VIVERE SENZA MENZOGNA. SOLŽENICYN

Presentazione della mostra. Partecipano: Adriano Dell’Asta, Docente di Lingua e Letteratura Russa all’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano e Brescia; Ljudimila Ivanovna Saraskina, Storica della Letteratura, Docente Universitaria e Collaboratrice di Solženicyn. Introduce Giovanna Parravicini, Fondazione Russia Cristiana.

 

MODERATORE:
Mosca, novembre 1962: sono gli anni del regime sovietico. Un giovane 25enne, Sergej Averincev, sta rincasando dalla biblioteca e ad un tratto si accorge di qualcosa di insolito in una città così monolitica, così monoideologica, come è Mosca: la gente formicola letteralmente alle edicole e si strappano di mano una rivista letteraria, Novyj Mir, Nuovo Mondo, su cui è comparso qualcosa e lui passando davanti a una edicola sente un tizio un po’ strampalato, un po’ strano che dice: ma sì, voglio quella rivista lì – non si ricorda né il nome della rivista, né il nome dell’autore – voglio quella rivista lì, quella in cui si dice tutta la verità. Era uscito il primo racconto, si può dire la prima rondine di libertà, il racconto di Aleksandr Solženicyn, “Una giornata di Ivan Denisovic”, che in questo modo aveva spezzato il grigiore, il silenzio colpevole sui lager e aveva aperto una nuova tematica. “Una giornata di Ivan Denisovic” racconta una cosa molto semplice: una giornata di un detenuto. Non fa propaganda, non parla contro il sistema, non parla contro l’ideologia, racconta semplicemente la storia di un uomo vivo, di un uomo vero e questo basta a dare la stura a enormi forze di libertà, di verità. Qualche mese fa mi è capitato a Mosca di sentire il racconto di un vecchissimo ex detenuto, che racconta: io ero giovane, mio padre è morto in lager, io ho passato anni e anni in lager e quando finalmente sono stato liberato alla morte di Stalin, me ne stavo buono e tranquillo come un topo rintanato nella mia tana, non avevo certamente voglia di rialzare la testa e di farmi vedere nel timore di ripiombare di nuovo nel tritacarne e di nuovo ecco qui, Aleksandr Solženicyn, ecco “Una giornata di Ivan Denisovic” e io riconosco in quell’uomo, nelle fotografie che vengono pubblicate in quei mesi, uno dei miei compagni di detenzione e allora capisco che bisogna assolutamente spezzare la congiura del silenzio, che quello che aveva fatto lui di andare da solo, inerme, a mani nude, contro il gigante dell’ideologia è quello che spetta ad ogni uomo per essere se stesso, per vivere senza menzogna.
Ecco, questo è quello con cui mi sembra di dover aprire questo incontro, ma ancora prima di dare la parola ai nostri ospiti, vogliamo far vedere un breve filmato. Sono pochi spezzoni dell’ultima intervista che Solženicyn ha dato. Sentiremo la sua voce in russo e nei sottotitoli vedremo le ultime parole che lui in qualche modo ci ha consegnato e di cui in questo incontro, che diventa anche un omaggio, una memoria a lui, noi vogliamo fare tesoro. Quindi guardiamo il video.

Video

La nostra prima ospite adesso è Ljudimila Saraskina. Ljudimila Saraskina è una studiosa di Dostoevskij. Ha scritto innumerevoli libri sulla letteratura del XIX secolo, in Italia ha pubblicato un libro, che ha pubblicato la nostra editrice “La casa di Matriona”, dedicato a Sergej Fudel, uno dei testimoni del ventesimo secolo e la sua vita è stata legata, attraverso vicende veramente curiose che riempiono di stupore lei e noi, ad Aleksandr Solženicyn. Dal 1994, da quando Solženicyn è ritornato in patria, ha collaborato stabilmente con lui e con la sua fondazione ed è membro anche della giuria del “premio Solženicyn” che ogni anno viene istituito, dato, alle personalità del mondo dell’arte, della cultura, della poesia, che maggiormente si distinguono per la loro libertà e per la loro creatività. Quindi per noi è una preziosa testimone, perché ha lungamente collaborato con Solženicyn, perché ha potuto raccogliere dalla sua viva voce molte memorie che ha racchiuso in una biografia veramente russa, perché sono quasi mille pagine, in cui racconta, si può dire a quattro mani con Solženicyn, tantissimi aspetti della sua storia e della storia dell’intero popolo. Quindi è un prezioso testimone per noi di questa personalità così straordinaria, che è Solženicyn.

