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VIVERE DA CRISTIANI
Incontro con S. Ecc. Mons. Camillo Ballin, Vicario apostolico dell’Arabia del Nord. Introduce Davide Perillo, Direttore di Tracce.
VIVERE DA CRISTIANI
DAVIDE PERILLO:
Buonasera, benvenuti a questo Meeting e a questo incontro con un ospite che con la sua presenza ci fa un grandissimo regalo. È Mons. Camillo Ballin, Vicario apostolico dell’Arabia del Nord, vi prego di salutarlo con un grande applauso. Naturalmente ci racconterà cosa vuol dire Arabia del Nord, perché stiamo parlando di una zona di cui abbiamo una vaga idea, ma che è grande sette volte l’Italia: sicuramente è una zona dove la vita dei cristiani non è semplice, non è facile. Mons. Ballin conosce il mondo arabo da quasi mezzo secolo, ci racconterà anche questo, come si è appassionato a questo mondo, a questa cultura. Ha girato parecchi Paesi, è stato più volte in Egitto, è stato in Libano, è stato in Sudan, è stato ordinato Vescovo del Kuwait prima e poi appunto Vicario apostolico di questa zona, di cui adesso ci racconterà anche i contorni, perché sarà importante anche capire il contesto. È qui tra noi stasera proprio per raccontarci, come dice il titolo dell’incontro, cosa vuol dire vivere da cristiani in un posto, in una terra, in una situazione dove è difficile professare la propria fede: a volte sembra quasi impossibile poterlo fare. Allora, cosa vuol dire vivere da cristiani, vivere la fede in una condizione di questo tipo? E cosa vuole dire poter dire all’altro “tu sei un bene per me” anche quando per l’altro tu sei spesso, o a volte, una presenza scomoda, una presenza tollerata se va bene? Eppure, che possibilità c’è di far crescere la propria fede e la propria umanità in una condizione di questo tipo? Che opportunità c’è lì per sé, per il popolo cristiano e per ognuno di noi? Perché ci racconterà anche la propria esperienza personale. Insomma, cosa si può scoprire di sé e della fede in un posto come i Paesi dove Cristo sembra apparentemente sconosciuto? Ma gli lascio subito la parola in maniera che possa raccontarci cosa vuole dire per lui vivere da cristiani in questa altra fetta di mondo così lontana da noi. Prego.
S. ECC. MONS. CAMILLO BALLIN:
Cari Amici, ho scelto di rivolgermi a voi con questo titolo, “amici”, poiché mi sembra sia questa caratteristica, l’amicizia appunto, la nota principale del carisma che don Giussani ha ricevuto da Dio per la Chiesa e per il mondo. Infatti, vi chiamate Comunione e liberazione. L’amicizia è l’inizio della comunione, che ha come conseguenza il dare la liberazione, cioè la vita! Perciò credo che possiamo dire che Comunione e liberazione equivale a comunione e vita, in cui l’amicizia è una componente fondamentale.
Sono un missionario comboniano, cioè missionario a vita, e fui ordinato sacerdote nel 1969, 47 anni fa. Prima della mia ordinazione i superiori mi chiesero dove intendessi vivere la mia vita missionaria, dandomi tre possibilità di scelta. Scrissi: 1, nei Paesi arabi; 2, nei Paesi arabi; 3, nei Paesi arabi. Ed è per questa mia scelta che mi trovo nei Paesi arabi da 47 anni. In una chiave di lettura cristiana, sappiamo che non fu una mia scelta ma solo un accettare quello che il Signore, a mia insaputa, mi aveva ispirato perché questa era la sua volontà e Lui sapeva che era il massimo bene per me.
Ho studiato l’arabo molto intensamente per due anni in Siria e Libano, senza mai fare neanche un giorno di vacanza. Ho avuto un professore musulmano che mi ha fatto innamorare di questa lingua. Dopo questi due anni, esercitai il mio ministero per 24 anni in Egitto e 10 in Sudan, come avrete notato nel mio curriculum vitae. Nel frattempo, i miei superiori mi hanno “caldamente invitato”, per non dire obbligato (poiché io non ero interessato) a fare degli studi superiori.
Arrivai nel Golfo nel 2005, quando fui ordinato Vescovo del Kuwait e per il solo Kuwait.
Nel 2011, la Santa Sede rivide la divisione dei due Vicariati del Golfo e mi affidò il Bahrain, il Kuwait, il Qatar e l’Arabia Saudita: un Vicariato con oltre due milioni di cattolici e una superficie di 2.035.149 kmq (è grande sette volte l’Italia). Mi trovo in questo contesto del particolare mondo arabo del Golfo da 11 anni e vorrei spiegare perché è bello vivere là il titolo del vostro tema di quest’anno: “Tu sei un bene per me”. Anzitutto, chi è questo “tu”. Perché scopro che è “un dono” e un dono “per me”. Questo “tu” sono i quattro Paesi del Golfo di cui sono responsabile. Vi descriverò brevemente ciascuno dei quattro Stati e vi presenterò anche qualche considerazione di carattere sociale e religioso.
