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VERDI, GUARESCHI E MONTANELLI. “TORNIAMO ALL’ANTICO: SARÀ UN PROGRESSO!”
Partecipano: Enrico Beruschi, Attore e Regista; Eugenio Martani, Clarinettista e Direttore del Concerto Cantoni; Corrado Medioli, Fisarmonicista; Fausto Taiten Guareschi, Abate del Monastero di Fudenji. Introduce Egidio Bandini, Giornalista e Presidente del Club dei Ventitrè.
VERDI, GUARESCHI E MONTANELLI. “TORNIAMO ALL’ANTICO: SARÀ UN PROGRESSO!”
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EGIDIO BANDINI:
Buonasera a tutti, benvenuti, grazie di essere così numerosi. Queste erano le note di “Tornerai” eseguite dal Maestro Corrado Medioli e dal Maestro Eugenio Martani che ci faranno compagnia questa sera. Alla mia destra il Maestro Fausto Taiten Guareschi, Abate del Monastero Zen Soto Fudenji di Bargone di Salsomaggiore; alla mia sinistra Enrico Beruschi, al mio centro Egidio Bandini. Riconquistare quello che ci hanno lasciato i nostri padri per esserne degni. È possibile che il ritorno al passato per quanto carico di eredità fondamentali rappresenti davvero un riconquista? Un guardare al futuro? Chi ne era convinto era Giuseppe Verdi il quale, scrive il 5 gennaio1871 Francesco Florimo Direttore del Conservatorio di Napoli che l’aveva invitato a diventare maestro, ad andare a insegnare al Conservatorio di Napoli, che lui si sentiva molto molto lusingato e niente poteva solleticare di più il suo amor proprio che non essere invitato a quel ruolo fondamentale, ma che però non ne aveva il tempo, stava scrivendo opere, si doveva occupare del suo lavoro, non poteva farlo. Però allo stesso tempo non si esime dal dare consigli, dare consigli agli studenti: studiate le fughe in continuazione, esercitatevi, scrivete, diventate compositori. E poi dice: io non ho paura della musica dell’avvenire, non mi fa paura la musica dell’avvenire però occorre che tutto ritorni a come era in precedenza. Sarete compositori se metterete una mano sul cuore e scriverete le note. Le licenze e gli errori, di contrappunto, ecco perché diceva che bisognava studiare, si possono ammettere e talvolta sono belli in teatro, ma in conservatorio no. E la conclusione, la frase che da’ il titolo a questo incontro era: “torniamo all’antico e sarà un progresso”.
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Allora cominciamo con i miei ospiti: “torniamo all’antico e sarà un progresso”. Che cosa significa? Anche perché, vi devo dire, che il Maestro Guareschi ha dato un titolo, una descrizione del monastero Fudenji che è: “il tempio dell’altrove nell’altrove del tempo”, quindi qualche cosa che richiama davvero il ritorno al passato perché sia un progresso, all’antico.
FAUSTO TAITEN GUARESCHI:
Grazie per l’invito. È un invito che cade in un momento prezioso della mia vita e della vita di tanti perché sono trent’anni che Monsignor Luigi Giussani, dall’incontro con Shodo Habukawa e nello stesso tempo sono cinquant’anni precisi nel momento in cui la mia tradizione religiosa entra in Europa e guarda caso, il prossimo anno sarà l’occasione del cinquantesimo anno dalla morte di Giovannino Guareschi. Anche parlando di Verdi, che io annovero fra i beati, la sua immagine troneggia, vero, nella parete d’onore del monastero Zen, per cui è considerato al di là della sua appartenenza culturale o religiosa effettivamente motore, daneo di spirito, di fede per quelli che, molto imprecisamente vengono definiti buddisti. Egidio Bandini ci ha sollecitato secondo me con una parola, la precedenza, cioè l’anticipo temporale non basta a spiegare l’impeto, la forza che Verdi e poi dopo di lui, anche altri, ma Giovannino senz’altro, ripongono non tanto sul tempo, come noi lo concepiamo, spesso in modo pigro, passato – presente – futuro, è una classificazione che abbiamo in genere solo noi, ci sono culture che non hanno questa classificazione, ebbene la precedenza include e discerne le varie sensibilità perché è un… trapassa nello spazio. Ecco perché “Fudenji: tempio dell’altrove nell’altrove del tempo”, perché anche se la filosofia occidentale, soprattutto di marca europea ha messo l’accento sul tempo, nell’Asia si mette l’accento sullo spazio, sul luogo, sul luogo dell’apparizione, dove appare l’accadimento. E quindi la figura di Verdi è estremamente potente da questo punto di vista perché sa indicare con la propria presenza, perché se io penso a Verdi, visto che sono si un melomane, ma però non ho conoscenze musicali sufficienti, io me lo immagino a Sant’Agata come Guareschi a Campolungo, che alla mattina trova ispirazione per le sue opere passeggiando alle cinque del mattino circa con il suo cane. Ed era una appuntamento che era impossibile a che lui mancasse, non mancava mai a questo appuntamento. Ed era più fiero della sua capacità manuale, di mettere mano agli attrezzi di lavoro che non alla sua capacità di musicista. E questo la dice lunga perché la dice di un uomo di un mondo piccolo che è allo stesso tempo non limitato da confini geografici, ma come ho voluto dire altrove e in altre occasioni, le idiosincrasie di Guareschi che erano anche le idiosincrasie di Guareschi facevano il piccolo un universo intero. E lì il Verdi risuona negli animi di tutto il mondo. Quindi questa precedenza, noi dobbiamo ritornare a Palestrina, non imitare gli altri. È ancora molto attuale questa esortazione, non vorrei… prego.
EGIDIO BANDINI:
Grazie maestro. Enrico tu ti stai occupando…
ENRICO BERUSCHI:
Io mi sto occupando di Verdi e… vediamo, si sente, si sente bene? Perché io ho un po’ paura dei microfoni perché una volta ne ho mandato giù uno. E mandarlo giù non è niente, è il dopo… Allora, perché assomiglio a Verdi. Verdi quando è andato ad abitare a Milano era in via S. Marta, la mia trisnonna era alle Cinque Vie. È stata diseredata e ho l’impressione che tra loro due sia successo qualcosa. Infatti meno dei capelli, per il resto somiglio a Verdi. Mi basta mettere il cilindro, il mantello e la sciarpa bianca, dicono: “guarda che il maestro è tornato!”. Va beh, ma poi mi interesso anche di musica, ma…prego.
