la sua intelligenza, incorre in questi cupi accessi di malinconia, suona il violino per ore, oppure ha bisogno di drogarsi, prende cocaina per sopravvivere a quella specie di tedium vitae che lo coglie quando la sua ragione puramente logica non e' messa in moto, come un meccanismo che, avulso da ogni altro tipo di valore, abbisogni semplicemente di risolvere problemi. E’ chiaro che, comunque, questo grande risolutore di problemi ha intrigato la fantasia anche degli studiosi nostri contemporanei. Ad esempio, è una tendenza molto recente di una certa critica di tipo semiotico o strutturale, rifarsi al paradigma intellettuale ed epistemologico di Sherlock Holmes per dare una sorta di tipologia reale dei propri metodi e delle procedure. Da Umberto Eco a studiosi americani, hanno paragonato la logica holmesiana a quella di studiosi del linguaggio, cadendo a loro volta in una specie di abbaglio (…). Questa logica holmesiana ha delle radici abbastanza remote e interessanti, io ho trovato addirittura nel grande Emmanuel Kant una frase che ha grande sintonia con l'esplicazione che lo stesso Holmes dà a Watson dei propri procedimenti logici. Kant scrive in una operina giovanile che è I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica, una critica dal punto di vista della razionalità kantiana dell'opera di Emanuel Swedenborg, il visionario svedese che aveva descritto in una opera intitolata Del cielo dell’inferno delle loro meraviglie un suo viaggio nell'aldilà. In questa critica a Swedenborg, Kant, da una posizione ovviamente materialista, dice: "Abbandonarsi a qualsiasi curiosità e non porre altro limite alla passione del conoscere che l'impossibile è un velo che non disdice all'erudizione", cioè il limite è comunque l'impossibile. E questo ha una strana eco in una frase di Holmes che nel racconto Il diadema di Berilli dice: "E’ una mia vecchia massima che, una volta escluso l'impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, non può essere che la verità". Quindi per Sherlock Holmes come per Kant, gli indizi debbono sempre condurre a una realtà plausibile secondo le coordinate spazio - temporali che rendono possibile la nostra conoscenza senza accedere alle lusinghe del fantastico e del soprannaturale. Poi invece vedremo che c'è una categoria di detective per i quali neanche l'impossibile è un limite. Questa categoria di detective che potremmo definire detective sublimi o swedenborghiani, per usare una frase un po’ ironica, ha ovviamente le sue radici in un tipo di letteratura che è considerata normalmente tra i filoni maestri che hanno condotto la letteratura poliziesca, ma che ne costituiscono la linea d'ombra, in un certo senso. Tra i fondatori del romanzo poliziesco è notoriamente riconosciuto Edgar Allan Poe, del quale si citano generalmente i racconti strettamente di indagine che hanno per protagonista il Cavalier Dupin, primo esempio di detective non istituzionale, grande e geniale dilettante come poi sarà il personaggio di Gaborio che segue di poco Sherlock Holmes: si tratta del Duplice delitto della Rue Morgue, (…) de La lettera rubata. Notoriamente Poe non è solo il costruttore di questi meccanismi razionali dove appunto già prevalgono le doti di grande enigmista e di grande sciamano della logica che poi saranno di Sherlock Holmes. Poe è anche un narratore ben più importante, di tempra fortemente romantica, che nella maggior parte della sua produzione ha invece fatto gravare gli incubi dell'inconscio, del perturbante, dell'orrorifico, del tremendo nel dettato della narrazione (…). C'è un filone romantico del poliziesco come c'è un filone classico. Il filone classico può essere così ipotizzato nella figura cardine di Sherlock Holmes che in effetti nasce in un contesto positivistico. Però non dimentichiamo che il suo autore poi si convertì addirittura ad una sorta di spiritismo e di parapsicologismo nei suoi tardi anni (…). Questa polarità di luce e d'ombra, di chiarezza cartesiana della ragione e invece di angosciosa presenza di qualcosa che non è totalmente esplicabile con i dettami della ragione, e un pò il movimento pendolare, per citare Il pozzo e il pendolo di Poe, di tutta la letteratura poliziesca. Se ci fermiamo nel momento in cui il rintocco del pendolo batte sul versante della