Chi siamo
UNIVERSITÀ ED EDUCAZIONE ALLA LIBERTÀ. L’ESPERIENZA DEL GRUPPO SWAP
Partecipano: Wael Farouq, Visiting Professor di Lingua Araba all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Mario Gatti, Direttore di sede di Milano dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Interventi di alcuni ragazzi del gruppo SWAP (Share With All People). Introduce Davide Perillo, Direttore di Tracce.
DAVIDE PERILLO:
Bene, buonasera, benvenuti a questo incontro, a questo Meeting. Guardate, ci sono i nostri pensieri, le nostre ipotesi, le nostre analisi, le nostre preoccupazioni, anche per quello che sta succedendo, per quello che vediamo intorno, per quello che il Papa ha chiamato questa Terza Guerra mondiale, fatta a pezzi, a blocchi. Ci sono tutte queste ansie che abbiamo e poi ci sono i fatti, le cose che succedono e che hanno questa caratteristica strana di succedere dove vogliono loro, di sfuggire alle nostre interpretazioni. E a volte questi fatti sembrano piccoli, quasi insignificanti, potremmo chiamarli periferici, cioè sono cose che succedono in posti impensabili, impensati, con delle circostanze che ci sembrano di scarso significato, sembrano un nulla rispetto a quello che succede intorno. Invece hanno una potenza, una forza, capace di cambiare quello che c’è intorno. Allora quello che vorremmo raccontare in questo incontro, è uno di questi fatti, è una cosa che è successa, che sta succedendo, è una cosa di cui potete vedere documentazioni in questi giorni, perché qui a Rimini, al Meeting, c’è una mostra che racconta questo fatto, questa cosa che sentiremo raccontare per bene questa sera ed è una cosa molto semplice come dinamica, molto piccola, ma che vedrete che potenza può avere un fatto di questo tipo. Ce lo racconteranno i protagonisti, le persone che l’hanno fatto nascere, che lo stanno vedendo crescere, ce lo racconteranno i ragazzi di questo gruppo SWAP, Share With All People – scambio, condivisione con tutte le persone – che è un gruppo nato in Università cattolica, l’Università Cattolica di Milano ed è nato da un gruppo di studenti quasi tutti musulmani, all’inizio, che sono rimasti colpiti da quello che stava succedendo nella loro terra di origine, l’Egitto e hanno deciso di iniziare a mettersi insieme per provare a capire qualcosa di più e ci racconteranno stasera com’è nata e come si è sviluppata questa loro idea, questo loro desiderio, questo loro tentativo di capire. Così come gli ospiti che vedete accanto a me, al tavolo, ci racconteranno che cosa ha voluto dire, vuol dire per loro veder nascere una cosa così in un’Università come l’Università Cattolica. Li salutiamo. Sono Mario Gatti, che vedete qui alla mia sinistra, che è Direttore di sede della Cattolica, che vi prego di salutare con un applauso; e l’altro è un amico noto, molto noto al pubblico del Meeting, lo conosciamo bene, lo conosceremo sempre di più, Wael Farouq, che frequenta il Meeting da un po’ di tempo, ma che questa sera ci farà un regalo in più, perché per la prima volta parlerà esclusivamente in italiano. Vi accorgerete che parla un italiano ormai nettamente migliore per esempio del mio di sicuro ma credo di molti di quelli che sono in sala stasera. Doveva esserci un altro ospite molto importante, perché è il Rettore uscente dell’Università di Al-Azhar, al Cairo, la maggior Università, il centro di riferimento per gran parte del mondo intellettuale islamico, doveva venire, ma purtroppo è stato trattenuto da impegni di lavoro in Egitto. Ha mandato però un saluto che vi leggo.
Usamah Elabed ci saluta così, chiedendo scusa per non essere potuto intervenire al Meeting, cosa cui teneva moltissimo: “In nome di Dio misericordioso e compassionevole la pace sia su di voi tutti quanti. Vi mando un messaggio per scusarmi per non aver potuto partecipare al Meeting di Rimini 2014 a causa d’improvvise circostanze riguardanti il mio lavoro al Cairo. Mi dispiace veramente assentarmi per quest’anno dal Meeting in corso, sapendo quant’è interessante e grandioso, per cui ci tengo sempre e ci tenevo moltissimo a essere presente per tutto quello che accoglie di bello. Vi auguro un’ottima organizzazione di successo come sempre e alla fine vi ringrazio per il vostro invito pieno di cordialità e di ospitalità. Usamah Elabed, ex rettore, rettore uscente dell’Università di Al-Azhar”. Pregherei di salutarlo con un applauso, almeno. È una personalità importantissima del mondo intellettuale islamico. Facciamo raccontare allora proprio dai protagonisti, dai ragazzi – non li vedete sul palco, ma li vedrete fra poco – che ci racconteranno com’è nata questa cosa, questa iniziativa, di che si tratta, che cos’è questo gruppo SWAP e questa mostra che spiega come i valori diventano carne, possono diventare qualcosa di concreto. Allora li chiamerei a raccontare se stessi, l’esperienza che stanno facendo, partendo dal primo, che pregherei di salutare anche lui con un applauso.
