Chi siamo
Uno ti aspetta. Dino Buzzati e l’esperienza educativa dei Colloqui Fiorentini
Gilberto Baroni, Fondatore Colloqui Fiorentini e Presidente dell’Associazione Diesse Firenze e Toscana; Pietro Baroni, Docente di italiano e latino, Direttore dei Colloqui Fiorentini; Tommaso Pagni Fedi, Docente di italiano, direttivo Colloqui Fiorentini; Sara Riva, Studentessa; Michele Spissu, Studente Universitario. Introduce Paolo Perego, Giornalista.
I Colloqui Fiorentini – Nihil Alienum sono un convegno di letteratura italiana nato nel 2002 che ha coinvolto negli anni migliaia di docenti e studenti da tutte le regioni d’Italia e da vari paesi nel mondo, rimettendo al centro dello studio il cuore dell’uomo e la sua passione per l’esistenza e il suo destino. La XXI edizione, tenutasi a marzo 2022, si è intitolata: “Dino Buzzati. Uno ti aspetta”. Al Meeting ascolteremo alcune testimonianze di chi vi ha partecipato, un approfondimento sul metodo alla base di un percorso e di una esperienza educativa coinvolgente ed entusiasmante e un incontro ravvicinato con Dino Buzzati e i suoi testi.
UNO TI ASPETTA. DINO BUZZATI E L’ESPERIENZA EDUCATIVA DEI COLLOQUI FIORENTINI
Paolo Perego: Allora buona sera a tutti, anzi, buon pomeriggio. Benvenuti al Meeting. Partiamo subito. Abbiamo poco tempo, quindi con tanti ospiti andiamo un po’ in fretta, subito. “Una passione per l’uomo” è il titolo del Meeting, è un’espressione di don Giussani utilizzata nel 1985 durante un intervento proprio qui a Rimini e proprio di questa passione sentiremo parlare la prossima ora secondo una declinazione che poche altre potrebbero descrivere meglio che è quella dell’educazione. È vero che sentiremo parlare di Buzzati, dell’incontro con lui attraverso i suoi testi appoggiati sui banchi di scuola dei ragazzi, qui abbiamo una di loro per esempio, ma vedremo anche dipanarsi qualcosa che va oltre e che racconta di un rapporto educativo fatto di domande di senso condivise, di un modo di fare scuola vero e interessante che guarda al cuore dei ragazzi. In questo caso parliamo di una storia bellissima che è cominciata vent’anni fa, nel 2002, e forse anche prima, come intuiremo dal racconto del professor Gilberto Baroni. I colloqui sono una proposta di lavoro sulla letteratura italiana e viene rivolta a studenti delle superiori: ogni anno su un autore differente si approfondisce in classe o per gruppi la lettura di opere per arrivare a produrre una tesina, dei lavori che verranno poi presentati alla fine di questo percorso in un convegno a Firenze, un convegno in cui tra le altre cose alcuni di questi lavori vengono anche premiati. E abbiamo qui tra di noi, mi dicono che è presente, quindi lo salutiamo, Daniele Venturi, eccolo qui, che è uno studente del liceo scientifico Serpieri di Rimini, quindi siamo a casa sua, che ha vinto la menzione d’onore proprio all’edizione di quest’anno nella sezione narrativa con un racconto che s’intitola “La panchina”. Giusto, Daniele? Possiamo fargli un applauso. Grazie.
Dicevo, vi ho descritto i Colloqui a grandi linee, parliamo appunto di 21 edizioni dedicate di anno in anno a Dante, Ungaretti, Montale, Manzoni, e così via, andate a vedere sul sito perché il sito è ricchissimo, descrive bene tutto questo percorso. Parliamo di 500 iscritti circa nel 2002 e di oltre 4000 nell’ultima edizione pre-Covid in presenza, poi ci sono stati dei numeri minori in streaming che però hanno retto l’impatto di questa pandemia. Diciamo, se i Colloqui da un lato sono un modo diverso di affrontare la didattica, che rimette al centro dello studio il cuore dell’uomo e la sua passione per l’esistenza e il suo destino, dall’altro sono anche un punto privilegiato di osservazione di un pezzo di mondo, quello dei ragazzi, dei ragazzi tra i banchi di scuola. Nel caos soprattutto di questi due anni. E infatti quanto più ci addentriamo ascoltando i loro racconti nelle loro esperienze, tra quelli che partecipano appunto, tanto più ci accorgiamo di come questa proposta sia un punto luminoso rispetto a ciò che invece spesso sentiamo parlando sempre dei ragazzi. Lo vediamo tutti: la questione delle depressioni, delle ansie, fino alle cose più drammatiche di cui abbiamo sentito parlare negli ultimi mesi, come se fosse un’altra epidemia, si diceva con Pietro prima in un’altra occasione. Allora abbiamo invitato alcuni dei protagonisti di quest’avventura dei Colloqui per raccontarci quello che hanno vissuto quest’anno e per farci capire meglio qual è la natura di questa storia, di quest’avventura che portano avanti da vent’anni. Allora vi presento subito: il professor Gilberto Baroni che è il fondatore dei Colloqui Fiorentini e il Presidente dell’associazione DS Firenze Toscana che è di fatto la promotrice di questo convegno; Pietro Baroni, figlio d’arte, che ha seguito le orme del padre, docente di italiano e latino e Direttore dei Colloqui; poi abbiamo un membro del Comitato Direttivo dei Colloqui, docente di italiano anche lui, Tommaso Pegni Fadi, scusate, Fedi, che ci racconterà come da studente l’esperienza dei Colloqui lo ha portato a implicarsi in maniera diretta con questa realtà; abbiamo Sara che invece ha partecipato per tre anni, l’ultima quest’anno, ai Colloqui; e poi, collegato dalla Sardegna, uno studente universitario che è rimasto fedele nonostante si sia iscritto a una facoltà che apparentemente non c’entra nulla, ci spiegherà poi perché, fisica, è collegato dalla Sardegna Michele Spissu. Allora io lascio subito la parola a Gilberto perché ci racconti un po’ di questa storia, di che cosa ci sta dietro, come nasce e come è cresciuta in questi anni. Prego.
