Un’aula grande come la città e come il mondo

Paolo Andreolli, Docente Scuola della Formazione Professionale Dieffe; Eugenio Paterlini, Dirigente Comune di Reggio Emilia; Federico Samaden, Dirigente Fondazione Demarchi. Introduce Alberto Raffaelli, Preside, Associazione Festival dell’Innovazione Scolastica.

La città diventa scuola, il territorio diventa un grande scenario di incontro, di scambio e di reciproca opportunità per bambini e ragazzi, giovani, insegnanti e famiglie. L’educazione diffusa trasforma il territorio in una potente risorsa di apprendimento, di scambio, invenzione, sperimentazione, per favorire la crescita di persone responsabili e di un tessuto sociale solidale.
In varie parti d’Italia si sono sviluppate esperienze didattiche ambientate in nuovi spazi educativi, fisici e digitali, si sono intrecciate nuove alleanze con soggetti istituzionali, aziendali e culturali sia a livello locale che internazionale, al fine di attuare progetti di apprendimento e nuovi itinerari educativi.

Con il sostegno della Regione Emilia-Romagna.

UN’AULA GRANDE COME LA CITTÀ E COME IL MONDO

Alberto Raffaelli: Buongiorno, sono davvero contento di questo ciclo di incontri delle ore 13 qui al Meeting, dove sono state raccontate le esperienze didattiche innovative proprio da coloro che hanno sperimentato, che non hanno atteso le riforme, le analisi, ma hanno cominciato a rinnovare la scuola. Abbiamo sentito esperienze da ogni parte d’Italia, da Caltanissetta a Biella, a Bolzano. Oggi questa rassegna si conclude secondo me in modo straordinario con un tema importantissimo che è quello della sinergia del territorio con la scuola, con i percorsi educativi.

Abbiamo voluto intitolare questo incontro: “Un’aula grande come la città e come il mondo”. È importante questo tema e dirò due parole subito dopo per dire il perché di questa importanza ed è importante per gli ospiti che abbiamo qui, che hanno delle storie, delle esperienze davvero straordinarie. Saluto e ringrazio Eugenio Paterlini, che è dirigente dei servizi educativi del comune di Reggio Emilia e ricordo che il comune di Reggio Emilia ha una storia straordinaria nell’ambito dell’educazione e del sostegno all’educazione. Poi abbiamo Federico Samaden, presidente della fondazione Demarchi e anche lui preside della Scuola alberghiera di Levico terme, in Trentino, quindi un uomo che vive sul campo la battaglia educativa, Paolo Andreolli, che è preside della Scuola professionale di ristorazione di Valdobbiadene.

Dico che il tema è straordinario perché l’esperienza del Covid ha visto la scuola in balia di questo turbine che è accaduto, poi la DAD e grazie a Dio, anche l’utilizzo di tutte le tecnologie, ma in qualche modo è stata sconvolta dalla pandemia. All’interno però di questa crisi si è fatto più pressante da una parte il tema stesso dell’educazione. Si è capito che la scuola non è una utility della società, ma è assolutamente una tematica fondamentale. In secondo luogo invece la scuola ha avuto la necessità di trovare altri spazi, di trovare degli alleati nel territorio per poter svolgere il proprio compito ed è qui che io mi sono imbattuto in alcune esperienze, in primis quella di Reggio Emilia che adesso ascoltiamo da Eugenio Paterlini, con un progetto straordinario che hanno messo in piedi che si chiama scuola diffusa, ma che lascio a te, Eugenio, da raccontare.

 

