VIVERE DI PIÙ, VIVERE MEGLIO? Il welfare al bivio

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A cura di Fondazione per la Sussidiarietà.
Mario Abbadessa, senior Managing Director & Country Head Hines Italy; Gian Carlo Blangiardo, professore di Demografia, Università Milano Bicocca; Mauro Billetta, parroco a Palermo; Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli; Monica Poletto, coordinatrice Tavolo Tecnico legislativo Forum Terzo settore. Conducono Enrico Castelli e Irene Elisei

La seconda puntata del Talk mette in luce il contributo possibile del Terzo settore nella realizzazione dei servizi di pubblica utilità alla persona. La collaborazione tra pubblico e privato non profit, con iniziative legate al territorio e alla comunità, sono già una risorsa fondamentale da indagare.

Con il sostegno di Hines

VIVERE DI PIÙ, VIVERE MEGLIO? Il welfare al bivio

VIVERE DI PIÙ, VIVERE MEGLIO? IL WELFARE AL BIVIO

A cura di Fondazione per la Sussidiarietà.

Giovedì 22 agosto 2024

Ore 17:00

Sala Gruppo FS C2

Partecipano:

Mario Abbadessa, senior Managing Director & Country Head Hines Italy; Gian Carlo Blangiardo, professore di Demografia, Università Milano Bicocca; Mauro Billetta, parroco a Palermo; Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli; Monica Poletto, coordinatrice Tavolo Tecnico legislativo Forum Terzo settore.

Conducono:

Enrico Castelli e Irene Elisei

 

Elisei. Buon pomeriggio e ben trovati al secondo appuntamento con il talk, evento promosso dalla Fondazione per la Sussidiarietà, qui al Meeting di Rimini. Quest’anno ci concentriamo sul futuro del welfare italiano. Il nostro è un ciclo di tre incontri; abbiamo cominciato nella giornata di ieri con le emergenze, le necessità degli anziani. Oggi ci concentriamo invece sui bisogni di altre famiglie, quelle che devono occuparsi dei disabili o della cura dei bambini. Non solo, come accennava ieri anche Monsignor Paglia, vogliamo anche guardare a come ripensare i nostri luoghi, le nostre città e quindi a come costruirle. Un bentrovato anzitutto da me e da Enrico Castelli.

Castelli. Piacere, ciao Irene, buon pomeriggio a tutti e a coloro che ci stanno seguendo sul sito Il Sussidiario.

Elisei. Andiamo a presentare i nostri ospiti.

Castelli. Qui con noi Gaetano Manfredi, sindaco della città di Napoli. Buongiorno, signor sindaco.

Manfredi. Buongiorno.

Castelli. Mario Abbadessa ritorna al Meeting, è un ospite abbastanza conosciuto qui nel popolo del Meeting, numero uno in Italia di Hines, uno dei maggiori gruppi immobiliari che opera in Italia. Grazie di essere qui. Fra’ Mauro Billetta, un personaggio che conoscerete durante questa trasmissione fantastica, protagonista della rinascita di un intero quartiere a Palermo. Buongiorno Fra’ Mauro.

Billetta. Pace e bene a tutti

Castelli. Monica Poletto, una vita trascorsa nel Terzo Settore e oggi coordinatrice del Tavolo Legislativo del Forum del Terzo Settore, vedremo insieme di cosa stiamo parlando. Buongiorno anche a lei. Abbiamo in collegamento il prof. Blangiado docente all’Università Bicocca, Presidente dell’Istat, esperto in demografia, e partiamo proprio dai dati demografici per introdurci nell’argomento di oggi. Buongiorno, professore.

Elisei. Arriviamo da lei tra un istante. Noi vogliamo partire appunto dai dati dell’Istat perché c’è un’emergenza che la politica sembra non voler guardare in questo momento, eppure ci sono dei dati. Pensiamo alle lunghe liste di attesa in ospedale, penso che sia esperienza comune, piuttosto che alle esigenze dei posti nei nidi, che spesso non bastano in tante zone del nostro Paese. Ecco, non sono problemi sporadici o locali, ma sono spie di un trend che inizia a essere piuttosto evidente. Ci sono i dati dell’Istat che lo confermano. Andiamoli a guardare insieme. Partirei dal primo dato, che è quello relativo alle nascite nel nostro Paese. Testimonia il cosiddetto inverno demografico: meno di 400 mila nascite lo scorso anno, un calo del 3,6%. 1,2 questo è il numero dei figli per donna nel 2023 nel nostro Paese. Ancora, gli over 65 in Italia sono più di 14 milioni; anche in paragone con altre realtà europee, dalla Germania alla Francia alla Spagna, abbiamo sicuramente una percentuale molto più alta rispetto agli altri Paesi nel nostro continente. E ancora, vogliamo mostrarvi un terzo dato che riguarda invece l’occupazione, in particolare la prospettiva nei prossimi vent’anni, con un calo di 6 milioni di unità nella forza lavoro, che dovrebbe appunto arrivare a 30 milioni. Sono dati oggettivi che testimoniano quell’emergenza che vogliamo rimettere al centro oggi. Professore Blangiardo, le chiedo: con questi numeri, il welfare italiano così come lo conosciamo fino a quando sarà sostenibile?

Blangiardo. Questa è una domanda difficile, alla quale credo nessuno sia in grado di dare una risposta. Quello che i dati ci comunicano, i dati che avete presentato, e altri che si potrebbero tranquillamente ricavare. Io spesso cito il discorso delle persone che hanno almeno 90 anni, che oggi sono circa 850 mila e che nell’arco di 40 anni arriveranno a superare i 2 milioni, 2 milioni e 200 mila persone con almeno 90 anni in un paese che va invece a perdere popolazione. Quindi è evidente che gli scenari che vanno configurandosi ci lanciano delle indicazioni molto chiare, e cioè viviamo una situazione di estrema fragilità, strutturale per via dell’effetto di invecchiamento, familiare, perché non dimentichiamo che è stato ricordato il discorso delle nascite, ma evidentemente i pochi nati, i figli unici, la situazione in cui mancano i fratelli, i collegamenti, le reti familiari, fanno sì che accanto al processo di invecchiamento ci sia una famiglia sempre più debole nell’essere in grado di aiutare, di dare dei welfare familiari, cosa che è sempre stata centrale e fondamentale nel nostro Paese. Ecco, io credo che questi siano due elementi importanti, a cui si aggiunge un terzo, anche questo un elemento di criticità importante, che sono le risorse. Ossia, per come stanno andando le cose, avete ricordato l’andamento della popolazione in età lavorativa, da cui la forza lavoro, da cui quindi la capacità di produrre, di avere risorse, di avere PIL, di distribuire redditi. Ora, tutto questo, se va nella direzione in cui sta andando, perderemo nell’arco di 40 anni qualcosa come quasi 10 milioni di potenziali lavoratori e la stessa forza lavoro nei prossimi 20 anni scenderà di 5 milioni di unità. Quindi, o aumenta la partecipazione al mercato del lavoro, e i margini tutto sommato ci sono nel nostro Paese, o se no ci troveremo effettivamente, inevitabilmente, a dover affrontare un calo del PIL pro capite che diminuisce del 18%. Capite cosa vuol dire una cosa del genere? In soldoni sono 6.000 euro di PIL pro capite che spariscono. Evidentemente, dietro a tutto questo c’è una crescente difficoltà e una mancanza di mezzi e risorse per poter far fronte. Quindi, diciamo che la risposta, quando ci si trova in questa situazione, non può che essere quella di attivare il resto, cioè le reti di altra natura, funzione sussidiarietà, attivare quelle situazioni nelle quali in qualche modo tutti si rimboccano le maniche e si danno da fare per cercare di risolvere un problema che al momento, non faccio presente, stiamo immaginando degli scenari futuri. Fra qualche anno vivremo questi scenari futuri e quindi dobbiamo essere in grado di arrivarci in modo assolutamente preparato per non dire “non lo sapevamo”. La statistica, la demografia fa dire: guardate ragazzi, che le cose vanno così, poi potete dare retta o meno, però vi diciamo già oggi quale sarà, ahimè, il possibile futuro che andremo a incontrare.