LJUDIMILA IVANOVNA SARASKINA:
Amici, la nostra delegazione russa è molto felice di partecipare alla vostra festa, e vedere così tanta gente, così attenta, mostrare un interesse per lo scrittore russo, non è una cosa che si vede molto spesso nella nostra patria, per questo vi ringrazio veramente e vi voglio raccontare la mia esperienza del mio incontro con Solženicyn. Questo fatto strano, del quale ha parlato Giovanna, è successo nel febbraio del 1974. Quando ero molto giovane e studiosa, sono arrivata a Mosca per fare la tesi e ho trovato un lavoro. Un lavoro molto pesante, dove si guadagnava molto poco, semplice ma che mi ha aperto la via, la mia via verso Solženicyn, mi ha dato un segno. Lavoravo per l’agenzia dei telegrafi dell’Unione Sovietica. La mia prima ora di lavoro alle 8.00 del mattino il 18 febbraio, sono sull’apparecchio che riceve i telegrammi ed il primo telegramma che arriva, è il primo telegramma della mia vita, è un decreto che decide che Solženicyn deve essere mandato via dall’Unione Sovietica. Mi ricordo, come ora, che sono fuggita dall’agenzia TASS, per telefonare a tutti i miei amici a Mosca e comunicarlo. Ho ricevuto questo come un segno, che era indirizzato a me personalmente e da quel momento ho cominciato a guardare in quella direzione. Era paradossale, capivo che questa persona era stata mandata via da questo paese, che non c’era più in questo mio paese e la mia responsabilità diventava di leggere tutto, di sapere sempre di più. 21 anni dopo, il 3 gennaio 1995, Aleksandr Isaevič ha telefonato a casa mia a Mosca e mi ha detto queste parole: “Ecco, siamo tornati in Russia, abbiamo pochi amici ormai a Mosca e lei lavora nel mondo letterario”, di fatto in quel momento avevo scritto vari libri, articoli e Aleksandr Isaevič mi dice: “Abbiamo letto quello che avete scritto quando eravamo nel Vermont, incontriamoci, parliamo della letteratura, degli eventi letterari qui in Russia”. Una settimana dopo ci incontriamo, era il 10 gennaio 1995 e da quel momento abbiamo collaborato in modo molto vicino, parlato molto, ma solo 5 anni dopo, nel 2000, ho capito che bisogna raccontare la verità su Solženicyn. Fino a quel momento avevo fatto in tempo a leggere tutto quello che si era scritto su di lui in Russia, molte cose scritte all’estero anche su di lui e soprattutto sulla stampa americana. Nel 2000/2001 ho fatto una cronaca della vita di Solženicyn, per me era una cosa di lavoro perché io stessa potessi capire e quando ho visto quanta menzogna era stata detta e scritta su Solženicyn, ho capito che il mio compito era di dire la verità su di lui. Solženicyn sapeva benissimo tutto quello che avevano scritto su di lui, ma mi sembrava che non fosse neanche lui al corrente di tutte le cattiverie scritte sul suo conto. Quando ci siamo incontrati alla mia domanda se aveva visto tutto quello che era stato scritto su di lui, mi rispose: si dicono tante menzogne su di me. Allora ho capito che bisognava scrivere su di lui come su qualcuno di vivo e ho fatto la proposta che tutti i punti difficili della sua vita, dove ci sono varie versioni, dove c’è tanta menzogna, venissero chiariti con le sue parole da lui personalmente, C’erano tanti documenti da trovare dappertutto e pensavo che fosse una cosa per un futuro molto lontano e così nel 2001 abbiamo cominciato a lavorare. Andavo da lui, nella sua casa con un dittafono, lavoravamo in modo periodico, più o meno dalle 9 del mattino alle 10 della sera. E mi ha colpito di Solženicyn che era un uomo totalmente semplice, dove non c’era nessuna complicazione. Se tu eri capace di poter lavorare con lui nel modo con cui lui lavorava, con il suo ritmo di lavoro, allora potevi veramente fare il lavoro che c’era bisogno di fare. Mi ricordo la prima volta, quando sono andata con il dittafono da lui, che sua moglie mi invitò a pranzo, e Aleksandr disse: “Ma non vorrete mica mangiare per un’ora intera?” Ho detto: “No, no, mi bastano 15 minuti.” “Allora va bene, potremo lavorare insieme.” Ecco, penso che il lavoro che è durato con lui per tre anni e mezzo, mi abbia permesso di capire tutto, di approfondire vari punti, cominciando dai suoi genitori, dai suoi nonni, da tutta la sua stirpe. Abbiamo fatto tutto il suo cammino. E una volta siamo rimasti seduti tutto il giorno guardando delle mappe di guerra e così abbiamo potuto capire dov’erano le varie armate e dove lui era di stanza. Aleksandr Solženicyn mi diceva sempre: non voglio che sia scritta una biografia quando io sono ancora in vita, non è nella tradizione russa. Le biografie si scrivono, d’abitudine, non prima di 50 anni dopo la morte della persona. Gli ho detto: allora non sarò io a scrivere questa biografia. Si è molto stupito, ma era d’accordo che sarebbe stato difficile per me farlo fra 50 anni. In ogni caso, alla fine del 2005, avevo un materiale immenso, e ho detto ad Aleksandr che il libro che dovevo scrivere non poteva essere scritto soltanto con le sue parole, perché dovevo verificare anche le sue parole, anche i suoi racconti. Bisognava trovare i documenti dell’università di Rostov dove aveva studiato, mettere insieme tutti i suoi ricordi, i suoi diari, i diari