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VERO O FALSO? L’informazione nell’epoca del “fake”
Massimo Gaggi, Editorialista de Il Corriere della Sera negli Stati Uniti e autore di Homo premium; Walter Quattrociocchi, Head of the Laboratory of Data Science and Complexity all’Università di Venezia. Introduce Davide Perillo, Direttore Tracce.
Vero o falso? L’informazione nell’epoca del “fake”
Massimo Gaggi, Editorialista de Il Corriere della Sera negli Stati Uniti e autore di Homo premium; Walter Quattrociocchi, Head of the Laboratory of Data Science and Complexity all’Università di Venezia. Introduce Davide Perillo, Direttore Tracce.
DAVIDE PERILLO:
Buonasera a tutti, benvenuti a questo incontro in cui parliamo di fake news e informazione. Abbiamo dato un titolo che dice quanto siamo interessati a questo tema: “Vero o falso?”. Ma prima di presentarvi gli ospiti, vorrei introdurre questo momento di lavoro con un breve clip video. Vediamo se la regia lo fa partire.
Video
Come vedete, si tratta di Mark Zuckerberg che dice cose terribili. Avete visto che cosa dice, no? C’è un solo problema: che Zuckerberg non ha mai detto queste cose. È lui, perché obiettivamente è lui, ma se uno fa attenzione capisce anche che in qualche modo si è intervenuti su questo video. Gli fanno dire cose che non ha mai detto. Questo è un piccolo esperimento fatto apposta da un artista inglese che ha confezionato quello che tecnicamente si chiama deepfake, è una nuova frontiera del fake: sono video in cui il falso, o meglio, il costruito, l’inventato, non è più semplicemente una notizia articolata formulando testi, immagini verosimili, ma arriva a far dire via video cose che non sono mai state dette. Allora, capite che è una frontiera che si sta spostando sempre più avanti, è una frontiera che ha qualcosa di inquietante ed è un fenomeno che non è nuovo, perché il falso è sempre esistito, la propaganda è sempre esistita, anche l’inventato ad arte è sempre esistito e ha sempre avuto uno scopo e una funzione. Però, è come se in questo periodo, in questo momento storico – infatti se ne parla tantissimo – la pervasività, la velocità con cui c’è la possibilità di diffondere cose di questo tipo, la capillarità con cui si possono far arrivare in fretta ovunque e anche, da un certo punto di vista, la profondità a cui si può arrivare confezionando un falso di questo tenore, sono sempre più incisivi, sempre più inquietanti. Anche perché, da un certo punto di vista, queste capacità sono inversamente proporzionali all’attenzione che normalmente dedichiamo alle notizie che scorrono in rete, al modo con cui ci informiamo. Da qui, l’incontro che vogliamo fare oggi con gli ospiti che vi presento e che vi prego di accogliere con un applauso, cominciando qui alla mia destra da Walter Quattrociocchi, che insegna all’Università di Ca’ Foscari a Venezia e dirige il laboratorio di “Data Science and Complexity”. Ma soprattutto è uno degli esperti di riferimento, una delle persone che studiano con più vastità e profondità il fenomeno delle fake dell’informazione. I suoi studi sono stati pubblicati o hanno fatto riferimento ad articoli praticamente sulle testate di tutto il mondo. Lui stesso ha scritto due libri che sono punti di riferimento per chi vuole studiare e iniziare a capire, con un po’ più di profondità, questo tema: Misinformation, che è uscito per Franco Angeli nel 2016 e Liberi di crederci. Informazione Internet post verità, Codice edizione 2018. E’ veramente un punto di riferimento per chi vuole capire qualcosa di più su questa frontiera. Così come è un punto di riferimento l’altro nostro ospite, un amico del Meeting, Massimo Gaggi, editorialista del Corriere della Sera dagli Stati Uniti, un esperto anche della Silicon Valley e quindi, come dire, dei punti che in qualche modo sono direttamente o indirettamente all’origine di questo fenomeno. E’ ovviamente un protagonista e anche uno studioso dell’informazione. Ricordo che qualche anno fa hai iniziato a occuparti di questi temi con un libro che parlava della possibilità dei cambiamenti che stanno attraversando il mondo dell’informazione. L’ultima notizia è su un libro più recente, ne abbiamo parlato anche in un altro incontro ieri, sulle dinamiche con cui l’intelligenza artificiale, che è alla base di certi cambiamenti che stiamo vedendo, sta mutando la prospettiva della società. E quello che ci interessa è proprio questo, non soltanto capire come e fino a che punto sono delle storie, delle balle, delle invenzioni, le notizie che vediamo funzionare, che vediamo girare, circolare intorno a noi. Ci interessa capire anche come sta cambiando il nostro approccio con l’informazione. Allora, partirei proprio da Walter Quattrociocchi, chiedendogli anzitutto di farci un breve e rapido quadro della situazione. Cioè, di cosa parliamo veramente quando parliamo di fake, perché credo ci sia subito da fissare dei puntini sulle i?