Bahrain. E’ un regno, ha una superficie di 759 Kmq e una popolazione di 1.324.000 abitanti, di cui il 54% è costituito da stranieri. La religione dello Stato è l’Islam. Il Paese è governato dalla dinastia sunnita dei Khalifa. L’attuale re è Sua Maestà Shaykh Hamad bin ‘Issa bin Salman Al Khalifa. La scoperta del petrolio nel 1939 attirò gradualmente un numero sempre maggiore di lavoratori e specialisti dall’estero. Il 14 Febbraio 2011, sull’onda delle primavere arabe, iniziò un’insurrezione, quasi esclusivamente da parte sciita. Il re stabilì una commissione di inchiesta, con risultati positivi per un dialogo. Nel gennaio 2014, il principe ereditario prese l’iniziativa di incontrare l’opposizione. Alti e bassi nell’intesa continuano fino ad oggi. Includendo anche gli stranieri, i musulmani in Bahrain sono il 70%, i cattolici l’8.8%, i protestanti il 4.5%, gli ortodossi l’1%, altri cristiani lo 0.2%. Tra i musulmani, 70% sono sciiti, 30% sunniti. Tra i non bahrainiti, la stragrande maggioranza viene dai Paesi del Sud e Sud Est dell’Asia: India, Filippine, Sri-Lanka, Pakistan, Bangladesh, ecc. I cristiani che hanno ottenuto la nazionalità bahrainita sono circa 1.000, tra cui il sottoscritto. L’11 Febbraio 2013 Sua Maestà mi offrì il terreno per costruirvi la cattedrale, che sarà dedicata a Nostra Signora di Arabia, e il 23 maggio dello stesso anno mi diede il passaporto del Bahrain, come già menzionato, un regalo preziosissimo perché mi permette di viaggiare in tutti i Paesi del Golfo e in tutti i Paesi arabi senza nessun bisogno di visto: sono considerato un cittadino arabo.
In Bahrain, ma anche in Kuwait e in Qatar, porto sempre la veste talare e il crocifisso pettorale, soprattutto quando esco di casa. Lo faccio per due motivi; 1, per ringraziare per il riconoscimento che viene dato alla religione cristiana e per confermare la libertà di culto che ci viene permessa, e di cui parlerò più avanti; 2, per incoraggiare i cristiani a restare fedeli alla loro fede. Infatti, è sempre forte la tentazione di camuffarsi o addirittura di cambiare religione, in vista di un trattamento migliore (elemento comune in tutti i Paesi arabi). Posso affermare che, presentandomi chiaramente con la mia identità visibile anche nel vestire, sono sempre stato molto rispettato da tutti. La Costituzione del Bahrain non proibisce la conversione dall’Islam ad un’altra religione, tuttavia un’attività missionaria in questo senso è assolutamente da evitare, soprattutto per le conseguenze soprattutto sociali che ne deriverebbero. In 47 anni non ho mai convertito nessun musulmano. In tutto questo lungo periodo, ho avuto solo 4, 5 richieste, ma i primi due erano delle spie, incaricati di verificare se intendevo convertire musulmani, gli altri erano interessati ad avere un passaporto europeo, per cui non ho mai accettato nessuno.
Kuwait. È un emirato e ha una popolazione di tre milioni di abitanti, di cui due milioni sono stranieri, su una superficie di 17.818 kmq (come la nostra regione Lazio). La Costituzione dichiara che l’Islam è la religione di Stato e che la Sharìa è la “fonte principale della legislazione” (Art. 2). L’Articolo 29 afferma: “Tutti gli uomini sono uguali nella loro dignità umana, nei loro diritti pubblici e nei doveri di fronte alla legge, senza distinzione di razza, origine, lingua o religione”. L’Articolo 35 afferma: “Lo Stato protegge l’esercizio della pratica religiosa conformemente alle maggiori tradizioni, a condizione che non intacchi l’ordine pubblico o la morale”. Tuttavia questa libertà di coscienza non arriva alla libertà per un musulmano di rinunciare all’Islam, ed è proibito per legge ad un cristiano di parlare della sua fede cristiana ad un musulmano. L’emirato del Kuwait è governato dall’Emiro Sabah Al-Ahmad Al-Jaber Al-Sabah, di dinastia sunnita. Gli sciiti raggiungono circa il 30% dei Kuwaitiani musulmani e hanno 50 seggi in Parlamento. I cristiani kuwaitiani sono circa 200 persone di confessione protestante e 4 famiglie cattoliche. Questo gruppo, soprattutto i cattolici, è destinato a scomparire gradualmente attraverso matrimoni ed emigrazioni.