MINA:
Era per me questo? No! Ok. Io oggi vorrei innanzitutto incominciare con dei ringraziamenti, perché per me, per tutto il gruppo SWAP, essere qui a Rimini è un traguardo enorme. Quattro mesi fa non sapevo neanche cosa fosse e invece tutto a un tratto siamo qui e quindi vorrei ringraziare tutto il Meeting, dalla signora Emilia ad Alessandra, Aluigi, Emanuela, fino all’ultima hostess, davvero grazie di tutto, poi l’Università Cattolica di Milano nella persona del dottor Mario Gatti che è il primo che ha creduto in noi. Ringrazio poi Il Centro Culturale di Milano, il Centro Culturale di Firenze e voi che siete qui. Grazie. Poi spendo giusto due minuti per raccontarvi un attimo com’è nato SWAP, non “suop” che ci da fastidio, swap che letteralmente appunto in inglese vuol dire scambio, scambiare, e abbiamo avuto la geniale idea di usare le lettere di swap per l’acronimo “share with all people”, per richiamare sempre questa idea di scambio di esperienza di vita per l’arricchimento personale. Questo è un po’ come era nato Swap, infatti, Swap è nato nel 2012 sotto il nome di Comunità Incontro, nome bruttissimo, scelto dal professor Wael Farouq, che noi abbiamo deciso di cambiare. Nasce inizialmente da un gruppo di ragazze musulmane che studiavano presso l’Università Cattolica di Milano e sono proprio loro, il gruppo di ragazze musulmane che hanno voluto mostrare inizialmente alla nostra Università e poi al di fuori appunto le sofferenze che stava patendo la popolazione cristiana. Però il bello è che è tutto partito da loro. Poi successivamente ci siamo uniti anche noi ragazzi cristiani, a dispetto di al-Qaida, e abbiamo voluto trattare la rivoluzione Egiziana non come lo facevano gli altri, non come facevano i media. Abbiamo deciso di trattare la rivoluzione Egiziana da un punto di vista prettamente umano. Noi vi aspettiamo alla mostra, vi renderete conto che non trattiamo mai né argomenti di politica, né di religione, pena i castighi bruttissimi del prof. Farouq. Ci concentriamo semplicemente sulla persona, sul valore umano, su persone che incarnano particolari valori umani, in quanto siamo consapevoli del fatto che, di fronte ad un accadimento storico così importante, si possano avere tante idee politiche diverse, si può avere una fede religiosa diversa, però, come piace dire qua al Meeting, il cuore dell’uomo è lo stesso, ci si va sempre incontro.
Ho detto di che cosa tratta la mostra, trattiamo storie di convivenza, parlando prima di una festa tipica cristiana come quella della Vergine Maria e successivamente di una festa Musulmana, il Ramadan, e andiamo a vedere e studiare come cristiani e musulmani da sempre in Egitto usano queste feste come un pretesto di incontro e non di divisione. E’ stata la rivoluzione a riportare alla ribalta questo aspetto e sentimento di unione. Successivamente andiamo ad affrontare sei storie di sei personaggi fondamentali per noi: i martiri della rivoluzione sono stati tantissimi, e giovanissimi, però questi sei ci hanno colpito in particolare per il loro sentimento di responsabilità, di dovere verso il loro Paese, verso chi gli stava affianco, so cristiano o musulmano. Adesso lascio la parola a menti ben più intellettuali: Marina e Monica.
MARINA:
Intanto buona sera a tutti e grazie di essere qui, di averci permesso di svolgere quella che noi pensiamo essere la nostra missione nell’essere qui: condividere con qualcuno, che in questa sede siete proprio voi, qualcosa che noi abbiamo vissuto e che ci ha fatto maturare, crescere, che ha dato un senso alla nostra presenza nel mondo.
Diciamo che all’inizio non capivamo bene perché qui al Meeting ci avevate invitato e volevate tanto la nostra mostra, ma poi vedendo il titolo del Meeting che è questa invocazione che spesso ripete Papa Francesco e dice “andiamo verso le periferie, usciamo da noi stessi, andiamo verso l’altro”, ho capito che effettivamente la nostra mostra, la nostra esperienza è proprio questo. Noi, nonostante le nostre differenze, forse per le nostre differenze, siamo stati attratti magneticamente gli uni dagli altri. All’inizio eravamo abituati a pensare, come ci insegna un po’ la società intorno a noi, che si sta bene solo se si è simili, se si è uguali, perché è più facile, perché le differenze a volte possono creare pretesti per lo scontro o difficoltà, e invece la nostra differenza, la nostra diversità, le nostre particolarità sono state quelle che ci hanno permesso di realizzare questa mostra. Questa cosa, la differenza fra ognuno di noi, è la ragione della nostra crescita in qualcosa che c’è fin dalla creazione. Se ci pensiamo, Dio quando ha creato il mondo ha detto subito dopo che questa era una cosa buona; creò la luce e vide che era cosa buona, creò gli alberi, le piante, i pesci, tutto e vide che era cosa buona. Poi arriva l’uomo e dice che non è bene che l’uomo sia solo; è come se l’uomo fosse stato creato perfetto, a immagine e somiglianza di Dio, ma non capace di bastare a se stesso. Ognuno di noi ha bisogno dell’altro, infatti, Dio crea un compagno all’uomo, crea un qualcuno che gli sia simile ma complementare, diverso, in modo che lo possa aiutare a realizzare il suo scopo.
Noi insieme siamo riusciti a realizzare questa mostra, fossero stati solo i ragazzi musulmani o fossimo stati solo noi copti a fare questa cosa, non sarebbe venuto quello che è venuto. È stato possibile questo solo perché eravamo insieme, e penso che tante cose nella vita riescano solo se persone differenti stanno insieme e collaborano, perché la realtà si vede da più prospettive e si vede per come è quando si è insieme. Ognuno di noi ha uno scopo giusto nella vita, Dio non ha mai creato qualcosa a caso, e siamo chiamati ognuno a trovare il suo scopo, dobbiamo, come i personaggi della nostra mostra, trovare un senso, un senso per la vita, qualcosa per cui lottare e qualcosa per cui sacrificare la propria vita, non per trarne qualche giovamento, ma per godere di un bene insieme. È un qualcosa che noi abbiamo vissuto in prima persona nelle varie esperienze che abbiamo visto in questi ultimi tempi, nel preparare la mostra e in altre attività. Adesso lascio la parola a Monica che vi racconterà un po’ quello che abbiamo fatto e che cosa è il nostro percorso. Grazie.
