VERITÀ, CONSENSO, BOLLA

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Giovanni Maddalena, professore di Filosofia della comunicazione e del linguaggio, Università del Molise; Gennaro Sangiuliano, ministro della Cultura; Lucetta Scaraffia, storica ed editorialista. Introduce Piero Vietti, giornalista Tempi

Nel mondo dell’informazione fatti e opinioni si mescolano su piattaforme social e media, posizioni sempre più polarizzate costringono il dibattito dentro a bolle di consenso in cui ci si rivolge solo a chi la pensa nello stesso modo. Il temine fake news è entrato nel linguaggio corrente. Le ideologie dei diversi tipi di politicamente corretto hanno reso difficile e rischioso parlare di argomenti considerati divisivi o sensibili. L’intelligenza artificiale ha ulteriormente aumentato il potere di chi può e vuole manipolare informazione e opinione pubblica. C’è ancora spazio per dire la verità? E serve a qualcosa dirla?

Con il sostegno dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

VERITÀ, CONSENSO, BOLLA

VERITÀ, CONSENSO, BOLLA

Venerdì 23 Agosto 2024 ore 17:00

Sala Neri Generali-Cattolica

Partecipano:

Giovanni Maddalena, professore di Filosofia della comunicazione e del linguaggio, Università del Molise; Gennaro Sangiuliano, ministro della Cultura; Lucetta Scaraffia, storica ed editorialista.

Introduce:

Piero Vietti, giornalista Tempi

 

Vietti. Buonasera e benvenuti a questo incontro al Meeting di Rimini su “Verità, consenso e bolla”. Saluto i presenti in sala e anche chi sta seguendo via streaming. Questo incontro cercherà in poco tempo di dare un assaggio di un tema su cui bisognerebbe stare a parlare probabilmente per mesi, fare seminari e approfondimenti lunghissimi: il tema delle fake news, del politicamente corretto e delle bolle di consenso, della polarizzazione delle opinioni in cui siamo sempre più immersi. Il mondo della comunicazione e dell’informazione, soprattutto, ma non solo: anche quello degli intellettuali, della politica, il mondo dell’università.

Vi presento subito gli ospiti relatori di questa sera. Cominciamo dalla più lontana rispetto a me, la professoressa Lucetta Scaraffia, storica ed editorialista; il Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, che mi permetto di considerare un collega, non perché io sia un Ministro, ma perché è giornalista, è stato direttore del TG2 e non solo; e infine Giovanni Maddalena, professore di Filosofia della Comunicazione del Linguaggio presso l’Università del Molise.

Allora, il mondo dell’informazione, si dice, è vittima delle fake news, che sono poi le notizie false, qualcosa che esiste da quando c’è l’uomo. È un termine però che è diventato di moda un po’ di anni fa, nel 2016, quando viene eletto come Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump e in Gran Bretagna vince il voto per la Brexit. Due cose che i giornali mainstream, nel senso di quelli più letti, più ascoltati, che fanno più opinione, non erano riusciti a prevedere. E allora, cosa era successo? Il mondo dei media aveva cercato di giustificare questa cosa dicendo: c’è qualcuno che ha raccontato bugie alla gente e agli elettori. Ed è partita una grande campagna – di tanti media a livello internazionale – di lotta alle fake news, dicendo: dovete credere solo a chi racconta i nudi fatti, i crudi fatti.

Ecco, questo è un grande equivoco e chi fa giornalismo e chi legge i giornali, i siti, chi guarda i telegiornali deve averlo ben chiaro: non esiste un media che racconti la verità. Anche solo scegliendo quale fatto raccontare e quale altro non raccontare, io comunque do una visione di parte. Inizia questa grande lotta giusta e sacrosanta alla disinformazione, che però spesso trascende in disinformazione essa stessa. Perché poi cosa succede? Secondo tanti media, e tanti politici e tanti intellettuali, chi non segue la versione ufficiale fa fake news. La fake news diventa una sorta di scappatoia per bollare come falso ciò che è sgradito al mio pensiero, come al suo; e questo vale da una a parte e dall’altra, a sinistra come a destra, dappertutto.

Le notizie false sono sempre esistite e sono spesso state scritte e dette dai media e dai giornali. L’era digitale ha sicuramente moltiplicato questo impatto e, in tutto questo, hanno giocato un ruolo enorme anche i social network, che per anni ci sono stati presentati come delle piazze di libertà in cui ognuno poteva dire la sua e lì il dibattito si sarebbe elevato sempre di più, fino a far emergere le posizioni più intelligenti e interessanti. Così non è stato. Soprattutto negli ultimi tempi, grazie – io dico grazie, qualcuno dice per colpa – grazie a Elon Musk è caduto questo velo di ipocrisia attorno alla questione dei social network, che si sono rivelati delle piattaforme editoriali che possono essere usate dai loro proprietari per fare politica e influenzare l’opinione pubblica.

Tanto che lo stesso Musk è stato criticato dal Commissario Europeo Breton per aver fatto un’intervista a Donald Trump in diretta sull’ex Twitter (che oggi si chiama ‘X’), dicendo: “Così semini odio e emetti fake news“. È l’idea, appunto, che qualcuno dall’alto debba decidere lui che cosa è vero, che cosa è falso, che cosa è notizia vera e cosa è notizia falsa.

In tutto ciò, c’è l’impatto – che è appena all’inizio – dell’intelligenza artificiale che sicuramente darà sempre più viralità a ciò che può essere una notizia falsa o una disinformazione. In parallelo a tutto questo, in questi anni abbiamo assistito a un’omologazione, almeno a livello superficiale, del pensiero, che nel dibattito pubblico ha reso accettabile solo una certa visione delle cose. In certi casi, addirittura, ha “igienizzato” il linguaggio: certe parole non si possono più dire, alcune per fortuna, secondo me, non si possono più dire, altre no; però è stato omologato il linguaggio e un certo tipo di pensiero. È quello che, anche un po’ grossolanamente, si chiama “politicamente corretto”. La famosa lamentela di chi dice “non si può più dire niente”… ecco, no, secondo me non è vero che non si può più dire niente. Specialmente in un paese come l’Italia le opinioni riescono ancora a trovare un loro spazio. Però è vero che ci sono temi divisivi: penso a quello del genere, della razza, penso all’ambiente, penso alla bioetica, dove su certi temi ci sono delle opinioni che trovano dimora sui media, nelle università, nel dibattito culturale, e altre no.