I cristiani stranieri sono circa 450.000, di cui circa 350.000 sono cattolici. Le Chiese ufficialmente riconosciute sono sette: cattolica, anglicana, evangelica, copto-ortodossa, greco-cattolica, greco-ortodossa e armena ortodossa. Ci sono in Kuwait tre scuole dirette da congregazioni religiose cattoliche: è obbligatorio insegnare l’Islam ma è proibito insegnare catechismo ai cristiani.
Nel 2012 fui informato che il Ministro degli Affari Islamici aveva dato il suo assenso alla concessione di un terreno di 3.000 metri per la Chiesa cattolica. Ma quando questa notizia arrivò in Parlamento, un gruppo di fondamentalisti, con a capo Oussama al-Mounawwer, il 16 febbraio propose una mozione in cui si proibiva di costruire qualsiasi chiesa nuova e si chiedeva di demolire quelle esistenti. La ragione portata fu che il profeta Maometto aveva detto che nel Golfo ci deve essere una sola religione. Ma gli studiosi ci informano che questo detto del profeta Maometto riguardava il suo coetaneo e concorrente Musailam, conosciuto tra gli arabi come “al-nabi al-kazzab” (il falso profeta), il quale operava nella zona dell’attuale Kharj, a circa 100 Km a Sud di Riyad, e pretendeva di essere lui il vero profeta, non Maometto. Oggi tale detto viene applicato alle religioni non islamiche. Una delegazione partì per l’Arabia Saudita, dove il Mufti Shaykh Abdul Aziz ibn Abdullah ripeté pubblicamente le stesse affermazioni. Il giornale The Washington Times commentò il venerdì 16 marzo 2012: “Se il Papa chiedesse la distruzione di tutte le moschee in Europa, avremmo una guerra e una carneficina in tutte le strade del Medio Oriente e del Golfo e in tanti altri Paesi del mondo. Ma, quando il capo più influente del mondo musulmano emana una dichiarazione di distruggere le chiese cristiane, abbiamo un silenzio universale”. Nonostante queste dichiarazioni, in pratica niente cambiò. Anzi, nel gennaio 2016 potemmo rinnovare senza nessun problema l’affitto del terreno sul quale, da 55 anni, sorge la cattedrale. Ci vennero concessi altri 10 anni. Nonostante l’avessi chiesto addirittura attraverso il Papa Benedetto XVI in occasione dell’udienza che concesse all’Emiro del Kuwait, non vedo ancora oggi una concreta possibilità di avere un terreno per un’altra chiesa, di cui abbiamo una grande necessità. Nel dicembre 2013, il parlamentare Hamdan al-‘Azmi chiese di eliminare le celebrazioni natalizie in tutto il Kuwait, affermando che sono una presa in giro della cultura islamica. E disse: “Permettere attività estranee alla nostra società islamica è ridicolo e un’offesa ai nostri insegnamenti religiosi”. Poi aggiunse che queste celebrazioni sono “inappropriate in uno Stato islamico” e chiese alle autorità di proibirle. Come potevamo aspettarci, niente è stato proibito.
Qatar. E’ un emirato e ha una popolazione di 1.870.000 abitanti, su una superficie di 11.607 kmq (più grande del Lazio). Gli stranieri sono l’80% della popolazione. I cristiani sono il 13.8%, il 10.3% di loro sono cattolici; il 2.7% protestanti e lo 0.8% ortodossi. Gli induisti sono il 13.8%, come tutti i cristiani messi insieme, I buddisti il 3.1%, altre religioni rappresentano l’1.6%.
L’Articolo 1 della Costituzione del 2004 stabilisce: “Il Qatar è un Paese arabo indipendente. L’Islam è la sua religione e la Sharìa la fonte della sua legislazione”. L’Emirato del Qatar segue un Islam secondo l’interpretazione wahhabita dell’Arabia Saudita, per cui è impossibile per qualsiasi musulmano nel paese rinunciare all’Islam e aderire ad un’altra religione. L’emirato toll era la pratica di religioni non islamiche, soprattutto dei cristiani, che sono tutti stranieri. I cattolici sono tra i 200 e i 300.000.
Il Qatar è un emirato retto dalla famiglia reale Al Thani, la quale governa lo Stato dal 1825, da quando la stessa famiglia fu fondata. Dopo il referendum costituzionale del 2003, è diventato formalmente un emirato costituzionale che prevede l’elezione diretta di 30 dei 45 membri dell’Assemblea consultiva, mentre 15 vengono scelti dall’emiro.
Nel 2005 il governo diede terreni a parecchie chiese, situandole tutte l’una accanto all’altra in un’apposita area. Esse sono: la chiesa cattolica, anglicana (che comprende circa 70 comunità evangeliche, pentecostali e protestanti), la greco-ortodossa, la copto-ortodossa e nove chiese indiane. Ultimamente è stato dato un terreno anche per la chiesa maronita e un altro per una chiesa filippina protestante. Nessuna di queste chiese ha campanili o croci visibili all’esterno. La chiesa cattolica, inaugurata nel 2008, ha ottenuto un terreno di 56.00 mq e contiene 2.800 persone (è già piccola!).