degli amici, dei suoi colleghi, di quelli che avevano studiato con lui, bisognava trovare tutti i documenti durante la guerra, come la sua divisione aveva combattuto, quali ricompense aveva ricevuto, bisognava trovare tutto quello che era possibile sulla sua vita come prigioniero. Ho trovato tantissimi documenti negli archivi del KGB e negli archivi segreti dei servizi segreti. Ecco, la sua biografia era composta sicuramente da tutto quello che lui mi aveva raccontato, e lui aveva una memoria fenomenale, e da questi documenti che ho veramente dovuto cercare. In questo modo, e non so come questo è successo, se è il Signore che ha voluto così, oppure se è stato un destino letterario, ma alla fine del 2005 l’edizione Molodaja Gvardija ha deciso di creare una serie totalmente senza precedenti in Russia: Vita di grandi personaggi: la biografia continua. Sono libri su personaggi importanti della nostra patria, che sono tuttora vivi e che sono pronti a collaborare con l’autore della stessa biografia, e hanno detto ad Aleksandr che questa biografia sarebbe stata comunque scritta da qualcuno. Bisognava dunque soltanto decidere chi sarebbe stato l’autore. E così lui ha fatto il mio nome. Per questa biografia ho già ricevuto, oltre ai materiali che erano già in mio possesso, altre informazioni, diari, ricordi. Davanti a me si è aperto anche il suo archivio personale, l’archivio della sua famiglia. Anche i suoi figli mi hanno dato delle testimonianze molto interessanti. I suoi amici personali. E la casa editrice mi ha dato un anno e mezzo per mettere insieme tutto questo materiale. Ho scritto questo libro e ogni giorno avevo paura che Solženicyn potesse venire a mancare. Nel 2007, quando Aleksandr ha cominciato ad essere seriamente malato, doveva farsi operare, mi ha telefonato e mi ha detto: “Sapete? Non sono eterno. Non avete fatto in tempo a pormi tutte le domande”. E gli ho risposto: “Vedo come alla luce del sole che scriverò questo libro, che questo libro uscirà, che ve lo regalerò e che lei vivrà ancora.” E così è stato. Bisogna ancora dire che il lavoro non è finito. Il titolo è: La biografia continua. Questo significa che appena il libro è uscito, – ed è uscito un giorno veramente incredibile, che non si potrebbe pianificare, il 5 marzo 2008, giorno importantissimo per Solženicyn, l’anniversario della morte di Stalin, che lui ha preso come un segno – abbiamo deciso che avremmo continuato a lavorare insieme, perché gli avvenimenti continuavano ad accadere per lui: rilasciava interviste, continuava a fare interventi pubblici, un nipote nato, aveva organizzato un comitato giubilare, perché l’11 dicembre 2008 avrebbe festeggiato i 90 anni. Abbiamo continuato a lavorare e l’abbiamo fatto fino al suo ultimo giorno: il 3 agosto ha lavorato tutto il giorno, come d’abitudine. Vero è che alla fine si lamentava di non riuscire più a lavorare 16 ore al giorno, ma soltanto 8. Lavorava fino alle 8 della sera. Quel giorno poi ha chiamato sua moglie, Natalia Dmitrievna, si sono scambiati pareri sulla giornata, sul lavoro fatto da ciascuno. Natalia Dmitrievna ha raccontato quello che lei aveva fatto. Lui ha raccontato quello che lui aveva fatto. Poi si è coricato. Andava molto presto a letto. Un’ora dopo si è svegliato. Ha detto: “Ho male al cuore”. Hanno chiamato l’ambulanza e un’ora dopo moriva. Penso che sia una buona morte. Conoscevo il suo stato di salute in modo dettagliato, e questi ultimi anni avevo molta paura di tutto quello che poteva succedergli. Poteva essere un secondo cancro, poteva essere una paralisi del linguaggio, della coscienza, e aveva sempre paura di morire d’inverno. Sapeva che tanta gente sarebbe venuta ai suoi funerali e avrebbe fatto freddo se fosse stato d’inverno, ma è successo d’estate, di una malattia di cuore, come ha sempre desiderato. Ecco, adesso non è più qui con noi. È ancora difficile per me parlare di lui al passato, però comunque la sua biografia continua. Questa mostra qui a Rimini è un fatto di questa biografia che continua. Alla mostra internazionale del libro che si farà a settembre a Mosca, terrò una tavola rotonda sull’opera di Solženicyn, parteciperanno i più famosi letterati russi, poi andrò con questa stessa mostra a Francoforte, e la sua biografia continuerà là. A novembre andrò a Rostov, la città dove Solženicyn ha studiato a scuola, poi all’università, e anche là sono pianificati tantissimi incontri. A dicembre, a Mosca, abbiamo organizzato una grande conferenza internazionale, alla quale verranno specialisti da tutto il mondo. Dall’Italia verrà il professor Adriano Dell’Asta con una relazione su Aleksandr Solženicyn. Ecco, la biografia continua. A gennaio ci sarà una grande conferenza a Parigi e la casa editrice Molodaja Gvardija mi ha già affidato la riedizione di questo libro, dove entreranno anche i materiali di questi ultimi tempi, i materiali degli eventi pubblici e spero molto che nel libro che verrà ristampato e corretto l’anno prossimo entrino anche i materiali della mostra di Rimini. È una testimonianza molto importante l’interesse colossale che le persone di vari paesi hanno per la persona, per l’opera di Solženicyn.
Grazie.