C’è qualcuno addirittura che parla di “dittatura” del politicamente corretto. E, però, molti casi di cronaca, soprattutto nel mondo anglosassone, ci dicono che, effettivamente, in certi posti a pensarla diversamente si rischia la carriera. È il caso di tante università negli Stati Uniti, dove molti professori che non la pensano in un certo modo si guardano bene – e ormai lo stanno ammettendo sempre di più – dal dire veramente cosa pensano sui temi che vi ho accennato poco fa. È una situazione simile a quella che succede anche in certi regimi, che magari fanno, invece, proprio del loro essere politicamente scorretti la loro bandiera culturale.

Tutto ciò – e sempre con il contributo decisivo dei social network mossi dagli algoritmi – ha creato una polarizzazione sempre più estrema, con la nascita di bolle, “bolle di consenso”. Su tantissimi temi, soprattutto quelli cosiddetti divisivi, non c’è più dialogo, non c’è più dibattito, ma c’è subito scontro: è la mia fake news contro la tua. Quello che dici tu a me non va bene e allora stai dicendo una bugia; quello che dico io a te non va bene e allora mi accusi di dire una fake news. Ci si rivolge sempre più a chi la pensa come noi e il social network, l’algoritmo, funziona esattamente così: continua a farci vedere quello che sa che a noi piace e ci convince sempre di più dell’idea che magari all’inizio accarezzavamo appena. Ci si sente subito costretti a schierarsi e ad attaccare l’avversario che non la pensa come me. Appena succede qualcosa bisogna subito dire “è giusto”, “è sbagliato”, “secondo me è così”, “secondo me è cosà”. È quasi impossibile ormai sospendere il giudizio cercando magari di approfondire o di capire.

Il potere, in tutto ciò, ha gioco facile a inserirsi in questa situazione di incertezza, di frammentazione in cui si è perso l’essenziale e spesso manipola l’informazione, l’opinione pubblica, censura idee sgradite. Potere non solo politico; ci sono tanti tipi di potere che riescono a infilarsi in questa dinamica. La situazione è seria e grave, ma secondo me non è disperata. L’incontro di oggi è pensato proprio per provare ad analizzare, intanto, il problema, ma anche per cercare di capire se oggi, in questo contesto, c’è ancora spazio per dire la verità non intesa come anti-fake news e se serve a qualcosa dirla.

Allora, comincerei subito a far parlare i nostri ospiti. Comincerei dalla professoressa Scaraffia a cui farei una domanda sul rapporto tra l’omologazione e il politicamente corretto. Come si è arrivati a questa “dittatura”, come dicevo – qualcuno addirittura arriva a dire come di una sorta di “pensiero unico” – o comunque a questa omologazione di pensiero, perlomeno pubblica e superficiale, che passa attraverso i giornali, attraverso la scuola, l’università e la cultura di massa?

Scaraffia. Intanto io vorrei ricordare, facendo la storica posso ricordare una cosa, che sia le fake news che quello che oggi chiamiamo “politicamente corretto” (una volta si chiamava conformismo) ci sono sempre state. Perché la convenienza a schierarsi dalla parte che serviva per fare carriera, a ottenere qualcosa, c’è sempre stata. Le fake news… tutti noi sappiamo che la guerra di Troia è finita per una fake news: che i Greci se ne fossero andati; e invece non se ne erano andati. Quindi, diciamo che abbiamo una vasta casistica anche nel passato. Quello che oggi è diventato veramente nuovo è l’estremo allargamento di questa possibilità di notizie ai social; perché se non ci fossero i social sarebbe sempre come era una volta: un gruppo di giornalisti, di costruttori dell’opinione pubblica che cercano di costruire un’opinione pubblica a loro favorevole. Oggi l’esistenza dei social è vastissima e riesce a creare un conformismo molto più vasto e anche molto più stupido, perché è fatto da persone che hanno meno strumenti.

Vorrei fare due esempi di politicamente corretto, chiamiamolo così, che mi hanno stupito negli ultimi giorni. Il primo: scorrendo le recensioni su internet di alcuni ristoranti a cui stavo cercando di andare, moltissime di queste recensioni erano di odio verso il ristoratore perché non aveva permesso alle persone di andare lì con un cane, o anche con due cani. Ora, chiunque capisce che un ristoratore non può far entrare le persone con i cani perché se ne fa entrare una, può farne entrare due o tre, e diventa una cagnara, appunto, e non si può stare in un ristorante con abbaiare e salti di cani. È una cosa normale, ma mi ha colpito che nessuno abbia risposto a queste persone, neanche il ristoratore stesso: guardi che non si possono fare entrare i cani per ragioni che riguardano la tranquillità di tutti gli avventori. Perché, siccome adesso gli animali sono trattati con particolare favore, nessuno ha osato dire una cosa contro la presenza degli animali.

L’altra cosa appartiene a tutto un altro genere ed è molto più grave. È il fatto che c’è una falsa notizia che continua a girare su tutti i giornali, che riguarda Gaza, e gira anche sui giornali che in teoria non sono favorevoli ai palestinesi. Però tutti, quando succede qualsiasi atto di guerra dell’esercito israeliano a Gaza, dicono: “Il Ministero della Sanità di Gaza ha detto che ci sono 200 morti, di cui tantissime donne e bambini”. Ora, intanto il Ministero della Sanità di Gaza non esiste. È stato detto più volte: non c’è un Ministero della Sanità a Gaza. Ammesso poi che… se esistesse, come farebbe a sapere il numero ecc.? Eppure, tutti ripetono: “Il Ministero della Sanità di Gaza dice…”. Sono usciti degli studi statistici che spiegano che, se fossero veri questi numeri Gaza sarebbe un paese di donne e bambini, non ci sarebbero uomini. E siccome lì è pieno di guerriglieri che stanno combattendo e fanno danni tremendi dappertutto, non si capisce come mai un paese composto quasi esclusivamente, per due terzi, di donne e bambini stia sul piede di guerra in questo modo. Nessuno sembra accettare che esistono questi studi statistici, che non c’è il Ministero della Sanità di Gaza, e tutti continuano a dare questa falsa notizia.