Da dodici anni, viene celebrata ogni anno una Conferenza sul dialogo interreligioso e varie personalità del mondo intero vi sono invitate. Vi partecipo regolarmente, sia perché sono interessato all’argomento, sia perché sono il vescovo del Qatar. Il direttore generale di questo Centro Internazionale del dialogo interreligioso, che ha la sua sede a Doha (capitale del Qatar), il dottor Ibrahim al-Noùaimi, ha dichiarato nel 2014: “Noi siamo d’accordo che questi conflitti non sono causati dal fatto che siamo cristiani o musulmani, ma da persone che usano la religione in modo negativo per provocare conflitti”.
Arabia Saudita. E’ un regno, si estende su 2.004.965 kmq e ha una popolazione di 28.083.000 abitanti. I cristiani sono il 4.4%: i cattolici il 3.8%, i protestanti lo 0.4% e gli ortodossi lo 0.2%. L’Islam wahhabita è imposto dalla potente dinastia regnante, e altre fedi non possono avere posto nella vita religiosa dell’Arabia Saudita. Il regno non ha una Costituzione, la cui funzione è affidata al Corano. La Sunna, cioè la tradizione islamica, ha un posto di primo piano nella formulazione delle leggi del Paese. La vita politica, sociale e personale è interamente regolata dalle prescrizioni della Sharìa, la legge islamica, secondo l’interpretazione hanbalita, la più rigorosa delle quattro scuole legali riconosciute dall’Islam sunnita.
L’Islam sunnita è l’unica religione autorizzata nel Paese e nessun altro culto è permesso, nemmeno in privato. Questo crea problemi enormi nel Paese in cui vivono più di un milione e mezzo di cattolici (oltre ad altri cristiani non cattolici), tutti stranieri, i quali non possono avere luoghi per il culto. Il motivo è che tutta l’Arabia Saudita è considerata una grande moschea, perciò nessun posto di culto di altre religioni può esservi costruito, e nessun non musulmano può essere seppellito in Arabia Saudita, deve essere rinviato al suo Paese di origine. Il re precedente, Abdullah bin Abd Al-‘Aziz aveva permesso che i cristiani si riunissero nelle case private. Ma cosa vuole dire? Esiste in Arabia Saudita il Comitato per la “Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio” e ha la responsabilità di sorvegliare ed eventualmente imporre l’applicazione delle norme islamiche. Questo Comitato ha la sua polizia religiosa, i famosi Mutawa, la quale esige il rispetto dei precetti religiosi, come il digiuno durante il Ramadan, che anche i non musulmani devono osservare in pubblico. Questa polizia religiosa permette che una famiglia sola o al massimo due si possano riunire insieme per pregare. Se sono più di due, non è più accettato perché diventa una chiesa e una chiesa non può essere costruita dentro la grande moschea che è tutta l’Arabia Saudita. Tuttavia, ultimamente I poteri della polizia religiosa sono stati ridotti. Di fronte ad una infrazione della legge islamica, essa non ha più il potere di arrestare le persone, può solo chiamare la polizia civile la quale soltanto può arrestare i disobbedienti. Questo passo, che a noi sembra molto piccolo, in realtà è molto grande considerando la mentalità conservatrice del popolo saudita. Centri di proselitismo islamico sono attivi per convincere gli stranieri residenti in Arabia Saudita a farsi musulmani. Un musulmano che si convertisse ad altre religioni, è di per sé punibile con la pena di morte. E’ proibito fare entrare nel Paese libri o oggetti di pietà di qualsiasi religione che non sia quella dell’Islam sunnita. Il divieto include Bibbie, messali, catechismi, rosari, medaglie, croci, ecc. Così pure, il Governo non permette l’entrata nel Paese di sacerdoti, per cui i cristiani sono ufficialmente privati dei sacramenti. Ultimamente, le varie dogane, negli aeroporti o via terra, ricercano soprattutto alcool e droga. Libri e oggetti religiosi non sono sequestrati se sono quasi solo di uso personale. Personalmente, non ho mai avuto problemi su questo punto.
Due nuovi elementi possono aiutare la società islamica saudita ad avere una visione più ampia della realtà attuale. Nel 2013 è sorto a Vienna il “Centro del re Abdullah per il Dialogo Interreligioso e Interculturale” (KAICIID). Fondatori sono l’Arabia Saudita, che praticamente ne sostiene tutte le spese, la Spagna, l’Austria e il Vaticano (come fondatore-osservatore). Nell’ultima riunione del Comitato Consultativo, di cui faccio parte, abbiamo delineato alcuni temi di maggiore importanza sui quali si deve lavorare, tra cui la libertà religiosa. Spero che questo Centro possa aprire un futuro migliore per le prossime generazioni musulmane. Tuttavia, non dobbiamo aspettarci cambiamenti veloci. Nel 2016, per la prima volta, il Governo ha reso noto il suo programma economico. Il punto di partenza per il nuovo sviluppo economico è stato fissato per il 2030. Da quell’anno inizierà la green card, solo per arabi che siano musulmani: ma sono convinto che questo primo passo porterà ad una estensione della green card anche ad altri, per cui l’afflusso di tante persone in Arabia Saudita avrà sicuramente degli effetti positivi per il graduale cambiamento della società saudita.