Eugenio Paterlini: Grazie, Alberto, grazie a tutti. Io sono davvero contento di essere qua oggi. Sono per la prima volta qua al Meeting, seguo la manifestazione da tanti anni e sono davvero contento, ho impattato stamattina appena arrivato una realtà davvero impressionante, quindi ringrazio per l’accoglienza tutti i volontari che ci hanno accolto, ringrazio voi per essere qui oggi e mentre arrivavo pensavo che cosa può collegare il DNA di una storia e di una realtà così bella, così potente come la vostra al Comune di Reggio Emilia, allora penso che ci aiuti un po’ questo il titolo, il tema che avete voluto dare al Meeting quest’anno, il tema della passione per l’uomo. Il Comune di Reggio Emilia investe tanto sull’uomo, sull’umano, in particolare su quella fascia così delicata, decisiva perché sono i cittadini non del domani come qualcuno erroneamente secondo me dice, sono cittadini già dell’oggi, del nostro presente che sono i bambini, i ragazzi e gli adolescenti e i giovani. Reggio, forse qualcuno lo sa, è famosa soprattutto per la cultura dell’infanzia 06, è famosa nel mondo per il sistema educativo che ha creato, ma da qualche anno ha cercato di estendere questa competenza distintiva, questo sapere, anche alle altre fasce scolastiche. Io mi occupo appunto di servizi educativi dai 6 ai 14 anni, quindi della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado, servizi educativi che affiancano la scuola. Ecco, la prima cosa che vorrei mettere in chiaro oggi è che la scuola è centrale in Italia, la scuola pubblica così come le altre realtà che compongono il complesso e variegato panorama scolastico italiano, ma la scuola è centrale e continua a svolgere una funzione centrale se non la si lascia sola. Una scuola da sola non è in grado di affrontare le emergenze, le sfide del nostro presente. A Reggio Emilia abbiamo provato a costruire un intero sistema educativo a fianco della scuola, quindi sono qui per rappresentare anche tutti i miei colleghi educatori. A Reggio sono complessivamente circa 200 gli educatori che affiancano gli insegnanti ogni giorno nella sfida dell’integrazione dei bambini e dei ragazzi disabili e nella sfida anche delle competenze, dei saperi, del contrasto alla dispersione, di una scuola efficace e viva per tutti e lo facciamo, come spiegherò meglio poi nella descrizione del progetto che oggi volevo raccontarvi, con l’idea che non ci sia un ente solo, un gruppo di professionisti da solo che educhi, ma con l’idea che ci siano più saperi, più competenze, più enti, più soggetti pubblici e privati che sono insieme e mettendosi insieme non sulla carta, ma nella realtà delle loro relazioni, possano provare ad affrontare e vincere la sfida educativa di questi tempi. Quello che vi racconto oggi ve lo racconto come un’esperienza che abbiamo provato e vissuto, cominciata nel buio della pandemia, perché la pandemia ha provato duramente tutto il sistema educativo anche complesso e sicuramente di qualità come ci è stato riconosciuto, perché ha azzerato in un momento, davvero in pochi giorni, le possibilità di relazione, di rapporto in presenza tra tutti gli adulti di questo complesso sistema educativo e i bambini e i ragazzi e soprattutto parlo dell’estate del 2020. Ci siamo trovati in pochi mesi ad affrontare l’arduo dilemma del dire: ricominciamo la scuola o non la ricominciamo, siamo in grado di organizzare? Il Comune ha questa competenza, perché non ha competenza diretta, lo sapete, sugli insegnanti, sui programmi didattici, ma ha competenza invece sull’organizzazione del sistema scolastico e ci chiedevamo: Siamo in grado di organizzare una scuola distanziata, una scuola che rispetti tutti i canoni dell’emergenza sanitaria? Che luoghi diamo a questi bambini per poter affrontare questa emergenza? E abbiamo provato, non io da solo, le persone che parlano danno sempre voce ad un gruppo di professionisti, a gruppi multi professionali che insieme partoriscono le idee migliori. Diffidate sempre delle idee che arrivano da una persona sola al comando, perché non sono generalmente quelle migliori. Abbiamo detto: Proviamo a non farci schiacciare dall’emergenza, proviamo invece ad andare oltre e ad imporre, grazie a queste condizioni, una sperimentazione di un sistema educativo nuovo non solo a dare degli spazi pur che siano, capannoni piuttosto che aule dismesse, piuttosto che edifici non abitati per creare nuove classi, ma proviamo a chiamare a raccolta tutte le energie migliori della nostra città che si prendano cura di questo sistema educativo che ha bisogno non solo di spazi, ma ha bisogno di saperi e di competenze per accompagnare i bambini in questo tratto così difficile della loro storia e del paese e per questo siamo andati a cercare appunto enti pubblici e privati, gli enti della cultura, gli enti dell’associazionismo, gli agriturismi, persino la sede della ex Banca d’Italia che in città noi abbiamo, siamo andati nelle parrocchie ed abbiamo chiesto spazi, ma non solo spazi, abbiamo chiesto di mettersi con noi a progettare un nuovo curricolo scolastico, il curricolo della pandemia lo chiamavamo quasi scherzando, dove ai bambini fosse chiaro che non dovevano fare scuola pur che sia, dovevano fare scuola arricchiti dalle possibilità, dalle tante possibilità che questi luoghi qualificati mettevano a disposizione. E perché erano qualificati questi luoghi? Intanto perché costituivano delle aule naturali a volte molto più belle delle aule dove loro sono costretti tutti i giorni, poi perché incontravano altre persone che portavano delle competenze, portavano un interesse per loro, un affetto per loro, una curiosità per loro e potevano portare quindi la possibilità di una didattica diversa. Utile poi si è rivelata col senno di poi anche per i bambini che facevano più fatica con la didattica tradizionale. C’è un brevissimo video col quale concludo questo mio primo intervento che dice meglio delle mie parole quello che abbiamo costruito nell’estate del 2020 e poi abbiamo continuato nel 2021:

Proiezione del video: La città che si fa scuola- Scuola diffusa.

 

Alberto Raffaelli: Eugenio, io ti ringrazio molto. Quando ho trovato su una rivista un articolo dedicato a questo progetto di scuola diffusa mi è venuta immediatamente curiosità e sono andato a Reggio Emilia, sono andato in quell’agriturismo che si vedeva nel video dove non solo appunto, come diceva Eugenio, c’era una location, come si usa dire, straordinaria, in mezzo al verde. C’erano i bambini con i loro stivaletti che guardavano le piante, ma c’era il nonno proprietario dell’agriturismo che faceva da insegnante, quindi il valore aggiunto del progetto, come giustamente ha detto Eugenio, non era solo negli ambienti più ampi che evitavano un contagio diretto con il Covid, ma era nel valorizzare questa ricchezza del territorio, così detta in modo tecnico, che era poi il sapere, allora questo anziano signore che era il proprietario mi diceva in modo orgoglioso: “Son diventato il nonno di 32 nipotini”, perché insegnava loro a piantare le piante, a dare il mangime alle galline e via dicendo. Io so che, Federico, su questo tema tu sei, diciamo così, ferrato, attribuisci un grande valore a questa capacità del territorio di educare. Prego.

 

