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UN’IMMERSIONE PROFONDA. CREARE INSIEME UN’OPERA D’ARTE
Curran Hatleberg, fotografo; Paul Schiek, fondatore TBW Books. Introduce Luca Fiore, critico d’arte e giornalista
River’s Dream di Curran Hatleberg è un’opera coraggiosa che ha impegnato il suo autore per dieci anni, durante i quali si è immerso in una realtà a lui completamente estranea, sia dal punto di vista naturale che sociale. Ma Hatleberg non concepisce il suo lavoro come il risultato di un artista isolato, bensì come una dinamica di collaborazione, prima con i soggetti ritratti, poi con l’editore e lo stampatore del libro. Un dialogo per imparare come nasce un grande libro fotografico.
Con il sostegno della Regione Emilia-Romagna
UN’IMMERSIONE PROFONDA. CREARE INSIEME UN’OPERA D’ARTE
UN’IMMERSIONE PROFONDA. CREARE INSIEME UN’OPERA D’ARTE
Martedì 20 agosto 2024
Ore 19:00
Sala Gruppo FS C2
Partecipano:
Curran Hatleberg, fotografo; Paul Schiek, fondatore TBW Books. Introduce Luca Fiore, critico d’arte e giornalista
Fiore. Chi ci guarderà nei prossimi giorni? Ho il piacere di moderare questo incontro dedicato alla mostra *River’s Dream* di Curran Hatleberg, che in questi giorni potete vedere al Meeting. Ma prima di presentare i nostri ospiti, permettetemi di fare alcuni ringraziamenti. Innanzitutto al Meeting che anche quest’anno ha avuto il coraggio di scommettere sulla fotografia e su un tipo di fotografia che raramente si vede fuori dai contesti dedicati a questo genere di linguaggio. È un segno di stima non scontato per il pubblico. Poi ringrazio Kim Boroughs e Jenny Sky della Galleria Higher Pictures di New York senza le quali questa mostra non sarebbe stata possibile. Ringrazio anche l’architetto Tommaso Campiotti che, con discrezione ed eleganza, ha progettato la scatola perfetta per ospitare le opere di Hatleberg. E infine, la mia riconoscenza come curatore va ai volontari del pre-Meeting che hanno lavorato con generosa professionalità all’allestimento e ai volontari che stanno facendo le guide e accompagnano i visitatori in questi giorni. Ora entriamo nel vivo e permettetemi di presentarvi direttamente da Baltimore, Maryland: the amazing Curran Hatleberg. Facciamogli un applauso. Alcuni di voi lo hanno già incontrato, altri lo faranno nei prossimi giorni, sarà qui fino a venerdì sera.
Poi con noi c’è un altro amico americano che si è appena svegliato perché abita in California a 9 ore di fuso orario da qui, si chiama Paul Schiek, ed è il fondatore di TBW che è l’editore del libro River’s Dream da cui è tratta questa mostra. Ciao Paul, ben svegliato.
Schiek. Sono le 10 di mattina qui, quindi in realtà sono sveglio già da un po’.
Fiore. Ok, ottimo, ottimo.
Sei un *early bird*. Allora, ho chiesto a Curran un breve intervento per raccontarci di sé e del suo lavoro. Lui ha fatto molto di più. Con la scusa che non è abituato a parlare in pubblico, ha scritto un testo straordinario che ora ci leggerà, per cui non gli rubo altro tempo e gli passo la parola.
Proiezione di immagini
Hatleberg. Fuori dalla finestra, il sole sta tramontando. Sono seduto in una roulotte a due piani. Sto tornando a est, ma non riesco a mantenere la rotta. È una sorta di bar improvvisato che qualcuno ha costruito nel suo soggiorno. Le luci di Natale sono appese ovunque, dal pavimento al soffitto. Non so bene dove sono. Non sto andando da nessuna parte in particolare. Un uomo, che ho appena conosciuto, mi chiede in prestito la macchina, il mio furgone. Dice che ha sempre voluto guidare una Honda Odyssey. Ha un rimorchio attaccato e quel rimorchio contiene tutto ciò che possiedo. Ma senza pensarci gli dico di sì. Tutti i presenti nel bar si precipitano nel parcheggio polveroso per controllare il furgone. Non mi sembra una cosa così importante, ma tutti sembrano interessati. Allora gli lancio le chiavi e poi lo guardiamo allontanarsi. Rimaniamo lì, quasi ondeggiando, a guardare i fanali rossi finché non scompaiono nell’oscurità. Mi sono reso conto di non aver nemmeno chiesto il nome a quel ragazzo. Tutti rimangono fermi, in silenzio, a guardare il punto all’orizzonte dove l’auto era stata visibile per l’ultima volta, anche se in realtà ormai non c’era più nulla da vedere. Torniamo tutti dentro e ordiniamo da bere. Io aspetto due ore, tre ore. Passano quattro ore. La gente ride. Non riesco a capire se ridono con me o di me. Mi sveglio la mattina dopo sul sedile del passeggero del furgone. Un sole opprimente sta battendo. La porta del bar è chiusa a chiave. In stato quasi confusionale frugo nel furgone. Non manca nulla. Nulla è fuori posto. Il serbatoio è pieno. Quel ragazzo non ha toccato nulla. In un certo senso, questa è la storia delle origini del mio processo fotografico. È così che inizio sempre. È quasi come se cedessi tutta la mia vita a qualcun altro, lasciandogli prendere il volante. Quando lavoro, dico sì