EGIDIO BANDINI:
“Torniamo all’antico e sarà un progresso”. Nonostante le apparenze questo non è un principio di inerzia, ma in realtà rappresenta un po’ anche lo stile di vita di Verdi e di un modello italiano di impegno politico e morale che forse è cominciato con Verdi. Quando Giuseppe verdi nel 1842 rappresenta per la prima volta il Nabucco con il Va’ pensiero e nel 1861 quando l’Italia raggiunge l’unità e molti dicono: eh, maestro allora anche lei è deputato.. e lui diceva: guardate che io ci sono arrivato vent’anni fa. Nel 1842 lui aveva scritto un’opera che significava la ribellione di un popolo agli oppressori. E quindi era un po’ questo stile di vita. Verdi traccia una linea ben precisa del progresso in un modo anche abbastanza divertente con un setaccio a maglie molto molto strette perché, come diceva il Maestro Guareschi, l’antico non è soltanto quello che viene prima in termini di tempo, ma è soprattutto quello che viene prima in termini di autorevolezza che è tutta un’altra cosa.
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Tanto che il maestro Verdi a Franco Faccio, il 14 luglio del 1889, scriverà: “se i tedeschi partendo da Bach sono arrivati a Wagner, fanno opera di buoni tedeschi e sta bene. Ma noi discendenti di Palestrina imitando Wagner commettiamo un delitto patrio – musicale e non facciamo solo un’opera inutile, ma anche dannosa”. E d’altra parte anche i melodrammi che Giuseppe Verdi scriveva, le parole e la musica si direbbe oggi, erano riferite al passato, raccontavano di storie antiche. Verdi voleva riconquistare forse davvero quello che era dei suoi padri, anche dal punto di vista musicale, lui ammirava tantissimo Palestrina. Ma Giovannino Guareschi, come bene ha detto il Maestro Fausto Guareschi prima, aveva legato Verdi al proprio territorio perché Verdi, scriveva Guareschi, non lo si può capire a Milano o a Parma, Verdi lo si capisce molto bene solo da noi, alla Bassa.
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E Verdi, infatti, al conservatorio di Milano era stato respinto. Lui aveva messo questa lettera in una busta e la teneva nel cassetto della scrivania. Sulla busta aveva scritto, come usava fare di sé, in terza persona, “fu respinto”. Verdi era uno che amava che le proprie opere e la propria musica venissero rappresentate esattamente come le aveva scritte. Lui non ammetteva, e lo ha scritto più di una volta, né ai direttori d’orchestra né ai cantanti la possibilità di creare. E in questo aveva trovato un alleato straordinario in Giovannino Guareschi che diceva che per commemorare Verdi non c’è che un sistema: rappresentare nel modo migliore le opere di Verdi, quindi come le voleva Verdi. Niente cinema, il cinema è tutto un’altra cosa rispetto al teatro e all’opera lirica, questo Enrico lo sa benissimo perché lo sta facendo. La musica di Verdi è tutto quanto serve. Ma non si può staccare Verdi dalla Bassa parmense e portarlo in città. Verdi, lo ha detto il maestro Guareschi, è come nessun’ altro, un prodotto della sua terra.
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Il ritorno al passato di Verdi era qualche cosa che comunque aveva sempre ben fissa in mente. Una leggenda, che poi tanto leggenda non è: Verdi bambino serviva messa a Roncole e il parroco, il curato di allora, Don Giacomo Masini siccome Verdi si era incantato ad ascoltare la musica dell’organo gli allentò uno scappellotto, ma siccome Verdi era bambino ma era già Verdi è uscito di corsa dalla chiesa dicendo, nei confronti del parroco “colpis un fulmin”, cioè che ti prendesse un fulmine, che è il modo di dire bussetano. Cosa è successo, che a distanza di qualche anno al Santuario di Madonna dei Prati, che è una frazione di Busseto, un temporale violentissimo scatenò un fulmine che colpì l’abside della chiesa e con questo fulmine morirono sei i preti, fra i quali don Giacomo Masini, due sarti un cane e un cavallo. Ora molto probabilmente non sarà stato il fulmine che Verdi aveva augurato allo sfortunato don Masini, però quando Verdi, anziano, sentiva raccontare questa leggenda metropolitana con un pizzico di civetteria diceva: “giusto castigo di Dio”, tanto per far intendere che comunque quel prete se l’era andata a cercare. Ma Verdi è anche quello che scrive alla contessa Caterina Pigorini Beri che gli aveva fatto gli auguri per il compleanno: “se io sapessi scrivere bene come lei le direi non soltanto di San Donnino – Verdi era nato il giorno di San Donnino, la festa di Fidenza – ma di tanti altri santi e le parlerei di tante altre cose compresa la politica che detesto ogni giorno di più, ma ahimè, nato povero in un povero villaggio, non ho avuto i mezzi per istruirmi in nulla. All’età di sei anni mi misero sotto le mani una meschina spinetta e da quel momento ho cominciato a scrivere note, note su note, e nient’altro che note. Il guaio è che ho ottantadue anni, mi chiedo se queste note mi siano servite davvero”. Questo Verdi rimpiangeva, il fatto di essersi gettato a capofitto in questa musica di averla amata a tal punto da farla diventare una ragione di vita insieme alla sua terra però, è questo il punto. Perché Verdi amava in modo straordinario la sua terra, amava la Bassa, amava i campi, partiva alla cinque del mattino con il cane per andare a vedere le piante, tanto che a un certo punto la stessa Giuseppina Strepponi scriverà: “il suo amore per la campagna è diventato mania, furore, non so più come fare a fargli prendere in mano la penna”, non scriveva più. A un certo momento Verdi, che pure era diventato famosissimo, scrive le sue volontà per il suo funerale, dice: “i miei funerali dovranno essere fatti all’Ave Maria del mattino o all’Ave Maria di sera senza cavalli e suoni, con un prete e due candele e voglio essere seppellito nel cimitero del mio villaggio, in una modestissima tomba che ispero far costruire io stesso”. Non andò così, perché Verdi venne seppellito prima al Cimitero Monumentale a Milano, poi venne trasportato nella casa di riposo per i musicisti dove è con Giuseppina Strepponi. Però qualcuno, quel 27 gennaio del 1901, aveva capito molto bene chi fosse e che cosa rappresentasse Giuseppe Verdi ed era Gabriele d’Annunzio, che scrisse una straordinaria canzone immaginando che al capezzale del grande maestro morente ci fossero i più grandi maestri italiani: Leonardo da Vinci, Michelangelo Buonarroti e Dante Alighieri. Scriveva D’Annunzio:
Ci nutrimmo di lui come dell’aria / […] / cui dà la terra tutti i suoi sapori. / La bellezza e la forza di sua vita, / che parve solitaria, / furon come su noi cieli canori. / Egli trasse i suoi cori / dall’imo gorgo dell’ansante folla. / Diede una voce alle speranze e ai lutti. / Pianse ed amò per tutti.
