Tania Groppi: “Il mio ricordo di Jean Vanier”

Maggio 2019
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«Una persona meravigliosa, un testimone di Cristo, un santo». Così Tania Groppi, costituzionalista, docente universitaria a Siena, negli ultimi anni più volte relatrice al Meeting, ricorda un più che caro amico, Jean Vanier, fondatore delle comunità L’Arche, 140 case-famiglia (i foyer) sparse in tutto il mondo, dove operatori e specialisti condividono la vita con persone disabili. 

«Jean nella mia esistenza ha giocato un ruolo chiave, quello di un incontro miracoloso, che mi ha risvegliata. Quando penso a lui, mi viene di farlo in francese. Per me è stato l’accoucher de mon âme, ha dato cioè alla luce la mia anima. Jean citava spesso questa espressione di Etty Hillesum. Lui non andava mai in giro senza il Vangelo e il Diario di Etty, che sentiva molto vicina».  

Un incontro decisivo, quindi, quello tra la professoressa Groppi e il filosofo scomparso il 7 maggio 2019 a Parigi, all’età di 91 anni. «Mi ha riportata alla vita in tanti modi. L’ho conosciuto leggendo i suoi libri. Il primo che ho avuto tra le mani è stato ‘Non temere’ e subito ho pensato: chi è quest’uomo? dove si trova? devo conoscerlo! Nel giro di poco tempo mi sono ritrovata a parlare con lui a Trosly, nel suo foyer. Era una domenica». Momenti indelebili i pasti consumati insieme e le passeggiate nel piccolo e semplice villaggio della Piccardia, ai margini della grande foresta di Compiègne, un tempo riserva di caccia dei re di Francia, dove è nata nel 1964 la comunità l’Arche.

«Negli anni Sessanta era molto diffusa l’idea di vivere in comunità. La categoria delle persone con disabilità mentale era tra le più vulnerabili, costretta a un regime particolarmente restrittivo, rinchiusi com’erano nei grandi manicomi, abbandonati e imprigionati. Così si andava diffondendo l’ideale della liberazione di queste persone. Dietro la nascita dell’Arche però non c’era un progetto. Lui, Jean, figlio di un diplomatico e governatore generale del Canada, Georges, e della discendente di una delle famiglie più agiate e in vista del Paese, finì a vivere ai margini di una foresta in Francia seguendo un percorso tortuoso. Superando tanti momenti difficili, arrivò lì dove abitava il suo riferimento spirituale, un padre domenicano che faceva da cappellano in un istituto privato per malati mentali». 

Jean è stato ufficiale della Royal Navy britannica e della Marina canadese, «dove ha imparato ad ubbidire e a comandare». Compiuti i venti anni ha abbandonato la carriera militare per studiare filosofia e teologia. «Lasciai la Marina perché volevo stare con Gesù», spiega lui stesso in un’intervista che ha rilasciato al Meeting nel 2016 (e che vi riproponiamo in forma integrale). «La sua chiamata è stata vivere l’amicizia con Gesù, un punto costante lungo tutta la sua vita», conferma Tania Groppi. Vanier ha studiato in seminario, conseguito un dottorato, insegnato tra Parigi e Toronto e poi ha lasciato di nuovo tutto. 

«Il suo percorso è complesso, ma c’è un punto fermo. I suoi genitori erano profondamente credenti, per entrambi è in corso il processo di beatificazione, Jean ha fin da subito respirato quest’aria». 

Vanier arriva a Trosly e inizia a frequentare l’istituto dove opera il suo amico. In principio fa fatica con i malati, non accetta le condizioni in cui vivono. È solo dopo qualche tempo, soprattutto di fronte all’ingiustizia e al dramma della loro situazione, che cambia la prospettiva: un giorno, visitando un grande manicomio della regione, sente l’impulso di portare via con sé tre disabili, miracolosamente ci riesce, compra una casa e va a viverci insieme a loro. Le difficoltà arrivano subito. «La prima notte uno dei ragazzi ha avuto una crisi, Jean ha dovuto riportarlo in istituto. Capisce così che l’incontro e l’abbraccio con l’altro restano i fondamenti dell’Arche, ma che serve anche la competenza. Inizia a cercare la collaborazione dei migliori specialisti. Restano con lui in due, Raphaël e Philippe, e accade qualcosa di imprevisto ed eccezionale. Presto molti giovani lo raggiungono per vivere lo stesso ideale, attratti da un bene e da una bellezza inequivocabili».

A Trosly nel 2010, la professoressa Groppi arriva con un libro in mano, non l’ha scritto Vanier. «Gli ho portato il mio lavoro sul Canada, in cui parlo anche di suo padre. Ho sempre pensato che il nostro incontro sia avvenuto un po’ nel segno di Georges Vanier. Sono giunta da lui, soprattutto, con una domanda: a me, per la mia vita, interessa solo il diritto costituzionale? O c’è altro? Arrivata lì, ho avvertito come il desiderio di lasciare la mia carriera e unirmi al suo foyer, di rimanere lì con lui». Ma la risposta di Vanier quella volta, come le successive, è sempre stata inequivocabile. «Mi ha rimandata a casa», sorride Tania. «Lui ha sempre avuto un senso pratico molto spiccato, invitandomi in ogni occasione a offrire le mie competenze. Per la sua storia personale, era convinto che il mondo avesse bisogno di competenze. Con la sua figura alta, anzi altissima, vestito con la camicia a quadri, sempre indosso il suo giubbotto blu, Jean era una persona gioiosa e molto curiosa della realtà e dei fatti».

Dai malati mentali agli immigrati. «Oggi per lui gli ultimi sono gli immigrati. Ha parlato spesso dei muri da abbattere, delle barriere da superare, di cambiare i cuori a uno ad uno. Il Vangelo di Giovanni, costellato da immagini di malati guariti da Gesù, di persone sofferenti a cui Lui porta la vita, è stato al centro della sua opera intellettuale e dei suoi temi spirituali. L’ideale di Jean è stato quello di vivere nella Sua presenza, offrendosi con massima disponibilità e attenzione».

Al Meeting Vanier non è riuscito a venire, ma ha accettato di farsi intervistare nel 2016, l’anno in cui il tema era 'Tu sei un bene per me'. “Il miracolo dell’Arca - spiega la professoressa Groppi - è stato che tutti vi arrivavano per fare del bene e sempre capivano che in realtà erano le persone con disabilità a guarirli, il dolore di queste persone trasformava il cuore degli assistenti che, miracolosamente, scoprivano la trasformazione di sé, del proprio cuore. Jean prima di tutti lo ha vissuto su di sé e per questo lo ha potuto testimoniare, generando un’attrattiva che continua e continua».