a tutto, per vedere cosa succede. Quando fotografo, accetto quasi ogni cosa. Il mio lavoro dipende da questo. Il caso è la metodologia di tutta la mia pratica. L’intenzione concettuale e i pensieri a monte sono privi di significato di fronte all’esperienza vissuta, guidata tanto dal caos quanto dalla fortuna. Così, gran parte del mio lavoro consiste nel perdersi, nell’aspettare di incontrare persone, nel costruire fiducia e stabilire amicizie. All’inizio di un progetto non ho mai dei piani, per niente. Non c’è modo per me di sapere dove andrò o chi incontrerò. Lascio che il caso e l’intuizione mi portino in luoghi dove altrimenti non sarei mai andato. Non c’è un programma preesistente, ma solo l’attrazione del momento, fino a quando qualcosa non cattura la mia attenzione e fa scattare il mio cervello. Non scelgo il tipo di storia o cosa accadrà, ma quando una porta si apre vado fino in fondo. Mi affido ai miei soggetti affinché mi aiutino a dirigere e modellare i momenti che registrerò. Non potrei mai indovinare dove mi porteranno, chi mi mostreranno o cosa decideranno di rivelarmi di loro stessi. In compagnia di estranei, aspetto una foto, senza sapere che cosa sarà quella foto, quando si rivelerà. Non so mai cosa accadrà finché quella cosa non sta accadendo. Ricordo una donna anziana che ha condiviso generosamente la sua casa con me per qualche notte. Mi disse: “È pericoloso là fuori”, gesticolando vagamente verso la città. “È meglio che tu rimanga qui per un po’.” Era una cuoca incredibile e mi dava da mangiare come se fossi suo figlio e sembrava sempre che stesse preparando un banchetto per un ospite che non arrivava mai. Una sera mangiamo spaghetti su piatti di carta davanti alla TV e quando un vento forte entrava di colpo nella stanza, lei sparava un colpo di pistola fuori dalla porta, nella notte. Io non sapevo nemmeno che avesse una pistola, non me ne aveva mai parlato. Una volta, uno dei colpi mancò la porta aperta e lasciò un buco nel telaio di legno, e la pioggia si riversò all’interno. Un cane, da qualche parte, cominciò a ululare e, con la pistola ancora alzata, lei si alzò delicatamente dalla poltrona, come se non fosse successo nulla e chiuse la porta per proteggerci dal temporale. Questa volta si assicurò che il chiavistello fosse ben chiuso. Voltandosi verso di me, sorridendo, insistette perché prendessi una seconda porzione di spaghetti e portò il mio piatto in cucina, porgendomi il telecomando mentre andava verso la cucina stessa. Il mio lavoro si basa sulle relazioni personali, sullo scambio umano e sulle collaborazioni reciproche. Senza un interesse condiviso, senza la vulnerabilità e la fiducia le fotografie non possono essere realizzate, nemmeno iniziate. Fotografo e trascorro il mio tempo solo con le persone che sono interessate al mio processo quanto me. Incontro le persone per caso e poi cominciamo a conoscerci. Le persone sono complesse, possono essere completamente prevedibili ma anche selvaggiamente imprevedibili. Gli stereotipi e i preconcetti non riescono a cogliere la realtà complicata di un essere umano; il modo migliore per superare questi pregiudizi è attraverso l’esperienza diretta. In questi tempi divisivi, come si possono cambiare atteggiamenti radicati profondamente, posizioni rigide, se non attraverso le esperienze con altri che ci mostrano come immaginare altre possibilità? Le fotografie delle persone possono stimolare l’interesse per vite diverse dalla nostra. E quando questo funziona, ci sentiamo riflessi in qualcun altro, eliminando la nostra indifferenza. Credo che solo attraverso gli altri possiamo capire meglio il nostro Paese, il momento storico attuale, la nostra esperienza collettiva e noi stessi. Alcune relazioni durano cinque minuti, senza alcun attaccamento al di là dell’esperienza stessa. Molti individui e famiglie, invece, li conosco da mesi o addirittura da anni. In realtà è piuttosto raro che le persone mi dicano di sì e mi invitino ad entrare nella loro vita. Spesso questo avviene perché vogliono condividere qualcosa, anche loro sono alla ricerca di qualcosa. Ho costruito la mia vita intorno al trascorrere del tempo con persone in luoghi che non conosco, in compagnia di sconosciuti. Con loro imparo cose che non mi sarei mai aspettato. Uno dei grandi piaceri di fotografare le persone sta proprio nel non sapere cosa accadrà. Un uomo cresciuto fuori città si è assunto l’incarico di farmi da guida. Mi disse che avrebbe dovuto fare il sindaco, amava profondamente la sua città. Abbiamo provato a piantare un albero nel terreno libero di fronte alla sua baracca, ma i semi non hanno attecchito nel terreno avvelenato. Poi, insieme, troviamo un cane sporco di fango in un fosso sul ciglio della strada, in un nido di erba palustre e rifiuti. Era una femmina che allattava quattro cuccioli. Tutti gli occhi erano chiusi e tremavano. Li abbiamo portati a