Federico Samaden: Buongiorno a tutti. È sempre bello, ci si sente a casa qui e quindi vi ringrazio tanto, è sempre un’occasione preziosa. Si fa un gran parlare in questo tempo, si usa questa parola, comunità educante, è diventata di moda e quindi già diffido un po’ quando le cose diventano troppo di moda, però il concetto è semplice. In un luogo come questo è trattato da sempre, in questa grande scuola che è il Meeting è sempre stato trattato. Per crescere un bambino ci vuole un villaggio: non si è inventata adesso questa cosa e questo è un principio di cui troppe volte ci si è dimenticati. Tutti quelli che adesso parlano di comunità educanti dov’erano quando qui si parlava di questa cosa? Io sono una persona estremamente semplice a cui il Padreterno però ha dato tantissimi doni. Io ho avuto la fortuna di vivere 25 anni della mia vita a San Patrignano fondando e gestendo la sede trentina, quindi con un’intensità educativa sul campo, potente. Da 13 anni dirigo l’Istituto alberghiero e adesso da un anno e mezzo mi hanno anche chiesto di essere utile a questa fondazione di ricerca sociale trentina che si chiama fondazione Demarchi e tutto questo mi ricorda sempre che il Padreterno continua a volermi bene e a darmi sempre un sacco di cose. Io cerco nel mio piccolo di renderle utili il più possibile. Quello che ho capito in questi lunghi anni è che l’educazione è un fatto che sta dentro ciascuno di noi ed è in quella dimensione umana in cui noi incrociamo l’altro, che si sviluppa o no la qualità del processo educativo e la qualità del processo educativo sta in quella relazione lì, poi ci sono le strutture in cui questi processi avvengono e spesso le strutture si dimenticano di questa origine ed ecco che in questo momento bisogna andare oltre le scuole, perché le scuole sembrano essersi dimenticate di quest’origine. Una buona parte di chi vive le scuole si è dimenticata di questa potenza che sta dentro l’anima educativa, nella parte più forte della relazione. Quando hai davanti un ragazzo ti interroghi giorno e notte per capire cosa puoi fare per lui, per la sua crescita e non tanto per fargli prendere un buon voto in una certa materia e quindi questa è il motivo che ci spinge adesso a parlare di territori ed è giusto farlo perché bisogna rimettere in capo a tutti di nuovo questa cosa, perché se una cosa è vera è che il processo educativo, quindi quella relazione, non è la responsabilità di un luogo o di una persona. Parte dalla famiglia che va difesa a tutti i costi, perché è il primo luogo generativo di questo processo, ma va messa in capo a tutti quei soggetti che in un territorio contribuiscono alla crescita di un ragazzo, quindi è lì che si può parlare di comunità educante, è lì che bisogna parlare di territori, ma a patto che questa non sia l’ennesima sovrastruttura che caliamo su un tema così delicato e così strategico, ma bisogna essere capaci di stimolare, di ricostruire, bisogna ricreare le condizioni in cui le persone ritrovino quella radice, ritrovino quella fiammella che è quella che muove ognuno di noi ogni volta che ci troviamo davanti a un ragazzo o a una ragazza di cui desideriamo il bene, che sia nostro figlio o no. Ecco, nelle scuole bisogna ritornare a desiderare il bene dei ragazzi e non solo le prestazioni dei ragazzi. Il bene dei ragazzi è una cosa che va molto oltre i voti e le pagelle. Quel bene è quello che anima i processi educativi, ma qui si può venire ad imparare questo, perché se ne parla sempre, così come a San Patrignano. Si può andare ad ascoltare e a vedere come avvengono queste cose nella realtà, concretamente, senza dover costruire chissà quali filosofie sopra. Allora io con la fondazione Demarchi che ho l’onore di presiedere, ho provato ad immaginare come potevamo aiutare i territori a far questo e quindi con un gruppo di ricercatori abbiamo cominciato a mettere in piedi un indice di capacità educante con degli indicatori. All’inizio di settembre dovrebbe arrivare il risultato di questo gruppo di lavoro che è attivo da sei mesi e incomincerò a confrontarmi attraverso un lavoro di network su questo indice, perché l’indice secondo me è un metodo, è un modo con cui tu stimoli gli amministratori e i territori a capire che quella cosa va fatta e va fatta bene e per essere fatta bene hai bisogno di verificare se stai procedendo bene o no. Quegli indicatori con l’indice servono anche a questo, poi ti servono al miglioramento, perché ad ogni indicatore sono collegati dei possibili strumenti. Spesso ci si illude sul territorio, ma il territorio sono esseri umani, dove avvengono anche cose ignominiose dal punto di vista educativo, non è automatico che perché c’è un territorio ci sia anche un processo educativo. Il processo educante è responsabilità di ciascuno di noi, ognuno di noi ha quel pezzettino e solo se noi riusciamo a ricreare fra di noi quella sintonia, quell’amorevolezza, quella convergenza di bene che noi orientiamo verso chi viene dopo di noi e non solo, allora può avvenire qualcosa ed è questa la sfida grande su cui io sono adesso. Sono sì con un sistema pragmatico, con l’indice, gli indicatori e poi mi sono fissato sul tema delle competenze perché se ci pensate qual è un grande patrimonio del territorio? Cosa sa fare la gente, ma chi sa che cosa sa fare la gente? Allora io mi sono fissato ed ho costruito un sistema per poter rilevare questa cosa, per far emergere cosa sa fare la gente. In questa sala che cosa sapete fare? Ciascuno di voi ha un patrimonio, anzi uno più anni ha più accumula saperi. Provate a immaginare se tutti questi saperi di ciascuno di noi potessero entrare in sharing in un territorio, potessero diventare parte di quel disegno di economia circolare mettendo al centro una parola strategica: la conoscenza circolare, potessimo cominciare a parlare di come una persona di 80 anni può insegnare qualcosa ad uno di 20, ma non in maniera teorica. Come possono avvenire questi processi? Ecco su questo sono abbastanza concentrato nell’ultimo anno, senza dimenticarmi che tutta questa storia in quest’epoca ha bisogno di alleanze potenti, ma non sulla carta, scritte come generici accordi. Ha bisogno di accordi fra persone, la stessa unicità del processo educativo deve essere trasportata sulle alleanze. Io cerco gli uomini, cerco le persone, non cerco le istituzioni che mi mettono una firma su un accordo di partnership. Su questo credo che noi tutti siamo chiamati a rispondere e noi tutti siamo una grande risorsa e il Meeting come San Patrignano sono una grande arca di Noè.