Gilberto Baroni: Grazie. Questa storia. Noi abbiamo una formula che è espressiva del nostro convegno, ma anche degli altri convegni che i Colloqui fiorentini poi hanno generato, che recita così “Da un avvenimento una storia”. Una compagnia di insegnanti all’opera. Da un avvenimento una storia: noi non siamo una organizzazione di eventi, noi non siamo nati, i Colloqui fiorentini non sono nati perché avevamo il pallino della letteratura oppure della didattica. Noi siamo nati da un avvenimento. Da un avvenimento che ci ha raggiunto, ci ha avvinto, ci ha convinto. E questo avvenimento lo voglio proporre con le parole di don Giussani. “Per ognuno, dice don Giussani, c’è un fatto che ha avuto un significato, una presenza che ha influito su tutta la vita, ha illuminato il modo di concepire, di sentire e di fare. Questo si chiama avvenimento”. Io ero un ragazzo in tutt’altre faccende, pensieri, desideri, progetti affaccendato, ma mi è successo questo incontro è straimportante questo perché mi ha dato la certezza che se aveva raggiunto me poteva raggiungere tutti, indipendentemente dalle proprie situazioni personali, familiari, culturali. Ma vorrei dire meglio con le parole di un nostro amico, Carlo Wolfsgruber, quello che ha rappresentato questo avvenimento proprio per me. Uso le sue parole in cui Wolfsgruber racconta la sua esperienza: “Noi avevamo fra le mani una cosa nuova, un segreto che dovevamo comunicare a tutti perché era il segreto dell’uomo che a noi era stato rivelato, ragazzi come eravamo, e noi raccoglievamo il testimone. La vita normale era come avere il fiato sospeso per questa coscienza”. Io mi sono riconosciuto, mi sono sentito descritto: questo è successo anche a me, di avere il fiato sospeso per questa coscienza, di aver avuto a che fare con una cosa nuova che mi aveva raggiunto estraneo come ero a questo mondo e che dovevamo comunicare a tutti perché era il segreto dell’uomo. Quando penso a tutti i grandi della cultura, a quanti di essi che hanno cercato l’ultimo segreto, direbbe Montale, l’hanno solo desiderato senza conoscerlo, e io e noi che questo segreto, a cui questo segreto era stato comunicato, come si faceva a non avere il fiato sospeso per tutto questo?
Allora due parole determinanti: la parola incontro e la parola destino. La parola incontro che sovverte tutta quanta l’impostazione culturale, per esempio universitaria o che è che è nella stragrande maggioranza delle scuole italiane per cui è l’analisi che conta, mentre nella mia esperienza è stato un incontro che mi ha fatto conoscere. Allora. E mi ha fatto conoscere perché in questo incontro si palesava, o si poteva intuire, o per alcuni irrompeva il destino dell’uomo. Ecco, io ho voluto insegnare spinto da questo impeto comunicativo, volevo che in qualche maniera l’esperienza che io stavo facendo potesse comunicarsi ai miei studenti, e mi è capitato così, io ho insegnato per tanti anni in un Istituto tecnico della periferia di Firenze, e per tanti anni è successo che questo modo, insegnare la letteratura a partire da queste due categorie dell’incontro e del destino, raggiungeva, coinvolgeva, convinceva anche i miei alunni che pur provenivano a loro volta da tutt’altra esperienza, sostanzialmente un’esperienza profondamente materialista. Ma durante queste ore di lezione a me accadeva, come dire, una percezione particolare: mi sembrava che le pareti della classe si dissolvessero e che noi fossimo al centro, nel cuore della vita di tutti gli uomini, contemporanei e passati. E i miei studenti avvertivano questo sentore di destino che aveva a che fare anche con loro e che li risvegliava, li ridestava dopo tanta, vien da dire, cecità.
Come ho insegnato letteratura? Nelle scuole, diceva la Flannery O’Connor, generazioni di studenti sono stati indotti a credere che imparare serva a eliminare il mistero. Ma con il mistero anche il destino, anche l’ultimo segreto, anche ciò che c’è di più personale, che di più ci appartiene, mi appartiene. Ma la letteratura è l’arte in generale, dicevo anche in altre circostanze, come il lapsus dell’ideologia. L’ideologia crea dei modelli omnicomprensivi e la realtà deve entrarci dentro. Ma l’arte molte volte è il lapsus dell’ideologia, è ciò che scivola via al di là delle proprie intenzioni. Per esempio, il positivista Verga diceva:” Il semplice fatto umano farà pensare sempre”. Ma se positivismo è la cultura volta al dominio della realtà, se il positivismo e il razionalismo è una cultura che esprime la realtà rendendo marginale o addirittura nemico il mistero, se dunque è una cultura che esaurisce la realtà in sé stessa, come poteva Verga dire: il semplice fatto umano farà pensare sempre? Perché se fa pensare sempre vuol dire che ha in sé una carica di inesauribilità e l’inesauribilità ha a che fare con l’infinito e l’infinito ha a che fare con il mistero. Allora in queste lezioni accadevano appunto dei silenzi vien da dire straordinari. Un giorno capita un’occasione favorevole e c’è la possibilità di comunicare anche ad altre classi, ad altre scuole di Firenze quanto accadeva nelle mie ore di lezione, e sono nati così i Colloqui fiorentini. I Colloqui fiorentini non sono nati a tavolino con un progetto, sono nati dall’esperienza di un insegnante che insegnava appunto la sua materia tutte le mattine andando a scuola. Come insegnare la letteratura? Vi leggo una citazione di George Steiner che ci aiuta a questo: “Agli studenti bisogna dire di non leggere le critiche, ma di leggere i testi. Leggere la critica, leggere i testi secondari significa essere passivi come davanti alla televisione, significa rinunciare alla responsabilità dell’azione”. E continua: “Una lettura seria e profonda cambia la mia vita. È un incontro con un’apparizione imprevista, come un incontro all’angolo della strada con l’amante, con l’amico, col nemico mortale”. Se leggiamo i testi della critica noi non studiamo gli autori, ma studiamo i critici. Se leggiamo oppure semplicemente le opere delle antologie dell’autore, studiamo in realtà chi ha scelto quei brani da antologizzare, ma noi proponiamo invece di leggere un’opera, almeno un’opera integrale dell’autore che studiamo perché in quest’opera, come dice giustamente Steiner, c’è una vera presenza, c’è la vera presenza dell’autore. E così ritorna la parola che dicevo all’inizio: incontro. Studiare è incontrare. Ma incontrare un autore presente, ho sempre pensato all’esempio di Dante con Virgilio, ma Dante Virgilio l’ha incontrato leggendo le sue opere perché Virgilio è vissuto 1300 anni prima di lui, eppure lo ha incontrato in modo tale da sentirlo più contemporaneo dei suoi contemporanei. Ha scelto un uomo che è vissuto 1300 anni prima, di ha potuto dire: il mio autore, il mio maestro, il mio duca, mio padre. E così noi aiutiamo i nostri studenti a incontrare gli autori, ma come si fa a incontrare gli autori se non a partire dalla propria posizione umana, cioè dalle proprie domande, dalle proprie esigenze, dalla propria esperienza per capire quelle domande, le esperienze dell’autore, ma insieme riceverne una luce ancora più grande per sé stessi? Quanti dei nostri studenti ci han detto: “Adesso Buzzati è diventato un mio amico, un compagno”, per esempio, per far l’ultimo riferimento all’edizione. Ma questo metodo lo abbiamo creduto proposto anche ai nostri colleghi, questo metodo che potremmo sintetizzare così: l’io in azione. Non i critici, le letture critiche, non le categorie culturali: noi non abbiamo mai proposto il romanticismo, il decadentismo, ma abbiam sempre proposto Leopardi, Pascoli D’Annunzio, perché si incontrano degli uomini, delle persone, mentre le correnti sono delle astrazioni, e diceva sempre Maria Zambrano che “l’astrazione è uno sguardo che ha smesso di vedere le cose”. E noi invece riproponiamo in primo piano l’autore e il nostro rapporto con lui, e il dialogo che nasce con lui, e le domande che rivolgiamo a lui, le domande che lui rivolge a noi e quest’ora di lezione che diventa circolarmente un dialogo fra l’insegnante, gli studenti, l’autore e così via.