MONICA:
Io traggo un po’ le conclusioni di quello che è stato il nostro percorso, quindi come ha detto Marina, noi abbiamo cercato di concentrarci su quello che abbiamo sentito valesse la pena concentrarci, ovvero quello che è la vera natura dell’essere umano. Abbiamo cercato di dare spazio alla valorizzazione delle persone, di queste persone che hanno vissuto un’ esperienza, un’ esperienza che per loro è stata molto importante e che inevitabilmente si è riflessa anche nel nostro gruppo. Come diceva prima Marina, questo forte sentimento di unità che abbiamo ritrovato in un contesto che, in questo caso, è stato il contesto dell’Egitto, perché questa esperienza, essendo noi per la maggior parte di origini egiziane, ha toccato noi molto da vicino. Tuttavia proprio perché si parla del valore della persona, il valore che va al di là di quelle che possono essere le categorizzazioni, ovvero quelle che possono essere definite come delle etichette, ovvero l’orientamento politico, piuttosto che l’orientamento religioso, il colore della pelle e così via, è un valore che noi consideriamo universale, che si ritrova nel contesto dell’Egitto, come ovunque. Una volta che abbiamo vissuto in maniera così profonda questa esperienza, ci siamo sentiti pronti a condividerla anche con le altre persone. La cosa che ci ha colpito nelle persone che hanno visitato la nostra mostra, è stato vedere come queste persone si stupissero di fronte a questi atti di amore e di amicizia e coraggio, che sono appunto i valori di cui trattiamo.
La cosa che ha stupito noi, è stato proprio questo: ci siamo cominciati a chiedere perché delle cose così umane, che fanno parte dell’essere umano, potessero creare così tanto stupore, perché fossero considerate degli atti così rari nel corso dell’evoluzione dell’umanità, quando forse dovrebbero essere gli atti negativi quelli a dover suscitare un attimo di stupore. E questo ci ha portato a pensare in che modo noi, nel nostro piccolo, possiamo contribuire a diffondere questa consapevolezza che abbiamo raggiunto nel corso di questo percorso, che è stato per noi un percorso di crescita, in quanto ci ha portato alla riscoperta di noi stessi nei confronti della realtà. Siamo arrivati alla conclusione che sicuramente non è una cosa da dare per scontata, infatti, basta pensare a quello che sta accadendo nel resto del mondo dove la dignità della persona viene dimenticata proprio perché si da troppo spazio all’etichetta della persona, senza vedere quello che ci sta dietro, quello che è appunto la persona in sé.
Noi abbiamo per esempio avuto la possibilità di venire a contatto con alcuni bambini provenienti dalla Siria e dalla Palestina, che sono alcune tra le zone che in questo momento più stanno avendo delle difficoltà, ed è capitato anche a noi di riscontrare un certo tipo di diffidenza, anche da parte dei bambini, che sono appunto l’elemento più innocente di questa realtà. Spesso, infatti, questi bambini si stupivano, prima di tutto di sentire dei cristiani parlare l’arabo, e allo stesso mondo si stupivano di vedere dei cristiani essere lì con loro e cercare di aiutarli insieme ai nostri amici musulmani. Tuttavia la cosa sorprendente è che è bastato veramente molto poco per spezzare questa diffidenza da parte dei bambini e riuscire a creare un rapporto di fiducia, di amicizia e di amore, nel momento in cui noi semplicemente abbiamo cercato di dar loro l’affetto di cui avevano bisogno. La cosa principale, infatti, è l’atto di amore, è guardare la persona con gli occhi dell’amore, è amare il prossimo, coloro che ci sono vicini anche se diversi. E’ lì che si riesce a spezzare l’ideologia e quella che ci vogliono far credere sia una barriera, ovvero la barriera religiosa, quando in realtà, e l’abbiamo dimostrato anche parlando delle storie della rivoluzione dell’Egitto, non è altro che un mezzo per raggiungere un accordo e una forte unità.
DAVIDE PERILLO:
Grazie. Questi fatti che avete sentito raccontare e che poi vedrete in mostra accadevano in un luogo, l’Università Cattolica di Milano. Mario Gatti è Direttore di Sede della Cattolica di Milano ed io vorrei chiedergli che cosa ha voluto dire per quel luogo, per l’Università e per lui assistere e in qualche modo collaborare, servire, partecipare a una realtà di questo tipo.