razionalità, vediamo questo Holmes imbalsamato nelle sue certezze classiche e in questa sua figura togata. Non è solo una metafora pretestuosa, Sherlock Holmes, deve essere visto come una incarnazione socratica, ovviamente narrativa, ridotta a tic - l'immancabile pipa, la mantellina e tutto quanto ha costituito il successo presso milioni di lettori di tutte le età e di varie generazioni - in fondo un travestimento di Socrate (…), come veniva letto, effettivamente, alla fine del secolo, da un filosofo come Friedrick Nietzche che, ne La nascita della tragedia, definiva socratismo quella cultura degli accademici tedeschi che tendeva appunto, come fa Sherlock Holmes a un livello diverso, a identificare l'onnivora conoscenza logica con il bene, il vero, il bello, cioè coi valori assoluti. Lui definisce il socratismo una sorta di gioco degli scacchi drammatico, quello ad esempio del dramma euripideo: ma bisogna tenere presente che questo è un gioco di maschere, che quando Nietzsche parla di Socrate accenna in realtà alla situazione della cultura del suo tempo (…). Anche qui c'è una citazione che mi sembra pertinente, in un altro racconto di Sherlock Holmes, I faggi rossi, dove il sublime investigatore rivolgendosi ad Watson dice: "Se reclamo una giustizia per la mia arte lo faccio perché si tratta di qualcosa di impersonale, di qualcosa al di fuori di me. Il delitto è comune, la logica è rara, perciò è piuttosto sulla logica, che non sul delitto, che lei si deve basare. Lei talvolta ha sminuito ciò che avrebbe dovuto essere semplicemente un corso di conferenze in una serie di racconti". Qui simula addirittura che i racconti di Conan Doyle non dovrebbero essere altro che racconti puramente fedeli e degni di un procedimento solamente logico e non narrativo. Se Holmes ha questo potere razionalistico, ha anche il suo lato ombroso, addirittura la schiavitù della droga che per certi aspetti lo lega anche al mito dell'artista decadente devoto all'art pour l'art; sebbene sia un provetto misogino, quasi come Nero Wolfe di Rex Stout, Sherlock Holmes è anche un Don Giovanni, un seduttore di tipo intellettuale, innanzitutto nei confronti di Watson, il suo biografo fervidissimo (…). Questa forma di seduzione intellettuale da già la certezza che comunque la vicenda di Holmes non si concluderà mai con uno scacco (…). L'Holmes grande risolutore di problemi a me richiama anche un altro archetipo mitico, per lo meno della bonaria mitologia della letteratura di massa: è Robinson Crusoe di Foe, una, fra l'altro, delle figure inaugurali del romanzo borghese moderno del settecento (…). Ancora una volta c'è il richiamo, per Holmes come per Robinson, in questa razionalità che è solo quella del risolutore di problemi, al Kant formalista della Critica del giudizio, quando dice che la bellezza è in rapporto quasi esclusivamente con ciò che è formale ed astratto, cioè ad un ideale quasi di arabesco decorativo (…). I racconti holmesiani sono dei tappeti di arabeschi ragionativi perfettamente intrecciati con i nodi di un tappeto kantiano più che persiano, se vogliamo fare un gioco di parole, e se passiamo dalla verità logica a quella psicologica, cioè, se anziché la prova fattuale della colpevolezza cerchiamo quella morale, approdiamo dal regno di Sherlock Holmes a quello di padre Brown, il detective creato da Chesterton per il quale non conta più la qualità del tappeto, purché sia un tappeto volante. Si reintroduce qualche cosa che nel semplice meccanismo ragionativo di Holmes non c'era. La creatura più nota di Chesterton, il mite ma inesorabile sacerdote cattolico padre Brown, è un detective dall'animo umano. Chesterton ha una frase molto bella a proposito del poliziesco, che lui considera una sorta di Iliade contemporanea, di epica del mondo metropolitano moderno. Dice: "Il romanzo poliziesco è il romanzo stesso dell'uomo, si fonda sul fatto che la moralità è la più tenebrosa e audace delle congiure". Il problema etico è quello che veramente sta a cuore a padre Brown. Si tratta di un altro tema che è nel Meeting di quest'anno, quello del paradosso, per cui continuamente nei racconti di Chesterton, autore cattolico inglese molto più inquietante - proprio per questa complessità problematica del bene del male - di quanto non appaia, il problema