Chi ha seguito quest’esperienza può dire come ci ha detto una nostra amica, una collega marchigiana: “In un momento della mia vita in cui non riuscivo neanche più a desiderare le cose più vere è arrivata l’inattesa esperienza dei Colloqui fiorentini, grandiosamente imprevista. Ha ridato me a me stessa.” E partecipava a un convegno di letteratura! “Ha ridato me a me stessa”. Ma la stessa cosa diceva anche un’altra nostra amica, Roberta: “Venire a Firenze e coinvolgermi in prima persona con i miei interessi e le mie domande sugli autori, sulla scuola, ma anche sulla mia vita e su quella dei ragazzi che per un tratto di strada mi sono affidati mi ha sempre rigenerata e rilanciata a 360 gradi (che significa su tutto: dalla famiglia alle amicizie, al rapporto con le cose)”. Tant’è vero che una volta presentando i Colloqui fiorentini a Milano detti come titolo: “Accade a Firenze”, questo accade ai Colloqui fiorentini.
Vado verso la conclusione, credo. Per indicare come questo metodo, per esempio, che noi proponiamo per gli studenti e che li ridesta a una coscienza della vita inconsueta, alla vita come una novità, è proprio anche, l’abbiam proposta anche agli insegnanti. Sentite questa. Dice Nicoletta: “Ma quest’anno, attraverso il video Europa che applica il metodo dei Colloqui fiorentini, ho di nuovo gustato la bellezza di questo lavoro che da ragazza ho scelto convintamente”. Pensate: dopo anni, anni e anni magari in balia dell’abitudine, oppure della burocrazia, oppure dei progetti inutili, assurdi, “ho di nuovo gustato la bellezza di questo lavoro che da ragazza ho scelto convintamente. La novità non è dipesa dall’autore, piuttosto dal fatto che questa volta, dopo aver imparato un po’ il metodo, è come se avessi preso coraggio per coinvolgermi di più, mettermi di più in gioco. Quello chiesto ai ragazzi, cioè leggere e porre domande a sé, all’autore, mi sono sorpresa d’averlo fatto io per prima”. Non il regno delle astrazioni, il regno dell’io. E così una studentessa, anticipo quello che potrebbero eventualmente dire anche loro lo so, di Bagno a Ripoli, dopo aver scritto alla sua professoressa queste parole: “Ho sempre pensato che la scuola mi stesse annullando” (anch’io quando andavo a scuola avevo quest’impressione: che mi stesse annullando, tant’è vero che andavo malissimo) scusate “per questa ragione spesso l’ho profondamente odiata e ho odiato la sveglia che la mattina alle 7 mi richiamava per un’altra giornata di scuola. Eppure, dice, in questi tre giorni trascorsi ai Colloqui fiorentini, incredibilmente non vedevo l’ora che quella sveglia suonasse. Devo ammetterlo, non l’avevo previsto.” Cioè: accade, accade. Chiudo con queste parole della nostra amica Ida: ci ringrazia. “Poche parole per ringraziarti di questi giorni che sono stati per me e per le persone che in qualche modo ho coinvolto in vari momenti o a diverso titolo, un’occasione di incontro con l’avvenimento che noi siamo e che portiamo. Grazie per avermi offerto lo spazio per riprendermi sia dal punto di vista culturale che didattico”. Antonella concludeva così e anch’io concludo: “Grazie per tutto il vostro lavoro: don Gius in cielo se la gode”.
Perego: Grazie, grazie Gilberto. Proprio da una cosa che hai detto tu ripartirei. Hai detto, citando una professoressa che diceva: “mi ha ridato me a me stessa e mi ha fatto scoprire di più chi sono”. Vorrei che Tommaso, chiedo scusa per aver sbagliato il cognome prima, ci raccontasse che cosa è accaduto a lui: un’esperienza talmente radicale da fargli prendere un certo tipo di strada nella vita. Racconta pure tu che cosa ti è successo.
Tommaso Pagni Fedi: Allora innanzitutto buona sera a tutti. Ci tengo a ringraziare di questa bellissima occasione, perché come appunto ora racconterò sono molto, molto, molto legato ai Colloqui fiorentini e parlarne di fronte a questo pubblico al Meeting mi riempie tanto di emozione quanto anche di gratitudine. Allora io appunto nel mio intervento racconto brevemente il contributo che i Colloqui hanno dato alla mia vita di studente prima e di docente poi. Faccio una breve premessa: quando ho partecipato ai Colloqui la prima volta era il 2012, era la mia, frequentavo l’ultimo anno del liceo, l’edizione era su Ugo Foscolo, e attraversavo un periodo della mia vita abbastanza particolare nel senso che mi si era scoppiata, si era scoppiata in me in modo definitivo una domanda per vari motivi, che avevo in realtà da diverso tempo, ed è anche una di quelle domande che fortunatamente ho tutt’ora. Mi chiedevo con insistenza chi sono io, al di là di tutte le immagini che abitualmente mi potevo fare di me stesso, dei propositi, dei progetti futuri: io chi sono davvero? E l’idea che mi ero fatto, anche influenzato da alcune letture, era che potessi trovare la risposta alla mia domanda nella solitudine perché pensavo che recidendo qualsiasi tipo di rapporto con persone nei contesti in cui vivevo avrei potuto anche allontanare da me le immagini a cui abitualmente mi riducevo. Va da sé che quando invece arrivai ai Colloqui fiorentini l’impatto fu con una realtà che mi mostrava esattamente l’esatto opposto di quello che io pensavo perché avevo di fronte agli occhi 1800 studenti, e allora erano ancora 1800, poi sarebbero aumentati di numero nelle edizioni successive, che insieme ai loro docenti erano tutti tesi a interrogare i testi dell’autore, di Foscolo, e a lasciarsi interrogare dai suoi contenuti, dalle idee di Foscolo sulla vita, sulla morte, sulla politica, dalle sue domande, dalle sue risposte mettendo questi contenuti al vaglio della propria esperienza e in questo modo poi, come ha detto anche ora Gilberto, verificandone non solo la verità nei contenuti stessi dei testi, ma anche la portata nella propria vita. E quindi in quest’esercizio di confronto con l’autore e col testo vedevo intorno a me persone fiorire, vedevo persone che conoscevano di più loro stesse, esattamente quello che io desideravo. Per questo rimasi praticamente folgorato da questa frase con cui si concluse il primo intervento di un insegnate che, per motivare l’aridità poetica di Foscolo negli ultimi anni della sua vita, disse: “non è dato all’uomo diventare grande da solo, soltanto in un grande dialogo d’amore si può diventare sé stessi”. Ed io che pensavo invece come Foscolo di diventare grande da solo, cioè di rispondere alla domanda: chi sono io? da solo, in quelle parole trovai come la conferma dell’esperienza che invece stavo vivendo ai Colloqui, cioè di rapporti, prima di tutto il rapporto con Pietro e poi anche con tanti altri amici, coi quali apparentemente discutevamo di Foscolo, nel frattempo io mi rendevo conto però che stava uscendo in me il vero Tommaso e mi rendevo conto quindi appunto di conoscere sempre di più me stesso. E quindi da lì in poi quelle parole e quell’esperienza per me sono diventate come il criterio in base a cui orientare poi ogni scelta della mia vita. È iniziato proprio un cammino di conoscenza di me stesso. Alla fine infatti del liceo, dopo la maturità, decisi di iscrivermi a Lettere perché mi rendevo conto che era nel dialogo con i grandi della letteratura che appunto conoscevo di più me