casa, li abbiamo lavati e poi asciugati con la carta assorbente uno a uno. La madre, preoccupata, lo ha morso solo una volta. Lui poi tenne la madre e diede via i cuccioli. Nel corso dei mesi ci conoscemmo sempre di più, e una sera mi chiese di accompagnarlo da qualche parte, in un posto che conosceva, non molto lontano. In una strada desolata, nell’oscurità, scavalcò un muro con un sacco vuoto. Quando poi tornò in vista, il sacco questa volta era pieno e stava correndo. Due uomini a torso nudo gli stavano dietro, urlandogli contro. Ansimando, mi fece segno di sbrigarmi e di mettere in moto il camion per portarlo via. Gli uomini però ci raggiunsero e colpirono il faro anteriore con un tubo, mandandolo in frantumi. Uscendo, a rotta di collo, quasi li investimmo. Una volta arrivati a casa, gli chiesi cosa ci fosse nel sacco. Lo aprì e vidi che era pieno di limoni. Cento limoni gialli. E cos’altro poteva esserci all’interno? Ho cercato di fotografare quei limoni per tutta la notte. Ho cercato di fotografare quell’uomo. Ho cercato di fotografare quell’uomo con i limoni. Ogni volta, però, non ci sono riuscito. Credo che alcune esperienze siano immagini, altre sono solo storie. La fotografia comporta anche molti fallimenti. Il fallimento è proprio la cifra standard di questo medium. Consiste in un lavoro continuo e ripetitivo fino a quando qualcosa miracolosamente funziona. Anche una grande foto è sempre solo una debole approssimazione della vivida complessità del mistero della vita, ma è proprio questo che mi attrae e alimenta il mio lavoro. La gente spesso mi chiede se sono un fotografo di strada, ma io non potrei sentirmi più lontano da quelle immagini. La fallacia del genio solitario che piega il mondo alla sua volontà fonda il mito della strada. Io, invece, mi sento umiliato, mi sento molto umile proprio per la mia insignificanza e commosso dall’enorme numero di persone coinvolte nel mio lavoro. E anche ispirato dalla natura collaborativa del mio lavoro. Mi sento lontano dall’essere un artista singolare onnipotente. Sono costantemente scosso dal poco controllo che ho sul mio lavoro. Sono in balia del caso, del tempo, della gentilezza e della generosità degli estranei. Il mio lavoro non riguarda la strada, i luoghi che trovo, i viaggi che faccio, ma le persone. E non si tratta di me, ma di loro. Loro non sono soggetti, ma collaboratori. La natura fondamentale del mio lavoro è la collaborazione. Il modo in cui lavoro con le persone, insieme a loro costruiamo fiducia, ci sfidiamo e ci affermiamo a vicenda. Insieme scopriamo storie sul nostro Paese, sul Paese che condividiamo. A volte passano settimane in attesa che si materializzi un’immagine o un’ispirazione. Il caldo in Florida è opprimente, non si può ignorare. L’aria è densa come gelatina e nell’umidità la vegetazione cresce indisciplinata, selvaggia, racchiudendo il mondo in un’umida luce verde. Mentre cerco contatti e relazioni, poche persone di solito si attardano all’esterno. La maggior parte preferisce stare al chiuso con l’aria condizionata, separati dal mondo. Trovare poi delle persone è stato come un miraggio. Lungo tutta la strada le famiglie erano sedute, bevevano, ridevano e mangiavano davanti alle loro case. Probabilmente c’erano 100 gradi, ma nessuno sembrava accorgersene. Non ci volle molto per andare verso il tavolo del domino. Non avendo mai giocato a domino, una donna anziana si mise accanto a me, indicandomi come giocare, le strategie e la complessità del gioco. A volte, però, si distraeva, ma continuava a versare whisky distillato illegalmente nella mia tazza e anche per terra. Secondo lei, il domino doveva essere giocato in modo preciso, ma esibendo spavalderia. Le prime partite le persi malamente e mi ci volle un po’ di tempo per capire come giocare, ma alla fine della serata sbattevo ogni tessera del domino in segno di arrogante vittoria. Ma vincere o perdere in realtà non ha molta importanza. L’importante è mostrare questa spavalderia. Giocammo così a lungo che si accesero le luci della strada, gli insetti si sentivano forte e urlavano dalle paludi nascoste, quasi come se volessero festeggiare. Mescolati alle nostre urla e risate, il suono era un putiferio assordante che arrivava nella mia testa, formando un flusso costante che veniva da una fonte inesauribile. In fondo credo che il mio lavoro consista nel cercare di capire cosa significano famiglie e comunità. Tante volte nella mia vita mi sono sentito perso o alla deriva, alla ricerca di legami e di amore, come capita a tutti, e non è esagerato dire che le persone con cui passo il tempo e che fotografo sono e sono state una famiglia per me. Ho vissuto con molti dei miei soggetti e collaboratori, ho mangiato con loro, ho lavorato con loro, ho svolto compiti, ho fatto lavori domestici con loro. In compagnia delle persone, la vita si afferma ed è migliore. In definitiva, credo