Castelli. Grazie professore, lei ha toccato un po’ un nervo scoperto, proprio questo cercheremo di approfondire insieme. Sindaco di Napoli, dott. Manfredi, allora, le risorse sono poche, complicate, viviamo un periodo, una stagione politica abituata a discutere del presente, quasi del domani e neanche del dopodomani. Per uno come lei che è chiamato a gestire una città complicata come Napoli, cosa vuol dire tener conto di queste dinamiche?

Manfredi. Sicuramente oggi noi abbiamo una trasformazione della situazione sociale del Paese che rapidamente sta cambiando rispetto a quel che è stato il passato che noi conoscevamo. Prendiamo anche delle decisioni partendo da luoghi comuni, dalla mancanza di una conoscenza veramente dettagliata dei problemi e delle necessità dei vari territori, ma anche delle varie realtà all’interno delle città. Io porto un esempio, guardando al tema per esempio degli asili nido, cioè quindi delle scuole per l’infanzia. Napoli è una città che è un po’ una città-mondo dove all’interno c’è tutto il contrario di tutto e le differenze di reddito, di livello di istruzione, di occupazione tra i quartieri della città sono enormi. Tra Scampia e il Vomero c’è una differenza superiore a quella che è la differenza tra il Sud e il Nord Italia. Quindi, se noi non siamo in grado di cogliere queste differenze, alla fine non riusciamo neanche a dare delle soluzioni. Se noi guardiamo l’offerta degli asili nido nella nostra città, paradossalmente, nei quartieri dove ci sono meno bambini, che sono ovviamente ad esempio i quartieri borghesi dove quindi c’è maggiore occupazione femminile, c’è una enorme richiesta di asili nido. Nei quartieri periferici, dove invece ci sono più bambini, ma dove il tasso di occupazione delle donne e delle mamme è estremamente basso, alla fine la domanda di asili nido è estremamente più bassa e noi ci trovavamo con asili nido con posti vuoti perché non c’era neanche la domanda. Quindi, utilizzare lo stesso metodo al Vomero e a Scampia è sbagliato perché le esigenze sono di due comunità completamente diverse, con esigenze completamente diverse. Come noi abbiamo operato? Al Vomero aumentando l’offerta di asili nido e quindi cercando ovviamente di creare più posti e dare una risposta a quelli che erano i bisogni di una comunità di mamme lavoratrici che hanno la necessità di avere asili. A Scampia abbiamo dovuto non aumentare l’offerta ma costruire la domanda, cioè fare in modo che le persone portassero i bambini all’asilo nido, che si costruisse questa necessità coinvolgendo le famiglie, coinvolgendo le mamme, facendo un’azione di welfare che fosse rivolta alla famiglia, quindi guardando anche il problema della casa, il problema della formazione dei genitori e costruendo quindi degli esempi come la fondazione dei Figli di Maria che noi abbiamo a San Giovanni a Teduccio, dove oltre a fare l’educativa territoriale per i bambini e per i ragazzi, facciamo anche la formazione per le mamme dei ragazzi che vengono nello stesso luogo, fanno dei corsi, delle attività sociali, fanno un’attività di inserimento nel mondo del lavoro e quindi alla fine questa diventa un’operazione di welfare rivolta alla famiglia, non solo al bambino. Questo ci fa capire che un approccio standard non è possibile nel Paese, ma non è neanche possibile in una città, perché bisogna conoscere con granularità quelli che sono i bisogni delle varie comunità. Ad esempio, la presenza di migranti, di comunità diverse che hanno abitudini e esigenze diverse: bisogna conoscere e avere un sistema di offerta che guardi alle necessità e ai bisogni così dettagliati, facendo ovviamente un’azione pubblico-privato insieme al terzo settore, lavorando su un’offerta che sia un’offerta veramente integrata e un’offerta anche molto mirata. Solo in questa maniera si riesce a dare una risposta concreta.

Elisei. Allora, mi permetta di farvi vedere un altro esempio di risposta che, come lei dice, non è standard, ma è addirittura un esempio di risposta che ha fatto storia. È una storia lunga 50 anni che è diventata anche un caso di studio nelle università e riguarda proprio gli asili nido. In questo caso andiamo in Emilia Romagna, perché se pensiamo all’inverno demografico, così come viene definito, tra le problematiche per le giovani coppie c’è proprio quella della mancanza di servizi adeguati a sostenere anche i bambini. Pensiamo alla mancanza di posti nido, diciamo anche al Sud, molto è stato fatto, tanto è stato investito, eppure in molti casi resta ancora un servizio molto caro. Allora, vi facciamo vedere questo esempio, che è un esempio virtuoso di collaborazione pubblico-privato, a partire proprio dagli asili nido.

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Quando si entra nella scuola Diana, entri nella piazza. La piazza è il cuore della scuola, quella su cui affacciano tutte le sezioni, su cui affacciano i grandi atelier, i cavedi interni, la cucina interna, le zone pranzo. Una scuola aperta nel 1970, voluta appunto dal professor Loris Malaguzzi, in accordo con l’amministrazione comunale, proprio all’interno, nel cuore della città e dei suoi giardini pubblici. Fondamentale è l’ambiente dentro il nostro progetto educativo, un ambiente che diventa contesto di apprendimento. Siamo l’esperienza educativa di una città che nasce nel 1964 con l’apertura della prima scuola comunale, gestione diretta da parte del Comune, ed è arrivata fino ai giorni nostri sviluppando un progetto 0-6, che quindi tiene insieme nidi e scuole dell’infanzia.