stesso. Decisi di iniziare un cammino di fede, io prima non frequentavo la Chiesa e non credevo nel movimento di Comunione e liberazione, proprio perché mi resi conto che la mia vita era fatta per un destino buono e alla fine dell’università poi decisi di iniziare a insegnare piuttosto che fare il dottorato avendone comunque la possibilità, questo perché avevo il desiderio di estendere, condividere il dialogo che io avevo personalmente con i grandi della letteratura anche con i miei studenti, esattamente come a me era avvenuto nei giorni dei Colloqui. E quest’anno che ho partecipato con un gruppo di studenti ai Colloqui fiorentini è stata proprio come la conferma di quest’esperienza. Il momento più entusiasmante è stato quando ci siamo incontrati per discutere insieme delle reazioni che avevamo avuto di fronte ai testi di Buzzati e gli interventi dei Colloqui fiorentini; mi ha colpito molto una studentessa che ha detto: “Io fino ad ora ero abituata a relazionarmi con le cose, con le persone in modo superficiale e istintivo, ho scoperto invece di avere una profondità che consiste nell’attesa della felicità, proprio come “I conigli sotto la luna”, è un racconto di Buzzati che attendono la felicità”. Oppure un altro studente che diceva: “Io sono attratto dalla realtà, dal mistero della realtà come i personaggi di Buzzati, però ne ho paura e non so come uscirne”. Oppure, questo è l’ultimo esempio che faccio, un’altra studentessa che ha detto: “Io voglio capire come mai per Buzzati nel romanzo “Un amore” lui afferma che ci sia qualcos’altro al di là nell’amore, che ci sia qualcosa di più al di là della corrispondenza del rapporto affettivo, al di là del fatto che l’altro corrisponda o meno.” E tutte queste domande son diventate poi come degli spiragli in classe con cui anche dialogare con gli studenti, conoscere di più loro e farmi conoscere da loro, anche attraverso altri testi oltre a quelli di Buzzati, sempre nella prospettiva di un incontro con l’autore come diceva Gilberto. Chiudo dicendo che tutto questo non sarebbe possibile se non fosse condiviso anche, non solo ma anche, soprattutto con i docenti del comitato didattico, siamo circa 40, con i quali periodicamente ci confrontiamo, anche stamattina, sull’autore dell’anno e anche su altri aspetti della vita scolastica fino al nascere anche di un’amicizia che risveglia in me continuamente il desiderio appunto di mettermi in dialogo proprio come nei giorni dei Colloqui con i grandi della letteratura e con i miei studenti. Ho finito.
Perego: Allora. Invece ora vorrei dare la parola a Michele perché ci spieghi lui, sardo, che studia Al secondo anno di Fisica a Pisa, se non sbaglio, che ci azzecchi con i Colloqui? Ci senti?
Michele Spissu: Sì.
Perego: Raccontaci un po’: cosa c’entri tu con i Colloqui, cosa ci fa un fisico qui a parlare di questa cosa?
Spissu: Allora, prima di tutto ringrazio Pietro per aver scelto me per parlare dell’esperienza. Un grazie anche agli altri due ragazzi e alla professoressa con cui all’epoca partecipai ai Colloqui Adrea Cuccu, Giacomo Falda e la professoressa Maria Antonietta Gallizzi. L’incontro con i Colloqui è avvenuto due anni fa, ero in quinta liceo e l’edizione era su Dante. Perché, perché ancora adesso io mi iscrivo ai Colloqui fiorentini e partecipo nonostante io sia iscritto a Fisica? Perché già dai primi istanti mi resi conto che i Colloqui erano l’opportunità per scoprirmi uomo, era un’opportunità che mi metteva di fronte alla mia umanità, mi rendeva uomo di fronte alla realtà, fino in fondo. E tutto il percorso liceale è stato costellato da domande più o meno profonde, e fino a quel momento, fino a quest’incontro le risposte erano sostanzialmente false certezze che noi ci costruiamo per vivere un po’ sereni. E l’incontro con i Colloqui, l’incontro con l’umanità delle tre persone con cui ho condiviso questo viaggio è stato rivoluzionato. È con l’incontro che Dante ha avuto un Virgilio, qualcuno capace di dirmi: “a te convien tener altro viaggio”, cioè la strada è un’altra. Oggi viviamo un po’ nell’epoca dei dibattiti, no, una parola che è all’apparenza innocua, però invece a me pare sia un po’ intrisa di violenza quasi: c’è un contraddittorio in cui ognuno propone le proprie certezze, dove non c’è spazio per la mediazione, per la verità, e ciò che conta è vincerlo il dibattito. I Colloqui invece escono da questa logica e entrano nella logica del dialogo. Etimologicamente dialogo vuol dire “attraverso la parola”. E proprio attraverso la parola nel senso più ampio possibile, i Colloqui mi hanno reso uomo, le parole di Dante in primis, poi dalla letteratura, ma in realtà il punto di vista dei Colloqui si applica alla vita in senso ampio e quindi anche all’ambito scientifico cioè, vi è che sono portatori quasi dell’eredità più profonda e bella della scienza: il mettere in discussione continuamente la propria verità per fare esperienza sincera e priva di giudizio a priori di quella altrui. E in questo incontro, in qualsiasi forma, che sia in un libro, in una canzone, in una chiacchierata al bar, in un discorso più articolato, anche in questo mio ora essere qui testimone di questa esperienza, ecco, credo che questo incontro sia la realizzazione della mia umanità, sia ciò che mi pone di fronte a me stesso, ciò che mi avvicina di più, e lo fa consapevolmente, profondamente, a quel presentimento di amore di cui Dino Buzzati parla nel romanzo “Un amore”. Quest’anno i Colloqui saranno dedicati a Calvino e il titolo che è stato scelto è tratto dal “Cavaliere inesistente” ed è: “È verso la verità che corriamo, la penna e io …”…È stato interessante scoprire come Calvino continua questa frase. Dice: “La verità che aspetto sempre che mi venga incontro”. C’è una corsa fatta di attesa. E mi pare che questo alla fine mi hanno insegnato i Colloqui: cioè la verità ci viene incontro se noi l’attendiamo, ma di un’attesa che è corsa, di un’attesa che è attiva, che non è distrazione, che non è fatta di sotterfugi, di paci fittizie, e quindi è chiaro che per me sono stati molto di più di un concorso di letteratura, di una serie di convegni sulla letteratura. Sono, restano l’occasione per incontrare la mia umanità perché fanno una cosa che avviene in gruppo perché non si può partecipare in quanto singoli, si partecipa in quanto gruppo ai Colloqui, e l’incontro con l’autore, con le persone del gruppo ci mette di fronte alla nostra umanità, con i nostri limiti anche. E concludo tornando a Dante perché ho fatto l’incontro. Devo dire un incontro all’inizio molto denso di dubbi. Dante scrive a Cangrande della Scala, suo protettore a Verona negli ultimi tempi, una lettera. In questa lettera scrive: “Si può dire in breve che il fine di tutta l’opera consiste nell’allontanare quelli che vivono questa vita dallo stato di miseria e condurli a uno stato di felicità”. Questo rispetto alla Commedia. Ci ha lasciato un po’ perplessi questa cosa, è un fine molto superbo: chi è che può dire di poter insegnare la felicità? E nonostante questo abbiamo deciso di leggerla e ci siamo resi conto che lì, nella Commedia, c’è l’esperienza di Dante, la sua esperienza in quanto