è proprio la paradossalità del mondo e i suoi racconti sono quasi sempre risolti in chiave di paradosso, o logico o morale (…). Su questo versante stiamo andando verso un'altra categoria di detective, che io chiamo i detective sublimi, quelli cui ho accennato all'inizio, che non hanno più a che fare con indizi, tracce, mozziconi di sigarette; non sono neanche detective che cercano un grosso impatto con una realtà avvelenata, come possono essere i protagonisti dell'hard boiled, cioè del poliziesco d'azione americano, che ha i suoi nomi esemplari in Raymond Chandler, padre del detective Marlowe, o in Dashell Hammett, col Sani Spade, o l'investigatore senza nome protagonista di tante altri suoi racconti e anche di un romanzo (…). Quello che conta è che proprio la figura istituzionale del detective, in realtà, è ambigua, continuamente in condizione di dover essere interpretata di nuovo, fin dalla sua natura costitutiva. Anche il detective classico Sherlock Holmes, o Filo Vance, con la sua mania del collezionismo, o Poirot con i suoi baffi impomatati, allo stesso titolo dei detective dell'hard boiled, sono contemporaneamente incarnazione di un poliziesco principio d'ordine e di una romanzesca vocazione all'anarchia, sono contemporaneamente l'ordine e il disordine, Dio ed il diavolo. Il falso sillogismo di base della narrativa poliziesca è proprio che il detective coincida veramente con i valori del vero del buono e del bello, anzi, il saggista francese Roger Callois ha addirittura sostenuto che l'investigatore occupa, rispetto all'ambiente sociale, quel posto un po' a margine che gli antichi racconti riservavano allo stregone o al diavolo facendolo magari camuffare da forestiero, da sensale di cavalli, da zoppo, da mendicante, ecc. (…). E siamo qui al rovesciamento del mondo di Chesterton , ma anche di una lettura come quella del sociologo tedesco Kracauer, amico di Adorno, che vedeva nell'investigatore, in quanto incarnazione della ratio, un rappresentante della sfera superiore in quella inferiore. C'è in effetti una insidia diabolica latente nella tentazione d'onnipotenza dell'investigatore di tipo messianico che vuole ricondurre il caos del reale ai dogmi della ragione formale; altrettanto si può dire del detective duro e accigliato dei gialli d'azione per il quale vale il machiavellico fine che giustifica i mezzi. Gli unici che fanno slittare la soglia anche troppo rassicurante della ragione poliziesca, per quella che vuole essere una piccola, scherzosa critica della ragion poliziesca, sono appunto i detectives sublimi (…) cui ho accennato prima. Però ecco, alle soglie del miracolo, la ragion poliziesca deve arrestarsi, oppure compiere il balzo nell'assoluto che confortava le serene visioni oltremondane dello Swedenborg di cui parlava Kant. Ma allora qui si rischierebbe di slittare dai paralogismi formali del poliziesco, cioè da quella logica, quei falsi sillogismi che usa il poliziesco classico, a quelli che Kant chiama paralogismi trascendentali, cioè le contraddizioni in cui cade la ragione quando travalica i confini dell'esperienza. I detectives sublimi sono i loici esploratori ai confini della realtà, ma anche i guardiani della soglia che conduce agli inferi e ai campi elisi della visione, e perciò possiamo chiudere con la frase di Kant: "Io non disapprovo il lettore – sempre a proposito dei Sogni di un visionario di Swedenborgh - se invece di considerare i visionari come semi-cittadini dell'altro mondo, li ritiene senz'altro per davvero candidati al manicomio, e si dispensa così da ogni ulteriore ricerca".
Joan P. Culianu:
C'è una questione posta a tema anche in altri incontri di questo Meeting, come "Uomo animale paradossale e curioso". Un'opinione diffusa tra i socio-biologi, che quel che costituisce l'unicità della specie umana siano due tendenze in stretto rapporto tra di loro: la neofilia e la neotenia, due parole che appartengono al gergo dei biologi. Neofilia viene dal greco neos-nuovo e filia-amore, quindi amore del nuovo, curiosità, se si vuole; e neotenia dalla parola neotes, in greco infante. L'essere umano è tale perché è inquirente, perché è curioso del nuovo e della scoperta, ed è così perché è incline a restare giovane. Tra l'altro, i socio-biologi non esitano a mettere in relazione