Il Comune investe circa il 12,7% del proprio bilancio corrente a favore delle scuole e dei nidi. Progressivamente ha messo insieme anche più soggetti, per cui una grande centralità della parte pubblica del Comune nella gestione diretta di 21 scuole dell’infanzia e 12 nidi, e in più tutto un insieme di gestori del privato sociale, della cooperazione, che hanno costruito insieme al Comune, che ha avuto un ruolo di governance in questo sistema, una rete di servizi estesi che oggi dà la possibilità a più del 58% dei bambini nella fascia 0-3 di frequentare un nido d’infanzia. Per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, ormai abbiamo raggiunto una scolarizzazione piena. Se la parte pubblica investe energia e risorse, insieme alla parte pubblica, c’è una compartecipazione del privato che si fa carico di dare una risposta complessiva verso le famiglie e verso la città. Questo sistema è in equilibrio. Indubbiamente, negli ultimi anni abbiamo assistito a una forte domanda, con un aumento esponenziale delle domande di nido. La maggior parte delle famiglie si è assestata ormai nella fascia mediana, per cui il costo del nido è di circa 200 euro al mese.

Pubblico e privato dunque insieme. Oltre a materne e nidi a gestione diretta del Comune, a Reggio Emilia esistono scuole d’infanzia statali, quelle gestite in appalto dalle cooperative, e poi la grande rete delle scuole FISM, 75 in tutta la provincia, la Federazione Italiana delle Scuole Materne, dove l’educazione guarda ai valori della Chiesa Cattolica.

Siamo a Cavazzoli, una frazione che ospita circa 1.200 abitanti. Dal 2014 è nato questo servizio educativo che si chiama Scuola dell’Infanzia Nido Maria Vergine Madre. È un polo d’infanzia perché accogliamo i bambini dai 12 mesi fino ai 6 anni di età, e questo permette una continuità rispetto agli spazi e ai tempi, andando molto incontro anche alle necessità delle famiglie. Abbiamo delle coordinate educative che tengono dentro un’esperienza di collettività, di comunione. Viene messo sempre al centro il confronto e il dialogo per poter davvero garantire all’interno dei nostri servizi quella crescita in umanità di tutti quei valori evangelici che fanno parte dei nostri servizi di ispirazione cristiana, come l’accoglienza incondizionata verso tutti. Le scuole sono scuole di tutti e in questo ci sentiamo a casa anche noi, e in questo mi sento a casa anch’io.

Castelli. Come mi diceva il professor Blangiardo, da soli non si va da nessuna parte, bisogna mettersi d’accordo, dialogare e collaborare. Poletto, voi, la Fondazione per la Sussidiarietà, state preparando il consueto rapporto annuale. Quest’anno un capitolo specifico è dedicato al welfare territoriale. Quello che abbiamo visto può essere indicato come esempio di questo welfare territoriale?

Poletto. Buongiorno a tutti. Evidentemente sì, è un esempio peraltro bellissimo. Devo dire che, per parlare proprio di questo tema, di questa collaborazione, mentre pensavo e ascoltavo anche il professor Blangiardo, ho pensato che forse qualche altro dato, che ci terrorizzi un po’ di più, può essere utile. Mi ha molto impressionato, per esempio, leggere il recente rapporto al Parlamento sulla situazione delle dipendenze in Italia: chi di noi l’ha letto ha visto che il 22% dei minori scolarizzati ha provato una sostanza nel 2023. Oppure il dato della povertà, che ormai è diventata in Italia sistemica. Perché dico queste cose parlando di collaborazione? Perché chi di noi lavora nel sociale si rende conto di una realtà che sinceramente ci sta surclassando. C’è veramente un tema di problematiche sociali nelle grandi città, ma ovunque, che è immenso. È immenso ed è anche un po’ nuovo. Il dopo pandemia ci ha fatto trovare i ragazzi, ci ha fatto scoprire, oltre agli anziani, come abbiamo visto dopo, anche la condizione di tanti ragazzi, eccetera. Perché dico questo mentre parlo, mentre affronto il tema della collaborazione pubblico-privato? Innanzitutto perché sono impressionata e ammirata da quello che c’è stato trasmesso dal sindaco di Napoli, che ringrazio. È evidente che, a fronte di un bisogno che ci supera e che fino in fondo non conosciamo perché ogni volta che leggiamo un dato diciamo “ma è possibile?”, poi ti trovi a dover accompagnare un ragazzo che ha problemi di dipendenza e ti accorgi che a Milano ci sono sette mesi di attesa in una comunità, e inizi a capire che il problema è vero. A fronte di questo è evidente che il welfare erogativo non serve, il welfare che ti dà solo il servizio non basta, innanzitutto perché la persona non è un singolo bisogno. La persona è una persona con tanti desideri e tanti bisogni, per cui il vero tema è: chi se ne prende cura? Chi se ne prende cura interamente, visto che le famiglie sono sempre meno, le comunità sono frammentate, e c’è tutta la scommessa della rigenerazione di una comunità. Anche il rapporto pubblico-privato ha questa forma. Quello che mi sento di dire è che dobbiamo esserci noi tutti per quello che possiamo dare, il terzo settore non deve intervenire a metà partita. Il tema adesso è di programmare e progettare bene, per cui di leggere insieme i bisogni. La cosa veramente importante è mettersi intorno a un tavolo e dire: cosa sta succedendo? Tu da dove sei e dove ti è chiesto di essere? Cosa stai leggendo e come possiamo fare fronte insieme? Questo “insieme” riguarda evidentemente il pubblico e il privato più che mai, in un’alleanza dettata da uno scopo comune, che è il bene della gente che ci è stata affidata e, in parte, di tutti. Avrei finito, perché mi avete terrorizzata con i tempi.

Elisei. Benissimo, poi torneremo su questo.

Castelli. Hai un bonus per il dopo, no?

Elisei. Prima del bonus, Monica, io riparto proprio da una cosa che riferivi: il fatto di sottovalutare spesso alcuni bisogni, a partire dalla povertà, dalle dipendenze. Sicuramente ci sono esigenze nuove e c’è bisogno di una risposta nuova da parte degli enti pubblici e degli enti privati. Pensiamo quindi alle città; vorrei introdurre questo tema: nuovi luoghi da progettare e da costruire. Abbadessa, vengo da lei perché c’è un progetto che è in fase di realizzazione in questo momento a Milano, un progetto di rigenerazione urbana. Le chiedo di che cosa si tratta e in che modo avete tenuto conto dei cambiamenti nei bisogni della popolazione.