uomo, un’esperienza onesta, dove compaiono anche le sue colpe. E per quello che ci ha lasciato questa esperienza all’epoca decidemmo di intitolare la nostra tesina con un verso dell’undicesimo canto dell’Inferno: “Necessità c’induce e non diletto”. Contestualizzando, quello che succede è che Virgilio e Dante sono di fronte ai Centauri e Chirone, che è la loro guida, si accorge che Dante è vivo, e allora Virgilio deve spiegare cosa sta succedendo. Dice che è una donna in Paradiso che vuole che facciano questo viaggio, e nello spiegarlo dice: “necessità c’induce e non diletto”. Cioè il viaggio di Dante, che è il nostro viaggio verso…. e consapevolezza, che è un viaggio fatto anche di sofferenza, è però un viaggio necessario. Noi spesso leggiamo, compriamo e leggiamo libri per piacere, per diletto, e non c’è nulla di male in questo, così come non c’è nulla di male nella chiacchierata al bar con un amico, così disimpegnata, però quello che i Colloqui insegnano, i Colloqui, Dante e la letteratura mi hanno insegnato è che i libri vanno letti per necessità, anche quando ci dicono quello che non vogliamo sentire. E allo stesso modo i rapporti umani sono veri quando vanno oltre questo piacere, oltre questo intrattenimento, danno spazio a qualcosa di più profondo, quando ci mettono di fronte a noi stessi. Ecco.
Perego: Grazie. Grazie Michele. Adesso vorrei chiedere anche a Sara di raccontare la sua pluriennale esperienza ormai ai Colloqui. Chissà se andrà avanti anche la tua.
Sara Riva: Sì, spero proprio di sì.
Perego: Adesso che cominci l’università.
Riva: L’università, sì.
Perego: Racconta, racconta pure. Come hai iniziato e come proseguirà.
Riva: È il mio terzo anno ai Colloqui fiorentini. Ho deciso di fare i Colloqui fiorentini all’inizio perché convinta da una mia professoressa, ma ho deciso di continuare i Colloqui fiorentini perché ho compreso che i Colloqui fiorentini sono, hanno portato una crescita in me, hanno portato, mi hanno condotta a quella versione migliore di me proprio perché non l’ho fatto per qualcun altro ma l’ho fatto per me stessa. In particolare l’autore che sento più mio è stato Dino Buzzati che è l’autore più recente. Ho iniziato appunto a leggere Dino Buzzati durante questo periodo e il primo romanzo che ho letto è stato “Il deserto dei tartari” e da subito mi sono identificata, mi sono rispecchiata nella figura di Drogo che è il personaggio principale. Appunto Drogo è un giovane, un giovane soldato che è pieno di attese, di aspettative, di speranze, di sogni e sceglie appunto di abbandonare, di distaccarsi appunto dai propri affetti e di isolarsi in questa fortezza, la fortezza Bastiani che si trova ai confini del mondo, e appunto è un giovane tenente. E mi sono da subito rispecchiata in Drogo perché anch’io ho cominciato qualcosa di nuovo, ho cominciato il mio ultimo anno di superiori e come Drogo ero piena di sogni, di speranze, ma contemporaneamente anche di insicurezze e di preoccupazioni proprio perché cominciavo quello che sarebbe stato un anno decisivo perché avrei dovuto prendere delle decisioni ponderate rispetto appunto a tutta la mia vita, ovvero il mio percorso universitario che è stato guidato proprio dai Colloqui fiorentini. Cioè senza i Colloqui fiorentini non penso che avrei potuto fare questa scelta universitaria, ovvero Letterature moderne perché il mio sogno è quello appunto di insegnare come fanno nei Colloqui fiorentini perché è un metodo innovativo e sicuramente che ti porta a cambiare ma a migliorare non solo te stessa, ma anche il tuo rapporto con il mondo perché alla fine come dice Aristotele “noi siamo animali sociali” e quindi noi dobbiamo e viviamo insieme a altre persone nel mondo e dobbiamo imparare appunto a relazionarci con le altre persone e solo, come dice Hegel appunto, solo l’altro ci permette di migliorarci, di raggiungere quella versione migliore di noi. Drogo appunto è in questa fortezza Bastiani e è stato decisivo per me perché solo alla conclusione di questo romanzo sono arrivata a dire: no, io non voglio fare la fine che ha fatto Drogo. Drogo finisce da solo, muore da solo, vecchio perché come congelato nel tempo in questa fortezza Bastiani, congelato in questa fortezza di illusioni, come intrappolato, schiavo di sé stesso. E io non voglio finire come Drogo ed è per questa ragione che Drogo mi ha spinto a prendere delle decisioni riguardo alla mia vita. E a non rimanere ferma, intrappolata nelle mie sicurezze, nelle preoccupazioni e anche per questo oggi sono qui, perché Drogo, Buzzati, mi spinge, mi ha spinto a sfidarmi, a mettermi in gioco, a mettere la mia faccia, a mettermi in movimento e a dare un senso alla mia vita. E in particolare c’è una frase che mi porto dietro e che mi ha lasciato Dino, lo chiamo Dino perché ormai non lo vedo più come un autore ma lo vedo appunto come un amico, come un compagno di viaggio, che si trova nel ventinovesimo capitolo appunto del “Deserto dei Tartari”. E Buzzati scrive riferendosi appunto ai due soldati che portano al di fuori appunto della fortezza Bastiani il corpo ormai morente e appunto lacerato dalla vecchiaia, di Drogo, e dice: “I due soldati avevano preso la vita come veniva senza angustiarsi con pensieri assurdi, ovvero avevano preso la vita senza angustiarsi, cioè senza tormentarsi con insicurezze, con preoccupazioni, con ansie, proprio perché la vita è degna di essere vissuta come se ogni giorno fosse l’ultimo, cioè come se, tenendo presente appunto che la nostra vita è breve, la nostra vita scorre velocemente e per questa ragione dobbiamo viverla come se ogni giorno fosse l’ultimo, dando un senso, dando un senso appunto a ogni secondo della nostra vita. E in particolare mi sono avvicinata anche a un’altra figura, a un altro personaggio di Dino, di Buzzati che si trova in “Un amore” che è l’ultimo romanzo che ha scritto Buzzati, ovvero Adelaide, soprannominata Laide, la quale all’inizio appunto è una giovane prostituta che alla fine appunto del romanzo trova appunto il suo amore, il suo unico amore Dorigo, e si salva, diciamo, grazie a questo amore perché non è un amore egoista, un amore per se stessa, ma un amore con qualcun altro e per qualcun altro, cioè un amore sincero, un amore vero che la porta alla salvezza, la porta alla crescita. Io consiglio appunto a tutti gli studenti, a chiunque appunto, di seguire i Colloqui fiorenti, di provare il metodo dei Colloqui fiorentini perché mi ha lasciato davvero tanto e questa frase appunto me la porterò con me per tutta la vita perché è una frase che comunque mi spinge a non avere paura, ma a vivere con coraggio giorno dopo giorno proprio sapendo perché, sapendo che la vita appunto è breve, la vita scorre velocemente, e non dobbiamo appunto temere la morte, perché la morte ci ricorda solo che appunto questa vita è breve, ma come ci dice Buzzati, la vita è mistero, la vita ci chiama a un oltre, cioè ci dice che non è tutto qui, ci dice che c’è qualcos’altro, che c’è anche nella fortezza Bastiani si trova il limite del mondo. Proprio perché c’è un orizzonte che vede da lì appunto Drogo, e da lì è questo che mi ha lasciato appunto Dino e che volevo raccontare appunto a tutti.
