L’essenziale e il sovrabbondante, un contributo di Andrea Moro

Luglio 2024
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Andrea Moro, Professore di linguistica generale alla Scuola Universitaria Superiore IUSS – Pavia, più volte relatore al Meeting, ci ha inviato un contributo sul titolo del Meeting 2024, come sempre acuto e stimolante, che ci consente di scoprire prospettive inedite sull’“essenziale”, spesso concepito in modo alternativo al “sovrabbondante”, mentre forse le cose non stanno proprio così…

C’è una tensione apparente tra due esperienze che possiamo provare nella vita: da una parte, la richiesta o la ricerca di ciò che è essenziale; dall’altra il riconoscimento di una situazione di sovrabbondanza. Apparente, appunto, perché vorrei sottolineare in questa breve nota come non si tratti di un contrasto affatto necessario e che anzi, comprendere la compatibilità di queste due esperienze ci può aiutare a riconoscere meglio quello che ci è dato e fornire strumenti in più per riconoscere la nostra condizione e scegliere per il meglio.

L’essenziale sembra a prima vista più facile da cogliere. Immaginiamo ci venga chiesto di prepararci per una gita, con la raccomandazione di portare con sé solo l’essenziale. Non sorgono molti dubbi: si scartano giacche e scarpe eleganti, libri e soprammobili e si mette nello zaino solo quello che può tornare utile. Una mossa tipica è anche quella di chiedere a chi ha già vissuto questa esperienza come si è comportato;  nessuno ama fare fatiche inutili. Dunque, l’essenziale coincide in questo caso con il minimo utile per raggiungere uno scopo che ci si è dati: una definizione che potremmo definire “funzionale”. Il problema è che non tutto l’essenziale si riconosce facilmente, soprattutto se lo scopo è più complesso. Proviamo a pensare: se fossi sicuro che questa è l’ultima settimana della mia vita, cosa sarebbe per me l’essenziale? In questo caso, la risposta diventa difficilissima anche, perché la vita non ce la siamo data noi e quindi non ne abbiamo scelto lo scopo. Possiamo pensare di viverla serenamente o felicemente ma in ogni caso si tratta di speranze che non ammettono una scelta funzionale, se non al parziale soddisfacimento momentaneo, magari al sollievo dal dolore, se si è malati. In questo caso estremo, mi pare si riesca bene a intuire il legame intimo tra “essenziale” e “senso religioso” e alle domande che lo definiscono: “qual è il senso esauriente dell’esistenza? qual è il significato ultimo della realtà? per che cosa in fondo vale la pena vivere?” (Giussani, L. “Il senso di Dio e l’uomo moderno”, Rizzoli, 1994: 7). Ma questa consapevolezza sul senso religioso come “essenziale ultimo” assume contemporaneamente il carattere di una dichiarazione di libertà assoluta della persona umana. Lo spiega in una frase che – per quel che può contare – mi ha radicalmente cambiato la vita, Giussani appena dopo le parole citate: “Il contenuto del senso religioso coincide con queste domande e con qualunque risposta (suo corsivo) a queste domande.” (ibidem). Qualunque: questa ammissione descrive e identifica il centro della responsabilità e della libertà di scelta dell’uomo. L’essenziale, in questa prospettiva, è in ultima analisi la domanda sulla mia origine e, soprattutto, sul mio destino e contemporaneamente la consapevolezza della mia libertà di scegliere come interpretarlo. Veniamo ora alla sovrabbondanza.

Di fronte alla strettoia imposta dalla natura, dalla vita, dalle circostanze casuali nelle quali ci troviamo e dalle quali emerge la consapevolezza di dover scegliere e ridurre la realtà all’essenziale sembra imporsi un sentimento opposto: il riconoscimento di aspetti della vita dominati dalla sovrabbondanza. Ci sono almeno due componenti esperienziali che caratterizzano la sovrabbondanza, una necessaria e una accessoria, spesso congiunte: la consapevolezza di avere a disposizione di più di quel che si può utilizzare e la gratuità di ciò che è dato. È proprio la gratuità che di fatto accompagna quasi sempre la sovrabbondanza perché la sgancia dalla necessità. Infatti, non si parla semplicemente di “abbondanza”, che potrebbe in qualche modo anche soddisfare un’esigenza concreta, come ad esempio la comparsa improvvisa di grandi quantità di cibo durante una carestia, ma di “sovrabbondanza” cioè della presenza di ciò che riteniamo superare le nostre esigenze, le nostre richieste, perfino la nostra capacità di immaginazione: questa sovrabbondanza, proprio perché apparentemente superflua, non è connessa a una nostra scelta, al riconoscimento di un’utilità essenziale e funzionale. Sovrabbondanti sono le occasioni di incontro nella vita, sempre che si vogliano accettare; sovrabbondante è la nostra curiosità di capire ed amare; sovrabbondanti sono le sensazioni piacevoli di un pasto, di una relazione amorosa, sovrabbondante, in ultima analisi è la vita stessa, una realtà che per definizione supera la nostra aspettativa, il nostro merito ed è totalmente gratuita.