neotenia, cioè infantilismo, e perdita del pelo, allo scopo di continuare ad avere la pelle liscia come i bambini. E, se i maschi si radono la barba, è per conservare gli attributi degli infanti. Quindi l'essere inquirente va di pari passo con l'essere umano, e l'essere giovane, al punto che si può dire che è l'inchiesta a creare l'uomo e non l'uomo a creare l'inchiesta. La storia umana stessa appare come una lotta tra neofilia e neofobia, tra inchiesta al fine di scoprire e inquisizione al fine di arrestare la scoperta; tra indagine, esperimento nel campo del sapere e inchiesta poliziesca, per scoprire i desiderosi di cambiamento e mettere fine alla loro opera. Non mi stupirei se qualcuno vedesse in questa contrapposizione tra ricercatore e inquisitore anche una contrapposizione di sistemi politici. In questo Meeting si parlerà della Cina e della Romania, come rappresentanti di sistemi politici neofobi. Ma quel che c'è da ritenere da tutto ciò è che, quantunque di indagine si tratti in ambedue i casi, e quindi di soddisfazione dell'istinto neofilico umano, in un caso abbiamo a che fare con un'indagine per affermare la propria libertà, e nell'altro con un'inquisizione che mira ad arginare o sopprimere l'affermazione della libertà. In questo secondo caso, pur conservando l'aspetto dell'indagine, l'inchiesta è rivolta contro le sue stesse premesse neofiliche e finisce nella sclerosi totalitaria. Un teologo, chissà, potrebbe definire questa situazione inquisitoriale come male, o come demonismo (…). Eliade è un esemplare umano altamente neofilo e neotenico, e offre un modello ai suoi coetanei rivoltosi contro ciò che a loro appare come sclerosi socio-politica causata da una classe dominante fatta di ciò che loro definiscono come rimbambiti, epiteto poi fuorviante, che in realtà non significa un ritorno alla rinfrescante neofilia dell'infanzia. Rimbambito, c'è la parola bambino là dentro, significa appunto la perdita di tale facoltà. Nell'opera letteraria giovanile di Eliade, l'adolescente romeno si riconosceva e riconosceva in essa quello che ha di meglio e di peggio. Eliade e lo psicanalista Carl Gustav Jung sono spesso stati accomunati per quanto riguarda certe loro idee circa gli strati archeologici della psiche umana. Però c'è anche un'altra cosa che li accomuna, quel che Jung definisce come ombra, cioè quella parte rimossa di noi stessi dove conserviamo ancora le qualità ed i difetti dell'infanzia. Si può dire che l'opera giovanile di Eliade riveli all'adolescente non tanto la sua ombra, che egli conosce poi fin troppo bene, ma la funzione positiva dell'ombra, che è quella di essere inquisitiva, e perciò anche rivoltosa. Questa identificazione del lettore giovanile col personaggio giovanile eliadiano cessa con l'opera letteraria degli anni della maturità di Eliade, ancora tutta da scoprire, soprattutto resa accessibile quasi nella sua totalità dalla "Jaca Book" al pubblico italiano e occidentale. Il caso di Eliade è interessante e complesso perché egli è un doppio indagatore; ha da una parte un'opera monumentale di storico, e dall'altra un'opera imponente di scrittore, cioè è ricercatore del mito anche creatore di miti. Ora, si sa che quando uno sente il bisogno di creare i miti, questi miti rappresentano la parte più importante del suo discorso, il discorso segreto che non si può ancora lanciare sul mercato rigido e ossificato delle idee. Ogni volta, per esempio, che Platone vuole dire qualcosa di fondamentale e di più vero che non la mera dialettica così sofistica di Socrate, egli è ricorso al mito. Così anche i limiti assoluti del pensiero di Eliade li troviamo non nell'opera dello storico, e neanche in quella, sebbene più sciolta, del saggista, ma in quella dello scrittore. Quest'ultima, del resto, altro non è che una fenomenologia dell'inquirente dell'indagine, una fenomenologia con un grande numero di attori. Io ho scelto quei sei personaggi che mi sembrano illustrare meglio la tipologia eliadiana dell'inquirente (…): si tratta di sei generi di inquirenti differenti tra loro quanto al grado di conoscenza, al metodo, all'oggetto, alla finalità del sapere. La gamma delle situazioni in cui questi indagatori sono coinvolti all'interno degli intrecci delle varie opere di Eliade, rappresenta il mondo