Al termine di questa sorvolata sui quattro Stati del Vicariato di Arabia del Nord, cerchiamo di riflettere sulla situazione sociale degli stranieri, sul ruolo che la Chiesa ha nel Golfo e su come questa stessa Chiesa è organizzata e al suo interno vive il Vangelo.
Situazione sociale degli stranieri nel Golfo. Dopo aver analizzato brevemente i punti principali dei quattro Paesi del Vicariato di Arabia del Nord, vorrei attirare l’attenzione sulla situazione sociale degli stranieri nel Golfo. Stralcio alcuni passaggi dal libro di don Francesco Strazzari, Pentecoste nella terra di Maometto, edizioni Dehoniane, Bologna.
“Si calcola che siano più di 15 milioni gli immigrati nel Golfo. L’86,5% della popolazione nel Qatar, l’83,5% negli Emirati Arabi Uniti, il 39,1% nel Bahrain, il 28,4% nell’Oman, il 27,8% in Arabia Saudita. Provengono per lo più dalle Filippine, Bangladesh, Pakistan, India, Thailandia, Sri Lanka, Indonesia e Yemen. Non hanno in gran parte un’adeguata cultura. Molti non sanno né leggere né scrivere e quasi la metà sono donne. Hanno lasciato il loro Paese di origine per inviare alle famiglie il denaro per vivere. Vengono reclutati da agenti senza scrupoli e da usurai e strozzini. C’è un intricato sistema di sponsorizzazione (kafaala in arabo), che fa del lavoratore un autentico schiavo. Il visto viene rilasciato solo se si ha uno sponsor, che lo affida ad un datore di lavoro, il quale fa del povero operaio quello che vuole, privandolo addirittura della libertà, e che può arrivare a mandarlo in prigione, a volte per futili motivi. Lo sfruttamento inizia dal reclutamento effettuato nei singoli Paesi da agenzie e uffici di collocamento che battono ogni strada per spillare soldi. Per ottenere il visto non si finisce mai di sborsare denaro per commissioni inventate.
Arrivato all’aeroporto del Paese scelto per lavorare, l’operaio incontra l’agente della sponsorizzazione, che gli ritira il passaporto e lo conduce nel posto di lavoro (labor camp) o nei quartieri delle compagnie. Non conoscendo l’arabo, è costretto a sottoscrivere un contratto di cui non conosce i termini. A volte viene firmato un contratto che contempla il lavoro di sette giorni senza il giorno di riposo e le ferie, non gli vengono retribuiti gli straordinari, gli viene decurtato lo stipendio se anche per un motivo grave tarda a recarsi al lavoro. E’ il traffico a tutti i livelli la piaga più sconvolgente nei Paesi del Golfo” (Francesco Strazzari, op. cit. pp. 67-68).
I Paesi del Golfo hanno basato la loro economia sul petrolio. Ora, con il calo del prezzo del petrolio, si trovano in serie difficoltà. Molti stranieri sono licenziati improvvisamente e devono ritornare nel loro Paese di origine. I vari Governi discutono su come recuperare le spese. Tutti hanno aumentato il costo dei servizi basilari (acqua, luce, ecc.), alcuni l’hanno aumentato solo per gli stranieri, i quali generalmente sono molto più poveri dei locali.
I Parlamenti a volte sono fittizi, altri convivono volentieri con i fondamentalisti. La democrazia intesa nel senso nostro di partecipazione del popolo al governo del Paese è lontana e non entra nella mentalità degli arabi, almeno in quelli del Golfo. D’altra parte, se guardiamo alla nostra Italia, notiamo che dopo 70 anni dalla fondazione della Repubblica democratica, la democrazia è spesso ancora snobbata. Spinte centrifughe e forti individualismi sono all’ordine del giorno. La tanto proclamata laicità rivendicata da qualche partito come propria creatura non è figlia, in verità, di nessun partito. Sembra paradossale a dirsi, ma la laicità trova fondamento nelle parole evangeliche di Gesù Cristo che ha detto di “dare a Dio quello che è di Dio e a Cesare quello che è di Cesare” (Cfr Mt 22,21). Purtroppo, tanti politici non si rendono conto che un giorno dovranno rendere conto a Dio di come hanno esercitato l’ufficio di Cesare. Dobbiamo perciò evincere che la politica può fare molto poco se non c’è il cambiamento, la conversione dei cuori; è questa una grazia da impetrare da Dio con la preghiera.