MODERATORE:
Volevo semplicemente ricordare a questo proposito che Ljudimila Saraskina, che ha lavorato insieme a noi con la Fondazione Solženicyn per preparare la mostra, è grande amica e di Solženicyn e anche della moglie, Natalia Dmitrievna. E Natalia Dmitrievna, che aveva detto che non sarebbe venuta a Rimini perché non poteva lasciare il marito, che appunto era in condizioni precarie, ci sta seguendo molto da vicino. Io avevo cercato naturalmente di spiegare, nei mesi scorsi quando lavoravamo insieme a Mosca, di cosa si trattava, il Meeting di Rimini, la mostra, eccetera, ma non si riesce mai a rendere totalmente, no? Quando Ljudimila è venuta a Rimini e si è resa conto, ha telefonato subito a Natalia Solženicyna, e le ha detto: “La mostra è grande 1.000 metri quadrati!” E quella ha risposto: “Ma tutto il Meeting è grande 1.000 metri quadrati!”. “No, solo la nostra mostra!” Si sono messe a raccontare, a parlare e ad un certo punto la moglie di Solženicyn è scoppiata a piangere. E lei comunque segue, partecipa, e quello che diceva adesso Ljudimila è proprio vero: è una biografia che continua, e che continua in ciascuno di noi. Adesso lasciamo la parola al professor Dell’Asta. Adriano Dell’Asta è docente della Università Cattolica di Milano e di Brescia, è uno slavista, come avete appunto saputo sarà il rappresentante italiano a questo convegno internazionale che si fa a Mosca – sarebbe stato il 90° compleanno di Solženicyn a dicembre, e invece sarà questo ricordo di lui, questo omaggio a lui -, Adriano Dell’Asta è stato l’ideatore della concezione della mostra e a lui chiediamo brevemente di spiegare quali sono i contenuti e le tappe di questo percorso che abbiamo voluto offrire.