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Questo, per forse l’unica persona che non lo ha riconosciuto, era il Grande Valzer di Giuseppe Verdi dal film Il Gattopardo, per onore di cronaca. Maestro dunque “trasse i cori dal gorgo della folla”, innamorato della terra, il recupero del passato, nonostante non avesse potuto studiare, e di questo si rammaricava, però c’è sempre questa precedenza, questa autorevolezza di chi è venuto prima.
FAUSTO TAITEN GUARESCHI:
Questa autoritas che ti fa crescere, che ti educa, ma io guardo là in fondo: “quello che tu erediti dai tuoi padri…” e poi mi viene un magone, non riesco a leggere quello che segue, già questa precedenza, “quello che tu erediti dai tuoi padri”, che densità ha senza la musica il sentimento di Verdi per esempio. Allora vi leggo qualcosa, vediamo se la riconoscete: “sin dagli antichi tramandata lasciata in eredità ai posteri l’ho protetta l’ho accudita cantandola e diffondendola, diventa mamma stesa a fianco dei miei bambini gli antichi racconti della nonna ormai scomparsa ho ancora bisogno di ascoltar”. È un soprano giapponese che vive a Milano che è venuto in Italia per studiare canto lirico e che ha deciso di ritornare, permettetemi mi è dire tradizione, alla sua tradizione. Allora vado su due binari, spero di avere un minimo di tempo: 1) Cito John Waters: un numero di Tracce di qualche mese fa. La nostra unica opzione perciò è quella di una finta empatia, camuffata in un processo inconscio di virtuosità virtuale. Tendiamo a credere che l0infomazione sia sempre e ovviamente un bene , ma forse è vero il contrario, la diffusione di grande quantità di informazioni in realtà può essere distruttiva del significato. Le informazioni in un cerro senso assomigliano al cibo , arrivati a un certo punto, non riusciamo più a ingurgitare nulla . Allora la meditazione del maestro Giuseppe verdi che cammina nelle proprietà di sant’Agata oggi facciamo fatica a comprenderla. Oggi noi abbiamo il tablet: ma il fatto di vedere un paesaggio riprodotto in pixel, non è la stessa cosa di vederlo con le gambe, dico vederlo con le gambe perché i cinesi usano la parola “Mi-ru”- vedere – mettendo un occhio con due gambe sotto, cioè si devono scomodare per vedere. La vista è legata alla fisicità, allo spazio. E guardate allora cosa dice l’autrice milanese nipponica: il termine giapponese “den-sho”, è l’incontro di due ideogrammi con significati dall’etimologia molto profonda: den, è un ideogramma che originariamente era formata da quello di uomo e qualcosa che è stato posto all’interno di un sacco, dunque insieme indicano caricare un sacco su un uomo, dunque affidare a qualcuno un oggetto perché se ne prenda cura e lo porti a destinazione da qualche parte: ricordate, quello che tu erediti dai tuoi padri. L’ideogramma nasconde al suo interno un ‘azione di presa in carico con una forte sfumatura di responsabilità per tale azione . L’azione del trasmettere e del portare a destinazione avviene soltanto dopo che un uomo si è caricato sulla schiena il fardello che porterà con sé, ricordiamo la croce, ricordiamo la croce: ha significati ambigui e potenti portata sulle spalle, portata sulle spalle. Sho, l’altro ideogramma, invece affonda le sue radici etimologiche, nei due ideogrammi che indicano il gesto di chi sta inginocchiato e di chi allinea entrambe le mani per ricevere insieme, pertanto stanno ad indicare proprio il gesto e la postura riverente di chi si inchina e ha mani tese stando pronto a ricevere qualcosa. Quindi non si parla solo di tradizione in questo caso, ma qualcosa di antico e profondo, l’umile e rispettosa azione di chi si abbassa e si prepara per accogliere un bene da qualcun altro dato in custodia e in affidamento perché venga recapitato. Riguadagnatelo per possederlo. E’ una scansione irresistibile, cioè non lo si può leggere, va contemplata. Grazie
EGIDIO BANDINI:
Grazie maestro. Enrico, quante volte abbiamo letto quella canzone di d’Annunzio, quante volte abbiamo parlato di Verdi innamorato della sua terra, quante volte di questo passato straordinario del Nabucco, del successo di Milano, ma insomma, che lezione si può trarne? Insomma, questa eredità così straordinaria: non parlo solo di Giuseppe Verdi ma di tutti quelli che con lui costruirono una determinata stagione della nostra Italia, come fare per riguadagnare quello che abbiamo ereditato e possederlo, che non è facile?