Perego: Grazie mille. E in bocca al lupo per l’avventura universitaria che comincia adesso. Invece Pietro, se ci puoi spiegare un po’ meglio: che cosa vuol dire affrontare, parliamo di Buzzati, affrontare un autore ai Colloqui fiorentini? Che differenza c’è tra leggere un autore sfogliando le pagine per quanto intensamente o affrontarlo come lo fate voi?
Pietro Baroni: Ma io, in realtà ci sarebbe da riascoltare gli interventi che abbiamo appena sentito perché la risposta è già lì; però mi riallaccio, in particolare, a quest’ultimo intervento, perché lei ci ha raccontato la differenza proprio del metodo. Faccio un esempio: quando si insegna normalmente Leopardi nelle scuole, lo si conosce come il poeta del pessimismo, il pessimismo storico, il pessimismo cosmico…credo che sia esperienza un po’ di tutti mediamente che hanno fatto le scuole superiori questa immagine. Ora è interessante scoprire che Leopardi in tutta la sua sterminata produzione, non ha mai usato il termine pessimismo. L’ha usato una volta sola nello Zibaldone dove dice che bisogna evitare di insegnare il pessimismo ai giovani. Ma da generazioni si insegna che Leopardi è il poeta del pessimismo storico, cosmico, personale, universale, etc… Cioè gli autori sono lì ma bisogna vederli, gli autori sono lì, ma bisogna ascoltarli, gli autori sono lì ma bisogna aprire il cuore e la testa per ospitarli, se vogliamo incontrare un autore. Altrimenti ripetiamo a pappagallo il Bignami per preparare l’esame di maturità. Quello che mi sembra sia emerso dalle testimonianze è che un autore parla se la lezione è un luogo in cui, come diceva Gilberto prima, accade un silenzio che ospita le sue parole, senza bisogno di appiccicarci sopra delle etichette già studiate dall’insegnante per preparare la lezione. C’è un’idea di preparare la lezione che vuol dure preparare tutte le etichette che appiccicherò a Leopardi, Manzoni, Verga, etc. C’è un modo di preparare la lezione che significa prepararmi io insegnante a fare spazio a quello che accadrà in classe coi miei studenti leggendo un testo e non lo posso decidere prima. Questo lavoro che ho detto ora è molto più affascinante, interessante, faticoso, impegnativo dell’altro e per Buzzati è la stessa cosa. Buzzati che alle superiori non si fa, qualche scuola lo fa al biennio leggendo qualche suo racconto, ma leggono i racconti di Buzzati perché si sta facendo il genere della narrativa del mistero. E quindi chi si legge? Poe, e qualche volta Buzzati, cioè l’autore viene usato per giustificare l’esistenza di un genere letterario anziché per leggere l’autore. Ma un Buzzati così non parlerà mai, non svelerà mai niente agli studenti, un Buzzati così al massimo dirà: “Sì, esiste il genere della narrativa del mistero”. Ma una volta che esiste il genere della narrativa del mistero, quando mi domando “Ma io chi sono?”, che me ne faccio di sapere questa cosa? A cosa mi serve? Forse a fare una buona interrogazione e basta. Allora invece la nostra idea è quella che abbiamo detto finora, l’incontro. Certo che Buzzati è l’autore del mistero, ma aspettiamo a dire questa parola, cominciamo a leggere i testi. Allora vi leggerò alcuni testi, vi leggo il finale di uno dei racconti più famosi di Buzzati che si chiama I sette messaggeri. È la storia di questo principe, figlio di un re che ha un regno sterminato che parte a cavallo con sette servitori per cercare di raggiungere i confini del regno di suo padre, ma più cavalca negli anni e più questi confini non si raggiungono mai. Sembra che questo regno sia infinito. Alla fine lui, ormai vecchio, si sveglia spedendo indietro il suo servitore a dare l’ultima notizia di sé, sapendo che non farà mai in tempo a tornare, morirà sia lui che il protagonista, il principe. Ma lui si alza l’ultima mattina per andare ancora verso i confini del regno, a cercare. E dice così: “Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne inesplorate che le ombre della notte stanno occultando. Ancora una volta io leverò il campo, mentre Domenico scomparirà all’orizzonte dalla parte opposta, per recare alla città lontanissima l’inutile mio messaggio.” “Una speranza nuova”, “l’inutile mio messaggio”. Buzzati ci dice “Se non vai avanti, se torni indietro, la vita è un inutile messaggio, se vai avanti, anzi, VAI avanti per una speranza nuova, una speranza nuova misteriosa, di cui il protagonista non sa darsi ragione, eppure la sorprende in sé. O ancora, il finale di un altro racconto che si chiama Lo sciopero dei telefoni dove c’è uno sciopero di telefonisti e quindi le comunicazioni telefoniche di tante persone si incrociano tra di loro creando equivoci, imbarazzi, scherzi, eccetera. A un certo punto interviene una voce misteriosa, bellissima, dolcissima, che sa tutto di tutti quelli che sono al telefono e che all’inizio li inquieta e poi invece li mette tutti insieme: questi cantano insieme per tutta la serata in un’armonia meravigliosa. “Chi era? Un angelo? Un veggente? Mefistofele? O lo spirito eterno dell’avventura? L’incarnazione dell’ignoto che ci aspetta all’angolo? O semplicemente la speranza? L’antica, indomita speranza la quale si va annidando nei posti più assurdi e improbabili, perfino nei labirinti del telefono quando c’è lo sciopero, per riscattare la meschinità dell’uomo?”