WALTER QUATTROCIOCCHI:
Quando parliamo di fake, quando parliamo di fake news – tutti quanti avete sentito più o meno, no? Notizie false che circolano su Internet – diciamo che forse fake news è soltanto un effetto collaterale di un cambiamento molto più grande che è avvenuto a valle della fruizione dell’informazioni online: siamo passati da un ambiente che fino a 20, 30 anni fa era in qualche modo gestito, mediato, c’erano dei giornalisti, una redazione, venivano selezionati gli argomenti che andavano pubblicati e diventavano argomenti di discussione pubblica. Questo fa leva sulla società per definire quali sono gli argomenti importanti, cioè gli argomenti che vengono più riportati dai media, mediamente sono quelli ritenuti più importanti dall’audience. Questo è vero fino a 30, 40 anni fa, poi, man mano che si è avvicinato Internet, c’è stato un cambiamento vero e proprio di paradigma perché si è passati da un sistema che era mediato a in sistema completamente disintermediato. Ovvero, il numero di like determina se una cosa è importante o meno: questo processo fa sì che uno strumento di intrattenimento come il social media, Facebook, per esempio nasca come strumento di intrattenimento per prendere i numeri di telefono dopo le feste. Cioè, non nasce con l’intento di informare le persone. Questo processo fa sì che siccome c’è tanta attenzione, tanto tempo libero, si finisce per sfogliare questi news feed e per trovare informazioni che in teoria noi processiamo in un momento ludico, in un momento di passatempo, quando non cerchiamo la verità. Quello che succede è un appiattimento della qualità dell’informazione perché sono aumentate esponenzialmente le fonti che cambiano lì sopra. Lo sapete qual è l’immagine con più like su Instagram? Un uovo è l’immagine che ha più like su Instagram: questo significa che cambia proprio lo scopo di fruizione dell’informazione, a scapito dell’accuratezza, a scapito dell’approfondimento. E in qualche modo, questo processo si è stratificato fino al punto che oggi, se non sbaglio, siamo intorno al 60 per cento delle persone che si informano direttamente attraverso il social media. Uno non va alla testata giornalistica ma passa direttamente attraverso Facebook, Twitter. Il 60 per cento sono numeri molto grandi, se calcoliamo che in Italia siamo più di 23 milioni di persone connesse a Facebook. È cambiato questo paradigma e il giornalista si è trovato in qualche modo in difficoltà; è cambiato il linguaggio, non è più il linguaggio della redazione, è il linguaggio del social che domina la comunicazione; è cambiato il business model, il modo di fare soldi, quindi in qualche modo più gente mette like, più attiro persone, più sono pagato, più la testata giornalistica ha successo. Questo declina anche il modo di fare giornalismo, si appiattisce il linguaggio, si arriva quindi fondamentalmente ad un unicum di tante fonti di informazione che competono per l’attenzione dell’utente, non sulla qualità ma sulla capacità di intrattenimento ludico. Le fake news sono una piccola percentuale, una frazione di questo nuovo linguaggio, di questo nuovo dominio di informazione che circola e purtroppo possono anche avere effetti molto negativi, ad esempio nel caso delle vaccinazioni. Abbiamo fatto degli studi, due esperimenti su grossi numeri: un esperimento su 55 milioni di persone e uno più grosso su 376 milioni di persone. L’indagine è stata questa: come reagisci, tu che sei tendenzialmente esposto a informazioni relative alla dieta naturale, se ti dico che puoi curare la congiuntivite con il limone? Quindi, passare fake news, informazioni non accurate in coerenza con l’informazione che generalmente segui. Oppure, se sei della Juventus, come reagisci se ti dico che Guardiola sarà il prossimo allenatore della Juve, più o meno, ok? Viceversa, come reagisci ad un informazione che ti dice la realtà dei fatti in maniera puntuale? Se cioè ti dico che la cura naturalistica non sempre funziona, che l’omeopatia è una bufala, che le vaccinazioni fanno bene o che Guardiola non verrà mai alla Juventus? Questi sono i due campioni. Quello che troviamo è banale: prendiamo informazioni che aderiscono alla nostra visione del mondo, non ci importa se siano vere o false, ignoriamo informazioni a contrasto, anzi, se qualcuno ci dà torto, ci arrabbiamo pure e aumentiamo il consumo di informazione che ci conferma la nostra visione, seppure è sballata. Quindi, si creano questi gruppi di riferimento su Internet. Siamo passati dall’edicola che aveva dieci giornali a un campione di mille testate giornalistiche, blog e varie, finiamo per trovare la testata, la fonte di informazione che più aderisce alla nostra visione del mondo, troviamo altre persone che sono finite lì per lo stesso motivo e lì parte il vero disastro: l’instaurazione di quelle che vengono chiamate le casse di risonanza, i gruppi tribali, persone che condividono la stessa narrazione, lavorano, cooperano e strutturano un insieme, una visone del mondo condivisa. E non importa se l’informazione è vera o falsa, importa quanto l’informazione sia coerente e tenga unito il gruppo. Tutte le informazioni che vanno contro il credo condiviso dal gruppo vanno prese a bastonate, guardate il caso del dialogo Vax, Pro Vax, No Vax, vaccinazioni, contro le vaccinazioni. La comunicazione online è diventata fondamentalmente propaganda. E il giornalismo, le fake news, sono uno dei vettori principali di questo tipo di dinamica, di questo processo detto memetico di trasformazione dell’informazione.
DAVIDE PERILLO:
Abbiamo già introdotto alcuni punti notevoli, uno evidente: la disintermediazione. C’è l’accesso diretto a quella che si ritiene una notizia. E due, l’interesse, il pregiudizio di conferma che scatta nei confronti di cose che pensi già di sapere, con cui sei già d’accordo, che ti predispone in maniera differente rispetto a notizie che vanno in senso contrario. Queste sono per definizioni sue contrappunti a quello che è sempre stato il mestiere del giornalista, cioè vanno da un’altra parte. Allora, volevo chiedere a Massimo come l’avanzata progressiva di questa modalità di approccio all’informazione, perché capite che si tratta proprio di un modo di guardare quello che ci scorre davanti nello schermo del telefonino, stia mettendo in crisi l’informazione tradizionale cioè i giornali, i loro siti. E che cosa vuole dire far fronte a una condizione di questo tipo per chi lavora in un giornale.