ENRICO BERUSCHI:
Eh sì. È il possederlo che non è facile. Però io sto facendo delle cose per aiutare i giovani a conoscere quello che è successo prima . Adesso non vorrei introducendo però Giovannino Guareschi per esempio nella cittadina dove abito faremo un momento, una mostra di Guareschi e parleremo degli anni del Candido. Politicamente l’assessore mi ha detto ti raccomando, non parlare di politica eccetera, io parlare di politica? Però è giusto che i giovani sappiano quello che è successo prima e abbiano la possibilità, la capacità di pensare e di scegliere. Questo , un po’ in contrasto con quello che succede normalmente e che io trovo che anche nelle scuole: io posso portare l’esempio di quello che mi voleva parlare di costituzione e io preparo una cosa, faccio delle critiche, mi avevano promesso un compenso m’hanno trattato male, non m’han dato niente e dopo due anni perché avevo detto che la costituzione poteva avere dei piccoli errori, dopo due anni chiedono la revisione che però va male e allora dico e perché i ragazzi devono pensare sempre e tutti nello stesso modo? Quando si parla di padri, io penso al mio : faccio un esempio. Le prime elezioni: nel 48 io ero piccolo, sapevo leggere e scrivere appena appena, un po’ come adesso che so appena appena leggere e scrivere, però lui ha comprato tutti i giornali di tutti i pensieri politici per farmi osservare, anche se avevo solo 6 anni e mezzo, che i dati matematici erano uno, ma ognuno diceva una cosa diversa. E credo che questo sia un insegnamento, una cosa dei padri. Adesso io ormai sono nonno, perchè sono nonno, perché sono vecchio mi suggerisce il maestro, non è vero,. Ho una figlia, per esempio, di 38 anni che è molto più vecchia di me , purtroppo ho anche una moglie che aveva 10 anni meno di me e adesso sembra mia nonna. C’è qualcuno spostato tra di voi? Mi dispiace, va bene, arrangiatevi, no perché c’è gente come loro che è venuta a Rimini portando la moglie, A Rimini non si va con la moglie! Lei signora è sposata? Dov’è il poverino? È là dietro, l’ha lasciato andare , ha avuto un’ora di libertà, mi fa piacere…Perché io, recentemente ho fatto 43 anni di matrimonio e quindi ho scritto una lettera aperta al governo di modificare l’articolo, fare un nuovo articolo del codice penale, il 41 tris: perché il 41 bis per uno sposato è una roba da ridere ecco…se c’è qualche uomo sposato mi può capire …
EGIDIO BANDINI:
Grazie Enrico. Abbiamo parlato di padri e del rapporto con i padri e il rapporto con il padre è un rapporto conflittuale con il padre accomuna proprio Giuseppe Verdi e Giovannino Guareschi. Il padre di Giuseppe Verdi all’inizio lo sostenne, addirittura gli regalò quella meschina spinetta di cui vi parlavo prima, ma poi volle interessarsi degli affari del figlio, quando il figlio diventò ricco e quindi Verdi lo respinse e ad un certo punto scrisse al suo factotum : non voglio che mio padre si interessi più dei miei affari. Il padre di Giovannino Guareschi, Primo Augusto Guareschi, era un personaggio molto particolare aveva una sua trinità laica che era composta da Alessandro Manzoni, Giuseppe Verdi e Napoleone Bonaparte. Ad un certo momento andò a Parigi , arrivò in treno alla stazione , prese una carrozza, si fece portare al cimitero degli invalidi, rese omaggio alla tomba di Napoleone, ritornò in stazione, prese il treno, ritornò in Italia non curandosi affatto di Parigi perché per lui l’unica cosa importante era la tomba di Napoleone. E quindi questo era Primo Augusto Guareschi, innamorato della modernità, delle macchine , della meccanica: impegnò tutti i suoi quattrini in acquisti , in affari sempre più sballati , fallendo un paio di volte, costringendo la famiglia sul lastrico, addirittura facendosi sequestrare i mobili e costringendo i suoi a dormire per terra e se non fosse stato che la moglie maestra aveva dallo stato un appartamentino sopra la scuola a Marore , una frazioncina di parma, non avrebbero neppure avuto un tetto sopra la testa. Ecco perché Giovannino Guareschi cominciò ad un certo punto a disprezzare il padre , a penare che fosse una persona incapace, al quale non interessasse nulla della famiglia e questo andò avanti fino a che il padre morì. A quel punto Guareschi, andando in casa dei genitori, scoprì nell’armadio del padre un sacco di buste, chiuse, sopra le quali c’era scritto: quaderni delle scuole elementari del figlio Nino, quaderni delle scuole medie del figlio Nino, scuole superiori , primi articoli sulla Gazzetta do Parma: aveva tenuto tutto. E accanto ad ogni lavoro, specialmente quelli giornalistici aveva messo le proprie note . C’è della stoffa!, non è scritto bene, … giudicava, ma si era interessato tantissimo e questo naturalmente provocò a Guareschi un magone insopportabile al punto che volle dedicare al padre attraverso uno dei suoi personaggi del Piccolo mondo borghese un racconto straordinario che si intitola Mai tardi. Giacomo Dacò era uno di quei personaggi che non si commuoverebbero neanche al cospetto del diluvio universale: la marcia dei Dacò era incominciata temporibus illis quando uno dei Dacò si era trovato a morire con tre biolche di terra e le aveva lasciate al figlio e il figlio ne aveva conquistate altre 20 e il figlio del figlio ancora 30 e via discorrendo fino ad arrivare a Giacomo che a 80 anni aveva fatto di Campolungo un podere di 300 biolche e oltre a Campolungo possedeva un caseificio con allevamento di maiali, una fabbrica di conserva di pomodoro e due mulini .
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Va da sé che Giacomo Dacò in casa faceva il bello e il cattivo tempo a dispetto della moglie la quale doveva farsi perdonare del fatto di aver messo al mondo due gemelle che è chiaro che l’agricoltore di quel tempo voleva i figli maschi ai quali lasciare i propri beni i propri terreni. Ad un certo momento nasce il figlio Carlo, l’ultimo genito, per il quale la madre sogna non il mestiere dell’agricoltore, ma lo studio, un impiego, arrivare in città. Questo al padre non sta bene, ma la mogli insiste, insiste, insiste fino a che lui ad un certo punto lui dice: “ ma sì vai in città , vai a studiare, non mi interessa, purchè tu quando sei a casa ti guadagni da vivere facendo il villano. Nelle vacanze estive quindi tornato a casa Carlo Dacò lavorava nella stalla, lavorava nei campi insieme ai fratelli, insieme alle sorelle, ai cognati eccetera, eccetera, eccetera. Arrivano a trovarlo i compagni di scuola e fra questi compagni di scuola una ragazza che a lui piaceva , al padre no, perché diceva che era pitturata come le bambole da giostra , perché aveva il rossetto, le unghie dipinte eccetera eccetera e lui Carlo, quando i ragazzi se ne vanno e lo vedono uscire dalla stalla con un carro di letale , il padre aveva detto: Il signore Carlo Dacò è lì che sta facendo scuola guida con la Balilla, stava portando fuori il carro del letame, litiga con il padre, non deve piacere a voi, deve piacere a me e il padre gli dice: no caro: chi viene in casa mia deve piacere a me e per quello che riguarda te, il tuo mondo è qui. Villano sei nato e villano creperai .
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Carlino Dacò era quello che tra l’altro a 12 anni quando la madre se ne voleva andare di casa e il padre la prende per un braccio e la strattona, aveva preso un fucile e gliel’aveva puntato: se non la lasci stare ti ammazzo., tanto per far capire che alla fine non è che fossero poi molto diversi. Ad ogni modo, gli ultimi due anni di scuola per Carlo Dacò furono un inferno: ebbe il diploma di geometra, fece il servizio militare , torna a Campolongo e il vecchio gli dice: adesso basta: hai finito di studiare, rimani qui e fai il tuo dovere , fai l’agricoltore. Lui gli dice: no, me ne vado, vado in città, vado a fare il mio mestiere, ho studiato e vado a fare il geometra e non basta. Sposo anche quella ragazza pitturata come un baraccone da giostra, perché è quella che piace a me. Io non sono come voi, sono nato villano, ma villano non ci muoio.