Allora, capite la differenza? Tra presentare Buzzati come l’autore della narrativa del mistero e far parlare lui, che parla di speranza, che parla di mistero, che parla di qualcosa che riscatti la meschinità dell’uomo, cioè di ciascuno di noi? Oppure, l’altra cosa interessante è che noi non cerchiamo solo le parole degli autori, ma delle parole cerchiamo di seguire il percorso che l’autore fa. Perché tutti oggi parlano di speranza, all’inizio della vicenda del Covid lo slogan era “Andrà tutto bene”, era un grido di speranza, ma ha delle ragioni questa speranza? Buzzati come vive questa speranza? Che cos’è per lui? È motivata da qualcosa? Allora uno, leggendo, segue un’ipotesi per sé: ma io ho una speranza? Questa speranza è un’illusione o è qualcosa che si appoggia su qualcosa di reale? Allora uno va a leggere le pagine di Buzzati chiedendogli questa cosa: che cos’è la speranza per te, Buzzati? Per questo lei diceva “Dino”. Dove lo troviamo uno più amico di così? Uno che tanto amico da farti compagnia nelle parole che senti più importanti per te. Ad esempio, in Buzzati, la speranza nasce di fronte alla contemplazione della bellezza, della realtà. Ma anche la bellezza che cos’è? È facile dire “la bellezza”. Ad esempio, in Buzzati, la bellezza è qualcosa di terribile, perché attira e spaventa allo stesso tempo. C’è un racconto che si chiama Plenilunio che comincia così: “Ancora una volta il plenilunio ha illuminato il giardino e la nostra casa di campagna. Io ero in salotto con i miei, alla luce elettrica. Si discorreva, si fumava. Ma io sapevo bene ciò che stava accadendo fuori” cioè, il plenilunio, la luce della luna “Era una delle cose più perfette inventate dalla natura e dall’uomo. E non costava una lira. Eppure, io me ne stavo seduto in casa coi miei a discorrere, leggere, fumare. Aspettavo. Avevo una specie di paura. Rimandavo di minuto in minuto. Poi, simulando una sorta di svogliatezza per non dare troppa soddisfazione a quella spaventosa faccenda là fuori, ho aperto i grossi battenti della porta di legno, che era già stata chiusa.” Ci si chiude alla bellezza, perché fa paura “Ancora una volta – e lo stesso fenomeno si ripete ogni estate, dal tempo dei tempi – mi sono chiesto: perché? Perché questa bellezza senza rimedio, struggente trasfigurazione del mondo, poesia allo stato puro? Perché? Da dove viene? Dal silenzio?”
In Buzzati la bellezza non ha mai un pacifico punto di arrivo, è sempre un inquieto punto di partenza, è per questo che fa anche paura. E infatti, dice: “Come in tante altre notti del passato, mi sarebbe piaciuto restare là a contemplarla per ore e ore, nello stesso tempo avvertivo uno strano bisogno di fuggire, come ci fosse per me qualcosa di troppo difficile, un rischio, un oscuro tormento.” Allora uno, che si imbatte in queste parole, comincia a dire: “Già, in effetti, la bellezza mette in discussione”, perché la bellezza ti strappa da te, ti attira fuori dal tuo placido vivere, è destabilizzante. Oppure la bellezza ha un’altra caratteristica in Buzzati. Fa paura non solo in chi la sperimenta, ma anche al potere. Vi leggo l’inizio di un racconto fenomenale che si chiama Le montagne sono proibite. È un racconto del ‘49, una delle prime raccolte di racconti di Buzzati. Amava moltissimo le Dolomiti, le scalava fin da ragazzino, riempie i suoi racconti delle montagne. Dice così:
“Una legge proibisce formalmente di occuparci delle montagne: né salirci né parlarne e neppure guardarle, possibilmente. “Possibilmente”, così dice la parola del legislatore con una pretesa che egli stesso evidentemente giudicava eccessiva. Perché esse stanno sempre sopra la città, dalla parte del settentrione, giorno e notte, col loro splendore. Preferiamo non guardarle ora, con un po’ di buona volontà, ci si può anche abituare, per non fare dispiacere a chi ci governa. È come se non esistessero, ormai, escluse dalle quotidiane vicende della vita. Ogni tanto però involontariamente qualche occhiata le sfiora; ma si abbassano subito gli sguardi, per prudenza, cercando subito di dimenticare. Siano limpide o avvolte di nubi, cariche di neve o bruciate dal solleone, chi lo sa più? Non lo vogliamo neppure sapere, tanto grande è la riverenza per le leggi (che noi probabilmente non possiamo capire ma che di certo sono fatte per il bene nostro e dei nostri figli). Qualcuno con abili pretesti non attinenti al divieto ha già fatto murare le finestre della sua casa rivolte a nord, per non essere tentato. E adesso vive più tranquillo, additato ad esempio. Ad uno ad uno gli ombrosi loggiati verso il settentrione si chiudono.”
In Buzzati la bellezza è un fattore destabilizzante del potere: il potere ha paura della bellezza. Scusate, ma pensate se la scuola fosse un luogo in cui si sperimenta la bellezza, anziché passare il tempo a cercare le figure retoriche di una poesia, che certamente hanno un valore enorme, ma se sono al servizio della ricerca di questa bellezza, non se sono prese a sé come competenza-obbiettivo da raggiungere. Così anche la parola desiderio è impressionante in Buzzati, poiché lui ha molto chiaro che il desiderio è la natura dell’uomo e, allo stesso tempo, l’uomo ci combatte una battaglia quotidiana, perché rimette sempre in discussione rispetto a tutte quelle conquiste che l’uomo nella sua vita ottiene e con le quali crede di aver finalmente soddisfatto il desiderio. Ci sono un’infinità di racconti che non posso ovviamente leggervi. Vi leggo solo un pezzo impressionante: si chiama Aprile 1945, seconda guerra mondiale appena finita, ma è terribilmente attuale. Leggendo, spero che ci si accorga di questo. Pensiamo alla pandemia, ma anche alla guerra in Ucraina che c’è ora.
“Ecco, la guerra è finita.
Si è fatto silenzio sull’Europa.”
“Come siamo felici.”
“A metà del pranzo la mamma si è messa improvvisamente
a piangere per la gioia,
nessuno era più capace di andare avanti a parlare.”
“Felicità su tutto il mondo è pace!”
“Non più, non più, ecco tutto; Dio come siamo felici.”
“Ricominciamo, o amici, a dormire senza soprassalti, a dire “domani”, a dimenticare la morte. Ecco tutto.”