MASSIMO GAGGI:
Condivido essenzialmente tutto quello che è stato detto da Quattrociocchi: l’analisi è per noi dolorosa, ovviamente. Ma purtroppo questi sono i fatti che l’evoluzione tecnologica, di Internet, ha portato. Credo che qualche minima responsabilità pre-Internet ce l’abbiamo anche noi, non solo quelle di non avere capito tempestivamente cosa avrebbero portato le nuove tecnologie ma anche il fatto che in precedenza, probabilmente, abbiamo commesso qualche errore quando, per cercare di migliorare la posizione commerciale delle nostre testate, in un mondo in cui le narrazioni cominciano a diventare più seducenti delle informazioni brute, si tendeva a abbellire le storie costruendoci sopra un po’ di romanzi e, quindi, non essendo sempre totalmente attenti all’oggettività e all’esattezza delle informazioni. Ma detto questo in chiave autocritica, devo dire che quello che poi è successo, in larga misura è andato molto al di là delle capacità di previsione, di intervento dei giornalisti per contenere questi fenomeni. Nei limiti del possibile, i giornalisti hanno cercato di prepararsi al mondo dell’informazione digitale dando per scontato che mano a mano che avanzavano le tecnologie digitali, i lettori si sarebbero spostati dalla carta ai siti. I canali dei social media hanno trasformato radicalmente tutto questo, pensavamo fossero delle condutture come erano in precedenza le società di comunicazioni – la Telecom, la TNT in America -, invece hanno acquisito un ruolo completamente diverso, sono riusciti a prendere non solo l’attenzione della gran parte del pubblico ma anche a impossessarsi di gran parte della pubblicità, dei contenuti che vengono prodotti dai giornalisti a costi molto elevati per i nostri editori. E tutto questo ovviamente sta creando, come sapete benissimo, ne parliamo in continuazione, quindi rischiamo di ripetere cose già ben note, una crisi del mondo dell’informazione che è planetaria e che, salvo forse alcuni paesi asiatici in cui l’informazione giornalistica cartacea ha ancora un peso molto rilevante, ma insomma in linea di massima questo è un problema drammatico. Io vivo negli Stati Uniti, lo vedo tutti i giorni, perfino in testate come il New York Times che sono riuscite con successo a trasformare i lettori cartacei in lettori digitali: hanno ormai quasi 4 milioni di abbonamenti digitali ma, nonostante questo, una struttura di giornalisti ben fatta, con 1300 giornalisti, con la capacità di coprire informazioni in tutto il mondo a costi elevatissimi, loro stessi, pur avendo aperto le porte al dialogo con i social media in mille circostanze, poi si sono presi conto che questo dialogo ha portato dei vantaggi ma anche molti danni. Adesso poi sono stati rinegoziati questi accordi, tu ne sai sicuramente molto più di me, in vari modi: ma questa è una realtà oggettiva. Come se ne esce? Credo che gli studi che stanno facendo le accademie siano molto più efficaci del lavoro che riusciamo a fare noi in questi campi. Stiamo cercando soprattutto di produrre un’informazione più adatta al tipo di fruizione che abbiamo oggi e con i lettori di oggi. Nel campo delle fake news, le istituzioni universitarie americane stanno facendo un lavoro forte ma io non so fino a che punto l’identificazione del fake sia efficace e utile, da questo punto di vista. Bisogna semplicemente rendersi conto che sono cambiati profondamente i parametri, non è soltanto la questione dell’attenzione alla verità e alla tribalizzazione, c’è un fatto, credo. Ne parlava, in un dibattito precedente sulla trasformazione della politica, questo esponente portoghese, Luís Miguel Poiares Maduro, protagonista della politica nazionale ed europea. Ha detto che occorre ridare un po’ di credibilità all’informazione professionale, addirittura all’autorevolezza degli editori. Ma notava anche come c’è una crisi non solo della verità ma anche dell’autorità. Faceva un esempio che non c’entra niente con la politica, con le cose di cui parleremo oggi ma è più vicina al discorso che faceva lui dei no Vax. Parlava della medicina, cioè dell’abitudine che anche nel suo Paese si riscontra: le persone che vanno dal medico, si fanno fare una diagnosi, tornano a casa, guardano Google e si fanno la contro-diagnosi. Qui non è neanche una questione di fake news ma di avere la sensazione di avere in mano uno strumento che ti dà il poter di giudicare laddove, come diceva oggi, ancora cito quel dibattito, Sabino Cassese, tendiamo a fare una certa confusione tra percepire, ricevere un’informazione in un grande rimbombio di canali e pensare che questa sia conoscenza. Cioè, la confusione tra ascoltare un rimbombo di informazioni, un rimbalzo di informazioni e pretendere che questo sia conoscenza, è uno dei problemi secondo me principali che oggi abbiamo, un problema politico, prima ancora del futuro dell’informazione. Il nostro problema, per dirla tutta con molta onestà, è un problema di sopravvivenza perché i gruppi editoriali sono quasi tutti in condizioni molto difficili. Per quanto riguarda le fake news, ci sono poi gli aspetti relativi alle interferenze perché, come giustamente dicevi tu, le fake news sono sempre esistite. Sun Tzu, nel VI secolo a.C., diceva: “Nella guerra tutto è legittimo, la cosa molto più importante della forza è la capacità di ingannare con l’informazione falsa l’avversario”. E lasciando perdere il Russiagate e la disinformazia che i russi hanno fatti fin dai tempi del giogo sovietico, nel XX° Secolo, in tutte e due le guerre mondali, la Gran Bretagna ha dovuto utilizzare, a volte anche con colpi sotto la cintura, sistemi di convinzione della opinione pubblica americana che non voleva intervenire nelle due guerre, nel 1917 e nel 1942. Facendo sostanzialmente una disinformazione per convincere l’opinione pubblica americana ad intervenire nella guerra contro le potenze e contro la Germania. Quindi, sempre è esistito tutto questo ma abbiamo visto la velocità, la rapidità che tutto ha preso in epoca digitale, la capacità di interferire con grande rapidità, con grande efficacia, con costi molto bassi, in tempo reale in qualunque parte del mondo, e anche di fare di tutto questo un business. In molti casi, al di là degli interventi politici e della volontà di alcuni Paesi di interferire nei processi elettorali di altri Paesi, stante il fatto che l’informazione o la disinformazione accentua la polarizzazione, dà giudizi molto drastici, crea e rafforza le tribù, abbiamo visto che non è solo un fatto politico, sociologico e sociale ma anche un fatto economico. Spesso e volentieri in America si era visto anche prima che si parlasse tanto di Russia nelle elezioni del 2016. Si vedevano molti casi di giornalisti che andavano a intervistare dei ragazzi che avevano creato sistemi per attaccare Hillary Clinton con messaggi molto forti, pesanti. Ad una certa ora del giorno, se vedevano che questi messaggi non avevano portato abbastanza click, mandavano un messaggio ancora più insultante e i click aumentavano e gli introiti pubblicitari aumentavano. Quindi, c’è anche un meccanismo di funzionamento distorto del capitalismo digitale in questo campo.