che le foto siano tracce di tutto questo, di qualcosa di più profondo e di più importante che non potrei mai costruire da solo. Al ritorno a casa, dopo un viaggio così immersivo, soffro sempre di astinenza. Cerco di tenere a bada questa sensazione, ma non riesco a evitarla. Quando lavoro, il mondo è quasi un’allucinazione e avviene una trasformazione. Si riconoscono cose, si vedono cose, si costruiscono e si condividono relazioni significative. E io mi apro completamente, imparo cose a cui non avrei potuto prepararmi. Spesso si raggiunge una comprensione vera e profonda, e miracolosamente si ha la sensazione di aver dato all’altro quello che abbiamo sempre voluto: compagnia, reciprocità, cura, attenzione. Quando sono lì, nel momento, mi illudo di avere tempo e opportunità illimitate, ma poi il tempo finisce. E poi è il momento di ripartire, e mi ritrovo di nuovo da solo, con la memoria e l’eco di tutte quelle conversazioni. Prima che me ne accorga, mi ritrovo a casa e tutte le rivelazioni, le storie e i volti svaniscono rapidamente dalla mia coscienza. È mai successo? Non si può vivere dentro un’allucinazione per lungo tempo. È un cliché, ma il tempo trascorso con le persone è un privilegio sacro e finisce in fretta, troppo in fretta. E poi tutto ciò che rimane è la consapevolezza che forse non potrò mai più sedermi a tavola con quella persona o condividere con lei un pasto; forse non vedrò più quella particolare casa o quello specchio d’acqua, quel volto, quella famiglia, e se per caso rivedrò tutte queste cose sarà solo un’esperienza di vita: si tratterà di pochissimi momenti nell’arco di un’intera vita. E tutto sarà diverso la volta successiva, perché loro saranno cambiati e io sarò cambiato. Come ha detto lo scrittore Hernán Díaz, nulla di ciò che si lascia alle spalle può essere recuperato. Ogni incontro è definitivo. È impossibile tornare a qualcosa o a qualcuno. Ciò che è fuori dalla vista è perso per sempre. Quando chiudo gli occhi, vedo le persone che fluiscono naturalmente insieme, vedo volti che si riuniscono, una sfilata infinita di volti che vanno e vengono, ridono, si toccano, si scontrano; volti impegnati in una violenza non curante o in un abbraccio goffo, volti desiderosi di amore, volti entusiasti di condividere qualcosa della loro vita con qualcun altro, volti che cercano disperatamente di farsi capire, di scoprire cosa vogliono dire. Tutti questi volti sono irresistibili, sono tutti perfetti. Grazie.
Fiore. Grazie, grazie davvero, Curran. Pensavo fossi solo un grande fotografo, invece mi sembra che te la cavi molto bene anche con le parole. Allora, Paul, chi è Paul? Paul è un piccolo grande editore che fa solo grandi libri. Sono libri di fotografia, una forma a cui non siamo molto abituati. Gli ho chiesto di spiegarci cos’è il suo lavoro, chi è, perché lo fa e perché ha questa passione per i libri di qualità e per la fotografia. Paul, raccontaci.
Schiek. Grazie mille. Grazie, Luca. Grazie a Luca e Curran per avermi invitato. Sono molto onorato di partecipare a questo incontro e di avere un pubblico che ascolterà la mia passione per questi libri. Grazie, grazie ancora. Ascoltavo Curran, che è un caro amico, e mentre lo ascoltavo mi sono ricordato che Curran e io cerchiamo entrambi di esprimere qualcosa che ci anima, ciò che siamo: fotografi, editori di libri. Per me è importante sentire di dare un contributo all’arte e cercare di essere sincero, quasi un poeta. Non sono interessato all’aspetto tecnico; è chiaro che devo anche portare avanti la mia attività, cercando di stampare i migliori libri possibile. Però, alla fine, quello che per me è più importante, ciò che conta di più, e Curran ed io ne parliamo spesso, è pubblicare il miglior libro possibile, utilizzando i migliori strumenti a disposizione. Questi libri sopravviveranno a noi, dureranno nel tempo e rimarranno documenti importanti non solo del nostro passaggio sulla terra, ma soprattutto del modo in cui abbiamo scelto di vivere, di trascorrere il nostro tempo. Ecco, vorrei ora illustrarvi alcune cose. Sono un editore, ma ho cominciato io stesso come artista. Ho mosso i primi passi nella fotografia, che ho studiato, e mi sono appassionato tantissimo. Ora ho 46 anni, ma ho cominciato a nutrire un interesse per la fotografia poco prima dei trent’anni, ancora prima di studiarla all’università. Sono originario del Wisconsin, non della California, e sono cresciuto lì. Verso la fine dell’adolescenza mi sono trasferito in California, ad Oakland. Sono stato artista prima che editore ed è per questo che sin dall’inizio ho cercato di essere un editore in ascolto degli artisti. Ho cercato di mettermi al servizio degli artisti con cui lavoro e collaboro, ho cercato di dare il mio piccolo contributo anche mettendomi al servizio del mondo. La mia azienda si chiama TWB Books e si trova appunto a Oakland, in California. È una città operaia