letterario di Eliade nella sua quasi totalità. E questo mondo letterario non è che una variante del mondo in generale, e la visione eliadiana del mondo ci aiuta a svolgere un'indagine complessa, sia sull'autore dei sei personaggi che sul mondo da essi percorso. Due osservazioni di carattere più generale vanno premesse a questa indagine: la prima è che questi personaggi non si manifestano tutti insieme, ma in sequenza direi cronologica, perciò alcuni di essi si escludono a vicenda. La seconda osservazione è che alcuni personaggi vengono fuori a coppie, dove c'è un termine forte ed un termine debole, nel senso che il debole non potrebbe esistere senza il forte (…). Per esempio, l'idiota è il termine forte sia nel binomio litomante-idiota, che in quello idiota-poliziotto. L'attore drammatico sembra una variante debole dell'idiota, e funziona ugualmente a binomio col poliziotto, la cui presenza diventa imprescindibile per lo svolgimento dell'azione intenzionale dell'altro (…). Come vedremo, sebbene lo sceneggiato dell'indagine svolta dai personaggi eliadiani conosca soltanto minime variazioni, la prospettiva finale risulta notevolmente mutata rispetto a quella iniziale, al punto che il mondo dell'ultimo Eliade è l'opposto di quello del primo Eliade. Durante questo processo, la categoria che abbiamo chiamato mondo subisce una crescente solidificazione, al punto che, da completamente fluida, diventa rigida e circoscritta: nessuno, sembra dire l'ultimo Eliade, nemmeno Dio stesso, è libero di cambiare le norme fisse del mondo. Ma all'inizio le cose non stanno così, lo yogi ha svolto un'indagine secondo metodi segreti e trasmessi per tradizione, al fine di guadagnare poteri straordinari. Oggetto e finalità dello yogi è la propria libertà dai limiti della condizione umana. Lui crede soltanto in ciò che ha acquisito e le sue possibilità dipendono dal grado di realizzazione che ha raggiunto. Le più note, se non forse le migliori novelle fantastiche di Eliade, appartengono a questo periodo o a questo ciclo a cui, in altre sedi, abbiamo dato il nome di ciclo indiano per distinguerlo dagli altri due cicli successivi, il ciclo dell'idiota e il ciclo della crittografia. All'universo di queste novelle fanno riscontro le concezioni dei poteri paranormali espresse da Eliade in un saggio del 1937, Il folclore come strumento di conoscenza. In questo saggio, Eliade accetta pienamente la possibilità dei fenomeni paranormali di cui parlano molte religioni del mondo, come la levitazione, la morte apparente, l'incombustibilità del corpo umano, ecc. Invece il secondo ciclo della novellistica eliadiana, di cui fanno parte anche i romanzi Foresta proibita, Il vecchio e il funzionario, uscito presso la "Jaca Book", è il ciclo dell'idiota, completamente differente rispetto al primo. Il suo protagonista è l'idiota, il povero di spirito. Magari un aggancio con Padre Brown si potrebbe fare, non va poi molto lontano. Il personaggio è un sempliciotto alle prese con realtà molto più possenti di quelle che lui può comprendere. In questo ciclo, lo yogi non compare più e il suo unico sostituto è il litomante, cioè l'indovino, il cui metodo di conoscenza è per ciò che si potrebbe chiamare sincronicità. Dalla configurazione delle pietre nello spazio egli riesce a prevedere degli avvenimenti che stanno per succedere. E’ ovvio che il litomante, al contrario dello yogi, non possiede una conoscenza solida e non si affida ad un metodo razionale; l'oggetto del suo sapere è soltanto l'avvenire e la finalità di questo sapere è poco chiara. Il litomante ha un carisma di cui non possiede la chiave. Quanto all'idiota, che è forse il personaggio più tipico, emblematico, di questo periodo nella narrativa di Eliade tra gli anni '50 e '60, è il completo rovesciamento dello yogi. L'idiota non ha nessuna conoscenza, anzi, si può dire che abbia una conoscenza negativa, non impiega nessun metodo per conoscere, non desidera conoscere nulla e dunque è colpito duramente da ciò che a lui si rivela senza che l'abbia richiesto. L'idiota eliadiano conosce gradi e forme che vanno da un personaggio vicino al cristiano idiota triumphans del cardinale Nicolò Cusano, fino al vecchio che si smarrisce per molti anni nel bordello detto delle zingare dove gli sembra di aver trascorso