DAVIDE PERILLO:
Quindi, stiamo parlando di meccanismi che non nascono evidentemente in rete ma che la rete moltiplica. Tu parlavi di una perdita di autorità, per esempio, da parte di punti di riferimento, che non vuol dire perdita di fiducia da parte di chi normalmente era deputato a mediare tra la realtà e chi la riceve. Ma questo che cosa significa? Che in qualche modo sta cambiando anche la nostra attitudine, la nostra percezione nel distinguere fino a che punto dobbiamo fidarci di quello che abbiamo davanti?
WALTER QUATTROCIOCCHI:
Decisamente sì, sicuramente sono aumentate le fonti di dubbio. L’autorità in qualche modo non viene più riconosciuta come tale perché mi è capitato in ambiente familiare una compagna e professoressa di matematica che, quando sta a scuola e spiega matematica, si trova gli studenti che vanno a controllare se sta dicendo la cosa giusta oppure no. Lo fanno la prima volta, la seconda, la terza, la quarta smettono e mettono via il cellulare. La fiducia è la parola chiave, abbiamo una quantità di informazione enorme. Prima, l’autorità veniva dal fatto che mediavi, selezionavi le fonti. Adesso non c’è più quel potere di discernimento e in qualche modo bisogna riconquistare la fiducia. Non è un caso che gran parte del dibattito politico, non soltanto italiano ma a livello internazionale, più che a destra o a sinistra o su questioni ideologiche, diventava un dibattito tra establishment e anti establishment, élite contro non élite. Perché in qualche modo non si riconosce più il ruolo dirimente dell’esperto rispetto ad una determinata tematica. Questo non è soltanto colpa di Internet, perché non è che l’élite, in tanti casi, abbia avvallato questo tipo di processo. Però resta che l’unica alternativa che abbiamo, l’unico antidoto, è il ricreare un ambiente di fiducia. Ma bisogna stare molto attenti perché, per esempio, io a lezione ultimamente faccio un esperimento. Quando abbiamo a che fare con la costruzione dell’analisi dei dati della realtà, scopriamo che i dati sono fortemente interpretabili, quindi manipolabili. Io li faccio partire da problematiche di irrisolvibilità del problema: cioè, li metti di fronte ad una cosa che non ha soluzione e parti dal limite che abbiamo. Quello in qualche modo li porta ad una dinamica di fiducia perché non parto dall’idea che chi sta sopra deve sapere tutto ma che ci ha provato, cercando di darti una informazione. In qualche modo, ti ha passato un minimo di elaborazione che ti torna utile perché, se dovessimo indagare tutto, la questione diventerebbe più complicata. E comunque l’elemento forte è la fiducia, la ricostruzione del dialogo.
DAVIDE PERILLO:
E qui siamo già in un tema caldo: prima di entrare nella questione di come recuperare la fiducia, che strumenti possiamo adoperare per combattere? E che dimensione ha veramente questo fenomeno?
WALTER QUATTROCIOCCHI:
È il fenomeno della disintermediazione: a livello di impatto, di devastazione, penso sia epocale.
DAVIDE PERILLO:
Ma si tratta proprio del fake, cioè dell’uso consapevole di questa disintermediazione per scopi che sono diversi da quelli dell’informazione, dell’intrattenimento puro?
WALTER QUATTROCIOCCHI:
Fortunatamente, sono un po’ meno di quello che si dice, non sono così amplificati. Evidentemente già parlarne ha portato a diversi risultato, ha avuto una sua utilità, per lo meno nel portare alla luce la questione. Però, per quanto riguarda la diffusione, non abbiamo dati, stiamo lavorando all’analisi delle informazioni durante le scorse elezioni europee perché non si può fare durante. Quello che viene fuori è che fondamentalmente il numero di fake, di sorgenti, di fonti che vengono utilizzate è diminuito: per la maggior parte, rimangono coinvolte su se stesse. Ci sono gruppi di account twitter che si auto alimentano ma sono esclusi dal circuito di informazione. I politici e le testate giornalistiche sono un mondo a parte, minimale. Il fatto che sia minimale però non significa che non abbiano impatto. I No Vax, ad esempio, tutta la tiritera contro le vaccinazioni, è stata portata avanti in Italia dallo 0,7 per cento di account Facebook: cioè, lo 0,7 per cento della popolazione Facebook si è dichiarata contraria ai vaccini. Quindi, c’è una percentuale minimale ma che è in grado di generare volumi mostruosi di informazione.
DAVIDE PERILLO:
Volevi dire una cosa su questo, Massimo?
MASSIMO GAGGI:
No, volevo dire che credo anche io che sulle elezioni europee non ci siano stati impatti e anche sulle elezioni americane, penso che non siano state decisive, le interferenze dall’estero, quelle interne forse di più. L’uso dei media, però: non ho risposte se questo fenomeno non abbia un effetto moltiplicatore, un atteggiamento di spregiudicatezza da parte di alcuni leader, quelli che noi chiamiamo leader populisti, a livello planetario. Non parlo tanto di Europa quanto di America dove ho l’esempio di Trump. Qualche settimana fa, c’è stato un fake di quelli proprio banali, che non era neanche la trasformazione di Zuckerberg ma era semplicemente rallentare un discorso della speaker della Camera del partito democratico: sembrava il modo di parlare di una persona ubriaca. Questa cosa è diventata virale, fa parte dei soliti meccanismi. Dopodiché, il presidente degli Stati Uniti, massima autorità della democrazia mondiale, ha ri-twittato questa cosa scrivendo: «Balbetta?». Non ha detto che era ubriaca ma insomma, ha sostenuto la tesi. E vabbè, può anche essere una cosa che fa ridere, non incide sulle elezioni. Però, per esempio, ho letto – ma non so quanto sia vero – che in India, prima delle elezioni, il partito di Modi era molto indietro. Poi ci sono stati gli attentati pachistani in Kashmir, c’è stata la reazione militare della aviazione indiana, che è stata presentata in India come una offensiva micidiale (in realtà pare che abbiano fatto poche buche senza nessun risultato) e questa reazione è stata mostrata alla opinione pubblica indiana con dei filmati che in realtà erano i filmati di un terremoto pachistano di alcuni anni prima. Lui ha vinto le elezioni. Mi dicono che Bolsonaro ha fatto delle cose non molto diverse. In Asia stiamo vedendo situazioni analoghe, nella stessa India ci sono stati casi di linciaggio legati a false notizie su bambini rapiti, sempre a danno di minoranze etniche, in Indonesia c’è un leader politico di origine cinese. In un Paese a maggioranza musulmana, gli è stato fatto dire con un fake un insulto contro il Corano che lui non ha mai pronunciato. Si stanno diffondendo queste cose in modo assai pericoloso. E tornando alla Russia, pare che stiano facendo un lavoro di questo tipo anche in Thailandia, che è un Paese filo-occidentale.