È vero, questo è un tipico caso di politicamente corretto: uno può anche essere contro la guerra degli israeliani, dire che sono cattivissimi con Gaza, però su questo potrebbero stare un po’ più attenti, per esempio. Non c’è assolutamente uno scrupolo professionale nel dare le notizie. Questa è una cosa che colpisce molto, perché il politicamente corretto si basa, si fonda moltissimo su un’assenza di professionalità, cioè di controllo delle fonti e delle notizie.

Ora, questa assenza di professionalità nasce dai social. Sui social, chiunque può parlare, chiunque può scrivere; se un giornale non dicesse che il Ministero della Sanità di Gaza ha detto quello, ci sarebbero valanghe di social che lo denuncerebbero ripetendo continuamente la notizia del Ministero della Sanità di Gaza. Quindi, quel discorso che lei, Vietti, ha fatto sulla verità… la verità non è mai stata al centro delle discussioni e delle polemiche, mai. Quindi non è che questo sia un momento della storia particolare. Un momento della storia particolare è la difficoltà di creare un dibattito che possa avvicinare un po’ alla verità, possa portare a capire qual è il vero oggetto del contendere, qual è la verità.

Cioè, manca un procedimento che può avvicinare alla verità, perché il politicamente corretto e soprattutto l’azione pervasiva e minacciosa dei social permettono di dire cose banali, come “in un ristorante è meglio che non entrino i cani” e “non esiste il Ministero della Sanità di Gaza”. Appartengono stranamente alla stessa famiglia, con effetti politicamente, infinitamente diversi.

Vietti. Le chiedo una cosa velocissima, perché abbiamo poco tempo: non vede, oltre alla poca professionalità, anche qualcosa di ideologico dietro a questo politicamente corretto?

Scaraffia. Beh, certo, però le ideologie ci sono sempre state. Le ideologie, le convenienze, perché ci sono sempre mille convenienze: politiche, di carriera… Questo c’è sempre stato. Anche le ideologie ci sono sempre state. Però esisteva la possibilità di distruggere il punto di vista di un’altra persona presentandogli una controparte agguerrita. Oggi la controparte agguerrita viene, diciamo così, cancellata, un po’ azzittita dai social. Faccio l’esempio: il Ministero della Sanità di Gaza, hai voglia di dire che non esiste! I social direbbero: “brutto sionista” e ti indicherebbero magari a qualche attentatore, ecco. Quindi, c’è una situazione un po’ complicata.

Bisogna anche dire che mai come oggi storicamente ci sono state persone disposte a colpire materialmente chi dice le cose sgradite. Questa è una cosa, anche, che bisogna tener presente. Non si tratta solo di un bel dibattito tra pensieri diversi o tra ideologie, si tratta talvolta di passare alle vie di fatto. Un po’ licenziando la gente come è stato fatto per esempio in Inghilterra, ma talvolta anche da noi: picchiando le persone… Quindi, siamo in un momento in cui la tensione è molto alta. 

Vietti. Grazie. Giovanni Maddalena, oltre ad essere autore di un testo teatrale che è andato in scena ieri sera qua a Rimini, che comunque ha a tema la questione della verità, ha scritto un libro sulle fake news, qualche anno fa, molto interessante. È un filosofo della comunicazione del linguaggio e a lui chiedo di aiutarci, in modo sintetico naturalmente, a inquadrare il fenomeno delle fake news. Gli chiedo: è realmente un’emergenza? Perché di solito, accanto alla parola “fake news“, c’è  “emergenza” fake news; poi, sui giornali, esce sempre prima delle elezioni, perché non si sa mai come possano andare a finire. Non rischia di essere usata come una scappatoia per bollare come falso ciò che è sgradito? E se è un’emergenza, come se ne può uscire?

Maddalena. Grazie per l’invito a parlare qui, un posto molto caro anche per motivi personali. Effettivamente, su tutte le vicende di queste fake news… è vero, come diceva la professoressa Scaraffia, che ci sono sempre state. Prima della guerra di Troia c’è anche la Bibbia, c’è anche la questione della mela. Cioè, è proprio dall’inizio, in tutte le culture, c’è sempre questa storia. Però effettivamente c’è qualcosa che sta cambiando, e il fatto, secondo me, che occorre mettere a fuoco è che siamo dentro una delle grandi rivoluzioni comunicative. Le rivoluzioni comunicative non sono state tantissime nella storia, se ci pensate. C’è quella della rappresentazione – come dice un collega francese, dell’invenzione del “bordo” nelle grotte paleolitiche -, la scrittura, la stampa, i grandi mezzi di comunicazione di massa; e poi ci siamo noi dentro questa rivoluzione digitale.

Tutte le volte ci è voluto molto tempo per digerire quello che stava capitando e ci è voluto molto tempo per capire. Quindi, la prima cosa che direi è: non è un’emergenza, ma… stiamo calmi, keep calm, e cerchiamo di vedere che cosa sta succedendo e di capire che cosa sta succedendo, perché, appunto, ci vuole tempo. Dicevo prima che se uno guarda i dibattiti sulla stampa, sui libri del 1400, vede le stesse cose dei nostri dibattiti. Un tizio aveva proposto al Doge di Venezia di bandire tutti i libri perché la stampa era piena di errori, i libri erano pieni di errori perché facevano credere a chiunque solo per aver letto un libro di sapere qualcosa, facevano perdere la memoria. Tutte cose vere, però in effetti gli esseri umani anche in tutte queste cose…

Vietti. Che sono le stesse cose che dicono dei social network.