MARIO GATTI:
Ringrazio per la domanda e spero di riuscire a rispondere soprattutto per quello che io ho visto. Cos’è successo? È successo che dei ragazzi sono venuti, hanno chiesto uno spazio per fare una mostra. Siamo nel pieno della rivoluzione egiziana, quindi con anche tutti i rischi che esso comportava, perché la nostra istituzione ha tutta una serie di regole alcune volte come tutte le istituzioni, complicate. Coinvolgendomi con loro abbiamo provato a fare questa mostra: erano in pochi, sono partiti, hanno coinvolto tantissime persone, comprese alcune di altre Università. Loro non l’hanno detto, ma alcune persone già laureate da anni sono tornate per partecipare a questa mostra, come ad esempio una ragazza di lingue laureata da tanti anni. Hanno fatto tutto loro, li abbiamo solo aiutati io e Wael sostanzialmente. Wael fa il professore, io invece sono più pratico, quindi lui ha fatto la parte sicuramente più culturale. Abbiamo messo insieme questa mostra, l’abbiamo offerta all’Università fatta dagli studenti. Cosa è successo? Questi ragazzi si sono coinvolti, hanno scoperto che esistevano dentro l’Università tantissime persone egiziane, che la stessa Università non sapeva che erano iscritte, io stesso non lo sapevo. Ho scoperto tantissime persone con cui parlare e con cui guardare. Che cosa è successo altresì poi, l’ha raccontato adesso. Alcuni di questo gruppo, parlando evidentemente arabo, sono andati alla Stazione Centrale e da qui è nata tutta una serie di relazioni e di rapporti, dando credito a degli studenti che avevano qualcosa da dire. Dando credito a degli studenti che non erano solamente delle persone lì a soggiornare per imparare qualche nozione, ma per dargli credito. La mostra è stata nei chiostri dell’Università per una settimana e anche di più, è stata vista da tantissime persone che hanno invitato i loro stessi professori a vederla. L’abbiamo inaugurata con oltre quattrocento persone, con l’Assessore; poi è andata a Firenze, grazie alla collaborazione del Centro Culturale di Firenze e ha avuto anche lì una degna presentazione. A Milano sono venuti, oltre l’Assessore, tantissime altre personalità, ma soprattutto, e qua vorrei arrivare adesso alla vicenda che più mi interessa, sono venuti i genitori di queste persone e mi hanno impressionato tantissimo. Un genitore mi ha detto: “Sono contentissimo, oggi è uno dei giorni più belli perché ho visto finalmente che mia figlia, che viene dalla sua Università, per la prima volta, senza rinnegare la propria identità, ha fatto un’esperienza che può far vedere a tutti, senza rinnegare la propria appartenenza, senza rinnegare la propria provenienza e senza rinnegare la propria cittadinanza nel senso più pieno del termine”. E questo se capite, per chi fa Università, è uno dei più grossi complimenti, che dentro un’Università si possa esprimere la propria personalità e crescere è uno dei più grossi complimenti. Cosa è successo altresì ancora? Di questa mostra la cosa più bella, e se andate a vederla ve ne accorgerete, non sono tanto i pannelli, che sono anche belli, i disegni e quant’altro, la cosa più bella che ho scoperto è che c’erano delle persone che la spiegavano in un modo affascinante, delle persone che si erano messe insieme per ricercare la verità di se stessi. Qualche volta noi adulti abbiamo il vezzo di pensare che ricercare la verità di se stessi sia un problema da apprendere sui libri o che sia in Università una grande discussione sui massimi sistemi o che si apprende sulle dispense universitarie. Invece ho incontrato delle persone che si sono messe a ricercare la verità tra loro e, per cercare la verità di loro stessi, si sono messi insieme, indipendentemente, come è stato detto, dalla loro provenienza, indipendentemente da tutti i loro vissuti, storie e quant’altro, ma si sono messi insieme e hanno fatto una bellissima mostra che risponde esattamente a questo, che testimonia come sia possibile rispetto alla verità delle cose incontrarsi, mettersi insieme e fare delle attività. Dall’altra cos’ho scoperto? Che gli studenti vanno valorizzati. Come sapete, in tutte le Università, non solo nella nostra, ci sono i gruppi studenteschi che hanno una procedura di riconoscimento, in tutte le Università ci sono le vecchie leggi che prevedono anche piccoli finanziamenti per questi gruppi. Loro hanno fatto tutte queste procedure, ma la cosa incredibile è che nessuno più crede nel sistema universitario, che degli studenti, che delle persone possano mettersi insieme per qualcosa di diverso che non sia una disciplina o non sia un approfondimento tematico. Invece è sempre possibile che degli studenti si possano mettere assieme, incontrarsi e proporre a tutta la comunità universitaria un percorso di esperienza fatto. Questo è quello che è successo, quindi la possibilità, dentro l’Università, di offrire non solo ai propri colleghi studenti ma a tutta la comunità universitaria un’esperienza di incontro. Questo in un’Università dove non sapevamo neanche, lo dico con molta franchezza, che avevamo degli studenti islamici iscritti, quindi è stato utilissimo anche questo. Che dentro un’Università che abbia un’identità cattolica, si possa scoprire un genitore che possa dire che sua figlia ha riscoperto e può andare a fondo della propria identità e della propria cittadinanza, lasciatemi dire che penso sia, per chi fa Università, uno dei più grossi complimenti e sono ben contento che si avvenuto. Spero anche che questo abbia dato alla nostra Università una modalità per riscoprire qual è lo scopo dell’Università, quale sia la propria vocazione di Università, che abbia fatto riscoprire a docenti, studenti, personale che ha visto questa mostra che non siamo dentro l’Università solo per formare dei cittadini o per dare nozioni o accompagnare un approfondimento professionale. Si fa Università ancora, anche se questa parola è un po’ dimenticata, anche per educare. Questo penso sia la più grossa eredità di questa mostra. E devo dire che uno pensa che questo sia un problema di introspezione psicologica e non invece un’attività di carattere culturale vero. Queste persone si sono messe insieme indipendentemente, e guardate, lo dico come battuta, che se qualcuna delle persone che oggi va sui giornali per la maggiore, come avete visto in questi giorni, avendo frequentato Università occidentali, avesse avuto modo di frequentare il Gruppo Swap, forse il problema del dialogo che oggi esiste non ci sarebbe. Perché c’è un’altra idea che, soprattutto in alcune Università, come si chiamano in Europa, “Università di tendenza”, va di moda: si cristallizzano idee in modo ideologico e si pensa che il dialogo tra religioni, interculturale, mettetelo come volete voi, sia un processo delle idee, sia un processo della capacità di elaborare nuove idee e nuove teorie. Invece io ho visto che questo gruppo nato dentro l’Università – poteva nascere lì o da altre parti, è nato lì grazie a Dio – ha bruciato le tappe di un’idea di dialogo, di un’idea di gruppo interreligioso. Non è un gruppo interreligioso, non si parla di interculturalità, ma si parla di persone che si mettono insieme per fare delle attività, in questo caso la mostra sull’Egitto poteva essere altro. Molte volte si pensa e si scrivono libri interi sull’idea di dialogo, sulla capacità del mondo