 

Alberto Raffaelli: Grazie, Federico. Dentro questa grande dinamica del rapporto fra territorio e percorso educativo, guardiamo il punto di vista della scuola. Per la scuola il territorio, che è il mondo, entra in vari modi. Uno per esempio è che quella che era la scuola tradizionale fatta da italiani negli ultimi vent’anni è diventata una scuola interculturale, interetnica, per cui io so che la scuola da cui viene Paolo ha il 40 e passa per cento di studenti che sono di nazionalità diverse, in una scuola si trovano 19-20 nazionalità diverse e poi un altro modo in cui il territorio sfonda le pareti della scuola o viceversa è nelle scuole professionali, laddove il territorio entra attraverso gli stage e attraverso gli apprendistati, attraverso la necessità che parte del percorso educativo si svolga nelle aziende del territorio e quindi, Paolo, lascio a te raccontare questa dinamica. Grazie.

 

Paolo Andreolli: Grazie Alberto e grazie per avermi dato la possibilità di essere qui per imparare da chi è con me. Io sono la direttrice, come dicevi, inversa, ovvero grazie alle istituzioni e a chi lavora a contatto con gli attori del territorio più che con il territorio. Sono stati individuati i valori aggiunti. La scuola che convenienza ha nell’aprire le aule al territorio? Perché siamo qui a parlare di questo. Qual è la convenienza? La realtà grazie al cielo ci è venuta incontro. Noi nella nostra scuola professionale della ristorazione a Valdobbiadene ci siamo accorti che i momenti più efficaci per il percorso scolastico formativo dei nostri studenti erano quegli eventi nei quali i nostri studenti si interfacciavano con attori esterni, lo stage in primis, ma poi tutte le collaborazioni che sono nate con i partner che abbiamo iniziato a voler conoscere e che hanno iniziato a volerci conoscere come realtà. Abbiamo un asso nella manica che è la ristorazione, questo sì, bisogna dirlo, che ci permette di entrare e prendere per la gola, diciamo così, chi ci vuole conoscere. In questo abbiamo avuto la possibilità di conoscere aziende a Valdobbiadene, quindi cantine e l’amministrazione locale si è interessata al gusto che proponevamo. Ci ha chiesto di conoscerci, ma quando organizziamo un piccolo buffet per il sindaco che arriva in visita, quando organizziamo un piccolo evento per la cantina, anzi per le cantine che ci conoscono e che vogliono presentare ai loro ospiti la nostra scuola, abbiamo visto che i nostri ragazzi iniziavano a imparare meglio, quindi il territorio o gli attori del territorio sono un valore aggiunto, l’aula si apre proprio perché siamo noi interessati in primis a guardare cosa succede ai nostri ragazzi. Questo è il primo motore e ci siamo accorti che da una prima diffidenza, perché il docente di solito vuole proteggere il suo ambito, invece il bello era uscire, conoscere, guardare e i ragazzi banalmente, nel fare un evento con la scuola, come un piccolo buffet, una piccola cena, conoscevano meglio, erano all’opera, si ricordavano e giudicavano con noi quello che facevano. Più di questo! Iniziavano ad essere degli io ancora più responsabili che in alcune nostre attività in classe, di quello che succede loro e quindi con un motore di propositivi immenso. Allora abbiamo deciso di seguire la realtà che ci chiamava e di aprire strade e dialoghi con chi voleva incontrarci. Nascono così alcuni eventi come le cene che chiamiamo di effetto, che sono cene in collaborazione con le cantine, con chef, con sommelier locali che vengono a scuola e insegnano ai ragazzi, fanno vedere tramite cene con ospiti veri, quindi dei veri valutatori, quello che hanno appreso i ragazzi in classe. Ecco che iniziavano ad essere delle esperienze stupende, però ci siamo detti che mancava qualcosa, perché il rischio era che si fermassero queste attività all’intraprendenza individuale di un singolo docente senza un seguito oppure a momenti estemporanei nell’attività didattica della scuola. Allora abbiamo capito e proprio per l’efficacia di cui si parlava prima, che la scuola deve lavorare in maniera coordinata, in maniera unita per guardare la didattica secondo quest’occhio di apertura al mondo, di apertura vera, apertura interessata e il gusto viene da sé perché poi si moltiplicano le idee. Abbiamo iniziato ad inserire questi momenti per noi privilegiati dentro la programmazione didattica annuale e quindi non c’è più la differenza tra momento scolastico ed extrascolastico, non c’è più un aumento di distinzione tra aula e fuori dall’aula e sede dove siamo chiamati ad intervenire o a conoscere quel produttore o andare a conoscere come si fa il miele ed arrivare da chi maneggia le api, oppure la valutazione che ci danno le aziende diversa dalla valutazione che diamo noi docenti, perché ci riteniamo i veri titolari della valutazione. L’aula ha cominciato ad aprirsi. È chiaro che ci vuole una struttura e quindi la programmazione didattica. Questo col tempo ha portato ad un grande vantaggio: alcune collaborazioni nate da poco hanno iniziato a strutturarsi sempre di più e sono diventate stabili ed ogni anno vengono riproposte agli studenti e ogni anno alcuni momenti di respiro più ampio della nostra aula chiusa sono diventati fattore comune per tutti e momento di didattica per tutti i docenti, perché la struttura della scuola, anche abbastanza codificata, è entrata in questo circolo. Faccio un esempio: per organizzare una cena non serve solo far bene il piatto da realizzare o il menù o servirlo alla perfezione, bisogna saperlo scrivere il menù. Ecco, come docente di Italiano, la presentazione del menù, la lettera di presentazione per un eventuale invito sono diventate attività didattica. La docente di Inglese ha cominciato a tradurre i menù in Inglese che vengono realizzati per l’evento concreto. Il docente di Matematica ha iniziato ad elaborare il food cost non astratto, ma legato all’evento realizzato. Ecco che tante discipline hanno iniziato a far parte di un’aula aperta, perché il cuore era un momento esterno, ma in realtà non era più esterno. Tutta la scuola inizia ad essere proiettata e curiosa e vediamo che i ragazzi in questo iniziano ad essere interessati, ad essere più curiosi, ad essere un motore propulsivo per la scuola, perché iniziano a dire che se vengono degli ospiti esterni, se vanno incontro a qualcuno che li vuole incontrare, vogliono fare meglio e quindi è bello vedere i ragazzi che iniziano ad essere protagonisti anche del loro percorso formativo. In questo alcune attività hanno un posto privilegiato, sono quelle, secondo la definizione del “service learning”, tutte rivolte al bene comune, non per un volontarismo, perché i ragazzi quando si scontrano con i bisogni ancora più efficaci, ancora più evidenti degli altri, sono ancora più desiderosi, proprio per la natura dell’io, si scoprono ancora più desiderosi di mettersi all’opera e allora nasce un protagonismo che è il vero motore. La cosa interessante della scuola è che i ragazzi iniziano ad avere sia più competenze sia ad essere davvero protagonisti delle competenze che acquisiscono e questo crea circolo, come si diceva prima, crea interesse, crea motore, crea desiderio e questa possibilità diventa poi interessante per tutti. Il lavoro nostro quindi in qualche maniera spesso è assecondare questa possibilità per il gusto di mettere un pochino in disparte il nostro io personale, il nostro ego di fronte agli studenti in classe visti come nostro possesso, per cogliere quello che è la realtà che è più grande e più interessante rispetto alla nostra aula chiusa e questa possibilità è davvero una cosa interessante.