Per i Paesi arabi, forse la soluzione più pratica consiste nell’avere a capo un “dittatore saggio”. E’ una contraddizione in termini, perché è molto difficile che un vero dittatore sia anche saggio. Ma le varie primavere arabe, sorte per volontà popolare, hanno fallito. Quale sarà la via araba per la democrazia? Al momento attuale non ci vedo chiaro.
Ruolo della Chiesa. Continua ancora don Francesco Strazzari: “La Chiesa nel Golfo è una chiesa di migranti. Il clero, i religiosi, le religiose, i laici sono migranti e svolgono una funzione solamente religiosa nell’ambito delle parrocchie e nelle scuole, là dove le autorità statali le permettono. Al clero viene concesso il visto solo per il servizio nelle parrocchie. Ai laici non è consentito essere assunti dalla Chiesa, fatta eccezione per alcune persone strettamente legate ad alcuni compiti come autisti, domestici e personale di sicurezza. Tutto ruota attorno alla parrocchia, che diventa il centro di alcune importanti attività (Francesco Strazzari, op. cit. p. 71).
Dal 23 al 25 maggio 2016 è stato tenuto un convegno nella chiesa anglicana di Abu Dhabi sul traffico degli immigrati, organizzato dal Centro ecumenico Al-Amana di Oman. Vi hanno partecipato le principali chiese, cattolica, protestante e ortodossa. Le chiese si sono rese conto che questo tipo di ministero non è facile. Bisogna lavorare all’interno delle leggi, la divisione stessa delle chiese può causare malintesi, il controllo da parte dei Governi limita molto l’azione, perché non vorremmo essere fraintesi. Non si deve dimenticare che ci viene dato il visto solo per il ministero del culto, quindi solo per un lavoro all’interno della chiesa. Un laico che svolgesse questo lavoro nel recinto della chiesa, è considerato un dipendente della chiesa e quindi perseguibile perché svolge un lavoro che non appartiene al culto. Tuttavia, quanto stiamo facendo può essere continuato e vedere se prudentemente si può fare di più. E’ importante continuare le visite alle prigioni, agli ospedali, ai rifugi creati dalle ambasciate per quelli che sono scappati dal posto di lavoro, perché maltrattati o non pagati da mesi o anni; avere uno sportello, nel recinto della chiesa, per aiutare chi chiede aiuto, e preparare dei laici che possano esercitare questo ministero. Ma quest’ultimo punto deve essere considerato con molta prudenza, come menzionato sopra.
All’interno della Chiesa. Finora abbiamo considerato i quattro Paesi del Vicariato di Arabia del Nord nel loro aspetto politico e sociale, con alcuni accenni al nostro ministero sacerdotale nella sua relazione con la realtà di tali Paesi. Vediamo ora un po’ più da vicino la Chiesa come tale, come essa è in questi quattro Paesi. Entriamo nella casa di Dio che è in Arabia del Nord in punta di piedi, perché sappiamo che quel popolo appartiene a Dio, è sua proprietà e noi siamo solo i Suoi servitori.
Se dopo 47 anni sono ancora nel mondo arabo è perché ho trovato nei cristiani e nei musulmani dei fratelli che mi accompagnano nella mia vita. Non ho mai avuto nessun problema personale con i musulmani, anzi, ho trovato tra di essi degli amici sinceri e fedelissimi. Dopo 47 anni posso dire che è infinitamente più quello che ho ricevuto dal mondo arabo di quanto io abbia dato finora. Sono profondamente convinto e lieto di poter dire con tutta sincerità a qualsiasi fratello, arabo o non arabo: tu sei un bene per me, lo sei stato per 47 anni e lo sarai ancora, per tutta la mia vita!
I nostri fedeli provengono da molti Paesi, come già menzionato sopra. Per esempio, in Kuwait celebriamo in 6 riti (cioè modalità diverse di celebrare la Liturgia e di vivere la spiritualità evangelica): Siro-Malabar, Siro-Malankara, Maronita, Copto, Bizantino-ucraino e Latino. Quest’ultimo in 13 lingue. Tutto ciò, pur avendo una sola chiesa. Perciò il nostro problema principale è come formare una sola Chiesa cattolica, pur nel rispetto della Liturgia dei singoli riti e per quanto possibile delle loro tradizioni, e non avere sei chiese cattoliche l’una accanto all’altra. Messe, anche quotidiane, gremitissime sono il nostro fenomeno costante. In Kuwait gli spazi sono quelli che ci furono dati 60 anni fa, quando il numero dei cattolici era molto esiguo. Ora sono circa 350.000. Per facilitare l’incontro con i fedeli, che già hanno orari pesanti nel loro lavoro, ho tolto gli orari in cui il Vescovo riceve: ognuno può venire quando può e quando vuole. In ogni parrocchia abbiamo, oltre alla chiesa, una cappella per l’adorazione perpetua e nel cortile una grotta della Madonna. Tutti e tre questi luoghi sono continuamente frequentati, durante tutta la giornata. Per cui nelle nostre parrocchie abbiamo quell’intercessione continua che è propria dei monasteri, pur non avendo nel nostro territorio nessun monastero. In quasi tutte le parrocchie c’è anche una veglia notturna mensile, per tutta la notte. L’intercessione ininterrotta dei nostri fedeli è la nostra forza. Ma il loro impegno non è soltanto nella preghiera. Abbiamo molte associazioni caritative che sostengono, soprattutto in India, studenti, orfanatrofi, parrocchie e altri enti.