Abbadessa. Sì, grazie. Non vorrei abbassare il livello del panel perché abbiamo dei relatori super, anche in collegamento, e dei temi di alto profilo. Io, nel mio piccolo, faccio l’investitore e l’imprenditore con dei ritorni finanziari, e con un sottostante immobiliare. In inglese il nostro lavoro si chiama “real estate,” che significa reale, costruire delle cose molto pratiche. Io sono, e noi siamo convinti, che possiamo parlare di tutti i dati demografici che abbiamo letto e di tutti i sistemi di welfare, i migliori, i più sofisticati, ma questi rimarranno sempre dei contenuti fini a se stessi se non c’è un contenitore. Quindi mi dispiace ricondurre il dibattito a un tema molto pratico e molto terra terra, ma se non c’è il contenitore, e nel nostro caso sono gli immobili, quindi le soluzioni abitative, tutti questi discorsi e contenuti rimangono sterili. Lo so che è molto triste perché è una cosa molto spicciola, si parla di denaro e di costruzioni, e chi fa il mio lavoro, soprattutto a Milano, è un po’ come i tassisti: sono la categoria più odiata al mondo, poi se uno parla con il tassista capisce tante istanze che loro hanno. Questo per dire che oggi in Italia dobbiamo essere molto onesti con noi stessi. Prima era un’esigenza, oggi è diventata un’emergenza abitativa. In questo momento c’è un’assoluta emergenza abitativa. Si può parlare di tutto, ma se non ci sono le abitazioni, quindi l’elemento abitativo per lo studente, per l’anziano, per le famiglie, per i giovani professionisti, è impossibile parlare di tutto. Questa slide qui, che indica un meno 17% di forza lavoro, significa, e non entro nel merito della politica, che noi dobbiamo importare forza lavoro di tutti i livelli. Se queste persone non hanno un’abitazione sostenibile dove andare a vivere, non verranno mai, quindi l’Italia è molto meno competitiva. Questo è un tema molto più forte di qualsiasi altro. È vero che il dibattito sui giornali, sulla politica, è sempre più orientato a limitare la domanda, a limitare i turisti, a limitare gli studenti, a contenere le grandi città, quando invece la domanda, ho studiato come tutti, ma non c’è bisogno di fare la Bocconi e andare a studiare in America, la domanda è inorientabile, è inarrestabile, è come un fiume: posso creare degli argini, delle dighe, ma se la domanda è quella degli studenti che vanno nelle grandi città, o dei turisti che vanno nelle grandi città, o c’è l’inverno demografico. A parte che l’inverno demografico prima si riferiva a quelli da 65 anni in su, io cambierei questa definizione, parlerei di “silver,” e metterei “gold” a 65 anni, perché oggi l’anziano di 65 anni è assolutamente una risorsa e deve essere in città, non deve essere fuori dalla città. È per questo che il nostro progetto, che invito tutti a visitare (abbiamo una mostra proprio di fianco), riguarda il recupero dell’ex ippodromo di Milano, dove correvano i cavalli. Noi stiamo realizzando 800 unità, tutte in affitto, di cui 300 dedicate esclusivamente agli anziani, con connotati specifici: scale, bagni, servizi dedicati esclusivamente all’anziano. Quindi quello che cerchiamo di inculcare in tutto il Sud Europa, ma soprattutto in Italia, e mi spiace essere molto pratico rispetto a quanto detto prima, è che questa è una grande opportunità di business e deve essere così, perché se è solo mecenatismo, se è solo solidarietà, non è perseguibile su larga scala e nel lungo termine. Deve partire chiaramente da una sensibilità, ma posso assicurarvi che, per esempio, noi non facciamo appartamenti in vendita, facciamo esclusivamente unità in affitto. A Milano abbiamo 5.000 appartamenti, tutti in affitto, e 4.500 posti letto; 500 sono a Firenze e il resto sono tutti a Milano. Sono tutti in affitto e hanno una redditività magari più bassa, ma più costante nel lungo termine. Dobbiamo cercare di unire il welfare all’investitore privato, che deve avere un ritorno legittimo, deve essere incentivato ad avere una ricaduta sociale, chiaramente, ma deve essere remunerativo, perché altrimenti diventa un impegno che ci mettiamo tutti, diventa una cosa stupenda, ma non è replicabile in tutti i quartieri d’Italia. Con il Comune di Milano abbiamo fatto per la prima volta questo esperimento, e il successo commerciale, sociale e finanziario per le banche e gli investitori è stato super.

Elisei. La sua non è certo una no profit. Il tema interessante è che la politica, in questo momento, alcune esigenze non le sta prendendo in considerazione come investimenti. Lei invece dice: “Per noi è un investimento a lungo termine che è remunerativo, è qualcosa di reale adesso e che continuerà ad esserlo nei prossimi anni.”

Abbadessa. Non dico che ho fatto le scuole serali perché ho frequentato la Bocconi, ma non serve una grandissima laurea. Secondo voi è più rischioso costruire abitazioni di iperlusso, che rappresentano meno del 5% della popolazione italiana, o costruire abitazioni accessibili che rappresentano il 95%? A Milano ci sono 220.000 studenti; il 50% viene da fuori Lombardia e gli studentati coprono solo il 7%, quindi oggettivamente, per assurdo, fare del bene conviene.

Castelli. Io sono curioso di sapere come la pensa Fra’ Billetta su questo tema, perché l’abbiamo invitato proprio perché è protagonista di un altro sistema di rigenerazione di un quartiere semiperiferico, che lui definisce una periferia nel centro di Palermo. Ora vediamo un servizio che abbiamo realizzato e poi torneremo a lui, grazie.