Come si fa a non desiderare la fine della guerra?
“Ieri, ancora eravamo giovani, bene o male pronti alla sorte, da stasera non più. Buon riposo, pane bianco, ristoranti illuminati sul golfo, eccetera, dolci cose di un tempo andato, e sia pure, ma una fossa nera ci separa, e qui abbiamo lasciato la vita. Giovani fino a ieri, da stasera vecchi e prudenti, e lo dovevamo sapere, ce lo potevamo aspettare, idioti che non siamo altro. Che felicità, vero? Ma perché queste facce? Perché non ridete dunque? Fate il vostro dovere.”
Cosa c’è di più desiderabile della fine della guerra? Ma Buzzati dice: “No, neanche questo esaurisce il desiderio”. Non ci possiamo aspettare la felicità dalla fine della guerra, ed era la seconda guerra mondiale. E poi il mistero, dice in un racconto, che si chiama Inviti superflui, anche qui non è l’enigma, che si svela alla fine, bensì è qualcosa che ti aspetta. Infatti abbiamo intitolato l’edizione di quest’anno dedicata a Buzzati Uno ti aspetta, il titolo di un suo racconto. Il mistero era una presenza nella realtà – Buzzati era ateo – di qualcuno che ti aspetta. Ad esempio, dice, all’inizio del racconto Inviti superflui, parlando di quando due giovani innamorati si sono innamorati la prima volta:
“Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi, per la prima volta pazzi e teneri desideri.”
Vi leggo un pezzo del racconto che è della prima raccolta “I sette messaggeri” in cui Buzzati si chiama di notte in notte e racconta di questo giovane che parte per la guerra, deve lasciare la sua città in treno e, lasciando la sua città, vede le luci della sua città ed ogni luce gli sembra una promessa: la promessa dell’amore, del lavoro, della famiglia, degli amici, delle feste, e lui se le lascia alle spalle. Anzi, la sua percezione è che la città lo caccia da sé senza neanche considerarlo. E quindi lui è amareggiato di questa vita che si lascia alle spalle per sempre, andando verso un futuro di guerra, e quindi ignoto, forse di morte. A un certo punto, guarda le stelle e dice così: “Finché anche l’ultima finestra si spinse in fuga lontana, il frastuono delle rotaie divenne una musica e sopra la terra tenebrosa la campagna addormentata, le solitarie torri, non rimase che il lume delle stelle, il quale dava però a me assai minore soddisfazione che le luci della città perché non parlava affatto dell’amabile vita, musiche, amori, incanti domestici, segreti antichi. Le stelle avevano una voce immobile e fredda, non indulgevano alle debolezze della creatura”. Le stelle non gli sembrano particolarmente affascinanti come invece le luci della città. “Tuttavia io rimasi a guardarle per un vago appello” cioè da un loro richiamo “che da loro a me pareva venisse. Esse non erano presenti quella notte sotto la specie astronomica, non distavano da noi migliaia, milioni di anni luce, non raffiguravano mostri o deità, né orsi, né scorpioni, né delfini, né lire, non ruotavano nell’universo secondo leggi matematiche, e neppure era tridimensionale lo spazio che le reggeva, ma assomigliava piuttosto allo spazio inesplorato degli antichi maghi. Avevano dimenticato, penso, anche la forza di gravitazione, per ritornare ad essere stelle pure e semplici, lumi accesi nel cielo. Non ne derivavano perciò disperanti problemi di fisica, Michele, su cui, consumare la vita. In compenso, da loro scendeva un flebile e personale richiamo. Molto flebile però. Mentre ne consideravo con insistenza quello o quel gruppo, alle volte mi sembrava infatti di avvertire una nuova speranza. Altre volte no. Evidentemente, a differenza del sole che nasce o dello splendore del plenilunio, così generosi e patetici, esse incoraggiavano ad amare non le gioie di questo mondo, bensì cose più rare e pretendevano molto di più per rispondere i nostri cenni tanto che mi chiedevo se non mi fossi sbagliato, forse erano davvero troppo lontane, io avevo presunto troppo, immaginando che potessero interessarsi di me. Quand’ecco mi accorsi che erano le medesime stelle della mia fanciullezza, lo stesso mitico fiammeggiare. Avevano poi scintillato tutte le notti successive al di sopra di me e adesso le medesime risplendevano sul mare lontano che mi aspettava. Ed ancora le avrei viste immutabili all’arrivo sopra il mio capo, appena venuta la sera e poi ancora la sera dopo, e la notte seguente, e avanti e avanti eternamente fino a che avrò lume degli occhi per vedere ancora più in là. Infine, quando la storia sarà terminata sul marmo della mia tomba, le instancabili, le fedeli sorelle loro non mi lasciavano partire solo, non si allontanavano da me alla velocità di questo treno notturno, non mi illudevano con ridicole offerte per poi disincantarmi. Ciascuna di esse, pur minima, era un sempiterno bene di cui nessuno mi avrebbe mai potuto frodare. Io ne fissavo specialmente una, di nome a me ignoto, grandetta e bellissima, azzurra di colore, che pareva mi sorridesse. Poveri i lumi della città al confronto. Lei pensavo, non mi tradirà mai, basta che io abbia un’ombra di fede: senza farsi notare, con discrezione materna mi accompagnerà tacita di notte in notte fino all’ora destinata, e neppure qui essa si stancherà di scortarmi, neppure in occasione di quella grande partenza. Sopra di me la vedrò, pur sempre tremolante luce benedetta. Io, levandomi attraverso le sfere, lentamente spirito senza carne.”
Perego: Grazie Pietro. È una meraviglia quello che hai raccontato. Abbiamo tempo zero, ma mi viene solo una domanda: che valore può avere la possibilità di entrare – parliamo di ragazzi, di un libro di scuola, di quello che debbono fare, delle figure retoriche di cui parlava lui prima – per questi ragazzi la possibilità di entrare nel loro pezzettino di realtà in questo modo, con qualcosa che risponda alle loro attese, al loro desiderio, anche alla loro rabbia, come abbiamo detto, nelle situazioni difficili che sono. Che valore ha questa possibilità? E che valore ha per chi ha a che fare con un altro pezzetto di realtà, come me, la possibilità che lì dentro ci sia il regalo di poter chiamare quella realtà amica, possibilità per sé stessi? Ecco, vi domando, per voi che valore ha? Anche questo incontro ha un valore, anche il Meeting ha un valore, voi lo sapete, e si può anche aiutare a sostenerlo, attraverso delle donazioni che potrete trovare nei desk lungo i percorsi con disegnato un cuore con scritto “Dona ora”. Fidatevi solo dei volontari con la maglietta dedicata. C’è anche un’altra novità che voglio segnalarvi: da quest’anno la fondazione Meeting è un ente del terzo settore; chi sosterrà del Meeting potrà usufruire dei benefici fiscali nella dichiarazione dei redditi.
Non abbiamo più tempo, io ringrazio tantissimo i nostri amici dei Colloqui e vi auguro un buon Meeting. Grazie, grazie ancora.