con una lunga e bella storia. Ha sempre vissuto all’ombra della più famosa San Francisco, ma è una città con un passato anche di sofferenza e anche di una grande bellezza. Spero che anche la mia casa editrice possa riflettere questa bellezza, questa gioia che scaturisce anche dal dolore e dalla sofferenza. Sono un editore da vent’anni, ma nei primi dieci anni posso dire di aver imparato anche attraverso dei fallimenti, osservando attentamente il lavoro in questo settore, concentrandomi sullo studio dei materiali, delle tecniche, anche copiando e imitando ciò che vedevo in altri libri. Ho cercato poi di dare vita alla mia casa editrice, creando qualcosa di unico. Sono molto orgoglioso del fatto che ho pubblicato più di 130 libri, ho 6 dipendenti. Di solito pubblichiamo almeno 10 libri l’anno. Mi piace pensare alla realizzazione di un libro come un atto sacro. I libri che realizziamo sicuramente ci sopravviveranno, dureranno nel tempo, e anche quando ce ne saremo andati rimarranno. I miei figli e i figli di Curran devono essere orgogliosi di ciò che facciamo. Alcuni libri sono divertenti, ma in generale è importante che questi libri siano al servizio della poesia che cerchiamo di esprimere attraverso le nostre vite. Cerco di fare i migliori libri possibili con ciò che ho a disposizione. E non sempre questo significa fare libri costosi o molto sofisticati; significa fare il libro migliore rispetto alle intenzioni che ho. Cerco di scegliere il formato e lo stile migliori che possano rappresentare al meglio la visione dell’artista. Cerco di fare tutto quello che posso per non subire le pressioni del mercato, del denaro o anche di alcuni vincoli formali. Cerco di lasciare che il libro diventi ciò che vuole essere. Partecipiamo a fiere del libro in tutto il mondo e rappresento, ad esempio, Wolfgang Tillmans e Jeff Wall. Ma pubblichiamo anche libri di artisti che non sono conosciuti come meriterebbero, come Carlo Williams e Alex Wong. Il libro, come formato e come oggetto, è un medium per far conoscere l’arte in tutto il mondo, anche se fa sempre più fatica a sopravvivere. Tuttavia, i libri sono uno strumento estremamente democratico per far conoscere l’arte, al di là dei musei, delle gallerie e anche del capitalismo. I libri, secondo me, sono quasi una sorta di nicchia di rifugio personale, che ci consente di trovare pace e di respirare. Sono uno spazio sacro con cui ciascuno può interagire secondo i propri tempi e spazi. Possiamo tornare alla prima slide, per favore? Quella con il libro dalla copertina rosa?
Questo libro è di Alice Wong, una persona disabile. Alice ha lo studio a Oakland, che si chiama Creative Growth, e per me questo è un luogo molto importante. Mia moglie, che è una parrucchiera, spesso fa volontariato lì, facendo acconciature gratuitamente. Alice Wong, oramai in attività da 15 anni, crea queste opere d’arte dipingendo su delle foto. Ho avuto l’opportunità di realizzare un progetto con il suo studio Creative Growth, e questo libro l’abbiamo pubblicato qualche anno fa insieme ad Alice Wong. Sono estremamente orgoglioso di questo libro. La prossima slide, per favore. Alice prende delle foto, di qualsiasi genere, anche antiche, che non sono state necessariamente scattate per scopi artistici, anche foto promozionali. E vedete come le rielabora, dipingendo sopra e creando qualcosa di bellissimo. La prossima slide, per favore. Questa è una foto che risale proprio ai primissimi tempi della casa editrice. Non avevo molte risorse economiche. Avevo più tempo che denaro all’epoca e quindi realizzavo personalmente i libri dopo averli stampati: li rifilavo, li componevo e li rilegavo a mano, uno alla volta. Questo mi prendeva giorni e giorni di lavoro, ma quella fase è stata davvero fondamentale per gettare le basi di quella che sarebbe diventata poi la mia casa editrice. La prossima slide, per favore. Poi, con il tempo, sono riuscito ad avere alcuni amici che mi hanno aiutato. Qui siamo passati a un’altra fase e potete vedere che avevamo più risorse. La prossima slide, per favore. Questo ha rappresentato un grande passo in avanti. Qui lavoravo con Wolfgang Tillmans a un libro. Per me è stata davvero una pietra miliare poter passare a questi macchinari più sofisticati. Anche questa collaborazione è stata davvero importantissima anche perché ho potuto lavorare con questo fotografo contemporaneo, questo artista che credo sia davvero un artista. Ho studiato approfonditamente il suo lavoro quando ero studente, e quindi poterlo pubblicare e lavorare direttamente con lui è stato davvero incredibile. La prossima slide, per favore. Queste sono immagini più recenti. Qui siamo in una stamperia a Verona, sotto la supervisione di Massimo Tonoli, il responsabile della stampa. Quando ripenso ai libri che sono stati più importanti per me, devo dire che alcuni di essi sono stati stampati da Massimo alla