 

Alberto Raffaelli: Grazie, Paolo. Io credo che non ci sia definizione più adeguata di educazione che quella del titolo del Meeting di quest’anno. L’educazione è passione per l’uomo e voi l’avete detto in modo chiaro. Una seconda osservazione che volevo fare dopo i primi vostri interventi è che noi viviamo in un mondo dove i nostri ragazzi soffrono a mio parere di un grave pericolo che è quello di vivere una vita frammentata, a scatole chiuse, per cui a scuola c’è la regola della scuola, con gli amici si vive secondo le regole degli amici, così in famiglia e nello sport. In tutta questa frammentazione della vita si arriva anche alle derive drammatiche per cui quello che era un bravo ragazzo diventa improvvisamente un mostro. I ragazzi adottano le regole, i principi di quell’ambiente in cui sono in quel momento, ma il loro io, la loro persona, come diceva bene Federico è, come dire, sepolta sotto questo, allora aprire la scuola mi sembra che sia proprio in linea con quella vocazione, con quella chiamata dell’educazione. Mi colpiva, Eugenio, quando mi dicevi che il progetto Scuola diffusa è nato con il Covid per una necessità di trovare spazi, di avere ambienti più ampi, ma la cosa straordinaria è che quando il Covid è finito il progetto ha preso nuovo respiro. Prego.

 

Eugenio Paterlini: Noi abbiamo dato la possibilità attraverso questo sistema che ci siamo appunto inventati nell’estate del 2020 di dare spazi scolastici non solo ampliati, ma anche riqualificati nei propri contenuti e negli incontri con le persone, perché, guardate, l’80% del successo di questo progetto è stato relativo all’incontro tra le persone adulte che hanno accolto in questi luoghi i bambini e i ragazzi stessi. Si è trattato, poi volevo fare un passaggio su questo scambio molto importante tra accoglienza e dono, perché abbiamo avuto entrambe le dimensioni dentro quasi tutti questi luoghi. Abbiamo mosso, dicevo, un centinaio di classi, quindi 2500-2600 tra bambini e ragazzi di elementari e medie e chi di voi ha qualche memoria o pratica il mondo della scuola immagina che cosa significhi muovere una dimensione del genere, non tanto la scuola primaria, ma soprattutto la scuola media che è malamente organizzata, a mio parere, come un piccolo liceo precoce, molto diviso per discipline, che tiene poco anche all’unitarietà dei saperi, all’unitarietà anche della vita dei ragazzi, ma insomma questo sarebbe un altro dibattito, un altro incontro e quindi diciamo che il Covid ci ha aiutato a portare un po’ le scuole reggiane dentro questo dibattito che è molto importante, che non è solo di natura didattica-pedagogica, ma di natura culturale: che cos’è l’educazione, a chi appartiene la responsabilità educativa? Noi pensiamo molto chiaramente e lo abbiamo dichiarato anche come amministrazione locale che la responsabilità educativa appartiene alla comunità, non può appartenere al corpo degli insegnanti, non può essere delegata a loro, lo dicevo già prima. Abbiamo detto però: Quando finisce la pandemia, quando le restrizioni cominceranno a calare, quando il distanziamento non sarà più obbligatorio, ma solo consigliato, quando il Covid comincerà ad entrare non solo nell’attualità, nella memoria delle persone cosa succederà? La paura era ovviamente che molti insegnanti ci chiedessero di ritornare al tutto come prima: così in realtà non è. Noi abbiamo avuto molte classi e non sappiamo adesso se riusciremo ad organizzare il progetto per tutte, ma lo faremo ovviamente nel tempo, dato che ci hanno chiesto nonostante la fine delle restrizioni di rimanere dentro quest’esperienza, di rimanere dentro la possibilità di fare scuola fuori dalla scuola, di fare scuola con risorse umane, con saperi, con competenze adulte altre, oltre a quelle dell’insegnante, che è sempre presente e che è il fulcro centrale ovviamente della questione, ma l’insegnante si avvale di strumenti e di competenze che vengono dal territorio, dentro questa coralità adulta che pian piano, conoscendosi, lavorando, scontrandosi a volte, trova degli accordi nuovi ed ulteriori, qualificati per il bene, per una didattica migliorativa e qualificata per i ragazzi e quindi continueremo anche nell’anno scolastico che sta per aprirsi ad abitare diversi di questi luoghi. Abbiamo aumentato il numero degli agriturismi, continuiamo con il mondo delle parrocchie dove le scuole medie ci chiedono, secondo me molto opportunamente, di svolgere il nucleo centrale dell’educazione civica, perché l’educazione civica è tante cose e nessuna cosa in questa riforma forse ancora un po’ campata per aria. Ma l’educazione civica, pensiamo noi e pensano le scuole della nostra città, si svolge soprattutto laddove si incontra la possibilità di conoscere realtà legate al mondo della solidarietà, dell’altruismo, del prendersi cura. Questa è l’educazione civica primaria per i nostri ragazzi e nel mondo delle parrocchie della nostra città abbiamo trovato una grande risposta su questo e quindi noi andremo avanti portando non solo delle classi che rimarranno stabilmente in questi luoghi tutto l’anno, ma delle classi che faranno dei periodi a rotazione, dei periodi a scuola che prepareranno i periodi fuori scuola dove si vivranno delle esperienze intense, poi dei nuovi periodi a scuola dove i ragazzi rielaboreranno con gli insegnanti e con gli educatori del Comune ciò che hanno appreso durante questo periodo fuori nelle sedi di scuola diffusa. Mi sono chiesto il perché si è creato questo affetto, questa passione: sicuramente non credo che per la scuola sia un modo comodo per lavorare. Chi lavora nel progetto di scuola diffusa lavora mediamente di più di chi non ci lavora, pensate semplicemente al tempo che ci vuole per mettersi d’accordo fra diversi alunni su quello che c’è da fare con i bambini. È un sistema che richiede tantissima documentazione, perché se noi vogliamo davvero stare al passo con i bambini dobbiamo tenere nota, traccia di quello che loro fanno, di come reagiscono davanti alle proposte ed avere il coraggio di cambiarle se i bambini non ci stanno come noi avevamo immaginato. Queste sembrano banalità, però per il mondo insegnante di oggi non è assolutamente banale. L’amministrazione comunale ci investe risorse, perché capirete che non tutto è gratis per quanto riguarda la disponibilità degli spazi e degli adulti, però io penso che i motivi del successo di questo progetto stiano fondamentalmente nella dimensione che accennavo prima: accoglienza e dono, accoglienza dei bambini certamente. Credo che nel periodo della pandemia in particolare accogliere e dare ai bambini la possibilità di tenere scuole in presenza abbia aperto il cuore di tanti, dono perché la città ha effettivamente donato proprie competenze, propri saperi alla scuola, ma c’è anche un’altra dimensione che abbiamo scoperto nel realizzare questo progetto: in realtà la città è diventata molto più ricca accogliendo i bambini, molto più se stessa perché ha esercitato il diritto-dovere di cittadinanza. Prendersi cura è un diritto e un dovere di cittadinanza, oggi prendersi cura dei bambini in particolare, ma la città ne è riuscita arricchita perché tutti i luoghi che sono stati attraversati, toccati dai bambini ne escono cambiati, abbiamo anche interviste e documenti appunto su questo, modificati. Il signore che si vedeva nel video dell’agriturismo ha convertito la propria attività in attività fattoria didattica con i bambini, partendo proprio dai progetti che noi abbiamo cominciato a fare con lui e sui musei, questo credo che sia uno dei risultati più importanti che ci ha convinto ad andare avanti.