DAVIDE PERILLO:
Insomma, non è così diffuso, il fenomeno, però è acuto, molto incisivo, capace di incidere e di andare a toccare punti decisivi, nodali.
MASSIMO GAGGI:
Con le opinioni pubbliche che forse sono anche meno attrezzate di quelle occidentali per queste problematiche.
DAVIDE PERILLO:
E qui torniamo proprio alla questione che stavamo introducendo prima, quella della fiducia, perché è paradossale che un leader aumenti la fiducia nei suoi confronti, il consenso nei suoi confronti, adoperando con questa modalità uno strumento che poggia proprio sulla insicurezza, sulla sfiducia. Come si esce da questo circolo vizioso? Che cosa permette di scardinarlo?
WALTER QUATTROCIOCCHI:
Se ne esce? Prima cosa.
DAVIDE PERILLO:
E questa è un’altra domanda che dobbiamo iniziare a farci per bene.
WALTER QUATTROCIOCCHI:
Quello che si vede all’orizzonte scientifico non è così chiaro, abbiamo in atto un esperimento di un anno con il Corriere della sera, abbiamo provato a vedere come diverse tecniche giornalistiche, come i diversi modi di raccontare una informazione, influenzino le reazioni degli utenti sul tema dell’immigrazione. Non è banale, perché porti i dati, quindi informazioni fattuali, engagement. L’interazione degli utenti è moto bassa, si annoiano.
DAVIDE PERILLO:
Se ti dico come sono fatte le cose, interessa poco, non ti attira.
WALTER QUATTROCHIOCCHI:
Se ti dico che ti faccio un articolo fortemente narrativo, insomma, se ti dico come stanno le cose, la reazione che tendi a scatenare è la tossicità dei commenti. La gente si arrabbia, abbiamo una problematica: non riusciamo a trovare un linguaggio che sia in grado di non degenerar sul social. Un altro esperimento che facemmo anni fa era vedere come, a furia di stare sullo stesso argomento con persone che condividono la stessa cosa, varia il tipo di emozioni che esprimi. Purtroppo, quello che succede è che più sei attivo, più tendi ad essere negativo: commenti negativi, negatività, sfiducia, crisi. In qualche modo, questo trend intercetta già una insicurezza di fondo. Come si fa allora a ricostruire la fiducia in un contesto che già di suo tende al negativo, alla tossicità? Io non sono così sicuro che se ne esca: tante narrazioni populiste di questo tipo fanno affidamento su una fenomenologia che è fuori da Internet. Ci hanno raccontato che c’è un mostro che si chiama globalizzazione, e quello che stiamo vedendo è la verifica, la messa in atto di questi processi, dalla delocalizzazione alla povertà all’immigrazione. Già Popper lo dice, molto pre-Internet, quando parla della società aperta e dei suoi nemici. Vi invito a riflettere un attimo e a trovare analogie col contemporaneo. Di fronte ad un mondo che cambia, quando non riesci ad identificare un nemico la reazione possibile è: a) ti chiudi e ti trinceri dietro quello che era prima, quindi lo storicismo; b) dai la colpa ai poteri forti, il complottismo. Da una parte, i complottisti, dall’altra l’establishment che in qualche modo si radicalizza in termini di posizione. Non è un caso che le macro aree di dibattito narrativo alla lunga, gira che ti rigira, finiscano sempre ad essere queste due qua. C’è un cambiamento in atto e non riusiamo bene a capire come contrastarlo e c’è un ansia di controllo rispetto alla cosa. Però io vorrei spezzare una lancia in favore di Internet rispetto alla cosa, perché viene detto che Internet è il male assoluto. Internet, i social, hanno anche l’effetto collaterale della fake news e questo tipo di dialettica, però quello che sta succedendo ad Hong Kong, secondo me, è molto interessante dal punto di vista dell’organizzazione sui social media.
DAVIDE PERILLO:
Spiega il perché.
WALTER QUATTROCIOCCHI:
Perché fondamentalmente il Governo controlla quel tipo di comunicazione. Le persone si sono organizzate: quelli che protestano – la rivolta degli ombrelli, non so se avete presente – e praticamente comunicano sui social media che non sono controllati dal Governo, confermano in qualche modo l’idea che la disintermediazione abbatte la struttura del potere gerarchico precostituito, ma tende a crearne delle altre. La cosa positiva è che in teoria dovrebbe facilitare il rinnovamento. Uno dei motivi per cui c’è tanto antagonismo, è pure il fatto che spesso e volentieri, per lo meno a me capita molto di girare per queste conferenze in cui si parla di fake news e varie, spesso il clima è asfittico su questo tema: si parla spesso del male, dei cattivi, di quelli che dicono le bugie contro quelli che dicono la verità, senza in qualche modo entrare nel vivo della dinamica, che non è neanche un problema. In qualche modo, stiamo vivendo un cambiamento in atto e vi posso garantire che il futuro non è così tragico come sembra in termini di generazioni future che vengono su.
DAVIDE PERILLO:
Perché?