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Me ne vado, aveva detto Carlino e non metterò piede qui dentro fino a che non sarete morto! E il vecchio aveva risposto: neanche da morto perché ti diseredo e il vecchio a 80 anni muore davvero. Alla mattina alle 7 tutti entrano nella stanza, fanno il giro, lo guardano, si era vestito da morto da solo , aveva capito che ormai era arrivato il momento, aveva fatto tutto da solo, era lì secco come un chiodo e ad un certo momento, siccome il vecchio aveva fatto testamento
ENRICO BERUSCHI:
il testamento fu aperto subito, perché così il vecchio aveva ordinato al notaio di fare e non si trattava davvero di un romanzo: lascio il caseificio e annessi a mio figlio Marco, lascio la fabbrica di conserve e annessi al mio figlio Giorgio, lascio i due mulini e annessi al mio figlio Antonio , lascio il podere di Campolungo con tutto quello che c’è dentro , niente escluso a mio figlio Carlo, detto Carlino. Venne la sera e rimase a vegliare il vecchio soltanto Giosuà, che è il vecchio vaccaro di 90 anni e se ne andò verso mezzanotte quando venne a dargli il cambio Carlino. Carlino aveva 39 anni e si era fatto massiccio come il padre ai suoi bei tempi. Guardò il vecchio rigido e freddo sul letto e nei suoi occhi c’era soltanto rancore, camminò in su e in giù parecchio poi si fermò e squadrò il vecchio: villano siete nato e villano siete morto, esclamò con voce acre Carlino, ma io Villano non morirò vi conosco bene e il trucco non vi riuscirà, volete cavarvi la soddisfazione dunque:…lascio Campolungo a mio figlio Carlo con tutto quello che c’è dentro …e col gravame dei quattrini da dare alle donne, così Carlino per la bramosia di avere Campolungo molla tutti i suoi affari e viene qui a curare la proprietà- Si chinò sul morto e gridò: e invece io domani vendo Campolungo con tutto quello che c’è dentro, pago quello che devo alle donne e mi godo i quattrini in città alla vostra salute, troppo furbo siete, ma vi è scappata una distrazione, perché non c’è la clausola per cui se io vendo Campolungo io perdo l’eredità secondo il testamento io devo semplicemente dare tal lira alle donne. Camminò in su un poco e poi si volse verso il vecchio: e poi cosa me ne importa dei vostri quattrini, esclamò. Ho detto che mi sarei fatto la mia strada da solo e me la sono cavata, anche se voi non vi siete mai degnato di accorgervi che io mi sono guadagnato una professione , la professione ce l’ho. Trasse di saccoccia un foglio di carta intestata e lo mostrò al vecchio : ecco qui: Studio tecnico geometra Carlo Dacò, via Faina 12, telefono . Due telefoni, una segretaria, due aiutanti, una clientela: anche se voi non lo sapete. Cavò di tasca il libretto degli assegni: ecco: questi sono i soldi che ho in banca, li ho guadagnati io e i muri dell’appartamento dello studio sono miei e io c’ho l’Aurelia giù, me ne infischio dei vostri quattrini, teneteli, io vi faccio vedere che vengo Campolungo e poi i soldi li passo agli altri disgraziati dei vostri figli, sì, quelli lì sono disgraziati voi lo sapete, tanto è vero che la pupilla dei vostri occhi, il famoso Campolungo l’avete lasciata a me. A me che quando avevo 12 anni vi avevo puntato contro lo schioppo: avete avuta paura eh, quella volta! Carlino, andò a guardare fuori dalla finestra e la luna batteva sull’aia deserta. Sì, è inutile che facciate il bullo, disse volgendosi d’improvviso, vi farò vedere chi sono io, tutto vendo e non voglio neanche un centesimo dei vostri soldi maledetti. All’inferno Campolungo con tutto quello che c’è dentro, Campolungo significa tutto quello che c’è di brutto nella mia vita. Sia maledetta questa terra, sia maledetta questa casa!! Il vecchio giaceva immobile come un pezzo di ghiaccio e la fiamma delle candele era anche essa ferma , come gelata. Sì, poi l’ho sposata quella che voi avete insultata chiamandola pitturata come un burattone da fiera, e ne sono contentissimo anche se a voi non ve ne è mai importato niente e ho anche un figlio, bellissimo e intelligentissimo, non è nato villano e non morirà villano neanche lui e si farà una strada come me, come me la sono fatta io, non avrà mai un padre come l’ho avuto io, un padre che mi ha sempre umiliato davanti a tutti, un padre che mi ha sempre considerato un imbecille e che non essendo riuscito a fare di me un cafone da vivo, tenta di riuscirci da morto. Nella stanza vicina c’era lo studio del vecchio , un camerino piccolo piccolo con un grosso stippo e una sedia. Abbassandolo, l’ampio sportello funzionava da scrittoio. Carlino aperse lo stippo e si sedette. Registri, cartelle con contratti, ricevute, tutto spaventosamente in ordine, tutto spaventosamente chiaro, soltanto un uomo che al posto del cuore ha un motore da sveglia e che non ha nel cervello la minima fantasia può essere così ordinato e preciso. Carlino respinse con disgusto registri e cartelle. Poi c’erano delle grandi buste gonfie di carte legate con una funicella, su ogni busta la specifica del contenuto. Libri e quaderno delle scuole elementari dall’anno…all’anno. Documenti delle scuole tecniche del figlio Carlo dall’anno…all’anno…Carlino sciolse la funicella e rovesciò il contenuto della busta sullo scrittorio. Ogni cosa era ordinata e portava una annotazione con la data e il numero progressiva. Brutta copia della domanda di ammissione, ricevuta della tassa di iscrizione, ricevuta abbonamento tranviario, ricevuta tasse frequenza. Ogni anno costituiva un blocchetto a parte . Il blocchetto finiva con un foglietto scritto a matita contenente le votazioni finali ricopiate dagli albi della scuola. La stessa mano che aveva scritto materie e voti aveva aggiunto scritto in alto promosso alla classe superiore. L’ultimo blocco era il più voluminoso perchè comprendeva anche una copia del famoso quadro ricordo dei laureandi e diplomandi che si vede esposto sotto gli esami più di una vetrina di città.