Maddalena. Sono le stesse però, evidentemente, c’è anche qualcosa che guadagniamo e quindi bisogna rendersi conto del fatto che facciamo questo ragionamento. Una delle poche cose che abbiamo capito è che, effettivamente, questi social network producono polarizzazione. Perché producono polarizzazione? Perché ciascuno vede la sua realtà. C’è un interessante documentario, con anche lati un po’ inquietanti, che si chiama “The Social Dilemma” – su Netflix, per criticare piattaforme tipo Netflix, e questo è un piccolo paradosso dei cosiddetti “pentiti” di Silicon Valley – che fa vedere che effettivamente questo è il problema. Perché c’è il linguaggio d’odio, la polarizzazione, ecc.? Non è che siamo diventati più cattivi, è che tutti pensiamo: “Come è possibile che l’altro non stia vedendo quello che vedo io? Non è ovvio che esiste il Ministero della Salute di Gaza? Non è ovvio? Lo dicono tutti, lo sentono tutti”. Però è nella mia realtà, esattamente come poi nella realtà l’altro vede tutt’altre cose.

Lo dico sempre anche ai miei studenti, per farla semplice: io tifo per una squadra minoritaria, il Torino Calcio, e quindi nella mia realtà, nella mia realtà social, tifano tutti Toro e hanno tutti pensieri cattivi sull’altra squadra della città. Però non è così. C’è questo problema alla base: non è che siamo diventati cattivi, è che purtroppo uno degli effetti di ciò che accade con i social è che ciascuno vede la sua realtà. Sono le famose “echo chambers”, le “filter bubbles”, ecc. Però questo è un tema su cui dobbiamo ragionare perché c’è una cosa profonda che è l’unica che vorrei dire nel tempo che mi rimane: quanto più c’è informazione, se non si ha nulla di comune, si crea divisione.

Se non si nulla di comune… adesso qui siamo tutti molto attenti, ma se non avessimo niente in comune l’informazione non aiuterebbe. Una cosa che diceva un filosofo importante del secolo scorso, Wittgenstein, è che se un leone parlasse inglese – lui lo diceva parlando inglese – non lo capirei; perché non abbiamo insieme la comunanza di una forma di vita. Per finire, questa è una cosa importante. Non è vero che dando più informazione miglioriamo la situazione, perché non l’ascoltiamo se non abbiamo nulla in comune.

Il problema, infatti, è che è sfilacciata la vita comune. Per finire, con il collega Guido Gili con cui abbiamo scritto questi libri, abbiamo esaminato le varie risposte a questa crisi. Le risposte più o meno sono: si aumenta il controllo: se vi ricordate, a un certo punto Facebook aveva fatto le bandierine, poi, in occasione delle elezioni di midterm del 2018 (perché riguardava sempre il problema Trump), aveva messo la “war room”, 300 persone che 24 ore su 24 analizzavano tutto ciò che accadeva su Facebook. E ovviamente nulla funziona. Il “più controllo” non ha funzionato. E anche l’aumento di pensiero critico. L’altra cosa è che dicono: bene mettiamo dei corsi di filosofia elementare, argomentazione, pensiero critico, in tutte le università, a tutti i livelli. Anzi, cominciamo dalle elementari. Però in realtà, non succede nulla, anzi…

Una delle cose che a me colpisce in molti amici complottisti che ho è che, proprio perché dicono: “No, io mica credo a queste cose qui!”, poi credono ad altre peggiori. E non è che sono mancanti di pensiero critico, anzi, nascono proprio dall’idea del dubbio sistematico cartesiano: “Sicuramente mi stanno ingannando”. Quindi, in realtà, non penso che né più controllo né più educazione al pensiero critico aiutino.

Una delle cose che aiuta – lo dico facilmente al Meeting ma lo penso nel profondo – e che fa parte del senso comune e anche dell’antichissima dottrina sociale della Chiesa, sono i famosi corpi intermedi. Corpi intermedi vogliono dire: dove è che io accetto di essere veramente criticato? Facilmente in famiglia, nel gruppo, nel movimento, nel partito, nell’associazione, nel sindacato, nei posti dove ho una comunione di vita con gli altri. Il che non vuol dire che è una santificazione dei corpi intermedi; avendo partecipando spesso alla curva di calcio della medesima squadra di prima, ecco, la curva di calcio è un corpo intermedio, ma la critica non è ammessa. Quindi, non è che tutti i corpi intermedi li santifichiamo. Però, pensiamoci un attimo: dove è che accettiamo più critiche? Forse è un punto dove si può recuperare una vita in comune.

Vietti. Ministro Sangiuliano, Giovanni Maddalena parlava di polarizzazione all’inizio del suo intervento. L’era digitale, l’abbiamo detto, è diventata un’era polarizzante per eccellenza. Lei è giornalista, è Ministro, allora io le chiedo, partendo dalla sua esperienza di giornalista prima e di politico, di uomo delle istituzioni oggi: come ha visto cambiare, se lo ha visto cambiare, l’impatto che questa polarizzazione ha sulla politica e sul mondo dell’informazione?

Sangiuliano. Innanzitutto, buonasera a tutti e grazie dell’invito. Partirei dalla condivisione dell’affermazione della professoressa Scaraffia quando dice: alla fine le fake news ci sono sempre state. Io aggiungo: c’è sempre stata anche la polarizzazione. Solo che noto che il dibattito pubblico è enormemente scaduto rispetto ad altre epoche. Mi sono occupato, per esempio, della cultura italiana del primo Novecento, quando appaiono una serie di riviste: La Critica di Benedetto Croce, Il Regno di Corradini, il Leonardo di Papini e Prezzolini, poi arriva La Voce, Lacerba, poi arriva il contributo di Gobetti, poi arriva L’Ordine Nuovo. A quell’epoca il dibattito era enormemente aspro, forte. A un certo punto, alla stazione di Firenze, i “vociani” si picchiano con i futuristi. Però era un dibattito alto, che poi alla fine includeva anche la contaminazione delle posizioni tra quelli che erano i soggetti dell’epoca.

