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UNA STRADA PER L’ITALIA
Incontro promosso dall’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà. Interviene Mario Draghi, Governatore della Banca d’Italia. Partecipano: Pier Luigi Bersani, Deputato al Parlamento Italiano, PD; Maurizio Lupi, Vice Presidente Camera dei Deputati. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.
Il testo dell’incontro è pubblicato nel libro “La conoscenza è sempre un avvenimento”, edizioni Mondadori Università.
GIORGIO VITTADINI:
Buon giorno. Benvenuti a questo incontro, che introdurrò brevemente, promosso insieme al Meeting di Rimini dall’Intergruppo per la Sussidiarietà, questa convergenza di deputati e senatori di entrambi gli schieramenti a cui il Meeting ha sempre dato spazio, credendo profondamente nel dialogo, nel confronto, in una politica che sia ricerca della verità, ricerca di soluzioni per il bene comune. Ogni anno, l’Intergruppo per la Sussidiarietà organizza insieme al Meeting di Rimini degli incontri, il secondo sarà venerdì. Il primo incontro di oggi ha un ospite eccezionale: l’Intergruppo, insieme al Meeting, ha invitato a questo incontro il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, e il Governatore ha accettato. È un grande onore per noi del Meeting avere presente Mario Draghi, per due ragioni: primo, perché il Governatore della Banca d’Italia, come istituzione, in Italia ha avuto e ha un ruolo che va ben aldilà del semplice controllo delle questioni finanziarie legate alla moneta, legate alle banche. Ha avuto ed ha un ruolo istituzionale, di sguardo sulla vita economica e politica che è fondamentale nell’equilibrio dei ruoli dell’autorità dello stato. E poi, in particolare è un onore per noi avere qui la persona di Mario Draghi che, come sappiamo, ha un lungo curriculum accademico e istituzionale. E’ laureato presso l’università di Roma in politica economica con il prof. Federico Caffè, ha preso il dottorato al MIT nel ’76, con il prof. Franco Modiglioni, ha esercitato come professore ordinario di Economia presso l’università di Firenze, è stato Direttore Esecutivo della Banca Mondiale, Direttore Generale del Tesoro, Presidente del Comitato italiano per le privatizzazioni e Presidente del Comitato economico e finanziario della Comunità europea. Infine, è partner e membro del Management Committee Worldwide della Goldman Sachs. Autore di moltissimi articoli e libri di economia monetaria e finanza mondiale e internazionale, ha ricevuto numerosissime altre cariche e riconoscimenti. Dato questo curriculum, e dati i numerosi interventi che, fatti negli anni scorsi, sottolineano e suggeriscono le possibilità di cambiamento dell’economia e della società italiana nel campo dell’educazione, nel campo dei cambiamenti strutturali, del rinnovamento del paese, averlo qui è fondamentale per trattare un tema come Una strada per l’Italia: significa avere una sintesi di quello che ha detto in questi anni, in funzione di quel necessario cambiamento che tutti auspichiamo. Ora, l’incontro avverrà in questo modo: prima ci sarà la relazione del Governatore. Poi chiederemo ai nostri ospiti, on. Maurizio Lupi e on. Pier Luigi Bersani, di commentare questo intervento e di rispondere ad alcune domande. Quindi, invito il Governatore a parlare e lo ringrazio per la presenza.