Trifoglio, e quindi per me rappresenta proprio la massima qualità. Aspiravo a raggiungere lo stesso livello qualitativo e piano piano mi sono messo al lavoro per raggiungere lo stesso livello di qualità. La prossima slide, per favore. Qui vedete Curren, con un tecnico straordinario e anche nostro amico. Stanno lavorando proprio alla stampa delle foto di Curran presso la Trifoglio.La prossima, per favore. Dopo il lavoro, siamo andati in questo posto dove penso di aver mangiato le migliori vongole della mia vita. Dire che si mangia bene in Italia è riduttivo. Adoro l’Italia. La prossima, per favore, scusate. Qui vedete la quantità di carta che occorre per fare un libro, o meglio, per realizzare il libro “River Stream” che abbiamo appunto realizzato con Curran. Quando vedo le materie prime così, davvero mi sento quasi piccolo, sento tutta l’umiltà perché mi fa percepire la dimensione delle cose. Probabilmente tutta questa carta costa più della casa in cui sono cresciuto, e questo mi colpisce tantissimo e mi fa capire tutta la strada che ho fatto fino ad ora. La prossima, per favore? Credo che qui fossimo nelle fasi finali della rilegatura dei libri di Curran. La prossima, per favore. Grazie. Qui vedete i libri che arrivano a Oakland, ultimati. Forse nel nostro sangue c’è questo senso di conquista e mi piace sentirmi in cima ai successi raggiunti. È una foto buffa, divertente. La prossima, per favore. Recentemente abbiamo pubblicato un libro a cui tengo molto: “Tender”, di Carlo Williams. Sono dei ritratti realizzati negli anni ’80 e ’90, mai pubblicati prima, inediti. Per tanto tempo sono stati in scatoloni sotto il letto dell’artista. Ho lavorato con l’artista per far conoscere queste opere. La prossima slide, per favore. Queste foto rappresentano la prospettiva di una donna afroamericana, proprio all’inizio del suo percorso artistico. Credo che qui avesse vent’anni, e le aveva realizzate in solitudine nella sua camera da letto. Per me rappresentano la poesia e la grandezza con cui si può utilizzare la fotografia. Possiamo vedere le prossime slide? Tutte in sequenza, per favore, grazie. Anche questo libro è stato stampato alla Trifoglio e ho avuto la fortuna di poter rimanere lì una settimana insieme a tutto lo staff e anche insieme a Carla Williams, l’artista. Sono davvero orgoglioso di questo libro, che mi rimarrà sempre estremamente caro. La prossima slide, per favore. Un altro libro che ho pubblicato qualche anno fa riguarda il lavoro di Gus Powell. Credo che vi sia familiare perché due anni fa ha partecipato al Meeting. Il libro si chiama “Family Car Trouble” ed è una riflessione poetica sulla sua idea di evoluzione della famiglia, dalla nascita alla morte, trattando la nascita delle sue figlie e la morte di suo padre. Lui esplora questo tema attraverso il format quasi di un romanzo; quindi, il libro stesso diventa un contenitore per dare corpo al romanzo della vita, come lui lo intende. Questo è il linguaggio che percorre tutto il libro. La prossima slide, per favore. Potete vedere attraverso la sequenza delle immagini e il layout del libro l’espressione lirica di Gus Powell sui contrasti che contraddistinguono la vita: tra vecchio e nuovo, tra vecchie e nuove generazioni, tutto attraverso la metafora dell’automobile che si rompe, viene riparata e poi ancora e poi ancora. L’auto diventa una metafora della nostra vita personale e di tutto ciò che incontriamo. Vorrei parlare brevemente del format e delle scelte che abbiamo fatto per lavorare insieme a Curran su “River’s Dream”. La prossima slide, per favore. “River’s Dream” ha un formato molto grande, fuori standard. Ha una carta marmorizzata molto bella, creata appositamente per questo progetto da un produttore specializzato in carta marmorizzata. Abbiamo fatto due versioni cromatiche: la prima stampa è stata in rosso, e invece la seconda edizione è stata in blu, per distinguere la prima tiratura. La prossima slide, per favore. Qui vedete la pagina con il titolo. Tutto, dal font al design al layout dei caratteri, è stato meticolosamente studiato; nulla è stato lasciato al caso. Abbiamo pensato attentamente a ogni dettaglio. A volte mi chiedo come trovare la soluzione più semplice che garantisca la maggiore efficacia. Cerco sempre la soluzione ottimale, che non sia né esagerata né inadeguata. Per me è importante mettermi al servizio dell’artista e della sua opera. Credo che questa fosse l’ultima slide, se non sbaglio. Ecco, vedete i colori estremamente vividi, questo rosso brillante, che esprime tutta la forza sprigionata dal libro. Il rosso richiama il sangue, spesso associato alla violenza, ma anche alla vita stessa. Questo richiama il dualismo costante che contraddistingue tante cose. Non mi piace che i libri siano troppo esplicativi; mi piace che lascino spazio alla contemplazione e alla riflessione. Questo è tutto, grazie mille per l’attenzione.