Nel dopoguerra, se vi andate a rileggere uno dei primi numeri di Rinascita, Togliatti adopera nei confronti di Benedetto Croce delle parole davvero forti, violente. Però era un dibattito, in sé, alto. Oggi il problema qual è? Che lo schematismo tecnico che i social impongono, l’estrema sintesi, l’essere per il “sì” o per il “no” senza poter articolare le posizioni, – su X tu hai un certo numero di parole a disposizione e quindi ti viene difficile articolare, sfumare una posizione – polarizza il tutto. L’altro tema, invece, è quello di non dover confondere le fake news con le opinioni dissenzienti; Panfilo Gentile le chiama opinioni sgradevoli. Segnalo due letture che ho fatto di recente: “La Cappa” di Marcello Veneziani e “La Nuova Censura” di Alain de Benoist, che conia la formula dei “giornalisti poliziotti”, cioè quelli che stanno lì con il ditino sempre alzato a dire: questa cosa non la puoi dire perché non è politicamente corretta.

Io l’ho sempre detto da giornalista: in Italia il partito più forte, ma in tutto il mondo occidentale, è il PUDPC, il Partito Unico del Politicamente Corretto, cioè quel partito che ha schematizzato delle verità assolute e che è pronto a castigare chiunque dissente rispetto a quelle verità. Quando invece se noi guardiamo la storia dell’umanità il progresso, l’avanzamento ce l’hanno dato molto spesso le posizioni eretiche. Sono le posizioni eretiche che ci hanno fatto conquistare col tempo punti dei più avanzati. Erano coloro che non venivano creduti che poi, invece, hanno affermato, anche in campo scientifico, delle verità.

Vorrei raccontare due esperienze soggettive. Quando c’è stata la pandemia si è detto subito che il virus aveva un’origine naturale. Però qualcuno, molto silenziosamente, me compreso, diceva – io non ho una cultura scientifica, ho una cultura giuridica – però diceva: ma vogliamo verificare se il virus ha davvero un’origine naturale. Quando mi sono permesso, come direttore del TG2, di azzardare una verifica critica (anche io penso che il virus avesse un’origine naturale, ma quantomeno voglio andare a verificare se è vero o non è vero) sono stato subito castigato. Ancora conservo sul mio telefonino le chat di ministri dell’epoca che mi dicevano: “Ma queste cose non si possono dire, sono porcherie quelle che dici”. Poi alla fine cosa scopriamo? Che il presidente USA, Joe Biden, incarica le due più importanti agenzie americane, la CIA e l’FBI, di andare a verificare qual è l’origine del virus. E cosa dicono i rapporti delle due agenzie che potete andare a leggere nei rispettivi siti? Che la questione è aperta, che il virus può avere tanto un’origine naturale quanto un’origine che deriva da un errore di laboratorio. Ne hanno parlato i giornali, loro lasciano aperte le due ipotesi. Io penso, forse a lume di naso, non avendo una cultura scientifica, che sia un’origine naturale, però… era legittimo andare ad indagare.   

L’altra questione che voglio porre all’attenzione raccontando un altro piccolo episodio – anche questo fa un po’ sorridere -… Che poi la cosa grave è: che sui social ci siano le fake news lo diamo per scontato, al limite puoi querelare, qualche volta, al limite ti va anche bene che riesci a castigare il responsabile; però la cosa grave è che poi quei media, quei giornali che che dovrebbero dare una verifica rigorosa, secondo un codice deontologico delle varie questioni, invece inseguono le fake news.  

Allora, divento ministro e il Direttore Generale dei musei mi chiede di inaugurare una mostra che si tiene alle Terme di Diocleziano, “L’istante e l’eternità”, che raccoglieva contributi importanti su questi due temi di tutta l’archeologia greco-romana del bacino del Mediterraneo. Arrivano opere da tutti i grandi musei dell’area mediterranea, dalla Grecia, dalla Tunisia, e vengono esposte. Un giornale, Il Manifesto, dice: “La mostra fascista del Ministro Sangiuliano”. Perché questa cosa dell’istante e l’eternità aveva evocato in loro questa suggestione. Premetto che questa mostra era stata organizzata – e faccio i complimenti al mio predecessore – tre anni prima che io diventassi ministro, perché le mostre si organizzano con un certo anticipo, perché devono partire le lettere, devi richiedere i prestiti, devi fare uno stanziamento economico. Quindi io ero arrivato che… diciamo che mi ero andato a prendere un merito che alla fine non era neanche mio.  Ero andato lì a inaugurare questa mostra che era stata pianificata e predisposta prima. Però l’idea di dire: l’istante e l’eternità, la mostra fascista del ministro… Poi che cosa c’era di fascista in quella mostra ancora me lo devono spiegare, tranne qualche cosa romana, forse che magari poteva… ma no, è una mostra di archeologia con un Comitato Scientifico fatto di insigni studiosi che aveva elaborato quella mostra.

Per dire come poi l’informazione diventa prigioniera dello schema. Quando si dice “l’ideologia”, ma vivaddio ci fosse l’ideologia, perché l’ideologia è un sistema teorico, filosofico, che può avere una sua trasposizione politico-programmatica. Ma è nell’ambito del mondo delle idee e delle opinioni. Quando, nel Novecento, c’è stata la stagione delle ideologie è stata una cosa importante. Io ricordo sempre Norberto Bobbio che, nel Profilo ideologico del Novecento italiano, riporta una frase di Benedetto Croce quando, in contrapposizione al positivismo, l’idealismo e lo storicismo affermano, Croce afferma: “Siamo finalmente tornati all’aria aperta”. Ecco; il bisogno di aria aperta cioè il bisogno di aria limpida che ti consenta di confrontarti sulle idee.