MARIO DRAGHI:
Ho molte occasioni per essere io grato di questo invito oggi, la prima naturalmente sono le carissime parole di introduzione del prof. Vittadini, ma sono anche grato per l’invito che mi viene fatto dall’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà, ma soprattutto sono grato per aver avuto modo di un contatto diretto personale con questa realtà. Poco prima sono stato cortesemente accompagnato a fare un piccolo giro intorno, ho potuto vedere di persona per la prima volta che cosa fa Comunione Liberazione aldilà di quello che dicono i giornali… Più che essere una relazione direi questa è più una conversazione e almeno in parte la strutturerei in questo modo. Una prima constatazione che mi viene da fare è che circa due anni fa proprio di questi tempi si cominciava ad avvertire i segnali di quella che sarebbe stata la più violenta, la più grave crisi economica, certamente del dopoguerra per certi aspetti di sempre. E è proprio in questi giorni che cominciamo a vedere i primi segni che stiamo emergendo lentamente da questa crisi. Non so se dire il peggio è passato perché ancora ci sono molti rischi che non mi danno ancora certezza sulla permanenza di questi segni positivi, non direi certamente che la crisi è passata, perché come ha detto il cancelliere Angela Merkel la crisi è passata quando si ritorna al punto di prima, non quando il peggio è passato. Ma certamente i segni positivi ci sono, anche i dati di oggi sugli ordini di produzione di Stati Uniti, sugli indici di fiducia dei consumatori e delle imprese in Germania, sulla produzione industriale nell’area dell’euro fan pensare che avremo se non altro qualche rondine. Io dico sempre una rondine non fa primavera e bisogna stare attenti a non scambiare la prima rondine con la primavera, ma certamente ci sono dei segnali positivi.
Due considerazioni: la prima è che poteva andare anche peggio. La violenza dello shock iniziale di questa crisi è forse superiore a quella del ’29, quello che non è stato, sono state le conseguenze dello shock iniziali, in altre parole questa crisi è cominciata peggio, ma le conseguenze sull’economia non sono neanche lontanamente paragonabili a quelle della crisi del ’29. Perché? Ma il mondo di allora aveva due caratteristiche: la prima è che le divisioni internazionali, le divisioni di politica internazionale impedirono una qualunque cooperazione tra i vari paesi, tra le autorità dei vari paesi. La secondo caratteristica fu che la risposta della politica economica di allora fu molto lenta, contraddittoria, incerta. Questa volta non è stato così, questa volta la risposta prima di tutto delle banche centrali con un’immissione straordinaria di liquidità e coordinata nel mondo ha arginato il primo impatto della crisi e di questo, in un certo senso di questo merito, di questa gratitudine si trova traccia nelle parole che il presidente Obama ha usato per riconfermare il presidente della Federal Riserve…. In seconda battuta sono stati i governi che sono intervenuti e continuano a intervenire ora con programmi di bilancio, con programmi di spese, con programmi che sorreggono l’economia. E probabilmente il motivo per cui noi ora vediamo dei segni positivi è proprio per questi programmi dei governi cominciano a fare i loro effetti, che queste politiche monetarie espansive cominciano a fare il loro effetto a dare l’impulso all’economia. La seconda considerazione è che il costo di questa crisi è stato pesante, molto pesante in termini economici, in termini sociali e in termini umani. Ed è una crisi che non ha conosciuto confini, è una crisi globale, quindi la violenza, la pesantezza di questo costo e la globalità della crisi fan sì che ci sia un po’ dappertutto la sensazione che un ritorno alla normalità come erano le cose prima è escluso. Non c’è voglia di tornare a come erano le cose prima e l’ordine del giorno, l’ordine del giorno è fondato su due punti: prima di tutto naturalmente riformare il sistema finanziario, il sistema regolamentare della finanza e dell’industria dei servizi finanziari e di questo il G, il Gruppo dei Venti ha preso la leadership e il Financial Stability Board che ho l’onore di presiedere è l’esecutore di queste direttive. Ma più generalmente, più ampiamente si pensa fortemente che occorra fare anche delle riforme strutturali. Pensate semplicemente al programma del presidente Obama che ha lanciato riforme strutturali nel campo della sanità, nel campo del clima, nel campo dell’ambiente e del ruolo stesso delle autorità di controllo e del ruolo che hanno i governi nel funzionamento dell’economia. Questa sensazione che occorra cambiare in profondo è diffusa e è anche la conseguenza, come dicevo prima, del costo straordinario che la crisi ha avuto. Anche da noi io credo che questo tempo sia arrivato e non solo per questa sensazione di desiderio di cambiamento profondo, ma anche per un altro motivo, noi siamo entrati nella crisi con una crescita bassa, forse una della più basse nella zona dell’euro, una crescita bassa che però non era una novità, una crescita bassa che durava da 10, 15 anni. Siamo entrati nella crisi con un divario di competitività rispetto agli altri paesi in Europa accumulato nell’arco di un quindicennio. La crisi lascia all’Italia un’eredità pesante, gli investimenti sono caduti, quindi il capitale utilizzabile per la produzione è diminuito. La disoccupazione che cresce potrebbe anche danneggiare, distruggere, diminuire il capitale umano. Queste due cose fan sì che l’eredità lasciata dalla crisi sull’Italia sia pesante e l’uscita dalla crisi per noi è difficile; in particolare il ritorno in un sentiero di crescita anche basso come quello precedente è complesso. È anche per questo che dobbiamo fare quelle riforme strutturali che risolvano quei nodi che ci hanno impedito di crescere più vigorosamente per 10-15 anni anche prima della crisi. I nodi strutturali che avviluppano l’economia italiana sono tanti e non ho intenzione di passare in rassegna cose anche abbastanza note, vorrei soltanto concentrare rapidamente la discussione su tre di queste.