ADRIANO DELL’ASTA:
Grazie Giovanna. L’ideatore… abbiamo lavorato assieme, come sempre. E Giovanna mi ha rubato un pezzettino delle cose che volevo dirvi, come sempre, cioè vi ha detto come è nata la mostra. È nata così, quando è finito il Meeting. Lo ripeto, perché molti l’hanno chiesto in questi giorni: ma come avete fatto, di corsa? No, la mostra non è un elogio funebre. È nata l’anno scorso, l’ultimo giorno del Meeting, quando abbiamo sentito il titolo, ci siamo guardati in faccia e abbiamo detto: beh, ma questa è la mostra di Solženicyn. Perché questa idea, O protagonisti o nessuno, sono i suoi personaggi, è la sua vita, è la storia dell’Unione Sovietica del XX secolo ed è poi la nostra storia. O protagonisti o nessuno. L’uomo c’era, ancora era protagonista là dove il regime aveva cercato di ridurre l’uomo a niente per poterlo dominare, perché questa è la condizione di un regime totalitario per avere il potere, dominare l’uomo, distruggere l’identità, l’io, distruggere il popolo. Là dove si è tentato il più radicale annullamento dell’uomo della sua libertà, della sua dignità, l’uomo c’era ancora. Questi sono i personaggi di Solženicyn, è Matriona, vecchia stupita, sfruttata da tutti, che tutti credono ingenua, che tutti sanno che forse ha qualche tara nel suo passato e poi quando muore si rivela il giusto, senza del quale non vive il villaggio né la città né tutta la terra nostra. Oppure un altro personaggio meno noto, non c’è un racconto dedicato a lui, IU 81 è un personaggio di Una giornata di Ivan Denisovic, noi non sappiamo niente di lui, non sappiamo neppure il nome, segno dell’ultimo annullamento inventato da Sovietici e Nazisti per distruggere l’uomo: ti tolgo il nome, così sei un numero sostituibile. Di IU 81 noi non sappiamo niente, di tutti gli altri personaggi del racconto noi conosciamo nome e patronimico, solo di lui non sappiamo il nome eppure non ci esce più dalla testa questa sua figura, che quando inizia a mangiare, mentre tutti gli altri si buttano sulla scodella comprensibilmente per la fame di un campo di concentramento, lui non si butta sulla scodella ma sta a testa eretta e guarda più in alto di tutte le altre teste. Ecco, questo è il protagonismo che ci mostra Solženicyn nelle sue opere. La grandezza di Solženicyn, quello per cui meritava gli fosse dedicata una mostra assolutamente, non è quello che viene ripetuto in questi giorni di commemorazione e cioè che la grandezza di Solženicyn è stata di aver denunciato i campi di concentramento. Non è affatto esatto, non è esatto, Solženicyn stesso dice che lui non ha mostrato questo; prima del mio Gulag, dice, sono usciti altri libri, dal ’19 al ’37, sono usciti in Occidente più di 55 volumi dedicati al fenomeno dei campi di concentramento.
In Occidente sapevamo tutto, ripeto dal ’19 al ’37, sapevamo tutto! Ci siamo dimenticati, lo abbiamo censurato. Solženicyn è grande non per questo, ma per qualche cosa d’altro, perché ci ha rivelato che nei campi era possibile resistere ai campi. Quando l’uomo non ha più niente di quello che può darsi da solo, quando il regime gli ha strappato tutto quello che viene dalle sue forze, dal suo potere, quando il potere ti strappa tutto quello che il potere ti può dare, allora scopri di esserci ancora, di essere libero, di non essere più determinato dalle circostanze, né dalle tue forze, Solženicyn usa diversi modi per dirlo nelle sue opere, scopri di avere un punto di vista proprio. Lo dice all’inizio dell’Arcipelago Gulag di un grande filosofo, Berdiaev, che era stato arrestato nel ’22: c’era la CECA, tutta la gente del suo giro, dice Solženicyn, aveva ceduto, Berdiaev no, aveva tenuto duro ed invece di subire l’interrogatorio si era messo lui a fare una conferenza a Dzerzhinsky, il grande capo della CECA, per spiegargli perché non poteva accettare il potere sovietico e, diceva Solženicyn, non per motivi politici ma per motivi essenziali. Bene! Solženicyn dice di Berdiaev, perché Berdiaev aveva resistito? Perché Berdiaev aveva un punto di vista proprio. Cos’è il punto di vista proprio? Avere, Berdiaev lo dirà diversi anni dopo, ce lo racconta la moglie, avere dentro di sé qualche cosa che ti rende irremovibile, quali che siano le circostanze esterne. La mia psiche, dice Berdiaev, era distrutta, ma avevo dentro di me qualche cosa che mi rendeva irremovibile. Che cos’è? Sempre la moglie – io ho letto questi diari, ed ho capito quello che diceva Solženicyn, cosa voleva dire il punto di vista proprio – la moglie di Berdiaev dice: “Tu non sei mai solo Nicolaj, perché con te c’è sempre Cristo”. Ecco la libertà, il punto di vista proprio, l’irriducibilità, non di chi è malato di protagonismo, è un’altra la solidità, è di chi ha dentro di sé la misura dell’infinito che lo libera dalla presa di ogni potere finito. Solženicyn questo lo chiama con diverse parole, è un artista, usa le parole con il loro pieno significato, mentre noi riduciamo il valore delle parole, l’artista ci mostra la ricchezza della lingua e allora usa il termine anima, usa il termine immagine di Dio, usa il termine io, usa il termine molto spesso di cuore, perché il cuore è il luogo dell’infinito. L’uomo è irriducibile ad ogni idea che io mi posso fare di lui. Irriducibile all’idea, ecco un altro punto che di Solženicyn non è stato capito, è stato capito poco, male, l’elemento della grandezza. Solženicyn ci ha rivelato a cosa resisteva il cuore dell’uomo, quale fosse il nemico del cuore dell’uomo: l’idea, l’ideologia. Non questa o quella ideologia, Solženicyn è stato spesso trasformato in un ideologo anticomunista, conservatore, gli hanno detto di tutto, è diventato tutto. Solženicyn, nei suoi vari periodi di vita, lo hanno calunniato dicendo che era un po’ tutto, tutto e il contrario di tutto. Per Solženicyn il