Un’ultima cosa. Ho il sospetto che però questo tema della polarizzazione, delle fake news e soprattutto della dittatura del politicamente corretto sia una parte, un segmento di una più complessa, più vasta questione che è la decadenza dell’Occidente, quella che Spengler denunciò nel “Tramonto dell’Occidente”. Cioè, una decadenza occidentale perché, per esempio, non credo che in Cina ci siano questi problemi. Voi sapete che il pensiero di Xi Jinping è stato inserito nella Costituzione; quindi, quello che pensa Xi Jinping è automaticamente parte della Costituzione cinese, quindi il problema non sussiste.

Vietti. Lì c’è una sola verità e basta.
Professoressa Scaraffia, parlavamo della polarizzazione delle idee e delle opinioni, che, sempre di più ultimamente, sembra aver reso impossibile chiamare le cose con il loro nome. Sembra che non si possa più raccontare un fatto oggettivo. Ci sono temi, li accennavamo prima, su cui non si può più quasi entrare nel merito. Bisogna subito schierarsi, dire “sono da una parte” o “sono dall’altra” e non si può entrare a scavare, ad approfondire la questione. Citavamo il tema della razza, del genere, le questioni bioetiche. È così? Si può ancora raccontare un fatto oggettivo?

Scaraffia.  Ma certo che si può raccontare un fatto obiettivo. Il problema è anche la rinuncia a combattere. C’è anche questa forma di paura di fronte a un’opinione pubblica orientata massicciamente che sembra un ostacolo insormontabile. Vorrei fare un esempio che a me sembra molto significativo che è il tema del fine vita. Il tema del fine vita, come sapete, è uno dei temi morali più importanti che il mondo occidentale moderno deve affrontare. È un tema nuovo, perché una volta non esisteva; non esisteva la possibilità di prolungare la vita degli esserei umani con dei metodi tecno-scientifici, insomma, medici, da una parte, e si moriva molto più facilmente, diciamo la verità. Perché talvolta questo prolungamento porta a una guarigione, il più delle volte porta a un prolungamento di una condizione di malattia.

Ma esiste anche, rispetto a questo, la possibilità, che una volta non esisteva o comunque non veniva considerata possibile, di dare la morte in modo indolore. A parte che su questo – è un altro discorso – ma io ho molti dubbi, ma comunque… Adesso voi sapete che esistono delle industrie, in Svizzera per esempio, che promettono una morte indolore a una cifra abbastanza economica (tremila euro). Queste due novità tecno-scientifiche, della possibilità della morte indolore, hanno portato a considerare la morte come bene, un diritto come gli altri, un bene che ogni essere umano poteva amministrare da solo. Ora, mai nessuno ha pensato fino a questo mondo secolarizzato che il diritto di morire potesse essere considerato un normale diritto di un essere umano.

Siccome noi non abbiamo il diritto di nascere, nessuno di noi chiede di nascere, neppure nel caso della fecondazione assistita – come sapete la maggior parte delle volte va male, è qualche rara volta che va bene, ma non c’è mai un diritto di nascere – non c’è neanche un diritto di morire. La vita umana rimane un dono, un dono dell’assoluto che uno può chiedere, che è di Dio, ma rimane un dono. Oltretutto c’è un altro tema molto importante: la non-disponibilità sulla vita umana – fa parte dei dieci comandamenti, come sapete: “non uccidere”, non uccidere anche te stesso, vuol dire – la non-disponibilità della vita umana è il principio su cui si basano tutti i diritti umani. Se non c’è la non-disponibilità della vita umana cadono anche gli altri diritti. Ora, questo tema che adesso ho accennato appena, ma, come voi capite, è uno dei temi fondamentali della civiltà occidentale moderna, non viene mai discusso per quello che è, cioè per un tema fondamentale, drammatico e che va affrontato. In realtà tutti i temi, le legislazioni, i conflitti che riguardano la fine della vita vengono affrontati con delle altre categorie, che sono: o la pena per il dolore insopportabile – sapendo che oggi, con i sistemi palliativi, per fortuna il dolore insopportabile non c’è più – o, l’altro aspetto che viene anche sempre preso in considerazione è quello dell’equità. Si comincia a dire: i più ricchi possono andare in Svizzera a pagare 3000 euro, i più poveri no; quindi, dobbiamo dare anche ai più poveri la possibilità di morire in Italia quando vogliono.

C’è una tendenza costante a trasformare i temi bioetici fondamentali che riguardano la vita o la morte in problemi di equità. Questo riguarda anche altri temi, una volta riguardava anche l’aborto. Cioè: i più ricchi possono andare ad abortire fuori Italia, invece i poveri no, quindi dobbiamo ammettere il diritto all’aborto. Cioè, tutti temi bioetici. Ora, il diritto all’aborto, come tutti gli altri diritti che riguardano la vita umana, va affrontato per quello che è, come un drammatico tema morale che dobbiamo affrontare per quello che è. In questo modo, il fatto che il politicamente corretto ci costringe a trattare i temi fondanti della nostra civiltà come dei sotto-problemi (perché il problema dell’equità è un problema che riguarda anche gli stipendi, la distribuzione delle risorse, tutte tematiche molto meno importanti)… passano di categoria, dalla categoria dei grandi temi della vita e della morte che segnano la natura vera di una civiltà, la qualifica di una civiltà, diventano dei temi semplicemente di redistribuzione di risorse.

Questo è un problema molto…

Oppure, dei problemi politici. Devo dire che questa nuova forma di manuale di fine vita che l’Accademia della Vita cattolica ha proposto è una sorta di … – a parte che alcune cose che dicono io le condivido – però il modo in cui lo condividono, no. Perché mettono come una possibilità di mediazione politica qualche cosa che, come dicevo, richiede una discussione sui fondamenti della nostra cultura e della nostra civiltà, a cui noi sfuggiamo trasformandoli in problemi molto più di moda, come quelli dell’equità, che però non corrispondono alla gravità del tema.

Questa mi sembra uno delle più gravi conseguenze del politicamente corretto che sta depauperando questo momento storico fondamentale per la civiltà occidentale del diritto di discutere le proprie fondamenta.