La riflessione che vorrei proporre è che essenziale e sovrabbondante non sono davvero contrapposti. Certo il più delle volte sembrano di fatto contraddirsi ma ci sono fenomeni che ci mostrano come il sovrabbondante è il modo con il quale la natura coglie l’essenziale e vale la pena di illustrarne almeno uno. Un caso esemplare è l’acquisizione spontanea del linguaggio naturale nei bambini. È un fatto ormai assodato che l’acquisizione di una grammatica, con tutti i componenti tra i quali quello centrale della sintassi, vera impronta digitale della mente umana, pur essendo ancora largamente misteriosa, è condizionata o addirittura il frutto di un’espressione dell’architettura neurobiologica degli esseri umani che precede ogni esperienza. In parole semplici, quando da piccoli abbiamo appreso la lingua madre non siamo andati totalmente a tentoni, cercando e componendo a caso suoni e significati, ma abbiamo applicato agli stimoli una griglia preformata, codificata in qualche modo nel nostro genoma, che li ha setacciati e ci ha permesso di imparare a comporne di nuovi. Una conseguenza notevole, anzi una vera e propria rivoluzione scientifica e culturale, sta nel fatto che questa guida non condiziona bambine e bambini nell’apprendimento di una lingua specifica: si può nascere da genitori che parlano una determinata lingua e impararne spontaneamente un’altra, per esempio nel caso che si venga adottati da una comunità differente dal punto di vista linguistico. Questo significa che questa guida biologica che precede ogni esperienza deve contenere istruzioni grammaticali compatibili con qualsiasi lingua: quelle presenti, quelle passate e quelle che magari non si parleranno mai; da questo insieme di lingue si escludono le cosiddette “lingue impossibili” cioè lingue che non rispettano le regole che valgono per tutte le lingue del mondo, metaforicamente che stanno fuori dai “confini di Babele” (Moro, A. Impossible Languages, MIT Press, 2023). I bambini nascono con una mente che mi piace definire “staminale” dal punto di vista linguistico: può svilupparsi in qualsiasi lingua. Ma una bambina o un bambino non parla tutte le lingue del mondo: ne apprende una o due o forse tre, nei casi più strani. Passati gli anni che la natura concede alla maturazione dei contatti sinaptici, le grammatiche non utilizzate vengono “potate”: quella che rimane, o quelle che rimangono, si fissano per sempre come lingue madri (interessante come si usi il termine viscerale di madre per caratterizzare il rapporto intimo con la lingua).

Alla nascita, dunque, ci troviamo tutti dotati di una evidente sovrabbondanza di strutture linguistiche possibili (e lo stesso accade in molti altri domini cognitivi) ma questa sovrabbondanza non è affatto inutile: è la risposta selezionata dall’evoluzione per permettere agli esseri umani di apprendere una lingua in tempi contenuti. Detto esplicitamente, questa sovrabbondanza esprime dunque ciò che è essenziale per lo scopo dell’acquisizione del linguaggio. È certamente interessante notare che questa teoria di apprendimento “per dimenticanza”, per usare le parole di Jacques Mehler, proposta sulla base della visione del linguaggio proposta da Noam Chomsky (intervenuto su questi temi al Meeting di Rimini nel 2015), è stata subito riconosciuta come valida anche in biologia: in particolare, l’idea che si nasca con una sovrabbondanza di informazioni per poter rapidamente reagire alle sollecitazioni dell’ambiente ha introdotto nel dominio dell’immunologia le cosiddette “teorie selettive” della produzione anticorpale e ha fruttato a Niels Jerne il premio Nobel per la medicina o fisiologia nel 1984 con una relazione intitolata significativamente “una grammatica generativa per il sistema immunitario” che citava Chomsky come primo riferimento.

Essenziale o sovrabbondante? La natura ci sta suggerendo che la metrica impressionistica e soggettiva con la quale valutiamo queste due situazioni come opposte o incompatibili può essere totalmente fuorviante: non è detto che ciò che sia sovrabbondante non sia per questo anche essenziale. Inoltre, rimane chiara per entrambe le condizioni la sensazione di gratuità, di dono misterioso al quale noi non possiamo aver dato alcun contributo. Il mistero si manifesta imponente su questi concetti ma certamente la ragione ci porta a riconoscere che non possiamo escludere che l’essenziale sia sovrabbondante esattamente come il sovrabbondante può essere essenziale, almeno in tanto in quanto essenziale e sovrabbondante ci pongono di fronte al mistero più grande della gratuità della nostra esistenza e alle domande che premono dentro di noi, “qualunque sia la risposta”.