WALTER QUATTROCIOCCHI:
Perché abbiamo fatto un format di divulgazione con gli studenti, con Facebook, il Miur e l’Autorità garante per le comunicazioni; e questo format non va nella direzione di dirti che questo è vero e questo è falso. Abbiamo un limite: prima cosa, l’essere umano non è onnisciente, questo è il primo passaggio, la prima cosa che dovrebbero insegnarti all’Università, ma anche alle elementari, il pensiero logico, insomma, l’indicibilità di Goethe. Neanche la logica è in grado di descrivere tutto: questo non significa scetticismo e relativismo totale, significa solo che dobbiamo scendere a patti col fatto che alcune cose non siamo in grado di capirle. Questa è la realtà dei fatti. E quindi, impostando un format di questo tipo, in cui in qualche modo cerchiamo di rendere gli studenti di medie e medie superiori consapevoli del processo in dinamica, di come cambia il linguaggio e l’interesse, del fatto che lo strumento è ludico e interattivo, in qualche modo ricostruiamo il processo dinamico per cui l’informazione fake è parte di un contesto, di un flusso di informazione che non è controllato. E se chiedi a questi studenti, dopo che hanno fatto il corso: qual è il vero problema delle fake news? Loro ti rispondono: le fake news le condividono soltanto i quarantenni e i cinquantenni che non sanno usare Facebook e che scrivono «buongiornissimo caffè», perché loro invece lo sanno usare benissimo. Se vai a vedere chi condivide le fake news, è quello che scrive «Buongiornissimo caffè» o «Buon Ferragosto» con la fetta di cocomero, l’inesperto, l’analfabeta digitale, è il genitore che non è più nel suo ruolo parentale. Adesso non abbiamo i numeri per fare un assessment scientifico della cosa, siamo sul migliaio di persone, più o meno, però il segnale è forte.
DAVIDE PERILLO:
Volevo tornare sulla questione della fiducia perché, secondo me, detta anche una modalità di fronteggiare questa vicenda. Volevo chiedere a Massimo perché per esempio i grandi giornali hanno cercato di reagire e poi, man mano anche tutto il sistema sociale, le scuole, eccetera, hanno cercato di reagire con formule racchiuse in espressioni come “fact-checking”, allora potenziamo l’accuratezza, la verifica dei fatti in maniera tale che spieghiamo che questo è vero. Cioè, diamo più informazioni vere per fronteggiare il de-banking, cerchiamo di eliminare la fuffa. E poi si è iniziato a parlare moltissimo di alfabetizzazione digitale, cioè come insegniamo anche nelle scuole a distinguere il falso dal vero. E ci si è resi conto, man mano, che tutte queste cose non bastano, non sono sufficienti. Uno dei massimi esperti di questi argomenti, che si chiama Dan Abboud, poco tempo fa sul suo blog faceva notare questa dinamica: se le contromisure che cerchiamo di affermare sono tutte sulla base dell’insegnare a dubitare, cioè a diventare ancora più scettici, in realtà rischiamo di moltiplicare, di intensificare proprio questa dinamica di scetticismo di fronte a quello che viene detto come notizia: per curare la diffusione del falso, finiamo per intensificarla. Ti insegno a dubitare di tutto, tu finisci per essere ancora più complottista; e allora, quali strumenti possono diventare efficaci e, soprattutto, che cosa permette di andare a incidere sulla vera questione, un’insicurezza di fondo, una paura, qualcosa di più radicale di quello che si vede in rete?
MASSIMO GAGGI:
Su questo punto non sono del tutto d’accordo, nel senso che sicuramente in gran parte nasce da pulsioni profonde e da un’evoluzione sociale che è quella che è stata descritta. Credo però che una parte di responsabilità molto rilevante l’abbiano la rete, i social media, e che ci sia un lavoro da fare in questo campo. Non so se il tipo di regolamentazione che si sta cercando di mettere in campo in Europa, i lavori che sta facendo il Congresso nei vari centri di ricerca, approderanno a qualcosa di concreto e fattibile; però, onestamente, il fatto che Zuckerberg ancora un mese, due mesi dopo le elezioni americane sostenesse che la rete non ha avuto nessun ruolo in tutto questo, salvo poi dover fare una precipitosa marcia indietro, indica che c’è un’impreparazione culturale da parte di queste persone che gestiscono e hanno gestito per anni – ormai probabilmente i buoi sono già usciti dalla stalla – questo cambiamento culturale in maniera assai poco avveduta. Credo che su questo fronte ci sia da fare un lavoro importante di presa di coscienza. Noi giornalisti stiamo facendo tante cose ma quando, per esempio, tentiamo di avere un rapporto più stabile con Facebook, e poi Facebook ti cambia l’algoritmo da un giorno all’altro, testate tipo Vanity Fair Italia, che puntavano molto su quel tipo di rapporto, hanno perso il 40 per cento del mercato per una decisione presa da in signore che sta in un paesino della Silicon Valley e ha deciso che bisognava cambiare l’algoritmo per portare più sul personale, sul familiare, la comunicazione e meno sul lato giornalistico. Vuole dire che queste aziende hanno una capacità di incidere sull’opinione pubblica, e quindi sulla formazione politica dell’opinione pubblica, impressionante, enorme. Io credo che un cambiamento importante, che deve essere anche un po’ filosofico, nasca dal modo di ragionare di queste società o di chi avrà il potere di regolamentare queste società. Anche qui, cito qualcosa che ho sentito al Meeting in un dibattito sul digitale nelle scuole. Un professore della Cattolica, il professor Rivoltella, citava questo saggio di Marc Hans: per come ce l’ha raccontato, dice una cosa molto fondata. Siamo stati abituati, ed è abituato il mondo della Silicon Valley, è abituata la cultura americana, a ragionare in termini di feedback: cioè, getto il cuore oltre l’ostacolo, ci provo, vedo che cosa succede, non mi pongo limiti, faccio l’esperimento. Poi, se c’è qualcosa che non funziona, l’aggiusto. Hans ha scritto un libro, Feed forward: le cose stanno cambiando con l’intelligenza artificiale. Con l’innovazione della tecnologia, possiamo trovarci a mettere in campo cose che cambiano molto rapidamente e in modo molto dannoso, quindi, bisogna avere la capacità – lui lo dice nel senso della preparazione degli insegnanti ad affrontare i temi dell’intelligenza artificiale nelle scuole – di vedere in che direzione andiamo perché altrimenti potrebbe essere troppo tardi per correre ai ripari. Credo che questa dovrebbe essere la logica, cominciare a capire dove sta andando questo tipo di tecnologia e come cambierà il modo di pensare il rapporto dell’opinione pubblica con la politica. Perché altrimenti rischiamo veramente – è quello che già rischia di fare la politica internazionale, cioè il Congresso dove, durante l’audizione di Zuckerberg, i senatori gli fanno domande dalle quali si capisce chiaramente che non sanno neanche qual è il modello di business di quell’azienda – che anche quelli più preparati, se non capiscono in che direzione sta andando la tecnologia, affrontino il problema delle fake news mentre nel frattempo sta per arrivare deepfake, stanno arrivando altre formule tipo face app, che non sono dei fake ma formule che creano suggestioni che possono essere utilizzate in modo da creare sempre più qualcosa che va sulla fiction e non sull’informazione.