La residenza dei nostri fedeli è legata al loro contratto di lavoro. Arrivati a 60 anni, devono lasciare il Paese e ritornare nel loro Paese di origine, a meno che nel frattempo non siano riusciti ad avere un’altra nazionalità. Per cui la nostra è una Chiesa giovane e, come tale, attivissima, vibrante e generosa. Ci manca la fascia della gioventù dell’età dell’università perché le università locali sono solo per i locali, non per gli stranieri. Quindi abbiamo una grande popolazione di bambini e ragazzi (il 18 maggio scorso ho dato la Cresima in Qatar a 280 cresimandi) e poi di quei giovani, di solito oltre i 30 anni, che ritornano nel Golfo per lavorare. Nel Golfo siamo in una zona di transit perché, o per gli studi universitari o per aver raggiunto i 60 anni, i nostri fedeli ci lasciano. Per cui la nostra vocazione è il mondo intero, mandiamo nei vari Paesi del mondo una ricchezza molto più grande dell’esportazione di petrolio, mandiamo discepoli di Gesù Cristo ed è nostra missione aiutarli affinché, dove andranno, siano “luce del mondo e sale della terra”. La sfida che ogni giorno cerchiamo di accogliere è quella di passare da una spiritualità di conservazione, di devozionismo tradizionale, ad una esperienza profonda della dolce amicizia con Gesù. La mia gioia è immensa quando trovo un cristiano che riesce a confessare con la sua vita: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente! Tu solo hai parole di vita eterna!”. Questo è il messaggio che i nostri fedeli porteranno nel mondo intero. Quindi la nostra missione è formare il cenacolo di Gesù, dove ognuno si nutre del pane di vita per avere la grazia e la forza di condividerlo con altri. Condividerlo anche con i musulmani. Per motivi di lingua, di mentalità e di tradizioni, gli stranieri non formano comunità con i musulmani, ne restano separati. Tuttavia sono con loro per molte ore al giorno durante il lavoro. Sono loro che portano avanti il dialogo interreligioso a livello semplice e popolare, il dialogo della vita, non tra le religioni ma tra le persone.
L’Islam è sorto nel Golfo, in Arabia Saudita. Come rendere presente, e in un certo senso visibile, l’amore di Dio per noi cristiani rivelatosi pienamente in Gesù Cristo, proprio nel cuore dell’Islam? E’ una mia interpretazione che i nostri fedeli siano stati mandati da Dio per essere la presenza del suo amore nel cuore dell’Islam. Certamente loro non ne sono coscienti e vengono nel Golfo per cercare condizioni migliori di vita per la loro famiglia, ma io vedo dietro a questa enorme massa di cristiani nel Golfo un piano di Dio che vuole far vedere il suo volto amorevole di Padre attraverso la vita di questi cristiani. Perciò la nostra missione è sì in una zona di transit ma è anche in una terra dove, attraverso i cristiani, l’amore di Dio è offerto continuamente a tutti, indistintamente, realizzando così quella fratellanza universale che era l’ideale di Charles de Foucauld. In questo modo noi cristiani collaboriamo attivamente per la formazione di una società sempre più umana nel Golfo. Non possiamo occuparci di tanti problemi sociali, né, tanto meno, entrare in politica, ma siamo parte integrante di quel processo di pace e di convivenza fraterna che si riflette nello stesso tessuto sociale e politico. Il Vicariato Apostolico di Arabia del Nord è dedicato e affidato alla protezione di Nostra Signora di Arabia; che Ella ci aiuti ad essere il cuore di Dio nel Golfo e in tutto il mondo arabo. Grazie.