Vietti.  Ministro, proprio questa difficoltà di cui parlava la professoressa Scaraffia che è spia del fatto che raccontavamo fin dall’inizio – cioè che qualunque dibattito, qualunque argomento è costretto dentro a delle “bolle” al di fuori delle quali sembra non esserci possibilità di dialogo tra chi la pensa diversamente e quindi si parla d’altro invece che entrare nel punto – è un tema importante su cui la politica e le istituzioni possono fare. Allora le chiedo – questa volta in qualità di Ministro e non di giornalista – cosa si può proporre di vero oggi a livello culturale e come si può fare senza però essere ideologici e quindi imporre dall’alto una certa visione delle cose o magari censurare ciò che non è gradito?

Sangiuliano. Mai, assolutamente mai, sono assolutamente contrario al “Ministero della Verità”: non è il ruolo della politica. La politica deve soltanto creare degli spazi, delle infrastrutture culturali all’interno delle quali le idee si possano liberamente confrontare. Qualche mese fa abbiamo promosso una mostra dedicata a Tolkien, che è stato uno straordinario successo di pubblico: oltre 90.000 visitatori a Roma, oltre 100.000 visitatori a Napoli, e andrà a Torino, e c’è stato un fuoco di sbarramento dai giornali, che ci ha aiutato tantissimo, perché parlandone male, ovviamente poi la gente andava a vedere. E tutti quelli che arrivavano restavano sorpresi dal fatto che, per esempio, Papa Francesco aveva espresso più volte giudizi molto favorevoli nei confronti di Tolkien, addirittura citandolo in uno dei suoi discorsi. O che l’ex Presidente Obama si dichiarasse un appassionato lettore di Tolkien (noi ne abbiamo riportato proprio la frase).

 

Ma noi abbiamo fatto una mostra su Giovanni Gentile, nell’ottantesimo della scomparsa. Faremo una grande mostra su Gramsci. Di mostre ne faremo tante. La politica deve dare delle infrastrutture: un sistema scolastico efficiente, università efficienti e poi spazi culturali. È quello che stiamo facendo, per esempio, sui musei, creando tanti nuovi musei, rafforzando le strutture che ci sono, creando tanti spazi di confronto, soprattutto per le giovani generazioni, all’interno delle quali le idee si possano poi andare a misurare e confrontare. Non può essere certo la politica a fare il “Ministero della Verità” che dice: questa cosa è fatta bene o quest’altra è sbagliata. L’importante è che tutte le opinioni possano essere liberamente manifestate in un consesso e in un dibattito pubblico.

Quello che si può tentare di fare forse è aiutare, diciamo, facendo persuasione, ad elevare la qualità del dibattito pubblico. Cioè il dibattito pubblico deve tornare a essere quello che era decenni fa o quello che era nel Secolo scorso, nel Novecento: un dibattito anche aspro, duro, conflittuale (don Camillo e Peppone, no? Il conflitto nel dibattito pubblico), ma di qualità, su cose importanti. Perché poi il tema è che quando andiamo a leggere le tendenze dei social in una determinata giornata, ma ci fosse mai in tendenza il tema della demografia, o il tema dell’ambiente, oppure il tema delle grandi infrastrutture, della mobilità dei cittadini, cioé le grandi questioni che più impattano sulla nostra vita e sul nostro futuro, come noi pensiamo, immaginiamo il futuro. Questi dovrebbero essere i temi divisivi di una società su cui accapigliarsi per poi arrivare a una sintesi. Invece no, la tendenza – non voglio fare nomi – ma avviene su questioni delle quali potremmo fare sicuramente a meno. Questo magari può essere il ruolo della politica, ma, più che della politica, dovrebbe essere anche il ruolo degli intellettuali, cioé un’assunzione di responsabilità rispetto a determinate questioni e far capire che il futuro lo costruiamo su tante altre cose, non lo costruiamo certo dividendoci sul gossip di questo o di quel personaggio.

Vietti.  E il ruolo dei media in questo? Perché spesso, io lo vedo da giornalista, i media invece di dettare le tendenze del dibattito corrono dietro le tendenze dei social, che poi sono costruite dagli algoritmi, sono una piccola bolla viene molto ingigantita, per cui bastano venti insulti a qualcuno su un social per dire che c’è stata la cosiddetta “shitstorm”. I media, che sono in crisi da tantissimi anni proprio perché non hanno ancora capito la rivoluzione digitale, possono tornare ad avere un ruolo utile in quello che lei stava dicendo?

Sangiuliano.  Io credo ancora nel giornalismo e nella sua funzione. È il mestiere che mi sono liberamente scelto e quindi credo nel giornalismo come mediazione, come luogo nel quale le questioni vengono impostate in maniera seria, in maniera organica, andando nel merito dei problemi. Questo dovrebbe essere il ruolo del giornalismo. Purtroppo, però, devo notare che la crisi dei giornali, e in parte anche la crisi degli ascolti televisivi, porta il giornalismo, invece, a inseguire quelle questioni che, per essere buoni, definisco marginali, ma andrebbero definite in altro modo; porta a inseguire queste questioni più che fare uno sforzo per portare le grandi questioni all’attenzione generale. E quindi il ruolo del giornalismo dovrebbe essere questo, non il voler schematizzare una verità e imporla agli altri, ma elevare la qualità del confronto.

Vietti.  Grazie. Chiudiamo questa nostra chiacchierata, che ha aperto in realtà un sacco di spunti su cui sarebbe bello tornare, con Giovanni Maddalena, a cui faccio una domanda molto ‘semplice’: che cos’è la verità…

Dato il contesto che è emerso da quanto detto da voi qui, dal contesto in cui viviamo oggi, c’è ancora spazio oggi per dire la verità, al di là delle tendenze dei social? Io sono d’accordo col Ministro che non deve esserci il “Ministero della Verità”, anzi. Però lo spazio per dire la verità oggi c’è ancora? Ma soprattutto, serve ancora a qualcosa dirla?