DAVIDE PERILLO:
Questo scenario per certi versi è inquietante, perché è evidente che la tecnologia corre con una rapidità cui la società, la politica fanno molta fatica a star dietro, a capire di che si tratta. Uno rischia di sentirsi sempre più solo e impotente di fronte a una cosa di questo tipo. Torniamo alla domanda di prima: che contromisure abbiamo, come possiamo, non solo difenderci da queste dinamiche ma capire, comprendere?
WALTER QUATTROCIOCCHI:
Faccio un’autocritica al mio gruppo di riferimento: l’accademia deve uscire dalla torre d’avorio. Noi abbiamo didattica, ricerca e un’altra cosa che viene chiamata terza missione, la divulgazione: portare fuori dal laboratorio di ricerca i risultati. Come gruppo, siamo molto attivi in questo processo di divulgazione. Non si può pretendere che il giornalista da solo abbia l’onere di raccontare e spiegare tutto. Il politico non ha l’onere né la capacità effettiva di mettersi di fronte alle tematiche e alle complessità che affrontano, specialmente dal punto di vista tecnologico, e non lo può fare il filosofo. Una cosa che a me spaventa molto è mettere soltanto il filosofo a discutere di intelligenza artificiale: l’intelligenza artificiale è statistica, informatica, fisica, tutte tematiche che in qualche modo intessono il tessuto sociale per cui, se non usciamo dal discorso accademico, dal limbo, dalla torre d’avorio, rischiamo di rimanere confinati nel discorso, e quando usciamo fuori non troviamo più nulla. Come si fa a ricostruire questo passaggio di fiducia? Cominciando a ritornare al concetto che l’elite non ha un ruolo di privilegio rispetto alla società ma un ruolo ancillare e di servizio. Se io insegno e spiego e faccio delle cose, è mio dovere divulgare, passare del tempo a spiegare alle persone che cosa sto facendo, perché quelle persone poi si incontrano. Sul tema delle fake news, siamo stati attivissimi: penso che avremo fatto 200 talk negli ultimi due anni. Siamo andati nelle librerie e nelle osterie a raccontare il processo, e spesso la reazione è stata: «Ah, ok, quindi non è come ci hanno raccontato!». Rompi proprio quel meccanismo di sfiducia che si crea quando racconti ed elabori informazioni in maniera fallata: non voglio fare nomi però se ne sono dette tante sull’intelligenza artificiale, sui social network analytics! Quando la racconti in maniera un pochino più ponderata, più sostanziale, diciamo che vengono fuori meno racconti terroristici e sei più credibile. Secondo me, bisogna ripartire da lì.
DAVIDE PERILLO:
Ma secondo voi, domanda dal famoso milione di dollari, dovessimo pensare ad un modello di informazione da qui a cinque, dieci anni, cosa avrà di diverso rispetto a quello che c’è adesso?
WALTER QUATTROCIOCCHI:
Io mi immagino uno scenario futurista: quanti di voi sanno cos’è Waze? È un’applicazione per la navigazione online, praticamente un navigatore. Tu dici: «Voglio andare da qui a qui» e ti dà la mappa di quello che succede, con i feedback degli utenti. Cioè, una comunità di persone che ti dice: «Qui c’è la macchina ferma, qui c’è un’altra cosa». Secondo me, il sistema dell’informazione diventerà una cosa simile, nel senso che è richiesta la prossimità, quindi la vicinanza all’evento. Ci saranno delle mappe, reti sociali che ti diranno le persone che su quell’argomento sono ritenute di un certo valore e saranno votate e controllate dalla comunità. Il processo non tornerà ad essere verticale, troverà degli equilibri all’interno dell’orizzontalità. Per cui, secondo me, andrebbe già assecondato questo processo, perché se l’autorità ce l’ho con maggiore trasparenza, se l’autorevolezza la raggiungo con maggiore trasparenza, è ovvio che questo sistema prima viene messo in forma collaborativa, tipo Wikipedia – anche su Wikipedia ci sono i pro e i contro, si riescono a fare degli scherzi anche lì, tipo quando è morto Manlio Sgalambro e qualcuno s’è divertito a scrivere che aveva composto Fra’ Martino campanaro, e i telegiornali hanno riportato che aveva scritto Fra’ Martino campanaro, sono hackerabili anche quei sistemi però, in linea di massima, sono abbastanza affidabili -, quindi in qualche modo il controllo diventerà orizzontale e con un feedback loop interno. Ecco come immagino lo sviluppo futuro.
DAVIDE PERILLO:
Modello Wikipedia, più o meno.
WALTER QUATTROCIOCCHI:
Più o meno.
DAVIDE PERILLO:
Tu cosa pensi invece, Massimo?
MASSIMO GAGGI:
Non riesco ad immaginarmelo, anche perché abbiamo problemi molto più immediati. Quello che dice Quattrociocchi è abbastanza verosimile, io spero che non succeda di peggio. Penso a quando McLuhan tanti anni fa diceva che la terza guerra mondiale sarebbe stata combattuta sotto forma di guerriglia dell’informazione, senza differenza tra civili e militari; spero che non arriveremo a scenari di quel tipo. Spero molto in quello che diceva lui, cioè nel ruolo dell’accademia che esce dalla torre d’avorio, perché onestamente c’è, almeno per quello che vedo negli Stati Uniti, un lavoro che si sta facendo a cavallo tra giornalismo e accademia; che poi, in America ci sono molti giornalisti più o meno della mia età che escono dai giornali e vanno a lavorare nelle istituzioni culturali, anche accademiche. Di recente, sono stato per esempio a Stanford, dove hanno creato questo istituto per l’umanizzazione dell’intelligenza artificiale: ci lavorano anche giornalisti del New York Times, l’ex-capo della sicurezza di Facebook, diventato l’anima di questo nuovo istituto che si chiama Internet Observatory to Monitor Abuses: sono persone che hanno una competenza, che hanno sviluppato una loro visione etica lavorando all’interno di aziende dei social media e che oggi possono dare un contributo per capire come uscire da questa cosa, avendo ancora un rapporto con queste aziende, avendo alle spalle Università come Stanford, che comunque ha un’autorità morale molto forte nella Silicon Valley. Forse ho più fiducia in questo che non in un intervento del Congresso in cui i parlamentari sono quello che sono. C’è comunque una contrapposizione totale nella polarizzazione, nel muro contro muro della politica americana: e hai il presidente degli Stati Uniti che è più attento a intimorire i suoi avversari in vista delle elezioni che non ad equilibrare un sistema che avrebbe bisogno oggettivamente di una riforma.