Fiore. Grazie, grazie Paul. È veramente affascinante vedere la passione che metti nelle cose che fai. Ho provato in tutti i modi a convincere sia Paul che Curran a portare una terza edizione per il Meeting, ma non c’è stato verso. L’opera è quella e vedremo. Però mi hanno detto che torneranno a Milano, da Massimo Tonoli, per ristampare il primo libro di Curran, che è “Lost Coast”. Quindi forse, per chi non l’ha mai visto, ci sarà l’occasione di vederlo. Vorrei tornare a Curran perché vorrei capire perché ha fatto questo viaggio, che è durato dieci anni e l’ha portato tante volte nel sud-est degli Stati Uniti. Ha cominciato dalla Florida. La mia domanda è: perché in quel momento? Perché dalla Florida?
Hatleberg. Il progetto è cominciato in Florida per tutta una serie di ragioni. Mi piaceva moltissimo la letteratura del sud e tantissimi romanzi classici sono ambientati nel profondo sud. In quella regione particolare sono ambientati anche tanti film che adoro e che guardo tantissime volte. Per me era importante poter andare a validare o meno questi miti con cui ero cresciuto. Un altro motivo importante è che una persona amica, cara, aveva perso la vita tragicamente in Florida, e quindi andare in quei luoghi era per me un tentativo di capire cosa fosse successo a lui. Volevo trovarmi nei luoghi in cui lui era stato per l’ultima volta. E infine, bisogna dire che gli Stati Uniti sono enormi dal punto di vista geografico. Ci sono tantissime influenze, anche culturali. Spesso si pensa che, quando uno dice di essere residente negli Stati Uniti, di fatto ci si trova quasi a essere stranieri in tanti altri luoghi con culture diverse. In parte c’era anche questa voglia di abbandonare ciò che già conoscevo e aprirmi a qualcosa di nuovo che potesse interessarmi di più, all’ignoto. Volevo quasi lanciarmi verso questa parte sconosciuta per cercare di capire di più. Grazie.
Fiore. Paul, volevo chiederti, ma quando ti è arrivato tutto questo materiale da Curran, che cosa hai pensato, che cosa ti ha convinto che era un progetto in cui buttarsi, in cui partecipare?
Schiek. Grazie, bella domanda e devo rispondere in maniera onesta. Io e Curran abbiamo creato un rapporto di fiducia nel tempo. E anche so che Curran, come è chiaro a tutti in questo momento, è un fotografo davvero bravo, è uno dei fotografi più bravi dei nostri tempi. E quello che fa è estremamente sincero, onesto ed è anche estremamente lento. Nel momento in cui è arrivato a me tutto il materiale, avevo già fatto un altro libro di Curran, quindi questa metodologia di lavoro la conosco e conosco la persona che è Curran e sapevo che qualunque cosa mi fosse arrivata da lui sarebbe stata veramente buona. Mi ricordo che ci eravamo visti a Brooklyn, a casa di amici, quando ci incrociavamo così durante i nostri viaggi. Mi ricordo però, devo anche fare una premessa. Questo è esattamente l’opposto del 99% dei libri che io faccio, mi ricordo che avevo visto il lavoro ed ero veramente stupefatto di come il libro era già lì. Gran parte del lavoro che faccio è pubblicare e mi piace lavorare con gli artisti e voglio proprio prendere quello che gli artisti fanno e poi creare qualcosa di nuovo da tutto ciò e contribuire maggiormente, elevare il materiale in formato di libro. Questo è fatto attraverso il design, la concettualizzazione, anche come si inserisce il titolo nel libro, pensare che tipo di carta, che tipo di presentazione, perché viene scelto un tipo di carta rispetto a un altro, che cosa significa quel tipo di carta rispetto alla fotografia o che cos’è che quella scelta di tipo di carta, di font, di carattere può evocare in chi osserva il prodotto finale. E Curran aveva questo progetto così ben fatto che non avevo molto da fare, se non dargli il mio sostegno e cercare di capire come era la maniera migliore di arrivare al termine del progetto in formato libro da portare al mondo. Quindi sapevo fin da subito che questo libro sarebbe stato magnifico. Dovevamo solo continuare a seguire tutte le fasi in maniera diligente per arrivare alla presentazione perfetta, però devo dire che è molto raro tutto ciò, la maggior parte dei progetti non è così. Non sto dicendo che sia stato facile questo processo, ma Curran rappresenta un artista che, dal realizzare la foto, a fare l’editing, a fare la stampa, a fare la presentazione e anche rispetto a tutta la sequenza delle immagini, ci mette tantissimo impegno. La sequenza in cui si mettono le foto ha proprio molta importanza. Curran aveva già fatto gran parte di quel lavoro e questa è una cosa molto rara quando si lavora con un artista. Spesso dico che ci si può aspettare che qualcuno sia brillante per due volte. Nello sport si potrebbe trovare un’analogia simile. Si può aspettare da un giocatore di calcio talentuoso che possa anche esserlo nel tennis, per esempio. Quindi nel mondo della fotografia, i fotografi brillanti, bravi, è difficile che siano anche bravi nel creare poi il lavoro di editing e nella scelta della sequenza delle foto. Invece con Curran abbiamo proprio questa possibilità che sia brillante su entrambi i fronti.