Inoltre c’era una copia del giornale che portava l’elenco dei diplomati. Il nome di Carlo Daccò era sottolineato in rosso. La terza busta, quella che portava l’intestazione servizio militare del figlio Carlo sottotenente del regio esercito arma di artiglieria specialità pesante campale era la più magra perché conteneva soltanto un numero della Gazzetta Emiliana. La notizia sottolineata era ieri il IV pesante campale è partito per il campo. La quarta busta portava la specifica attività pubblicistica del figlio Carlo. Dentro c’erano tre copie del Corriere del Po, in ognuna era stato segnato in rosso un articoletto di mezza colonna circa. Era roba abbastanza recente. Carlino aveva avuto una breve polemica con qualcuno dal quale era stato tirato in ballo per via di certi progetti di case coloniche. Niente di straordinario. In uno degli articoletti di Carlino era sottolineato in rosso la frase: “Ma la colpa delle agitazioni che oggi sconvolgono la vita delle nostre campagne è prima di tutti degli agrari che costringono i loro sottoposti a vivere in case spesso miserabili”. La stessa matita rossa aveva scritto in margini: “Asino”. L’ultima busta conteneva due piuttosto sbiadite riproduzioni fotografiche delle due fotografie che la vecchia Daccò un giorno avea smarrito. E l’intestazione della busta spiegava: fotografie del figlio Carlo e del di lui figlio nato il , e battezzato col nome di Giacomo. Carlino balzò in piedi e passò nella stanza del vecchio: “Sì” gridò brancandosi alla cornice del letto “Giacomo, si chiama Giacomo Daccò anche se nella partecipazione ho fatto stampare Mino Daccò”. “Siete andata all’anagrafe vero e per umiliarmi ancora, ma piantatevelo bene in testa, non sono stato io, è stata una trovata di quella cretina di mia moglie. E’ lei che a mia insaputa l’ha chiamato Giacomo, serpente l’avrei chiamato io, piuttosto che dargli il vostro nome a mio figlio. E voi l’avevate detto se prendeva lezioni private da una sgualdrina quella volta, ma lei per la bramosia dei quattrini gli ha dato il vostro nome, ma io vi farò crepare di rabbia tutte e due. Voi e lei perché domani venderò Campolungo e regalerò via tutti i soldi. Soltanto una donna senza dignità, dopo aver ricevuto un’offesa simile può compiere un gesto così venale”. Carlino sudava e aveva la voce roca. Ansimava continuava a camminare su e giù per la stanza. Davanti al letto del vecchio “A Campolungo crepateci voi. Io domani vendo tutto con tutto quello che c’è dentro. Tenetevi i vostri soldi e la vostra terra, io non sono come quella poveretta di mia mamma. Ho l’Aurelia giù, fra venti minuti posso essere in città. In città ho il mio lavoro, il mio avvenire, la mia famiglia. Qui io ho il niente.” Il vecchio continuava a giacere immobile e il suo viso aveva un’espressione dura, quasi spietata. Carlino si fermò. Si abbrancò ancora alla cornice del letto. “Non mi avete mai fatto paura da vivo, non mi farete certo paura da morte. ”Ansimò. “Andate a comandare al cimitero e qui comando io, il padrone sono io, venderò tutto, me ne vado. Già mi sono rovinato abbastanza il fegato con voi se non sapete la strada del cimitero, ve la insegneranno.” Lasciò la stanza ed era l’alba. I vaccari lavoravano già. Carlino si tolse la giacca e guantato un forcale entrò nella stalla. Poco dopo ne usciva spingendo una gran carriola piena di letame fresco e gocciolante. Passando davanti all’Aurelia ripensò a quando il vecchio aveva detto: “Il Sig. Carlo Daccò è la che sta facendo scuola guida con la Balilla. Te li faccio vedere io la canasta, il tè delle 5”. Disse fra sé ripensando alla ragazza dalle labbra pitturate come un mascherone di giostra. “Arriva qui a Campolungo, poi te ne accorgi.” Quando ebbe rovesciato il letame nel mucchio non tornò alla stalla. Lasciò la carriola e continuò a camminare diritto fino al fiume. Andò a sedersi su un sasso in riva all’acqua. E ripensando al vecchio disteso sul letto, nella grande stanza muta e deserta, per la prima volta nella sua vita sentì pietà per il padre e questo gli mise nel cuore un’angoscia sottile e penetrante e gli vennero alle labbra sommesse parole di preghiera: “Gesù aiutatemi. Fate che quest’angoscia mai mi abbandoni e mi segua tutta la vita. Fatemi soffrire come egli deve aver sofferto e nessuno mai lo seppe.” Caddero le parole nell’acqua che le portò lontano. Ma Dio ne aveva preso nota e Campolungo fu salvo con tutto quello che c’era dentro. Le buste coi documenti del figlio Carlo e la vita perduta di un uomo che amò uno dei suoi figli fino al punto di dimenticare gli altri suoi figli e fino al punto di odiare se stesso.
Musica
EGIDIO BANDINI:
Questo era il don Carlos del maestro Verdi a qual amore. Maestro, frase queste del racconto di Guareschi delle quali abbiamo parlato tante volte.