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Nel cuore antico di Palermo, a pochi chilometri dal centro, c’è un quartiere chiamato Danisinni che, a guardarlo dall’alto, non sembra neanche un pezzo d’Italia, ma un agglomerato urbano delle periferie del mondo. Qui, per anni, lo Stato è stato tragicamente assente e la gente del luogo ha vissuto senza alcun presidio pubblico, e perfino la scuola, o quello che ne rimaneva, stava per essere abbattuta. Ma quella di Danisinni oggi non è più la cronaca di un clamoroso abbandono, bensì la storia di un riscatto, di una piccola grande rivoluzione nata dal basso. Dieci anni fa, quando insieme agli altri frati cappuccini siamo arrivati a Danisinni per servire questa comunità parrocchiale, abbiamo trovato un quartiere totalmente dimenticato, senza alcun presidio pubblico, a parte la parrocchia. E sicuramente in questi anni ci siamo dati da fare proprio perché non potevamo rimanere a guardare, e soprattutto non potevamo accettare che i diritti basilari, come il diritto al futuro e alla salute della nostra gente, fossero totalmente svalutati. Il gruppo dei frati cappuccini ha iniziato un lavoro che ben presto ha coinvolto la comunità. Sono nati un asilo, una biblioteca, e la terra incolta è diventata una grande fattoria con luoghi di ristoro, un orto solidale con un emporio per la vendita, un B&B per il turismo sociale, senza dimenticare il parco giochi e perfino un circo per i più piccoli. Il desiderio di rispondere ai bisogni anche di chi ha sbagliato ha fatto fiorire degli spazi per il lavoro artigianale dei detenuti, un poliambulatorio e case di emergenza per le famiglie in difficoltà.  Zio Gianni, così la chiamano qui, lei di che cosa si occupa? Io mi occupo principalmente dei ragazzi che vengono dal carcere, cercando di riabilitarli e nello stesso tempo ci occupiamo della fattoria, dando da mangiare agli animali. Paolo, tu cosa fai qui? Io qui lavoro, ho 41 anni, sono ex detenuto attualmente al regime di semilibertà. Ho commesso dei reati, degli errori in passato, li ho quasi scontati tutti. Adesso sto scontando un residuo di pena di quattro anni. Qui ci occupiamo della nostra cooperativa, che abbiamo attivato a Danisinni con l’aiuto di Fra Mauro e della comunità. Sono contento perché qui stiamo realizzando uffici, magazzini, laboratori che la nostra cooperativa sta ristrutturando e sta cercando di fare il più possibile anche per gli ex detenuti. Danisinni oggi è un cantiere sempre aperto che guarda al futuro. Si punta a un’economia circolare, a progetti sempre nuovi da sviluppare con l’aiuto dei volontari e della gente del posto. Danisinni è cresciuta e continua a crescere. Questo processo necessita di supporto con la progettazione. Infatti, io rivesto una duplice veste: sono qui come progettista, come psicologa, ma anche come volontaria. Insieme al team che supporta la progettazione, proviamo a scrivere progetti e a gestirli per portare risorse e fondi per il benessere di questa comunità, per operatori, bambini, famiglie e la comunità intera. Questa azione sistemica di rigenerazione urbana e umana è un modello di welfare che parte dal basso, con un processo di circolarità tra pubblico e privato sociale, una declinazione viva del principio di sussidiarietà, ormai imprescindibile per il bene della comunità.

Castelli. Allora, Fra’ Mauro, orti, biblioteca, asilo nido, un circo… Perché avete fatto queste scelte? Ma soprattutto ci interessa capire qual è il metodo che avete usato nel vostro operare in questi anni. Grazie.

Billetta. Certo, dopo 10 anni possiamo fare una primissima riflessione a posteriori, perché il metodo l’abbiamo scoperto strada facendo, di fatto. Alla base c’è l’ascolto del territorio, il vivere e respirare il contesto in cui noi frati, ma anche tutta la comunità, perché la comunità è abbastanza numerosa, con tanti laici che ogni giorno si impegnano. Ci sono volontari che hanno del tempo libero, pensionati, e poi tanti altri, come avete ascoltato, anche provenienti dal circuito penale. Per quale motivo? Prima di tutto per vivere il dono della comunità e della vita, cioè vivere significa concretamente sapere che ciascuno può essere dono, può essere capace di gratuità per l’altro. Sicuramente, come si diceva prima, il percorso è un percorso di sussidiarietà circolare, dove ciascuno riconosce il ruolo dell’altro: sia dell’impresa profit, così come delle pubbliche istituzioni, che puntualmente coinvolgiamo, così come del mondo sociale e del privato sociale. Abbiamo visto nascere la prima cooperativa con ex detenuti, ma anche il mondo del volontariato, le fondazioni che ci stanno dando una mano, le comunità ecclesiali e altri movimenti. Cioè tutto quello che direbbe Papa Francesco con un’espressione che ha utilizzato nel 2021 mentre parlava dei movimenti sociali: parlava di “poeti sociali”, cioè fare in modo che ciascuno possa ritrovare quella motivazione, quella speranza, quell’anelito, e soprattutto custodirlo. Allora tutto questo per noi si sintetizza in un processo che va oltre le apparenze. Allora, noi in teoria non avremmo nessuna risorsa economica; e anche in pratica, la parrocchia di periferia… Potete immaginare, quando le persone vengono per qualsiasi cosa hanno bisogno e va bene, ma già noi riceviamo il dono dell’umano, dell’incontro. Ma non solo: una parrocchia francescana, siamo dei cappuccini, quindi potete bene immaginare le risorse. Ma non è questo il punto, questo non ci ha mai intimorito. La vera risorsa è la ricchezza dell’umanità che ci fa essere figli di Dio. In questa umanità riscoprire, riscattare, riconoscere e restituire dignità per noi è stato un principio di fondo. Dovevamo andare oltre le apparenze perché non era ammissibile che la nostra realtà potesse vivere uno stato di marginalizzazione gravissima. Pensate che a Palermo il 98% dei cittadini, qua ci sono tanti palermitani presenti, non conosceva l’esistenza di questo rione storico dalle origini arabe, a 800 metri dal Palazzo dei Normanni, sede del governo siciliano. Pensate un po’. Ma c’è un ostacolo. Ecco, noi abbiamo detto: “Non è possibile”. Fino a quel momento c’era un clima emergenziale, perché dovevi rispondere alle domande immediate, come le derrate alimentari, o la bombola del gas. Ma se mancava la bombola, poi dovevi vedere anche la luce, insomma era una catena di emergenze. Però, al contempo, non potevamo accettare che la nostra gente rimanesse schiacciata in un continuo “qui e ora” senza una visione del domani. Allora, tutto questo ha fatto sì che, dopo un primo anno di ascolto e tessitura di relazioni, dopo che ci sono state donate da privati delle case malandate ma strategicamente importanti, abbiamo deciso di non fare un guardaroba per i poveri, ma una biblioteca di quartiere. Perché tu puoi in generale favorire le espressioni di un sogno in un bambino, ma se gli togli gli strumenti vai a generare frustrazione, no? Perché nelle piccole case, nelle piccole abitazioni, non si può studiare. Magari tu fai vedere ai bambini cosa ci può essere di bello nello studio, nel domani, nel costruire un futuro, però di fatto hai la responsabilità adulta di custodire questo processo. Allora, a quel punto, la biblioteca di quartiere, il centro educativo con tanti educatori, ragazzi, le suore, i volontari del servizio civile per accompagnare e custodire… Ma questo non poteva bastare, perché non puoi guardare soltanto a un segmento della società. Attraverso un’azione sistemica, bisogna guardare a tutto l’esistente. E tutto l’esistente significa gli adulti, quindi la precarietà lavorativa dei rispettivi genitori, molti dei quali avevano un trascorso penale. Quindi la fattoria nasce per sostenere loro e anche rieducarli alla vita buona. Tutti siamo capaci di vita buona, bisogna dare le opportunità e noi come comunità ci siamo sentiti proprio la responsabilità. Faccio un ulteriore passaggio e va detto chiaramente, cioè, quando parliamo di sussidiarietà circolare, pensiamo che il reciproco riconoscimento sta su un piano simmetrico, non dall’alto verso il basso. Quindi, abbiamo dovuto lottare per dieci anni affinché il Polo Materno-Infanzia, pensate un nido con annesso consultorio familiare, per la prevenzione e l’accompagnamento della genitorialità, rimanesse aperto. Pensate alle conseguenze delle nostre azioni: tu chiudi un servizio pubblico e questo ha delle conseguenze. Ma possiamo parlarne, solo che poi prenderemmo troppo tempo. Allora, abbiamo dovuto lottare e dopo 20 anni siamo riusciti oggi ad avere l’asilo nido ristrutturato. Abbiamo pagato noi il progetto, l’abbiamo consegnato al Comune, è stato recepito, i fondi già c’erano, sarebbero stati distratti altrove, perché la politica funziona a volte così, non sempre, spero. Allora, perché ci crediamo nell’azione politica, perché facciamo azione politica. A quel punto, oggi è pronto per essere aperto. In questi giorni c’è tutta una diatriba, perché abbiamo già mandato in onda la comunicazione che il 9 settembre l’asilo nido riaprirà, perché è una sfida. Però non può essere soltanto l’interesse di una comunità locale, è l’interesse di tutti