I musei di Reggio Emilia sono un’importante realtà culturale a livello regionale, credo che siano i terzi musei più frequentati, hanno migliaia di visitatori tutto l’anno: Il passaggio dei bambini ha portato la direzione dei musei a decidere di rifare la loro guida, la guida che presentano ai cittadini, a partire da quello che i bambini hanno detto e hanno fatto abitando dentro il museo. Credo quindi davvero che questa dimensione dell’accoglienza e del dono abbia arricchito la città in generale perché ha lavorato sulla cosa più preziosa che una città ha, più importante del PIL, almeno secondo noi, che è lavorare su questo capitale umano che si rafforza e cresce non solo attraverso l’attività economica, ovviamente molto importante, ma attraverso questo scambio, questo confronto, questo aiutarsi fra persone che ci ha resi più forti come comunità e maggiormente proiettati ad uscire da questo periodo buio nel quale stiamo vivendo.

 

Alberto Raffaelli: Grazie. Io mi permetto di fare il promoter del Comune e di invitare chi volesse, come ho fatto io, ad andare a vedere, perché queste esperienze sono a cielo aperto.

 

Eugenio Paterlini: Sono visitabili, vi aspettiamo tutti come è venuto Alberto, facciamo l’invito a tutti e poi non è un brutto territorio, vi accogliamo volentieri, si mangia anche bene.

 

Alberto Raffaelli: A questo accennavo, sì. Federico, ma quali sono allora secondo te le prospettive di questa tenzone drammatica tra territorio e scuola? Non solo le difficoltà, ma anche le prospettive positive.

 