DAVIDE PERILLO:
Questo a livello di macro. Ma su che cosa lavorare personalmente?
MASSIMO GAGGI:
Per distinguere professionalmente, per noi c’è sempre la tecnica del fact-checking, però mi rendo conto che, esattamente come ci ha spiegato lui, da un punto di vista dell’efficacia, nel confronto con gran parte dell’opinione pubblica, non funziona. Funziona magari con le persone che sono più attente all’oggettività dell’informazione, ma per le persone che sono invece in una logica tribale, no. Il Washington Post ha passato una vita col giochetto dei pinocchi a certificare tutte le affermazioni oggettivamente false di Trump durante la campagna elettorale!
DAVIDE PERILLO:
Il giochetto dei pinocchi: spiega cos’è, perché non so se lo sanno tutti.
MASSIMO GAGGI:
Era semplicemente il fatto di creare un sistema di verifica delle informazioni basato su una scala. A seconda di quanto queste informazioni sono attendibili o non attendibili, attribuire un numero di pinocchi da uno a quattro: senza pinocchi, è un’affermazione attendibile, un pinocchio è un po’ così così, quattro pinocchi…
DAVIDE PERILLO:
Una Michelin delle balle, insomma.
MASSIMO GAGGI:
Ecco, una Michelin delle balle. Trump ne ha collezionate migliaia, di queste informazioni, cosa che non gli ha minimamente precluso la possibilità di diventare presidente degli Stati Uniti, né, negli anni in cui è stato presidente, ha poi inciso in modo particolarmente negativo sulla sua credibilità, almeno nei sondaggi che abbiamo visto fino a oggi, presso il suo elettorato.
DAVIDE PERILLO:
Dovessi consigliare a uno dei ragazzi che sono in sala: come faccio a distinguere adesso? Aspettando che la politica si muova, qual è il punto di leva?
WALTER QUATTROCIOCCHI:
Diffidate di chi si prende troppo seriamente, il guru, chi la racconta. Chi dice che sa tutto lui è disonesto, quindi, nel contesto della tuttologia, cercare quel livello di onestà e di genuinità che in qualche modo ormai è diventato la moneta d’attenzione su Facebook o su Instagram. Cercare in qualche modo di vedere che chi sta lì dietro è un essere umano che vuole attenzione. Sapete come funziona un po’ il narcisismo, vagamente? Narcisismo è questo: noi ci creiamo un’immagine alterata di noi stessi e ci comportiamo in modo da far fede a una determinata immagine di noi stessi che non è vera, che non è reale, per aumentare l’approvazione sociale. Su Internet, questa approvazione sociale è misurabile dal numero di like. Ogni influencer, ogni persona che sta lì sopra, che si comporta in quel modo, tende a sublimare l’immagine che vuole passare alla sua audience, si esalta; quindi, quando vediamo in atto questi meccanismi, diffidate. Lo diceva Jung, non è roba nostra, insomma, è una roba un po’ più antica. Quando uno non è in grado di prendersi poco seriamente, prima o poi sarà ridicolizzato da chi lo guarda e quindi, in qualche modo, questo è un elemento di discernimento.
DAVIDE PERILLO:
Vi ringrazio perché il tempo è tiranno e la carne che abbiamo messo al fuoco è tanta: tanti spunti, tante indicazioni, evidentemente sarebbero tutte da riprendere e approfondire. E lo sono, ognuno per sé. Ma credo che tutto quello che abbiamo sentito stasera alla fine ci riconduca ad una questione di fondo, proprio perché si tratta di questioni che sono più radicali, che in rete si esprimono ma che hanno una radice che viene prima della rete. In sostanza, si tratta di una paura, di un’insicurezza di fondo che viviamo, di una solitudine. E’ ancora più urgente, secondo me, una questione che non ha a che fare con la rete ma che è decisiva anche quando ci informiamo, cioè la generazione di un soggetto che ha meno paura, è così solido da non dipendere dai like, dal non cercare la sua consistenza nel narcisismo di cui parlava Walter, da poter essere in grado di giudicare, di riconoscere, di desiderare, di dar credito al desiderio che ha dentro, di generare un soggetto capace di giudicare. Questa è la cosa decisiva anche in rete, ma viene fuori dalla rete e io credo che questa sia un’avventura spettacolare, credo che sia anche uno dei motivi per cui esiste il Meeting, perché qui affrontiamo tanti temi e cerchiamo di dare tante chiavi di lettura alle questioni che ci stanno davanti. Ma è interessante, è fondamentale rendersi conto di quanto tutte queste informazioni che ci stiamo dando, che stiamo condividendo, siano una provocazione a me, adesso: che consistenza ho io? La mia consistenza è nel like che desidero, che ricerco? O vivo un’esperienza che mi aiuta a giudicare quello che ho davanti? Guardiamoci intorno e vediamo che cosa ci aiuta di più a giudicare, cioè cerchiamo chi ci aiuta di più, chi ci dà una mano di più a diventare veramente più consistenti, per essere in grado di affrontare anche questo problema che, vedete, ha talmente tante connotazioni, tante linee di sviluppo e implicazioni che non offre ricette. Non c’è nessun guru che sia in grado di dire: la soluzione è questa, non c’è nessuna formula che risolva il problema, ma c’è una grandissima e affascinantissima provocazione a me, per capire che cosa aiuta me a essere più capace di giudicare e di stare di fronte alla realtà, anche alla realtà che è in rete. Ringrazio i nostri ospiti per gli spunti che ci hanno dato.
Trascrizione non rivista dai relatori