nemico non è questa o quella ideologia, non è un ideologia cattiva, il comunismo, non è neanche una ideologia buona che è stata applicata male. Quante volte si dice ancora: ma no, era una ideologia buona, poi l’hanno applicata male, perché? Perché i russi sono cattivi, asiatici, bibi e bibò. Bibi e bibò in questo caso è accademico, perché dicono stupidaggini, perché nell’ideologia, questa o quella, è l’ideologia in quanto tale il nemico dell’uomo, cioè che ci sia un idea, quale che sia, che vale più di questo uomo reale. Che non ci sia più questo uomo reale, ciascuno di noi irriducibile, ma che ci sia la rappresentazione che me ne faccio, che non coincide con quello che io voglio ed allora devo disfarmene, non è più la persona che hai davanti ma il nemico oggettivo. Non importa quello che ha fatto, quello che pensa, no! Quello che potrebbe pensare. È che contrasta la mia invenzione di un mondo perfetto, ed allora la elimino. Il nemico va schiacciato come se fosse un insetto nocivo, come se fosse un insetto, perché nessuno possa più sospettare che non è un insetto ma un uomo reale. Guardate, insetto nocivo è un termine che Lenin si è inventato per parlare dei suoi nemici: se è un insetto si schiaccia, se è un sottouomo si schiaccia. Un popolo, dice Solženicyn inventando un’altra di queste altre sue formulazioni irripetibili, un popolo così è stato trasformato in nemico di se stesso. In questa maniera Solženicyn irriducibile ad una qualche ideologia, anche giusta, rivela il cuore dell’ideologia totalitaria, quello che, ripeto, ancora oggi noi non abbiamo capito fino in fondo, che non è una forma di potere, ma qualcosa di più radicale. La forma di potere nasce da qualcosa di più radicale, da che cosa? Dalla menzogna. Ecco perché abbiamo intitolato la mostra: “Vivere senza menzogna” e noi non facciamo un elogio funebre. Però della grandezza di Solženicyn bisogna anche dire altre cose, oltre quelle che abbiamo sentito e visto. Quando lo arrestano ha preparato un documento in caso di arresto e voi cosa credete che mandi fuori come documento, in caso di arresto? Una petizione perché lo liberino, perché intervenga il mondo? No! Manda fuori un documento in cui dice che il modo per resistere al regime, ciò che è in fondo il contenuto del suo lavoro, è vivere senza menzogna. La caratteristica di un regime totalitario è esattamente questa: la menzogna. Non la menzogna classica, quella alla quale siamo abituati, l’Italia è diventata maestra della menzogna machiavellica. Una menzogna machiavellica: io dico una menzogna però so cosa è vero e cosa è falso, dico il falso perché questo mi è utile. No, la menzogna totalitaria è quella dove non c’è più vero o falso, è al di qua del vero e del falso. Questo ha scoperto Solženicyn e questo ci ha fatto vedere. La menzogna non finalizzata alla conquista o al dominio della realtà ma alla distruzione della realtà. Tu perdi i punti di riferimento, perdi la lingua comune con il tuo simile, per cui non c’è più niente, sei solo davanti al potere che ti ha tolto i tuoi simili, che ti ha tolto la lingua, che ti ha tolto i punti di riferimento. Nessun punto di vista proprio, nessuna solidità perché non c’è più niente sul quale poggiare. Questa non è una dimensione politica, ma qualche cosa di più profondo. I morti a decine di milioni del nostro ventesimo secolo non dipendono dal fatto che i sistemi totalitari, i due grandi sistemi totalitari, nazismo e comunismo, hanno avuto a disposizione degli strumenti di morte mai visti prima, è perché i due sistemi miravano alla comune distruzione dell’uomo. C’è un arma nuova che non vuole semplicemente toccare il corpo, vuole l’anima, non vuole colpire il nemico reale, ma il nemico oggettivo. Ripeto, è una formulazione di Lenin descritta tante volte nei testi di Solženicyn: “Punire fino alla pena di morte colui che può oggettivamente aiutare la borghesia mondiale”. È del 1922, non dopo, non sotto Stalin. È una lettera, non una lettera segreta, la conoscevamo, è pubblicata nelle opere di Lenin. 1922, lettera al Commissario del Popolo per la giustizia Dimitrij Kurskij, che poi fu anche ambasciatore in Italia e lo accogliemmo generosamente. “Punire con la pena di morte chi aiuta oggettivamente o può oggettivamente aiutare la borghesia mondiale” è una formulazione, sulla quale nei testi abbiamo gli…. empasse…, dicono: ci sono le varianti, quindi non gli è venuta di getto, era arrabbiato, ce l’aveva con qualcuno; no, ci ha pensato a lungo e Solženicyn ce lo fa capire, da questo dipendono i milioni di morti dell’ideologia. I malvagi di Shakespeare erano arrivati a qualche decina di cadaveri, perché? Perché non avevano l’ideologia. Quello che quando ammazzi la gente ti fa sembrare bravo, buono, che fai il bene, questo è il punto, ma non è stato capito. Io qui ho l’impressione che Solženicyn, molte volte, non sia stato letto. Nell’Arcipelago Gulag, nel primo volume, c’è un passo in cui ad un certo punto dice: “Chiuda pure il libro a questo punto, chi si immagina una qualche rivelazione politica”. Sarebbe così semplice, se da una parte stessero uomini neri malvagi e dall’altra uomini bianchi buoni, ma la linea che separa il bene dal male passa all’interno del cuore di ogni uomo, ed anche all’interno del cuore di ogni uomo è una linea mobile, è puro caso se i boia sono loro e non noi. È il libro più politico l’Arcipelago Gulag, è la memoria di come si può resistere e davvero è la denuncia dei campi. E nel libro più politico ti viene a dire questo e dopo hai ancora il coraggio, o l’insipienza, non lo so, di dire che è un testo di uno che fa ideologia. Non è possibile! La forza di Solženicyn non è la politica. Ha vinto il regime e Glucksmann l’ha detto bene in un suo intervento pubblicato sul Corriere, ha vinto il regime perché? Non perché aveva una idea più interessante, più intelligente, ma perché è uscito dalla logica del regime, non ha opposto un idea più ricca contro un idea povera. La tentazione che spesso si è avuto nei confronti del comunismo è di contrapporgli un idea, un idea più ricca contro un idea povera, ma così si accetta quella che è la logica del regime, che quello che conta è l’idea. La tua interpretazione della realtà conta più delle persone reali, così l’ideologo ha ragione per sempre, ci sarà sempre una nuova idea più ricca, in nome della quale torturare gli uomini veri. Il punto invece, quello per cui Solženicyn è stato grande, è un altro, è la realtà infinita dell’uomo contro le idee, anche le più perfette e le più simpatiche.