Fiore. Torniamo a una delle cose che più mi ha colpito del tuo lavoro, Curran, e delle motivazioni che ci stanno sotto. Tu dici che ti accorgi della situazione del tuo paese, della grande polarizzazione culturale e sociale, e provi in questo modo, nel tuo modo, attraverso il tuo mezzo, che è la fotografia, a cercare un approccio diverso. Voglio cercare ciò che abbiamo in comune piuttosto che ciò che ci divide. Io vorrei capire meglio perché innanzitutto tu senti questa esigenza, che cosa hai trovato in comune in quello che sembra un pianeta diverso rispetto a quello in cui sei nato e cresciuto?
Hatleberg. Devo dire che è proprio un pensiero fisso, quello di pensare che gli esseri umani sono più simili che dissimili. Le differenze sono proprio sulla superficie. Molto di quello che mi interessa e di cui vado alla ricerca è un processo in cui bisogna assumersi dei rischi, uscire dalla propria zona di comfort per trovare un luogo di connessione, un punto di collegamento. Credo che questo processo possa rivelare una conoscenza profonda e anche un’empatia inattesa, una comprensione amorevole che non ci aspettiamo quando ci avviciniamo a qualcuno e lo conosciamo, sia che sia più diverso da noi o più simile a noi. C’è proprio questo processo di crescita assieme, attraverso lo sviluppo delle relazioni. Questo è proprio la base dell’esperienza umana a mio avviso. Prima di andare avanti vorrei anche aggiungere un’altra cosa. Paul ha sottostimato un po’ il suo ruolo in tutto il processo di produzione del libro, perché non posso sottolineare abbastanza il fatto che questo non è un’impresa individuale. Quindi tornando alla tua domanda, io non posso fare nulla senza la collaborazione delle persone con cui passo del tempo, senza di loro, senza l’interesse reciproco e la curiosità nei miei confronti, che risponde alla mia curiosità nei loro confronti, non può succedere nulla, non esisterebbe nessuna fotografia. Quindi proprio dal punto in cui viene fatta la foto è tutta una collaborazione, e poi si lavora con le gallerie per presentare i lavori nelle mostre, o con i curatori come te stesso, o per lavorare con Paul che ha fiducia in me. È tutto un processo di crescita assieme e anche di impegno per arrivare a qualcosa di migliore e questo va anche al di là del lavoro di stampa che viene fatto, è un bellissimo lavoro che fa anche Massimo qua in Italia. Quindi non posso sottolineare abbastanza il fatto che tutto il processo riguarda la collaborazione.
Fiore. Mi colpisce molto perché appunto noi abbiamo intitolato questo incontro “Un’immersione profonda: come creare insieme un’opera d’arte”, quindi l’idea di darsi completamente a un progetto nel quale la qualità delle immagini dipende dalla qualità delle relazioni. Tanto più le relazioni umane sono approfondite, sono profonde, tanto più emerge nel lavoro delle immagini. D’altra parte, sempre questa relazione di circolarità tra soggetto, artista, collaboratore, stampatore, editore: le cose migliori si riescono solo a fare insieme dentro un rapporto, dentro un’amicizia. E io devo dire che questo mi impressiona molto e mi impressiona molto anche la sfida che Curran lancia non solo al suo paese in questo momento, ma penso anche al nostro, perché appunto la pigrizia ci porta ad accontentarci di vedere nell’altro solo ciò che è contrario a noi. Io ringrazio, anzi non so come ringraziare Curran di essere stato qui, di essere qui con noi, e ringrazio Paul per essersi collegato e spero che sia l’inizio di qualcosa di grande. Vorrei dire una cosa prima di concludere e salutarvi. Abbiamo cercato di convincere il Meeting a portare anche Paul in Italia e non è stato possibile perché il Meeting non ha risorse infinite. Però già per fare questo c’è bisogno dell’aiuto di tutti, non solo degli sponsor, ma anche di chi ama il Meeting e ci tiene che queste cose avvengano. Io vi ringrazio, ringrazio Paul, ringrazio Curran e alla prossima mostra del Meeting.
Hatleberg. Un’ultima cosa che avrei dovuto dire all’inizio, mi scuso. Una cosa che avrei dovuto dire all’inizio, ecco, volevo esprimere tutta la mia gratitudine al Meeting, grazie per aver presentato il mio lavoro in Italia, grazie a Luca, grazie a Paul e grazie a tutti quelli che hanno reso questo possibile, grazie.