un solo pomeriggio. Tragico, comico, grande o piccolo, intellettuale o sempliciotto, l'idiota è senz'altro il personaggio prediletto di Eliade negli anni '50 e '60 (…). Qui, si può dire che Eliade si metta ad esplorare un nuovo territorio dal quale non uscirà più fino alle sue ultime novelle. La dialettica di questo ultimo ciclo eliadiano, a cui abbiamo dato il nome del ciclo della crittografia e della decifrazione, è molto bizzarra: l'idiota o l'attore drammatico che ne è una variante, o anche qualche altra variante del personaggio dell'idiota, messo a fuoco dal poliziotto, cioè dall'investigatore del genere Sherlock Holmes, e l'idiota costruisce appunto per il poliziotto uno spettacolo senza nessun senso. Ovviamente il poliziotto, in cui esiste questo meccanismo d'indagine, si mette pazientemente a decifrare il messaggio. Qui dunque ognuno fa quel che sa fare, l'idiota fantastica senza saper nulla, mentre il poliziotto sta investigando il messaggio del primo partendo dal presupposto che ogni messaggio dovrebbe avere un senso. Non so se si possa poi parlare qui di un abbozzo di epistemologia eliadiana, ma risulta che il suo mondo è radicalmente cambiato rispetto al mondo giovanile dello yogi, di questo personaggio che arrivava a conoscenze straordinarie. Ora, nel mondo di Eliade, tutto sembra ridursi a scambi artificiali di informazioni, in cui si parte dal presupposto erroneo che ci sia qualcosa di fondamentale dietro la cifra. Ora Eliade sembra dire che in fondo tutto si esaurisce entro il circolo stretto delle menti umane, quelle che producono messaggi senza senso e quelle che in essi vi decifrano sensi che pur non ci sono. Lasciamo stare l'attore drammatico che vuole rappresentare questo immanente mistero senza riuscirci. Più interessante è l'ebreo errante, che in un certo senso segna il definitivo passaggio di Eliade dalla religiosità indiana alla religiosità giudeo-cristiana. L'ebreo errante sa tutto, l'ebreo errante è Dio. Ma qui vediamo che Dio, sebbene onnisciente, non è onnipotente. Nella storia del cristianesimo e delle sue eresie molti sono stati quelli che hanno negato l'onnipotenza di Dio, anzi una delle correnti più straordinarie della teologia cristiana, il nominalismo, aveva persino dimostrato che tutte le teologie precedenti non avevano effettivamente riconosciuto l'idea dell'onnipotenza di Dio. Non è possibile entrare nel merito di questo fondamentale dibattito, quel che si può dire di Eliade è che l'inquirente chiamato ebreo errante, un personaggio misterioso e divino, non può fare miracoli che coinvolgano il capovolgimento delle leggi del mondo. Non può neppure influenzare un uomo senza la cooperazione di quello. E quando vuol promuovere un matematico eccezionale, non può farlo se non facendo arrivare un suo articolo sulla scrivania di un importante matematico di Princeton. In altre parole l'ebreo errante, che sa tutto, sa anche di avere una potenza limitata sul mondo, sa anche di non poter far tutto. Un'ultima parola va spesa qui sul rapporto tra i sei inquirenti eliadiani e i tre inquirenti a cui fa testa questo convegno, cioè Socrate, Don Giovanni e Sherlock Holmes. Come abbiamo visto la tipologia di Eliade è un po' diversa, l'unico che possiamo identificare con Sherlock Holmes è il poliziotto che usa dei metodi classici di informazione per ottenere conoscenza precisa su tutto quel che può essere conosciuto nel mondo umano. Sebbene Eliade sembri addirittura, a volte, mostrare una certa stima per il poliziotto, questi finisce sempre per imboccare strade sbagliate; è fuorviato dall'idiota che vive in un suo mondo incantato, e fuorviato anche da chiunque produca un messaggio che non contenga informazioni sul mondo umano, perché il poliziotto tende a ridurre tutto a rapporti presenti nel mondo: perché le verità di cui va alla ricerca non sempre hanno attratto una sola sfera di conoscenza ma varie sfere, e perché perfino il più umile scienziato scopre cose che il politico legge nella sua chiave, travisandone il senso primario. Il mondo complesso che ne risulta, sembra dire Eliade, può essere buffo, interessante o tragico, a seconda del caso. Ma è sempre un mondo di equivoci in cui i messaggi acquistano un significato che non hanno attraverso la lettura erronea dei gestori del potere.