Solženicyn non può essere capito, l’arte di Solženicyn non può essere capita da persone che non hanno capito che il primato è quello della realtà, perché l’arte è questo, non è una vaga idea, è la realtà che entra nell’eterno. Ecco, Solženicyn ci ha richiamato a questa realtà, una realtà che non possiamo dominare, che non creiamo, ma ci è donata. Nell’intervento che abbiamo visto questo è commovente, di una chiarezza impressionante, perché lo dice e per il modo in cui lo dice. La propaganda e le letture superficiali, diciamo, ci hanno convinto che Solženicyn sia un moralista, un profeta adirato, che viene a parlarci e a darci una lezione morale ed ad insegnarci come stare al mondo, con i toni del manicheo che divide il mondo in buoni e cattivi, i toni del nazionalista. Quante volte è stato detto, negli ultimi anni, nazionalista arrabbiato, manicheo. Ma dove sarà mai il manicheo, ma l’hanno letto? Il profeta adirato, la dolcezza di questo… vabbè l’abbiamo visto tutti. Il nazionalista, andate a rivedervelo se vi è scappato, ad un certo punto parla dell’orgoglio e mette l’orgoglio personale allo stesso livello del peccato, dell’orgoglio nazionale e statale e lo getta via come un unico peccato. L’orgoglio dello scrittore, l’orgoglio nazionale e l’orgoglio statale, come un peccato non sociale, l’orgoglio nazionale, l’orgoglio statale non è un peccato sociale o di partito o collettivo fatto da altri, no! È mio. Più chiaro di così si muore, e poi vengono a dire Solženicyn nazionalista, certo! Amava il suo paese e perché, bisogna odiare il proprio paese, chi l’ha detto? E potremmo andare avanti, ma il tempo… Giovanna mi guarda, finisco.
Un ultimo punto. C’è un ultimo punto che vorrei prendere da questa intervista e da quella più grande, andate a vederla nella mostra, c’è un salottino con l’intervista piena. Boia, un boia poteva diventarlo chiunque, anch’io dice Solženicyn, il problema è che non tutti lo sono diventati. Quando Solženicyn in questa intervista più lunga parla, ad un certo punto, di una delle rivolte avvenute in uno dei suoi ultimi campi di concentramento, pronuncia una condanna assoluta; cioè la verità, Solženicyn, non la sbandiera mai come un moralista, ma la verità non viene mai meno, il giudizio non viene mai meno, il male è nel cuore dell’uomo ma questo non toglie che si chiami male. La verità non è sbandierata come un principio astratto. In questo secolo, nel secolo scorso, abbiamo sofferto tremendamente per le idee sbandierate come principi astratti, ma la verità non può essere ignorata, alla verità non può rinunciare chi è passato attraverso i campi di concentramento, perché sa che è quello che vuole il potere, che non ci sia più verità. Come dirla allora questa verità? Riscoprendola come non fatta da mano d’uomo. Questa espressione ricorre tantissime volte nelle opere di Solženicyn, la verità non è fatta da mano d’uomo ed è un termine tecnico della tradizione della Chiesa di oriente: non fatto da mano d’uomo è l’infinitamente grande della natura, non fatto da mano d’uomo è l’infinitamente piccolo della natura, il pulcino di anatroccolo che puoi schiacciare, ma non puoi riprodurre. L’infinitamente grande del cuore dell’uomo. Bisogna leggere i testi: un’esperienza misteriosa che non finisce mai, sorprendente, affascinante, l’anima, il cuore sono, dice Solženicyn, raccontati sempre come un mistero. È il paradosso, il mistero di queste nullità che diventano protagonisti. Un paradosso, un esperienza misteriosa che però è credibile, è affascinante, merita di essere ascoltata, è ragionevole proporla ed ascoltarla perché è verificata. Quando Solženicyn deve enunciare una verità nei suoi testi, usa il proverbio. Cioè non parla da sé, non formula l’idea che gli è venuta in testa o che è venuta in testa ad un genio, usa il proverbio. Cos’è il proverbio? Il proverbio è l’esperienza di un popolo verificata dalla tradizione, questo è il magistero autentico. Quando Benedetto XVI doveva andare a pronunciare il suo discorso alla Sapienza, si è presentato esattamente così, non ha nascosto di essere Maestro di verità, ma ha presentato la verità esattamente in questo modo, non un discorso astratto ma l’esperienza, una esperienza verificata dalla tradizione. Un grande uomo che non parla da sé. Giovanna finisco subito.
L’ultima cosa che volevo dirvi: uscendo dalla mostra vedrete sul muro 227 dei nomi, sono i nomi di coloro che hanno aiutato Solženicyn a scrivere l’Arcipelago Gulag, quelli che gli hanno dato i materiali, le testimonianze e sono lì perché in uno degli ultimi incontri organizzativi, la moglie di Solženicyn ci ha fatto sapere che era suo desiderio che quei nomi venissero conosciuti in Italia. Per lungo tempo sono rimasti segreti, non li ha mai pubblicati nelle prime versioni del Gulag, per ovvi motivi, per proteggerli. Ecco, allora, il grande uomo, il protagonista è colui che ci ha lasciato, come una sorta di ultima volontà, di capire che quello che aveva fatto, lo aveva fatto perché aveva dietro il popolo e questo per il Meeting è significativo. Grazie.