di dialogare con un’altra parte del mondo, sull’interculturalità, sulla capacità di assorbire dentro la cultura italiana le altre culture. Io vi assicuro che stando con loro parecchie ore ho scoperto che quella del dialogo interreligioso, vista così, scusate l’affermazione un po’ forte, è un po’ una bufala. Il secondo aspetto è che non esiste sostanzialmente il problema della “inculturazione” o del processo di inserimento dentro le attività del mondo visto così. In questo gruppo di ragazzi che avete visto, e se andrete alla mostra ribadisco lo vedrete perché la cosa più bella, come dico io, non sono i pannelli ma sono loro, vedrete tranquillamente che tutto questo problema è saltato, perché quando uno va al cuore di se stesso, questo problema salta. Quindi il problema, il problema dell’interculturalità, di come portare la cultura di un altro Paese dentro la cultura di questo, che cosa voglia dire la differenza religiosa, è completamente saltato. Tra l’altro spero anche che chi l’abbia vista o chi la vedrà imparerà anche come sia, nei Paesi come l’Egitto o in altri Paesi, profondamente connessa la cultura cristiana con quella musulmana, molto più di quello che si pensi. Io non lo sapevo, sono sincero, e la frase che più mi ha colpito della mostra è quella che viene riportata, di un amico di Farouq, essendo lui un monaco, che dice: “Cos’è che ti manca di più della vita in Egitto?” e lui gli ha risposto “Il Ramadan”. Lo stesso Farouq, che penso conosca meglio di me il Ramadan, è rimasto stupito: come, un monaco che mi dice il Ramadan! Poi scopro che in verità nel quartiere in cui lui è cresciuto, nel quartiere in cui sono cresciute anche moltissime delle persone che sono qui stasera, questi ragazzi o i loro genitori, sono cresciuti, questa è una cosa normale, è una cosa normalissima, che fa parte della cultura e dell’attività. Quindi è proprio vero che la mostra ha come obbiettivo gli stereotipi. Vedete anche che belle vignette che sono state oggetto di lunga discussione, perché ero terrorizzato da quelle vignette, temevo che mi arrivasse la Digos con la polizia, cosa che peraltro è avvenuta, non è che l’ho inventato, è venuta veramente, ma poi li ho tranquillizzati. Sono due vignette bellissime! E’ proprio vero, ho imparato e spero che abbia imparato anche l’istituzione a cui appartengo, che ragionare sul dialogo interreligioso è pieno di stereotipi e la mostra vi dimostrerà come è pieno di stereotipi. Come è piena sostanzialmente questa attività. Dall’altro io spero che l’Università abbia preso coscienza che compito di un’Università è riuscire a combattere quest’idea, oggi molto di moda, dello studente usufruitore che paga – da noi paga e in quelle dello stato paga attraverso le tasse ma paga sempre, paga in maniera diversa ma paga sempre – usufruitore di servizi o di indottrinamento. In verità è possibile ancora oggi fare un’esperienza umana dentro il sistema dell’Università e bisogna riuscire, dentro il sistema universitario, a valorizzare chi ha qualcosa da dire, indipendentemente dal rischio, bisogna valorizzare perché l’Università non è solamente la creazione di un buon curriculum professionale, non è assolutamente questo, non è che adesso voglio fare l’apologia dello stare in giro eh…, non è solamente creare un buon professionista. Io spero che si capisca anche che creare una grande personalità umana sia utile per creare un professionista. Spero anche, in inglese lo si dice molto di più, che il sistema dell’Università sia un sistema di air-education, non il sistema della formazione. Dall’altro mi ha molto impressionato che è proprio vero, io non ci credevo, che si può parlare della rivoluzione egiziana parlando della verità del desiderio delle persone, senza parlare minimamente di politica. Io devo dire che ci credevo ma fino in fondo non ci credevo, un po’ anche perché rischiavo di mio evidentemente e quando uno rischia di suo… Ed è proprio così, la loro ricerca della verità aveva fatto in modo di parlare di uno degli eventi più politici della storia dell’Egitto di questi ultimi dieci anni, parlare dell’evento più politico della storia egiziana degli ultimi anni senza prendere una posizione politica, ma anzi prendendone una radicale e lì ho scoperto (capisco che la frase è proprio vera, anche nei volantini dell’Europa, ma è proprio vera) che ciò che muove le forze della Storia sono le stesse forze che muovono l’Io. E lì lo si capisce perché per loro parlare di un evento politico voleva dire parlare del desiderio di giovani come loro che avevano voglia di cercare la verità. Nella mostra è evidente questo pezzetto. Da ultimo io ridico che se nel sistema universitario si riuscissero a valorizzare esperienze come queste, se si riuscisse a credere che delle persone possono mettersi insieme per cercare una proposta per la loro vita, io penso che l’Università compirebbe meglio la sua missione culturale e potrebbe meglio rispondere al motivo per cui esiste. Quindi, io penso proprio che questo dimostri che dare fiducia a persone che si mettono insieme sia forse una delle più grandi dimostrazioni dell’utilità del lavoro che faccio dentro l’Università. È legittima la mia voglia di uscire tutte le mattine e andare a lavorare abbastanza voglioso di voler contribuire a far sì che qualche valorizzazione possa in qualche modo lasciar traccia e poi più culturalmente dico che è proprio vero che ragioniamo sull’idea di dialogo con degli stereotipi. Questa mostra, ma altre cose che ho imparato da loro, stando spesso con loro, lo dimostra. All’inaugurazione sono venute tutte le famiglie di questi ragazzi e che delle famiglie si coinvolgano è impressionante. Stiamo parlando di un mondo, e la domanda del Meeting di Rimini mi ha aiutato a riflettere, che altrimenti diventerebbe periferia, perché nelle nostre città questo aspetto se non viene utilizzato e visto come hanno fatto i ragazzi di SWAP, diventerebbero periferie tristi di molte città che esistono dappertutto, periferie dove l’emigrato ha un aspetto di inserimento come problema. Io ho visto in loro che tutti gli stereotipi legati agli inserimenti culturali, al problema del multilinguismo, della multiculturalità sono saltati in cinque minuti. Io con loro non sapevo se stavo parlando con un ragazzo di prima o seconda generazione, cosa avessero fatto, cosa avessero visto e da dove arrivassero. Ho visto persone, invece, diversamente da altri giovani, che avevano una voglia di capire se stessi, una voglia di stare insieme per ritrovare il gusto di amare se stessi, che raramente ho visto anche in altre circostanze. Sono proprio contento di averli aiutati e spero di poter contribuire ancora, perché in verità loro inconsapevolmente hanno aiutato sicuramente me personalmente, ma spero che abbiano aiutato anche l’istituzione Università Cattolica a capire cosa voglia dire il dialogo interreligioso, che cosa voglia dire valorizzare gli studenti, che cosa voglia dire avere una diversità culturale al proprio interno. Quindi io ringrazio loro perché ho riscoperto tutto questo e spero che la nostra istituzione possa anche aver riscoperto il gusto della valorizzazione delle attività degli studenti che molte volte e spesso viene dimenticata e viene utilizzata solo a fini strumentali e non per l’educazione delle persone. Grazie e non perdete la mostra.