DAVIDE PERILLO:
Grazie a Lei, Eccellenza, grazie tantissimo, perché io avevo in mente di farle qualche domanda ma ha già ampiamente risposto perché ci ha mostrato che cos’è questa esperienza profonda della dolce amicizia con Gesù, come l’ha chiamata lei. E ci ha fatto capire bene cosa vuol dire testimoniare, anche dove sembra impossibile poterlo fare. Come tutti qua dentro, io sono molto scosso, molto colpito e anche molto interrogato dalle parole di Monsignor Ballin, perché capisco, per esempio, che la presenza cristiana sicuramente è qualcosa di più grande di quello che ho in mente io; che una presenza cristiana è qualcosa di diverso, di più grande, infinitamente più largo, più esteso di quello che abbiamo in mente noi, delle forme che abbiamo in mente noi. Perché, se è possibile vivere così in un posto in cui tu non puoi neanche dire la parola Gesù, vuol dire che la presenza cristiana è qualcosa di infinitamente più grande delle parole che non puoi dire o delle opere che non puoi fare, è una vita: si può essere presenti e comunicare la fede semplicemente vivendo. Diceva Sua Eccellenza: “La mia gioia è immensa quando trovo un cristiano che riesce a confessare con la sua vita: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio Vivente, Tu solo hai parole di vita eterna”. E io sono molto interrogato da questo perché probabilmente vuol dire che la presenza, la missione sono qualcosa di diverso, di più profondo rispetto a quello che abbiamo in mente. Tant’è vero che mi colpisce un’altra cosa, scusate, brevemente, il riferimento che ha fatto appunto alla nostra vocazione di cristiani. Ha detto: “E’ il mondo intero: mandiamo nei vari Paesi del mondo una ricchezza molto più grande del petrolio, mandiamo discepoli di Gesù Cristo”. Anche qua mi colpisce molto perché la missione è qualcosa di evidentemente più grande, più acuto del convertire qualcuno. Più grande vuol dire che ha una misura diversa, la misura di tutto il mondo: e allora magari tu custodisci quel seme che hai davanti e quel seme frutterà da un’altra parte del mondo, chissà quando, quando Dio vuole, come Dio vuole, non come e quando abbiamo in mente noi. È una misura diversa, è la misura di Dio. E servirla conviene perché fa vivere con la letizia che vediamo stampata in volto a Monsignor Ballin. E infine, scusate, mi permetto di sottolineare soltanto un’ultima cosa, perché io ho visto incarnato, proprio in carne e ossa, quello a cui il Papa ci ha richiamato nel messaggio che abbiamo sentito stamattina al Meeting di Rimini. Il Santo Padre ci ha detto: “Vi richiamo continuamente a questa parola che non dobbiamo mai stancarci di ripetere e soprattutto di testimoniare: dialogo. Perché aprirci agli altri non impoverisce il nostro sguardo, ma ci rende più ricchi perché ci fa riconoscere la verità dell’altro”. E diceva che il dialogo è fatto di due cose: “chiarezza della propria identità e disponibilità a mettersi nei panni dell’altro per cogliere al di sotto della superficie ciò che agita il suo cuore”, che cosa cerca veramente. Io sono grato, siamo tutti grati a Sua Eccellenza Monsignor Ballin perché ci sta mostrando, con la sua presenza qui, che cosa è questo dialogo a cui ci chiama il Papa. E auguriamoci tutti di avere la stessa disponibilità di cuore a cercare nell’altro, in qualsiasi condizione, in qualsiasi situazione, a cercare che cosa si agita veramente nel suo cuore per trovare lo specchio di quello che cerchiamo noi, che desideriamo noi. E per poter dire a tutti, anche in una condizione come quella in cui vive da quarantasette anni Monsignor Ballin, “Tu sei un bene per me”. Allora, grazie ancora, Eccellenza. Scusatemi, visto che c’è ancora qualche minuto, una delle domande che volevo fargli è se lui, in quella condizione, si sente libero o se gli manca qualcosa.
S. ECC. MONS. CAMILLO BALLIN:
Non mi manca niente. No, sono completamente libero, soprattutto quando ero in Siria, ma anche in Sudan, sono quarantasette anni che sono seguito, intercettato, controllato e non mi sento psicologicamente condizionato da nessuno, mi sento liberissimo come se fossi in Italia. Tutta questa polizia che controlla il telefono o tante altre cose, l’e-mail, eccetera, fa il suo lavoro: loro fanno il loro lavoro e io faccio il mio e siamo tutti liberi.
DAVIDE PERILLO:
Devo dire che anche questo si vede guardandola in faccia. E allora, chiediamoci cosa può rendere liberi così in una condizione come quella che ha descritto.
S. ECC. MONS. CAMILLO BALLIN:
Una volta, in Sudan, un poliziotto mi disse: abbiamo appena ricevuto al Governo una relazione su di te. Ah, dico, interessante: per caso c’è qualche peccato che io non so di aver commesso? E dice: no, sappiamo che tu non entri in politica.
DAVIDE PERILLO:
Io ho il sospetto che se stiamo qui ancora un po’ ne tira fuori tanti altri, di fatti come questi, di episodi come questi. Però purtroppo dobbiamo chiudere, e allora chiudiamo ringraziando ancora Sua Eccellenza per la grande testimonianza che ci ha portato e per l’amicizia che ci ha mostrato, l’amicizia con noi ma soprattutto la dolce esperienza dell’amicizia con Gesù, perché quest’uomo vive di questo.