MODERATORE:
Io credo che si capisca così, attraverso questa densa, ma così appassionante relazione di Adriano Dell’Asta, il motivo per cui il famoso teologo Hans Urs von Balthasar una volta aveva detto che se avesse dovuto salvare in un naufragio un solo libro, in tutto il ventesimo secolo avrebbe salvato l’Arcipelago Gulag di Solženicyn. Quindi evidentemente non un libro politico, non l’ennesimo smascheramento dei misfatti di un determinato sistema politico, ma un libro sull’uomo. E quello che ci hanno detto i nostri due amici, Ljudimila Saraskina e Adriano Dell’Asta è proprio questo: un uomo che è testimone di una tradizione, di un popolo, un uomo che ha partecipato del male, dell’inganno anche del suo popolo; lui stesso diceva: “Io per sette, otto anni sono stato uno stupido”. Anche lui, anche il giovane Solženicyn quindi, diciottenne, ventenne, per qualche anno era stato prigioniero dell’ideologia. Ma ha avuto il coraggio di guardare in faccia la realtà, come dice lui in quel bellissimo appello, “vivere senza menzogna”, che lui butta fuori nel ’74, quando viene scoperto il male. Pensate la drammaticità: viene scoperto l’Arcipelago Gulag perché girava nel Samizdat e così via, ma la sua dattilografa si lascia sfuggire l’ultima copia, dopo cinque giorni e cinque notti di interrogatori continuativi rivela i nascondigli, e la polizia, il KGB mette le mani su l’Arcipelago gulag. La disperazione di questa donna è talmente forte – lei pensa “Ho tradito Solženicyn, ho messo in pericolo e forse ho distrutto irrimediabilmente il lavoro di Solženicyn e di tutti questi invisibili che l’hanno aiutato” – che si suicida. E allora a Solženicyn non resta altro che dire la parola d’ordine, perché aveva già dato il manoscritto, per fortuna era già riuscito ad arrivare in Francia, e dice “fuoco!”, cioè “pubblichiamolo in Francia”, ora o mai più, altrimenti si perderà. Il libro esce, l’Arcipelago Gulag esce in Francia, nel ’73; Solženicyn viene arrestato quel dodici Febbraio del 1974 in cui Ljudimila faceva il suo primo giorno di lavoro. E esce nello stesso giorno “Vivere senza menzogna”, in cui Solženicyn dice: “Ecco, io adesso sono felice, perché vivendo senza menzogna finalmente ho potuto raddrizzarmi, ho potuto recuperare la mia statura umana e recuperare mia posizione naturale, vivere da uomo”. Io credo che questo è proprio l’invito per voi, per ciascuno, per cominciare a conoscere questo uomo vero, che abbiamo oggi avuto la fortuna di poter cominciare a incontrare. Grazie a tutti.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

26 Agosto 2008

Ora

11:15

Edizione

2008

Luogo

Sala Neri
Categoria
Incontri