DAVIDE PERILLO:
Adesso Wael Farouq, che in Università Cattolica attualmente sta insegnando arabo. Che cosa hai scoperto tu, invece, lavorando assieme a questi ragazzi?
WAEL FAROUQ:
Buonasera a tutti. Io leggo, spero che non soffrirete tanto. C’è chi ha lasciato il suo corpo appeso a una croce ed è salito al cielo, chi ha lasciato il cuore in casa sua e se ne è andato, chi ha scelto per compagni la fame, la sete, le lacrime ed è fuggito. Tutti loro potevano evitare queste pene, bastavano poche parole per dichiarare che rinunciavano alla loro fede e avrebbero salvato la vita e invece li hanno obbligati a scegliere e loro hanno scelto. Hanno rifiutato la vita scegliendo l’eternità. Hanno rifiutato la falsità scegliendo la verità. Hanno offerto a tutti i credenti una testimonianza immersa nel dolore, testimoniando che una vita senza fede non vale la pena di essere vissuta. Nell’era dell’immagine, del dubbio, del nichilismo, hanno scelto di incarnare la certezza; quel che succede in Iraq, in Siria, in Terra Santa, non è un crimine che ha come protagonisti un gruppo di assassini disumani. È un’epopea eroica che ha come protagonisti migliaia di persone comuni come me e voi, centinaia di migliaia di persone che hanno scelto di abbandonare tutti i loro beni pur di non rinunciare alla libertà dello spirito. Centinaia di migliaia di persone come me e voi che hanno dimostrato che la persona è più forte del potere, questa è una realtà e questa è la speranza perché quello che è successo in questi Paesi non è un dramma ma una scelta. C’è dentro una volontà umana e di fronte a questa testimonianza vorrei dire a Papa Francesco che io e milioni di musulmani preghiamo assieme a lui nella fede che un Dio giusto e misericordioso che ama i propri figli ascolterà le sue preghiere e risponderà. Vorrei dirgli che non ascolteremo chi è mosso dal desiderio di vendetta, non difenderemo chi ha perso la vita per conservare la sua fede rinunciando alla nostra. Non rinunceremo alla nostra fede nella pace, non rinunceremo alla nostra fede nell’amore. L’esperienza del gruppo SWAP che vi presentiamo oggi non è altro che una testimonianza di questa fede. La curiosità e il desiderio di liberarsi dagli stereotipi sono stati il punto di partenza di questi ragazzi, l’incontro con l’altro è stato la loro via, la testimonianza della libertà, dell’amicizia, della convivenza, dell’amore è stata una loro scelta. Chiunque ha visitato la mostra di SWAP “Quando i valori prendono vita” ha trovato una verità ed è uscito con una domanda: come possono dei ragazzi così giovani penetrare in profondità in una realtà dominata dal conflitto politico, dalla divisione sociale e religiosa, dalle campagne di diffamazione reciproca e dagli appelli interminabili alla violenza? Come sono riusciti a trovare una certezza attorno alla quale raccogliere tutti in un momento nel quale il dubbio e la sfiducia nell’altro dominano la visione e l’azione di tutti? Forse perché sono degli idealisti? O perché sono neutrali? Ma l’entusiasmo che le loro parole riversano sul futuro del quale fanno fermamente parte nega questa accusa, così come il loro credere che, anche se le condizioni della realtà possono ambiare, il desiderio umano della libertà rimane eterno e immutabile. Solo la volontà umana nascosta in ciascuno di noi è in grado di provocare un cambiamento nella realtà, un cambiamento che si affida all’esperienza umana per formulare la propria verità. Perché la verità senza l’esperienza umana, senza il significato umano, senza la presenza umana, è una falsa verità. La verità è un giudizio umano di parte. Le verità imparziali non sono umane. Infatti non esistono valori umani trascendenti perché se sono umani non possono essere trascendenti. La verità non è verità se non prende corpo, perché ogni verità è una persona e ogni persona è una verità. Proprio come i giovani della rivoluzione egiziana, i ragazzi di SWAP non hanno un’ideologia. Con ideologia non intendo una teoria politica precisa, perché ogni cosa può diventare ideologia. La religione, la scienza, il lavoro benefico. L’ideologia non è altro che una prigione fatta di valori sublimi, nobili sacrifici e grandi speranze che tuttavia hanno perso il legame con le persone. Perché qualsiasi bene quando diventa più importante della persona non è più un bene, senza la persona non esiste nessun bene. Sì, non esiste nessun bene per il quale morire o uccidere. Perché il bene è una via, è un modo di vivere. La persona ideologica è un carcerato che lotta per diventare carceriere. E l’ideologia è un carcere la cui chiave è l’amore, perché solo nell’amore, centro del mondo, il centro del mondo è una persona. Per questo motivo la prima vera attività del nostro gruppo ha avuto come centro delle persone, persone normali. Non politici, scienziati o divi. Persone normali, alle quali l’amore ha dato la forza di addentrarsi nel dolore e la caratteristica di incarnare un valore umano. Persone come Mina Daniel, un ragazzo cristiano, povero, di modesta istruzione, figlio di una famiglia umile. Non ha partecipato alla rivoluzione portando sulla schiena la croce della persecuzione e del desiderio di vendetta, ma cantando la libertà dell’amore. Si muoveva con facilità in tutti gli angoli della piazza, abbracciando gli occhi di tutti con il suo