Federico Samaden: Io sono sempre un ottimista nella vita, non sarei sopravvissuto se non avessi avuto questa grande fiducia che comunque le cose possono avvenire nel bene. Il dubbio è uno essenzialmente, che è legato alla disponibilità degli individui di riprendere in mano questa competenza che sta dentro in ciascuno che è quella di guardare con il desiderio del bene della persona che abbiamo davanti. Questa cosa, io non lo so, non c’è un meccanismo, una procedura con cui può avvenire per forza. È questione di far circolare l’energia buona, dico io, e quindi incrociare gli sguardi, incrociare la passione, incrociare persone e intorno alle persone si costruiscono i luoghi. È un po’ come ripartire dai monasteri benedettini, se dovessi dare un’immagine. Bisognerebbe che le scuole fossero questo, bisognerebbe che le scuole capissero che in questo momento c’è bisogno di questo, di ricreare dei luoghi e loro sono luoghi, ma devono ripensarsi come luoghi. Non possono essere i luoghi della promozione e della bocciatura, devono essere dei luoghi di grandi alleanze umane, di grandi relazioni umane, di grandi condivisioni educative. Questa è la grande sfida e come si può fare questo? Io non lo so, so soltanto che nella mia vita tutto quello che ho fatto mi sembravano delle montagne insormontabili. Spesso a partire dai miei vent’anni a contatto con ragazzi di cui condividevo tutto, erano ragazzi che avevano perso il senso della propria vita, quindi ridarglielo non era affatto scontato, ho imparato che le cose avvengono se invece di guardare quella montagna guardi quello che devi fare tu e cerchi di farlo bene. Una cosa su cui voglio essere positivo è che ciascuna persona che vive in un territorio se ben stimolata può recuperare una cosa che è alla sua portata: quella del lavoro ben fatto, quella di fare bene quello che ha da fare. Se ci pensate questa è una cosa semplice ed è in capo a ciascuno, fare bene ciò che uno deve fare. Questo renderebbe già educativo un luogo, perché in fondo questo è il sistema educante. Se tu hai un figlio che cresce in un territorio in cui ogni persona che incontra ha ben chiara la differenza fra fare le cose e farle bene e che ha deciso di farle bene, automaticamente quel bambino o quella bambina crescono bene, avendo delle continue sollecitazioni al bene. Io sono convinto che questa sia una cosa che bisogna continuare a promuovere, a spingere, ognuno nel suo ruolo. Io lo faccio con i ruoli che il Padreterno mi ha dato e che sono delle fortune e continuerò a farlo anche quando questi ruoli poi non li avrò più, perché ci credo e penso che questa sia la linea di sfida. L’altra cosa che a mio avviso è tempo di far accadere è quella di far emergere, come vi dicevo prima, che cosa sa fare la gente. Questa è una cosa che dà forza a ciascuno, perché quante persone ci sono che sono immiserite nella propria esistenza perché non vengono valorizzate! Provate a pensare soltanto a quanti anziani vanno nelle case di riposo, dove ricevono dei servizi sicuramente pregevoli, vengono curati dal punto di vista sanitario, ma tutto il patrimonio di saperi di ciascuna di quelle persone dove va a finire? Chi lo valorizza? C’è qualcuno che gli chiede che cosa sanno fare, che cos’hanno saputo fare e come quella cosa potrebbe essere utile? Ecco, io credo che ci sia una grandissima sfida che è quella di ridare valore a ciò che una persona ha accumulato non fosse altro perché, per ritornare al tema educativo, io penso proprio che quello che noi possiamo fare sia riempirci lo zaino e ad un certo punto questo zaino ce lo togliamo e lo diamo a nostro figlio, lo diamo ai ragazzi che abbiamo davanti, lo diamo a qualcuno che viene dopo di noi. In quello zaino ci sono tutte le cose in cui noi abbiamo creduto e ci sono tutte le cose belle o brutte che hanno fatto parte del nostro fare bene nella nostra vita. Dobbiamo custodire bene ciò che ci è stato dato e quel ragazzo, che sia nostro figlio naturale o no, riceve il miglior regalo, riceve una cosa vera che si mette sulle spalle, non è detto che la usi subito, ma sicuramente nel corso degli anni gli verrà buona. Voi non avete idea di quante volte io ricevo, adesso anche grazie a Facebook, comunque con questi strumenti riesco a tenere i contatti con migliaia di ragazzi che sono passati da San Patrignano nei venti anni in cui io ho gestito la comunità e vi garantisco che è emozionante e fa piangere, messaggi che ti dicono: “Federico, ti ricordi quella volta che sotto quella pianta avevi detto quella cosa che era terribile, una cosa che io non volevo capire? Ecco, volevo dirti che adesso l’ho capita”. Questa cosa capita magari dopo dieci-quindici anni, però questo dà la giusta dimensione di ciò che noi dobbiamo fare, noi dobbiamo riempirci lo zaino, darlo, darlo a tutti, perché è in quello zaino che c’è la parte più vera di noi e noi dobbiamo alimentarla e il rapporto fra di noi ci deve servire, perché nessuno di noi è perfetto, nell’aiutarci per affrontare la paura di non valere niente. Ecco dove sta il senso di un luogo come questo o di altri luoghi in ogni parte del mondo dove si alimenta questa parte più profonda di ciascuno dandole valore. Allora le competenze dovranno emergere. Adesso noi abbiamo costruito una app che si chiama “Lo so” e che verrà lanciata durante il mese di settembre. È collegata ad un’altra app importantissima che vi invito ad andare a vedere e che si chiama “Mygrants”, costruita per chiedere ai migranti che cosa sanno fare, costruita da un ragazzo africano fantastico che si chiama Chris Richmond e che vi invito ad andare a vedere e che l’anno prossimo cercherò di portare al Meeting. Con lui abbiamo fatto un patto forte. Lui orienta i migranti e adesso ha 400.000 migranti in piattaforma che stanno tre ore al giorno ad imparare. Io ho comprato da lui l’architettura digitale per fare una piattaforma rivolta agli adolescenti e agli italiani e questa piattaforma si chiama “Lo so” e il mese di settembre sarà un periodo di rapporto con le scuole per fare in modo che capiscano il valore di questo curriculum dinamico che si forma in piattaforma e in cui un ragazzo può mettere che cosa sa fare, cosa che la scuola non riesce ad incrociare. Che cosa sa fare? So suonare uno strumento, so giocare a calcio, so arrampicare, quante cose so fare? Quelle cose sono ben oltre la verifica di Inglese, di Tedesco, di Matematica. Ecco, il curriculum di quel ragazzo viene composto con tutto quanto dentro e poi c’è una grande parte della piattaforma che è formativa, dove lui può apprendere. Sono convinto che questo sia un ottimo strumento e sono fiducioso che le scuole ne capiscano il valore, dopodiché approfitto di questa occasione per dire che più di un semplice auspicio ad un convegno, io ho portato la parte più profonda di me in un luogo che considero casa e mi permetto di dirvi: Non restiamo soli in questo, cerchiamoci, animiamo quei luoghi, animiamo i territori, ognuno nelle sue parti, ma facciamolo insieme, perché solo e soltanto se noi costruiamo questi legami forti ce la possiamo fare. Grazie.