Elisei. Esempio concretissimo anche questo, ovviamente. Ora, noi abbiamo visto a Milano un accordo pubblico-privato, a Palermo il sociale con il pubblico, a Napoli qual è invece la strada per tentare la ricucitura di un tessuto sociale lì dove c’è più bisogno?

Manfredi. Sicuramente il tema della ricucitura sociale deve andare di pari passo con la riqualificazione dei luoghi. Questo è anche un tema molto importante. Spesso il degrado dei luoghi diventa anche degrado della comunità. Questo è un punto in cui noi crediamo molto: riqualificare le periferie, che non sono solo le periferie nel perimetro della città, ma anche quelle all’interno del centro della città, come si vedeva a Palermo. A Napoli ne abbiamo diverse; alcune sono diventate luoghi di grandissimo turismo, penso ai Quartieri Spagnoli, alla Sanità. Però poi abbiamo anche altre che sono rimaste nel cono d’ombra del degrado, come Borgo Sant’Antonio, luoghi che sono un po’ dimenticati. Riqualificare i luoghi è importante, io penso che questa sia una funzione fondamentale delle amministrazioni pubbliche, perché riportare il decoro urbano, riportare i servizi, come prima si ricordava, portare la casa – cioè il diritto alla casa – è una cosa fondamentale. Noi non dobbiamo dimenticare che l’Italia del dopoguerra, un’Italia distrutta, è ripartita con due grandi piani: il piano per la casa e il piano per le scuole, che sono stati due momenti fondamentali per costruire la nostra democrazia. Quindi, penso che oggi sia un modello che non dobbiamo dimenticare; oggi abbiamo bisogno di un grande piano per le abitazioni, per la casa, che è un diritto fondamentale, che deve ovviamente vedere una sinergia pubblica, ma anche una presenza forte del privato. E su questo siamo d’accordo, perché il pubblico da solo non ce la fa. È quindi importante mobilitare risorse private. Ma poi è anche molto importante avere un progetto di recupero sociale della comunità. In questo progetto di recupero sociale, finisco rapidamente, è fondamentale che ci sia una regia che preveda un progetto collettivo, pubblico e privato insieme, e che le iniziative non siano semplicemente iniziative caritatevoli. A volte pensiamo che dobbiamo fare la carità, che è una cosa molto importante, ma non è quello che serve. Ognuno può fare la carità come vuole, però non è quello che serve oggi. Quello che serve oggi è un progetto di recupero sociale delle comunità che metta insieme il privato, le tante fondazioni. Noi, per esempio, abbiamo tante fondazioni che stanno investendo in città e che hanno raccolto questo grande impegno per costruire luoghi di aggregazione, biblioteche pubbliche, luoghi di assistenza sanitaria, in cui mettiamo insieme il privato ma anche il pubblico. Ad esempio, a Ponticelli abbiamo un polo sanitario dove c’è Emergency, dove abbiamo portato anche i medici di medicina di base, che ovviamente svolgono anche un servizio pubblico, in un edificio del Comune che abbiamo messo a disposizione. Abbiamo messo insieme tre soggetti che sono un punto di riferimento per una comunità che spesso non ha neanche la forza di andare a chiedere salute. Perché oggi il tema della prossimità è fondamentale: non basta erogare il servizio, bisogna portarlo alle persone che ne hanno bisogno. Spesso le persone che si trovano in situazioni di grande marginalità, che io vedo tutti i giorni, sono persone che non sanno neanche cosa devono chiedere, non sanno che possono avere un servizio pubblico, che possono avere una scuola, che possono avere un’assistenza, non sanno niente. Quindi, il tema della prossimità, il lavoro che fa la Chiesa in tante sue espressioni, che fanno le comunità laiche, che fanno le associazioni, è fondamentale perché sono il tramite per portare alle persone quei diritti che loro non sanno neanche di avere. E questo penso che sia quello che dobbiamo costruire per avere un’Italia migliore.

Castelli. Prof. Blangiardo, non ci siamo dimenticati di lei. L’abbiamo vista lì presente. Volevo fare questa domanda qui: casa, servizi, eccetera. Sono due elementi che vengono spesso indicati per spiegare questo crollo demografico. La gente non fa più figli perché è difficile avere una casa, è difficile avere servizi per l’infanzia, eccetera. Ma possiamo confinare in questi due fattori la ragione del calo demografico, secondo lei?

Blangiardo. No, i fattori sono tanti. Io parlo qualche volta delle tre C: il costo dei figli, la cura e la conciliazione. Problemi legati a maternità e lavoro, quindi la conciliazione soprattutto sul fronte del lavoro. Queste sono le tre C, a cui vi aggiungo una quarta C che è quella della cultura, del contesto. Cioè, non basta creare le condizioni per togliere di mezzo i problemi, se si riesce; occorre anche creare le condizioni per favorire le scelte, perché qualche volta il gioco è un po’ perverso e si dice: sì, sì, non adesso, aspettiamo, i figli li faremo quando sarà il momento. Poi, quando è il momento, è più difficile farlo. Quindi bisogna fare in modo che si creino delle condizioni per cui la comunità si renda conto che l’investimento in capitale umano è fondamentale, e in questo senso le singole misure da sole non bastano. Io ho verificato che c’è una correlazione tra i singoli interventi fatti a livello dei paesi europei e i risultati che ne emergono. Bisogna fare qualcosa che sia coordinato e integrato, e bisogna farlo integrato anche in termini di soggetti. Cioè, bisogna fare in modo che non sia solo lo Stato, ma anche le amministrazioni locali, il privato sociale, il sistema delle imprese, tutti quanti si facciano carico di un problema che è comune a tutti e che altrimenti ci porterà agli scenari che abbiamo descritto prima. Io credo che ci debba essere, e chiudo, un salto culturale per capire qual è la dimensione del problema, chi deve fare lo sforzo per affrontarlo e come metterci insieme, magari sotto una regia. In questo senso lo Stato è importante, però deve esserci un’azione comune che venga svolta nella stessa direzione. Solo così riusciremo a governare, non a invertire le tendenze, ma a contenere le dinamiche e in qualche modo a uscirne indenni da questo benedetto inverno demografico. Grazie, professore.