largo sorriso. Era amico del marxista e del salafita. Per questo quando è caduto martire, il suo volto era su tutte le bandiere della rivoluzione che sventolavano per la libertà. La sua breve vita è stata una testimonianza che ha portato centinaia di migliaia di giovani del Partito della Costituzione a eleggere come Presidente per la prima volta nella storia egiziana una donna cristiana. Forse questo non significa nulla, forse non significa nulla in una società che venera il potere e che riconosce nella propria storia solo una serie di scambi di potere. Ma per noi questa è la nostra storia, la nostra tradizione, alla quale sentiamo di appartenere ogni volta che viviamo l’esperienza dell’amore e dell’amicizia. Qualcuno forse pensa che la forza della persona, il potere della persona abbia bisogno di conduzioni eccezionali come la rivoluzione per emergere, ma questo non è vero. Ho sentito la storia di uno studente cattolico, molto religioso, che aveva una carissima amica con la quale condivideva ogni cosa, mangiavano insieme, studiavano insieme, pregavano insieme. Un giorno questa amica è venuta da lui dicendogli che si sentiva turbata perché gli stava nascondendo qualcosa e gli ha rivelato che lei era lesbica, aspettandosi che lui si arrabbiasse, interrompesse ogni relazione con lei o cercasse di portarla sulla retta via. La sua risposta invece è stata inaspettata. Lui le ha detto: “Ma tu sei solo questo?”. Nel bel mezzo dell’isteria che viviamo nei nostri giorni, l’isteria dell’omomania da un lato e omofobia dall’altro, l’amicizia è ancora possibile, capace di spezzare le barriere delle quali ci circondiamo e dentro le quali chiudiamo gli altri. Il proverbio dice “l’amore è cieco” perché non vede i difetti altrui. Ed io invece dico che l’amore è discernimento perché vede ciò che c’è dietro. Per questo qualsiasi proposta politica e culturale che non parte dall’amore e non usa l’amore come strumento per vedere la bellezza e la grandezza dell’altro finirà sempre per trasformarsi in ideologia che costruisce solo barriere. Con SWAP abbiamo scelto di costruire ponti e non barriere, abbiamo scelto di non agire mai contro il male, ma sempre per il bene. E abbiamo scelto la testimonianza come via e strumento per la sua realizzazione. Questo gruppo è nato, come ha detto Mina, con il nome di Incontro perché è iniziato come un incontro qui al Meeting di Rimini, provocato dalla curiosità per un altro incontro che è il Meeting del Cairo. I miei cari giovanissimi amici hanno poi manifestato il desiderio di cambiare nome perché ne volevano uno più giovanile. Ho suggerito altri nomi ma loro li hanno ignorati tutti e hanno scelto SWAP. La parola SWAP in inglese significa scambio, ma questa parola è anche l’acronimo di questa frase “share with all people”, che significa “condividere con tutte le persone”. I miei sentimenti verso quel nome erano contrastanti all’inizio. Da un lato non ero contento perché non sono più giovane, ma dall’altro invece ero molto contento perché vedevo che quel che era nato come un incontro mosso dalla curiosità era maturato e si era trasformato in capacità di giudizio umano, mosso dal desiderio umano di testimoniare la bellezza e il bene che sempre ci circonda. Questa testimonianza che ha preso forma nella mostra che quest’anno vediamo al Meeting non appartiene solo a questo gruppo di ragazzi meravigliosi, ma appartiene anche all’Università rappresentata dal dottor Gatti, ai padri e alle madri di questi ragazzi, a preti cristiani ortodossi, a preti cattolici, a tanti amici musulmani e cristiani protestanti. Tutti questi amici hanno incoraggiato tanto questa esperienza. Ma questa diversità e questo pluralismo dentro il gruppo SWAP e dentro il suo ambiente di occupazione rappresentano un contributo di estrema importanza per il futuro della società italiana. Infatti non c’è metropoli europea oggi che non abbia una società parallela nella quale vivono le minoranze di immigrati fino alla quarta generazione, senza un incontro vero con l’altro. E veloci tentativi di integrare gli immigrati nella loro nuova società non hanno fatto altro che rendere invisibile nello spazio pubblico le barriere culturali e religiose. Di conseguenza, il radicamento del concetto e della pratica del pluralismo trasforma lo spazio pubblico da un melting pot dove si incontrano e interagiscono positivamente le diverse componenti culturali della società europea contemporanea in confini che separano queste componenti fra loro. Perché questa sembra essere l’unica via per conservare le tradizioni. La ricchezza dell’esperienza di SWAP è il risultato di un processo educativo nel quale le tradizioni sono vissute, nel senso che sono riprodotte e ricreate in maniera nuova, come dice Goethe: “Per possedere ciò che erediti da tuo padre devi guadagnarlo di nuovo”. Infatti l’educazione e l’interazione con le tradizioni è un esercizio di scoperta dell’identità, di costruzione della personalità, perché la coscienza critica di sé e del mondo è ciò che protegge la tradizione dal trasformarsi in cliché o modelli vuoti di significato o più precisamente in stereotipi. L’esperienza di SWAP fondata sulla centralità delle persone, sulla testimonianza del bene e sull’interazione con le tradizioni, nell’ambito di una relazione con l’altro, ci offre