 

Alberto Raffaelli: Paolo, dal punto di vista della scuola allora qual è la prospettiva di fronte a questa provocazione straordinaria che hanno raccontato Eugenio e Federico?

 

Paolo Andreolli: I ragazzi sono il cuore e rispetto a quello che si diceva prima e al titolo dell’incontro di oggi,” Un ‘aula grande come il mondo”, io mi permetto di aggiungere: “Come il mondo dei ragazzi”. Quando noi come scuola proponiamo dei progetti educativi, delle attività che non guardano al mondo dei ragazzi ma ad un mondo nostalgico, vecchio, non hanno successo. Questo è un compito interessante per i docenti, è una sfida, rispetto a questo tutto si modula, perché il mondo dei ragazzi è il mondo interessante per me come docente, nel quale si scopre che cosa urge nella realtà del cuore, che è come il mio, di chi mi trovo davanti quotidianamente e quindi l’interesse è proprio scoprire che cosa c’è di interessante, che cosa dicono di se stessi i ragazzi. Così l’aula diventa una fucina di incontro e di incontri non solo con attori esterni, ma con i ragazzi stessi, con il loro mondo. Alcune attività sono diventate interessanti, ci siamo accorti che nel primo anno la grande fatica che facevamo con i ragazzi era appunto andar loro incontro, intercettarli, fare in modo che si instaurasse un rapporto di fiducia educativa. Come fare? Conoscendoli. Le 19 etnie diverse hanno aperto la strada. Dopo la prima parte dell’anno in cui abbiamo fatto conoscere la scuola ai ragazzi, cercando di dire loro chi siamo e che cosa desideriamo, guardandoli e sfidandoli umanamente per far capire loro qual è il livello della proposta educativa della classe e della scuola, abbiamo iniziato ad aprirci al loro mondo. Nella parte finale dell’anno scolastico, ad esempio, abbiamo iniziato a pensare al pranzo multietnico. Ho parlato anche delle identità arricchite: abbiamo chiesto ai ragazzi di andare ad intervistare i nonni, di portarci la loro vita e il loro mondo, in particolare per chi viene da mondi distanti, anche molto distanti, abbiamo chiesto di portarci le loro tradizioni, quello che sta loro a cuore. L’appiglio della cucina, del bar, della ristorazione è stato il tramite per entrare in contatto con loro, per scoprire il loro mondo quotidiano che nella prima parte dell’anno tendono a nascondere per conformismo e quando invece è provocato viene fuori per il bello che hanno da portare, quindi ad esempio questo grande pranzo di fine anno è stata l’occasione per scoprire i ragazzi. Inaspettatamente hanno iniziato a proporre cose che non conoscevamo ed anche a fare attività come venire a scuola con il vestito tipico della nonna. Nessuno glielo ha fatto fare, l’hanno deciso loro per dire chi sono, qual è la loro identità. Ecco, l’altra possibilità della scuola che noi come docenti vogliamo incentivare è proprio questa scoperta del ragazzo, perché, come si diceva prima, è l’unico luogo in cui si possa veramente fare qualcosa di interessante, ma anche scoprire per noi, secondo la nostra vocazione personale di educatori, che cosa c’è di interessante da imparare per crescere come uomini e quindi avere anche un mondo interessante da scoprire e le sorprese sono tante, come dicevo: dai piatti alle umanità, come ad esempio i nonni che ci ringraziano. Abbiamo visto che proprio il mondo è interessante e questo crea poi un cemento, un legame, un rapporto con i ragazzi che dicono: Questi docenti, questa scuola, dentro un lavoro collegiale, perché di fatto guardano all’unità della scuola, mi sfidano, mi vogliono conoscere, vogliono capire chi sono. Ecco che allora negli anni successivi, in seconda e in terza e noi abbiamo anche la fortuna di avere l’inserimento lavorativo, i ragazzi si fidano, magari non capiscono una certa attività , ma la fanno perché si sentono stimati e sfidati. Ecco, questo guardare all’educazione, all’umanità ci accorgiamo che sta dentro in gran parte in un implicito, in uno stile scolastico che sta dentro il quotidiano, che non è fatto di discorsi ma di esperienze vere di gesti, di momenti che i ragazzi vedono e dentro questo si crea una fiducia che fa correre i docenti in questa compartecipazione a scoprire che cosa c’è di interessante, fino anche a fare un passo indietro da parte di noi docenti per vedere i ragazzi che corrono, anche eventualmente lasciando spazio alle cadute perché ci sono, anche volendo bene alle cadute stesse. Viene fuori questa possibilità nuova per noi, dentro quest’apertura agli attori del territorio e alla sfida educativa che vogliamo aprire di fronte a chi ci vuole conoscere e far partecipare la scuola alla realtà in cui è inserita. Vediamo che dentro c’è una possibilità per noi interessante e che ci vede compagni nel gusto della vita insieme agli studenti. Grazie.

 

Alberto Raffaelli: Io vi devo ringraziare davvero. Abbiamo avuto stamattina una testimonianza di come da storie culturali e geografiche diverse si converga su quest’unica passione per l’uomo che è l’educazione. Mi commuovevo nel sentirvi parlare, per questo sono lieto di aver fatto quest’incontro con voi e sono lieto che questo incontro, come dicevano prima Federico, Eugenio e Paolo possa anche continuare, anche creando una rete di rapporti, di visite. Valdobbiadene ha le sue armi anche per accogliere gli ospiti, come del resto Reggio Emilia e il Trentino, quindi vuol essere anche l’inizio di un lavoro che può continuare.

Data

25 Agosto 2022

Ora

13:00

Edizione

2022

Luogo

Sala Open Fiber A2
Categoria
Incontri