 

Elisei. È una corresponsabilità quella a cui fa riferimento il professor Blangiardo. Uno degli attori protagonisti può essere il terzo settore. C’è una legge di riforma del 2017, vengo da lei, dottoressa Poletto, che ha messo un po’ di ordine su questo ed ha introdotto il tema della coprogettazione, cioè pensare insieme ai progetti da realizzare prima ancora che gestirli. La mia domanda è: il terzo settore è pronto? E il pubblico?

Poletto. Allora, evidentemente adesso esce l’orgoglio del terzo settore e dico: il terzo settore è molto diverso, è molto variegato e non si può generalizzare. Mi piacerebbe far rispondere a questa domanda, adesso sto guardando così con le luci negli occhi, però ho già visto che qui c’è Progetto Arca, Fondazione San Gaetano, Piazza dei Mestieri. Io vorrei farvi raccontare da queste persone… Non abbiamo tempo, lo sappiamo, ma dovevo citarli. La cosa che voglio dire è che c’è un terzo settore che è cresciuto veramente tanto, un terzo settore che è cresciuto tantissimo, si è professionalizzato. Mettere in piedi una realtà di terzo settore è complessissimo, perché non abbiamo un mercato, abbiamo Stato, mercato, collettività a cui ci si rivolge, e qui si potrebbero aprire tante discussioni. Allo stesso tempo, c’è un terzo settore in Italia piccolissimo che sembra quasi irrisorio, ma che spessissimo è l’alimento e il lievito delle comunità, e che è gestito evidentemente in una forma che ha la grossa sfida di riuscire a coinvolgere soprattutto i giovani nelle realtà di volontariato. La legge di riforma del terzo settore ha inserito queste due parole bellissime che sono coprogrammazione e coprogettazione, che secondo me sono una sintesi della sussidiarietà, perché significano quello che dicevamo prima, cioè a livello di identificazione del bisogno ci si mette insieme, non dopo, non solo come un non-profit erogativo che non serve più. E il terzo settore è pronto? Io credo che lo sia. Lo è, lo sarà sempre di più. Al terzo settore serve quello che serve a tutti, cioè il mettersi insieme, il grande che fa crescere il piccolo, uscire da un inevitabile innamoramento della propria azione che porta a un’autoreferenzialità, per aprirsi a uno scopo comune, cosa che però sinceramente sto vedendo in un modo anche entusiasmante che si realizza nel nostro Paese, grazie.

Elisei. Fra Mauro, ho una domanda per lei. Vorrei chiederle che cosa l’ha stupita. In questo grande progetto, che cosa l’ha stupita? Ci ha raccontato di una collaborazione effettiva anche con il pubblico e il privato lì presenti, ma che tipo di collaborazione si è instaurata? Che tipo di aiuto?

Billetta. Sicuramente una grande fiducia e solidarietà. Dicevamo che non avevamo risorse economiche, ma il punto di forza è stata questa capacità relazionale con soggetti che fino a poco prima erano estranei e poi hanno investito anche più di un milione di euro, parlo di fondazioni, in particolare Fondazione Azimut, Fondazione Peppino Vismara, cioè realtà che hanno creduto, ma anche tanti cittadini che hanno messo a disposizione famiglie e un ettaro di terreno della comunità. Altri 6 ettari sono ancora liberi, sono di privati e vorremmo fare una food forest, una foresta urbana. Un luogo di incontro, di aggregazione ma anche di bellezza dal punto di vista ambientale. Mi stupisce sicuramente che l’inedito, il nuovo, la crescita, la rigenerazione siano possibili ma a una condizione: che ci stiamo tutti dentro, nessuno escluso. Il principio francescano, la fraternità, questo ci insegna: ciascuno dentro, perché fraternità si può essere solo se riconosciamo il fratello, la sorella che ci sta accanto.

Castelli. Abbadessa, torno a lei. Il progetto a Milano mi sembra abbastanza chiaro, questi affitti, in parte li avete venduti, li avete venduti a società che costruiscono appartamenti che mettono in vendita e una parte in affitto. Tra questa parte, una parte l’avete dedicata alla nuova sede di Porto Franco, un’associazione molto conosciuta che si occupa di diritto allo studio. Perché avete fatto questa scelta? Investire nel sociale conviene?

Abbadessa. L’abbiamo fatto proprio per quello che diceva il sindaco. Non basta fare l’abitazione, ma servono i servizi. Infatti, nel piano casa che fu fatto nel dopoguerra, io ho 40 anni, 20 li ho vissuti a Napoli e 20 a Milano. Quindi dico la nostra città. Ci sono stati degli investimenti virtuosi dello Stato, per esempio, che ha realizzato le case, mi viene in mente l’esempio delle Vele, ma non si è mai pensato al dopo, si è pensato a coprire l’esigenza immediata, che è fondamentale, che è quella dell’abitazione. Noi non siamo dei trader, non facciamo frazionamenti, ma i nostri investitori ci chiedono un ritorno più basso ma nel lungo termine. Quindi io, affittando, sono costretto, fra virgolette, a pensare a cosa ci sarà dopo. Allora io credo che… Poi, devo dire la verità, noi lo facciamo in tutti i progetti, abbiamo degli innesti sociali. Devo dire che le persone di Porto Franco sono state molto capaci perché mi hanno invitato per un caffè e sono uscito che gli ho regalato un immobile di 5.000 metri quadrati, poi l’hanno scelto proprio sulla metropolitana, anche la posizione più adeguata. Il concetto è: conviene da che punto di vista? Se io devo massimizzare il profitto nel breve termine, non conviene, perché io a Milano una palazzina di 5000 metri quadri, peraltro una palazzina, ripeto, l’hanno scelta anche giusta perché in quelle zone se l’avessi venduta a 5000, di fronte vendono a 8000 al metro quadro, l’avessi venduta alla metà. Se io realizzo 800 appartamenti e ho almeno 1600-2000 persone nel mio quartiere, e questi appartamenti li devo tenere nel lungo termine, se lì nel quartiere c’è il doposcuola, c’è lo sport, c’è il… noi abbiamo tutta un’area mercatale che daremo in affitto di fatto gratis, dove si realizzeranno tutte le botteghe storiche, quindi ho tutto un insieme di servizi anche con una ricaduta sociale importante. Io sono certo, ho le prove, perché noi abbiamo investitori del Nord Europa, dove questo si fa dagli anni ’70, ’80, ’90, noi abbiamo investitori olandesi, tedeschi, eccetera, che è vero che il ritorno è più basso, ma è garantito nel lungo termine, che poi è quello che interessa a noi. Quindi conviene assolutamente, infatti ci tengo a dire che io vengo magari rimproverato per queste scelte, perché lo faccio per una strategia di marketing, non è così, io lo faccio perché sono egoista, ma proprio nell’animo, perché noi dobbiamo garantire un ritorno ai nostri investitori e io sono sicuro che cedendo alla comunità valori economici importanti, noi abbiamo una garanzia nel lungo termine. Che poi è il mio lavoro, io ripeto non faccio l’immobiliarista, non faccio trading. Ho bisogno di garantire un ritorno nel lungo termine. Quindi sì, conviene, come no.