l’occasione di liberarci, non solo dello scontro fra stereotipi, ma anche del dialogo fra stereotipi. Quel che vediamo oggi è un passo verso la transizione dall’integrazione all’interazione che, senza dubbio, può aprire nuovi orizzonti per un futuro migliore. L’educazione non consiste solo nel formare persone rispettabili ma consiste – cosa ben più importante – nel formare persone che sappiano vedere e scoprire il bene e la bellezza negli altri, persone per le quali la conoscenza, qualunque essa sia, non diventi un recinto nel quale rinchiudere la propria coscienza, persone piene di curiosità, persone capaci di meravigliarsi e di creare, perché altrimenti tutti, tutta la libertà di cui parliamo è una falsa libertà. Noi del gruppo SWAP non riconosciamo il termine “vip” che è “very important person”, inglese, una persona molto importante, non riconosciamo questo termine, perché per noi ogni persona è molto importante. Per noi non c’è vip, perché ogni persona è molto importante. Per questo invito tutte le persone molto importanti a venire a vedere la nostra mostra, vivere con noi la nostra esperienza. Grazie
DAVIDE PERILLO:
Grazie, grazie a Wael Farouq, grazie al dott. Gatti, grazie ai ragazzi di SWAP per tanti motivi, grazie soprattutto per una cosa, perché cose fatte così ci mostrano che è possibile che il dialogo non sia un termine astratto, una bufala come diceva il dott. Gatti prima, cioè qualcosa di impalpabile, che accada. È possibile un’unità che viene, che proviene, che vive esperienze diverse, ma è possibile. Sembrano cose da niente ma accadendo ci mostrano una strada perché ci fanno vedere che è possibile, come i pozzi di Aleppo di cui parlava padre Pizzaballa poco fa, per chi è stato al suo incontro. Questi fatti ci dicono che è possibile, è possibile che degli studenti musulmani si coinvolgano con studenti copti e poi questo coinvolgimento si allarghi, perché se dopo andate a vedere i ringraziamenti della mostra trovate in fondo altri nomi di altre realtà. E’ possibile, fatti così che accadono ci dicono che può succedere. Allora io mi permetto solo di osservare tre cose rapidissime: perché è possibile che accadano fatti di unità in un contesto in cui tutto sembrerebbe dire il contrario? Per la domanda che ci ha fatto il Papa, che ha fatto a ognuno di noi che è qui al Meeting: che cosa cercate? Che cosa cercavano questi ragazzi? Cosa cercano? È venuto fuori con una chiarezza grande, e lo vedrete con ancora più chiarezza partecipando, andando a vedere la mostra: cercavano la verità di se stessi, espressione che ha usato il dott. Gatti prima, la verità di sé, cercavano l’umano al di là dello scenario politico, dell’analisi politica. La lealtà con il proprio bisogno e desiderio di felicità, la lealtà con il proprio cuore. Che cosa cercate? Se si parte da qui diventa possibile. E, secondo punto, questo non è sentimentale, non è un fattore di sentimento essere leali con il proprio desiderio di felicita, perché è quello che introduce alla lettura della realtà per come essa veramente è, permette di sfrondare, aiuta a sfrondare e andare all’essenziale, e andare all’essenziale aiuta a capire. Lo accennava Wael prima, non è una questione sentimentale, ma andando a vedere la mostra vedrete che ci sono giudizi che permettono di capire quello che sta succedendo in Egitto come e più di tante analisi che abbiamo letto sui giornali in questi anni. Non è un sentimento, è un fattore che permette di introdurci alla conoscenza, l’amore è un discernimento diceva Farouq. E, terza cosa, se mi permettete, l’incontro di stasera ci ha fatto capire un po’ di più perché le periferie sono così decisive e importanti, perché guardando il mondo dalle periferie, come ci ripete e ci ricorda il Papa, si può capirlo di più, perché ci fanno capire di più qual è il metodo di Dio. Fatti così, cioè che degli studenti si mettano insieme, di fronte alla tragedia immane che sta vivendo il Medio Oriente e non solo il Medio Oriente possono sembrare assolutamente insignificanti, piccoli, possono sembrare nulla, periferici appunto, ma sono reali. E se siamo leali con questa realtà, se siamo leali con l’esperienza che stiamo facendo noi qui stasera, scusate ma ditemi quanti di noi, uscendo da questa sala stasera non escono con una speranza in più rispetto alla tragedia immane che stiamo vedendo in giro? Sentendo raccontare, assistendo a questi fatti, rendendoci conto che questa unità è possibile si riapre la speranza. Se guardiamo a noi stessi stasera, come usciamo da questa sala dopo aver sentito raccontare dell’iniziativa di SWAP, dobbiamo ammettere che si riapre la speranza. Allora quel che sembra insignificante in realtà è quello che permette di cambiare. E come ci ricordava appunto padre Pizzaballa prima, sono fatti così che ci permettono di alzare lo sguardo ed è così e solo così che i valori prendono vita, come dice il titolo della loro mostra, cioè diventano carne, non sono più astratti. E con buona pace di tutti, grazie a Dio, è così che cambia il mondo. Allora l’invito è di andare a vedere la mostra assolutamente, ma l’invito è di vivere il Meeting e questa settimana che passeremo qui a Rimini insieme, facendoci l’un l’altro e a noi stessi questa domanda che ci fa il Papa di continuo: che cosa cercate? Grazie, buonasera a tutti.