Maddalena.  Sì, effettivamente sono molto d’accordo anche io sul problema del “Ministero della Verità”; però, non esiste il “Ministero della Verità”, ma esiste il New York Times. Una delle cose che mi ha colpito molto è che nel 2017 il New York Times – dopo decenni, penso, di difesa della totale molteplicità delle verità e delle interpretazioni, di qualunque genere e tipo, fino alla difesa di una ermeneutica ultra-ultra postmoderna – … dopodiché vince Trump e l’anno dopo la campagna pubblicitaria del New York Times è “The truth is hard” (La verità è dura). E c’era una serie di aggettivazioni della verità per cui la verità (la campagna si chiamava così, “The truth is hard”) sembra veramente un bastone che ti colpisce. Perché l’idea è che non esiste il Ministero, però esiste un conformismo generale ed è un conformismo che si può imporre.

In realtà, quello che dico sempre è: magari fossimo nel nichilismo gaio degli anni ’90 con infinite interpretazioni! In realtà, a quello è seguito – soprattutto dopo la vicenda delle Torri Gemelle, ma molto di più nell’epoca social, a causa della tecnica che sta dietro ai social – è seguito un grande conformismo, per usare la parola detta prima. Ed è un conformismo etico molto molto importante per cui è difficile parlare di certi temi, è difficile dare il giusto peso. Sotto tutto questo, ed è forse la cosa che val la pena dire invece che rispondere a “che cos’è la verità?”, certamente c’è una grande questione di fondo – questa sì, filosofica – che vale la pena ricordare, ed è una alternativa antica della filosofia che è quella che esiste tra realismo e nominalismo. Realismo vuol dire che c’è un rapporto stretto tra le cose, i nomi (cioé la loro rappresentazione) e il significato delle cose. Queste cose vanno insieme. Nominalismo è quando queste cose sono staccate l’una dalle altre.

La versione contemporanea divulgata negli anni ’60-’70 del secolo scorso, specialmente nel pensiero francese poi espatriato negli Stati Uniti, è che invece la realtà si costruisce; con tante cose interessanti, che derivano però da questo distacco nominalista. Vi faccio un esempio per intenderci ed è una cosa che diceva Pasolini che, effettivamente, quando parlava della liberazione sessuale, della rivoluzione sessuale degli anni ’60, diceva: “State attenti, però, – a proposito di distacco della realtà delle cose, dei nomi e del loro significato. Pensate un attimo, noi usiamo le cosiddette parolacce, usiamo parole spesso legate a organi o atti sessuali e le usiamo tranquillamente come intercalare – … e diceva, rivolgendosi ai giovani dell’epoca: guardate che vi stanno ingannando. Perché cosa si fa con questo distacco? Voi usate le parole come se non avessero più nessun riferimento, come se non volessero dire niente e non indicassero più nulla, e così facendo, vi privano del mistero, di una delle cose più importanti dell’essere umano e, soprattutto, vi privano della sua forza eversiva. Quindi del fatto che sia una rivoluzione vera.

L’idea pasoliniana, in quel senso lì, è dire: guardate che se staccate i nomi dal riferimento alle cose e dal loro significato, quello che succede è che poi non vi rimane in mano niente. E, secondo me, questa è un po’ la questione di fondo. Tutto quello che la cultura della comunicazione ha insegnato è capire che il mezzo tante volte crea il messaggio, che c’è una costruzione della realtà, che quando metto le sedie così non farò capitare un dibattito violento, se le avessi messe così è facile che saremmo stati più opposti… Certamente ci sono tante cose che si possono creare, che si possono costruire però alla fine bisogna decidersi tra queste due cose: se è la realtà che crea, poi, la comunicazione o viceversa. 

Forse, per dire un’ultima parola, bisogna anche intendersi sul tema “verità”: il problema non è che “The truth is hard”. La verità non è “dura”, la verità per essere tale – a proposito di quello che dicevamo prima delle comunità di riferimento, dei corpi intermedi – ha sempre una dimensione affettiva. C’è una frase di Edith Stein molto interessante che dice: “Non accettate come verità cose senza amore e non accettate come amore cose senza verità. L’una senza l’altra crea sempre una menzogna distruttiva”.

Vietti. Ministro voleva…

Sangiuliano. No, voglio suggerire il tema di un prossimo dibattito: “Le verità nascoste”. Perché poi ci sono tante verità che esistono, ma che non emergono nel dibattito pubblico perché non conviene farle emergere. Anche, per esempio, il tema Trump che è stato evocato tante volte: ma quanti sanno che Trump per un lungo periodo della sua vita è stato un democratico? Al suo matrimonio c’erano Hillary Clinton e Bill Clinton, e lui è stato un finanziatore delle campagne elettorali democratiche. Il padre ha fatto la sua ascesa imprenditoriale perché prese un oscuro avvocato di Brooklyn e lo supportò per diventare governatore dello Stato di New York. Che cosa c’entra Trump con i repubblicani, con questo nobile partito di Abramo Lincoln o con il conservatorismo di marca reaganiana? Non c’entra nulla, però non lo si dice.

 Vietti.  Grazie. Ringrazio i nostri ospiti Lucetta Scaraffia, Giovanni Maddalena, Gennaro Sangiuliano, perché ci hanno fatto vedere che si può avere uno sguardo sulle cose, su certi temi, che va oltre la bolla di consenso di cui stavamo parlando, e si può discutere cercando una verità. Ringrazio tutti voi che siete qui, ringrazio chi ha seguito l’incontro in streaming e vi ricordo che il Meeting, per resistere e continuare ad andare avanti, ha bisogno anche delle vostre donazioni. Quindi, cercate nella Fiera, nei padiglioni, mentre andate a vedere le mostre bellissime o andate a seguire il prossimo incontro, i punti dove donare e fatelo. Grazie ancora e buon Meeting a tutti.

 

Data

23 Agosto 2024

Ora

17:00

Edizione

2024

Luogo

Sala Neri Generali-Cattolica
Categoria
Incontri