FAUSTO TAITEN GUARESCHI:
Bene, mi viene subito da riflettere, il popolo non è una questione di numeri, è una questione forse di askesis di fatica condivisa. E’ una fatica diffusa e condivisa. Qui la lettera che scrive nel ’71 Verdì a un certo Florimo: “Esercitatevi nella fuga costantemente, tenacemente, fino alla sazietà e fino che la mano sia divenuta franca e forte a piegare la nota al voler vostro. Fatti questi studi, uniti a larga cultura letteraria, direi in fine ai giovani: ora mettete una mano sul cuore, scrivete e ammessa l’organizzazione artistica, sarete compositori. Le licenze e gli errori di contrappunto si possono ammettere, sono belli talvolta in teatro. In conservatorio no! Torniamo all’antico, sarà un progresso”. C’è bellezza, ma c’è dramma, c’è tragedia. Come era nel cuore di quel grand’uomo di cui in questo momento in qualche parte del mondo si esegue un motivo, un’aria. In questo momento preciso da qualche parte del mondo. Ebbene la fine del racconto, molto appassionante e commuovente, si fa fatica a leggerlo fino in fondo perché viene il magone. E mi fa pensare a questa eredità di Campolungo che è anche l’eredità, quello che tu erediti dai tuoi padri, l’eredità di Sant’Agata e così le meditazioni mattutine di Verdi, quindi camminando col cane che lo accompagna. Una meditazione accompagnata, se volete, ma fatta con le gambe non con la testa. Allora vi prego…..prima vorrei fare una piccola premessa: ho scritto una nota per una rivista e allora parlo di Guareschi, dico, si parla di anateismo della società post moderna, anateismo con uno stile decisamente perentorio, idiosincratico apparentemente intollerante fondamentalista tipico della gente di mondo piccolo, Giovannino Guareschi sembra non proporre niente di nuovo quando ribadisce con un secco pugno sul tavolo, da giocatore di tre sette, per noi Dio esiste. Non ammette reple, non discute. E poi non meno risolutamente, ragazze, no.. niente ragazze, se si tratta di fare un po’ di baracca all’osteria una cantata, sempre pronto, nient’altro però, io ho già la mia ragazza che mi aspetta tutte le sere vicino al terzo palo del telegrafo lungo la strada del fabbricone. Ora lui, la sua ragazza, la saluta senza nemmeno smontare dalla bicicletta: “Ciao”, “Ciao” risponde lei, ma è ormai morta da 12 anni. Il figlio della terra e del cielo stellato coesistono senza impedimenti nel modo piccolo. Là l’infinitamente piccolo contiene l’estremamente grande e la remota lontananza fra la più segreta prossimità. E un sacerdote americano, un sacerdote Zen, ha coniato una nuova espressione: mondo biggolo è insieme il piccolo che contiene il grande. E allora, se ho qualche minuto ancora, arriva qui a Campolungo e poi te ne accorgi! Questo è già il suo pensiero e invita la moglie, invita gli amici arriva qui vieni a piedi, vieni con le gambe e te ne accorgi a t’na corgi bisognerebbe dirlo in dialetto, questo andrebbe letto quasi in dialetto. Aveva detto “te li faccio vedere io la canasta e il te delle 5” quando ebbe rovesciato il letame nel mucchio non tornò alla stalla, non tornò alla stalla, lasciò la carriola e continuò a camminare, una seconda volta, cammina, dritto fino al fiume. Andò a sedersi su un sasso in riva all’acqua e ripensando al vecchio disteso sul letto nella grande stanza muta e deserta, per la prima volta nella sua vita sentì pietà per il padre. E questo gli mise nel cuore un’angoscia sottile penetrante e gli vennero alle labbra sommesse parole di preghiera: “Gesù aiutatemi, fate che questa angoscia non mi abbandoni mai e mi segua per tutta la vita. Fatemi soffrire come lui deve aver sofferto e nessuno mai lo seppe”. Caddero le parole sull’acqua e le portò lontano. Mi sembra una reminiscenza dantesca questa eh. Ma Dio ne aveva già preso nota. Non è un caso che lui utilizzi questo annotare, Dio lo annota, lo annusa, lo sente. Ebbene per concludere a me verrebbe ma richiederebbe tempo, non lo farò, un parallelo (lo faremo in altra circostanza) tra Giovannino Guareschi e Gaston Bachelard. Gaston Bachelard vive più o meno nel periodo di Guareschi, muore qualche anno prima, ma nasce molto prima di lui. E’ quello delle Reveries e quello dell’immaginazione poetica e secondo me non si capisce Guareschi se non se ne capisce l’immaginazione poetica. Non è per niente facile Guareschi, nella sua semplicità. Bachelard parla di potenza individualizzante della materia perché, si chiede, la nozione di individuo è sempre legata a quella di forma. Non c’è nel profondo una individualità che fa che si che la materia sia sempre una totalità fino nelle sue componenti minime? E qui ci sono involontariamente delle reminiscenze Giussaniane. E poi, per finire, oltre alle immagini della forma esistono immagini della materia, questo Campolungo è un racconto che va oltre le figure di pensiero, la retorica delle figure di pensiero. Si cala nella immaginazione materiale. Allora oltre all’immagine della forma esistono immagini della materia, immagini dirette della materia, la vista le nomina ma è la mano a conoscerle. Una gioia dinamica le maneggia le plasma le fa lievi. Noi sogniamo queste immagini della materia nella loro sostanzialità intimamente eleminando le forme, le forme periture, le immagini vane e il divenire delle superfici. Esse hanno un peso, sono un cuore. Grazie.
EGIDIO BANDINI:
Grazie Maestro. Ci avviamo alla conclusione perché adesso si parla di un altro grande, grandissimo che non è emiliano come Guareschi e Verdi ma è Indro Montanelli un giornalista straordinario che ha scritto una bellissima storia d’Italia, prima la storia di Roma poi la storia d’Italia. E scrive tutto quello che qui racconto nella prefazione è già stato raccontato. Io spero solo di averlo fatto in maniera più semplice e cordiale in uno stile più piano facilmente accettabile dai lettori attraverso una serie di ritratti che illuminino i protagonisti di una luce più vera, spogliandoli dei paramenti che ce li nascondevano. Quindi Montanelli, racconta la storia ma la racconta in un modo diverso. La vuole raccontare per farcela capire, togliendo quella che è la storia ufficiale, raccontata dagli storici, raccontata dai professori, dagli insegnanti io ve la racconto attraverso la gente. Quello che faceva Guareschi, quello che secondo Dannunzio fa Verdi che trae i suoi cori dalla folla, dall’ansante folla. E Montanelli rimpiange anche l’Italia, rimpiange il paese, il suo paese di cui scrive la storia. Forse uno dei guai dell’Italia è proprio questo: di avere per capitale una città sproporzionata per nome e per storia alla modestia di un popolo che quando grida forza Roma, allude solo ad una squadra di