Castelli. Allora, ci avviamo alla conclusione, ma abbiamo deciso di lasciarvi con un servizio molto particolare. È un po’ una provocazione che vogliamo lanciare, perché abbiamo parlato di assistenza ieri, ieri per le persone anziane, oggi più all’infanzia, ma c’è un bisogno che è la disabilità, che trova non sempre facili risposte. Questa volta abbiamo deciso di andare a incontrare un’esperienza, non so quanto replicabile ovunque, ma in cui praticamente il bisogno di assistenza si trasforma quasi nella condivisione proprio della vita delle persone più deboli. Andiamo a vedere questo servizio e poi ci salutiamo.

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In questa comunità alloggio della Cooperativa Mirabilia Dei a Inarzo, alle porte di Varese, cinque famiglie convivono con 22 persone disabili che qui hanno trovato una casa e un lavoro. È una delle comunità che continua oggi un’esperienza iniziata nel 1982, ascoltando la domanda di un ragazzo disabile: “Che cosa farò da grande?”. Le persone che sono accolte non sono persone che sono state scelte, non siamo andati in un supermercato a cercarcele, sono persone che sono arrivate in diversi modi: per il passaparola, per la conoscenza, per le amicizie oppure attraverso i servizi sociali, essendo entrati nel sistema delle unità di offerta in Regione Lombardia per i servizi socio-assistenziali. Noi facciamo parte di questa rete dove comunque ci vengono presentati, per cui le persone che sono state presentate a noi sono sempre state accolte. Accolte in una comunità familiare per 24 ore su 24, per 365 giorni all’anno, insieme condividono la vita quotidiana e insieme lavorano nei laboratori annessi alla casa, uno di elettromeccanica e l’altro per la produzione di conserve e confetture. Un altro dei pilastri fondamentali nell’accoglienza è stato quello di offrire comunque una continuità nelle relazioni, che è il lavoro. Ma non facendo finta di occuparci di cose, ma facendo cose che servono esattamente e sono di utilità. E da qui la grande autostima che ne viene fuori. Abbiamo capito che semplificando comunque le lavorazioni, per cui da una macchina, spezzettando le lavorazioni, rendiamo fruibile la possibilità alle persone di potersi cimentare. A guidare le scelte sul lavoro, come nell’assistenza, è sempre stato uno sguardo alla realtà, da cui si è partiti anche quando la cooperativa ha voluto aggiungere ai lavori nell’ambito elettromeccanico la produzione di conserve. Volendo mettere a reddito la piantagione di alberi di pesche, si era pensato alla loro trasformazione in pesche sciroppate. Da quell’esperienza ci siamo resi conto che le sciroppate per loro erano un po’ complicate da realizzare, perché era molto difficile per loro denocciolarle, ma ci siamo resi conto che erano velocissimi a pelarle. E quindi da quell’esperienza abbiamo capito che la conserva, una composta, comunque un prodotto più semplice da lavorare, è invece diventata una risorsa. A ciascuno è chiesto di svolgere il proprio compito secondo le proprie capacità. L’obiettivo è la prosecuzione del lavoro all’interno della comunità, oppure in alternativa l’inclusione in realtà produttive locali. Il rapporto con il territorio e con i comuni circostanti è cresciuto anno dopo anno. Abbiamo veramente con questi comuni un rapporto eccellente. Ci guardano con molta simpatia, ci chiedono anche spesso di intervenire su cose di loro necessità. Abbiamo ricevuto, come dire, persone in casa da noi che non erano comunque riferite solo all’area della disabilità. Abbiamo avuto persone oncologiche che erano a fine vita e fin quando hanno potuto sono rimaste a vivere con noi, poi dopo sono entrate, voglio dire, nelle strutture sanitarie. Fondamentale nella relazione con le istituzioni locali è la disponibilità al dialogo e all’ascolto. Qui la co-progettazione si inizia a sperimentare concretamente e apre nuove prospettive con nuovi soggetti. E questa cosa fa veramente la differenza. In altre circostanze, invece, dobbiamo dire che troviamo una sordità, laddove comunque abbiamo comunque l’interlocutore che non ascolta, voglio dire, ciò che nasce dalle esperienze, ma ha in testa il proprio progetto politico, le proprie decisioni. Per cui non dobbiamo semplicemente attenderci che la politica risponda a queste cose, ma che ci sia tutto, come dire, il mondo dell’imprenditoria, ma il mondo comunque della società, che si interessi e che cominci a vivere quelle sinergie che sono utili e necessarie.

Elisei. Abbiamo voluto mostrarvi questo esempio raro, non unico ma raro, di risposta a un’esigenza sociale perché abbiamo iniziato a capire alcune cose in queste giornate che vogliamo condividere: che una collaborazione pubblico-privato è necessaria, ma non basta. Serve anche un’alleanza intergenerazionale, tra anziani e giovani, e ancora serve sicuramente anche una responsabilità personale.

Castelli. Bene, salutiamo, ma l’appuntamento è per domani alle 17. Quelle domande, quelle questioni che abbiamo sollevato in questi due giorni, saranno rivolte alla politica con il sottosegretario al MEF e ad alcuni Presidenti delle Regioni italiane. Salutiamo, senza dimenticare un avviso importante: provocato dall’intervento del Cardinale Pizzaballa il primo giorno, il Meeting ha deciso di devolvere una parte dei fondi che ciascuno di voi può donare per sostenere il Meeting. Una parte di questi fondi sarà devoluta in favore della Terra Santa. Grazie a voi, a domani.

Elisei. Grazie a voi.