calcio. Montanelli è uno che non amava dare consigli, però uno solo ne da ai giovani e dice: “ Battetevi sempre per le cose in cui credete, perderete come le ho perse io tutte le battaglie. Una sola però potrete vincerne quella che si ingaggia ogni mattina quando ci si fa la barba davanti allo specchio. Se vi ci potete guardare senza arrossire contentatevi. E lo specchio non vi giudica dai successi che avete ottenuto nella corsa al denaro, al potere, agli onori, ma soltanto dalla causa che avete servito, tenendo bene a mente il motto degli hidalgo spagnoli: la sconfitta è il blasone delle anime nobili”. Montanelli checche se ne dica non era ateo, perché di sé diceva: “Io non mi considero affatto ateo e non capisco neanche come si possa esserlo”. Quanto meno forse era agnostico. Ammetteva di desiderare la fede, ma soprattutto aveva un concetto del cristianesimo molto alto. “L’unica grande rivoluzione” scriveva, “avvenuta nel nostro mondo occidentale è quella di Cristo, il quale dette all’uomo la consapevolezza del bene e del male e quindi il senso del peccato e del rimorso. In confronto a questa, tutte le altre rivoluzioni, compresa quella francese, quella Russia, fanno ridere. Il ricordo, la nostalgia del passato, la suggestione del pensare chi ci ha insegnato a vivere come per Guareschi era il nonno che ha ispirato i racconti di un mondo all’antica, quella grande cascina che lui immagina essere addirittura la sua Campolungo, per Tonino Guerra, altro grande poeta della nostra bella Emilia Romagna, era la mamma. “Se ho potuto studiare” scriveva Tonino Guerra, “lo devo a mia madre che firma con una croce, se conosco tutte le città che stanno in capo al mondo, è stato per mia madre, che non ha mai viaggiato. Ieri l’ho portata in un caffè a fare due passi perché quasi non ci vede più niente. Sedetevi qua. Cosa volete mamma, un bignè?”. Riconoscenza è anche nostalgia, ma soprattutto il ricordo. Quelle due parole che ce l’ha fatto imparare Federico Fellini, grazie alla sceneggiatura di Tonino Guerra. Due parole che in dialetto romagnolo diventano una sola: Basta questa musica, bastano poche frasi per capire l’Amarcord di Tonino Guerra. Lo so, lo so, lo so / che un uomo, a 50 anni, / ha sempre le mani pulite / e io me le lavo due o tre volte al giorno / ma è quando mi vedo le mani sporche / che io mi ricordo di quando / ero ragazzo (“Amarcord”). Piccole, splendide cose che uniscono anche nel dramma della prigionia nei lager nazisti sia Tonino Guerra che Giovannino Guareschi. Giovannino ne uscirà senza odiare nessuno e ritroverà proprio nelle baracche squallide dei campi di prigionia il suo mondo piccolo che nascerà nel 1946. Anche Tonino Guerra viene liberato dai nazisti e racconta con leggerezza della sua indicibile felicità. Contento, proprio contento / sono stato molte volte nella vita / ma più di tutte quando / mi hanno liberato in Germania / che mi sono messo a guardare una farfalla / senza la voglia di mangiarla (“La farfalla”). Senza l’incubo della fame, con la vita ritratta nelle ali di una farfalla e la mente pronta a riscoprire ricordi, come se quella parte della vita pur rimanendo ben impressa nella memoria potesse essere messa da parte. Quello era anche il desiderio di Giovanni Pascoli che torna a casa. Per un attimo fui nel mio villaggio, / nella mia casa. Nulla era mutato. / Stanco tornavo, come da un viaggio; / stanco al mio padre, ai morti, ero tornato. / Sentivo una gran gioia, una gran pena; / una dolcezza ed un’angoscia muta. / – Mamma? – È là che ti scalda un po’ di cena. – / Povera mamma! E lei, non l’ho veduta. (“Sogno”).
Musica
EGIDIO BANDINI:
E’ poesia e soltanto poesia, questa è l’Emillia Romagna, una eredità che abbiamo avuto dai nostri padri, una poesia che è un territorio ma un territorio che è poesia. Una terra speciale, che, diceva il maestro Verdi, simile a sé abitator produce. Il mondo piccolo dove bisogna rendersi conto che, in quella fettaccia di terra tra il fiume e il monte possono succedere cose che da altre parti non succedono. Cose che non stonano mai col paesaggio. E là tira un’aria speciale che va bene per i vivi e per i morti, e là hanno un’anima anche i cani. Allora si capisce meglio Don Camillo, Peppone e tutta l’altra mercanzia. E non ci si stupisce che il Cristo parli e che uno possa spaccare la zucca a un altro, ma onestamente però: cioè senza odio. E che due nemici si trovino, alla fine, d’accordo nelle cose essenziali. Perché è l’ampio, eterno respiro del fiume che pulisce l’aria. La stessa aria della poesia di Tonino Guerra con la quale chiudo questo incontro. Scriveva Tonino Guerra: L’aria è quella cosa leggera, / che sta intorno alla tua testa / e diventa più chiara quando ridi. (“L’aria”).
Musica
EGIDIO BANDINI:
Adesso, molto brevemente perché altrimenti andiamo oltre l’orario, un brevissimo saluto dal maestro Fausto Taiten Guareschi, abate del monastero Zen Fudenji e da parte di Enrico Beruschi. Poi non andate via perché il maestro Medioli ci fa un regalo, a conclusione ci suonerà la celebre mazurca variata di Migliavacca, che è il brano musicale più eseguito al mondo. Una musica straordinaria che comincia sempre e non finisce mai (sta volta finisce).
FAUSTO TAITEN GUARESCHI:
Solo due parole. Si ringrazia, si rischia di essere retorici. C’è una densità e una intensità che si possono, come dire, tagliare col coltello in qualche modo, anche e soprattutto grazie alla musica di questi due maestri. Però leggendo il mio foglio e pensando a Montanelli che scrive e ordisce: I ricordi vanno messi sotto teca, appesi a una parete e guardati. Senza tentare di rinnovarli. Mai. Ebbene, mi viene da pensare che fu amico di Giovannino Guareschi, lo criticò anche, forse lo fraintese, ma il commento migliore a queste parole dette o scritte da Montanelli, ovvero “i ricordi vanno messi”, vengono riattivati da questo amarcord, come ho sentito dire prima, ed è irresistibile, struggente, è la trasmissione del carattere. Ma questa trasmissione del carattere è quello che ha fatto dire a Giovannino, “io non chiedo la grazia, io ho due figli e allora vado in galera”. Grazie.
ENRICO BERUSCHI:
Non mi sono trovato. Ho dovuto fare una cosa seria, sembravo serio, lo faccio una volta all’anno. Vi aspetto a ridere.
EGIDIO BANDINI:
Allora grazie ancora. Grazie al “Meeting per l’amicizia fra i popoli” che ci ha ospitati. Speriamo che la serata vi sia piaciuta, che questo incontro vi abbia fatto conoscere un po’ meglio la nostra Emilia Romagna, la nostra eredità, Giuseppe Verdi, Giovannino Guareschi, ma anche Tonino Guerra e Giovanni Pascoli. La mazurca di Migliavacca e ce ne andiamo. Grazie a tutti e buona sera.
Musica