Il primo riguarda il capitale umano, è un tema che ho toccato in altre occasioni, ma secondo me resta rilevante, resta importante. La prima cosa che si nota è che da noi esiste una specie di circolo vizioso per cui essere istruiti, soprattutto, essere istruiti a livello universitario paga meno in termini di carriera e di retribuzione di quanto non paghi in altri paesi, altri paesi anche simili a noi, paesi europei. Il risultato è che, forse inconsapevolmente le famiglie investono meno in educazione di quanto si faccia in altri paesi e le imprese a loro volta adottano delle tecnologie che sono meno moderne di quelle che potrebbero adottare se le persone che assumono fossero più istruite. Quindi è un circolo vizioso. Ci si chiede perché questo? La risposta è sostanzialmente nella scarsa capacità segnaletica del nostro sistema di istruzione, nel fatto che il sistema di istruzione di scuola superiore ed universitario non segnala il merito, l’eccellenza, il valore dello studente. Cosa fare? Qui le parole chiave su cosa fare sono: competizione, informazione, autonomia, equità. Competizione: è necessario che i vari istituti scolastici competano tra loro. Vi leggo alcuni dati. Il voto deve diventare un segnale affidabile dei livelli di apprendimento. Sotto questo profilo sono utili i test uniformi che l’INVALSI esegue da due anni su tutto il territorio nazionale nelle scuole medie inferiori. Alle verifiche devono seguire adeguate informazioni: alle scuole sui miglioramenti nell’apprendimento registrati dagli allievi dell’istituto, tenendo conto delle condizioni di partenza e dei contesti sociali in cui si trovano ad operare. Quindi equità, ma anche merito. In particolare per le scuole superiori in cui la mobilità è strutturalmente più elevata, al fine di accrescere la concorrenza è importante che le famiglie siano informate, devono essere informate sulla bontà della scuola. In alcuni casi si propone anche che i finanziamenti siano in parte correlati alla capacità che la scuola ha di attrarre studenti. Tutte le scuole dovrebbero godere di una maggiore autonomia nella scelta degli insegnanti, quelle che conseguono risultati migliori dovrebbero godere di incentivi finanziari. Ma cosa altro succede in questo circolo vizioso se non risolviamo il problema? È che la bassa qualità di istruzione e la mancata segnalazione del merito scoraggia anche la domanda di lavoro qualificato da parte delle imprese. Cosa succede? Succede che le imprese incerte sull’effettiva qualità dei candidati all’assunzione tendono ad abbassare la remunerazione per ogni dato livello di istruzione al fine di compensare il maggior rischio, non sanno chi stanno assumendo e quindi intanto lo pago meno. Ora molto direi è stato fatto, progressi su questo punto sono stati significativi negli ultimi anni e meccanismi simili a questi che ora ho menzionato per le scuole sono stati proposti e in parte attuati dal Governo per le nostre università che secondo valutazioni internazionali non esprimono ancora una qualità dell’insegnamento e della ricerca pari a quella di altri paesi avanzati. Quindi l’impegno riformatore deve estendersi dall’università alla scuola. Ma io credo veramente che l’obiettivo civile di garantire a tutti i giovani, senza distinzione di censo, razza o fede religiosa un’istruzione adeguata non implichi necessariamente una bassa qualità dell’istruzione. Il secondo nodo strutturale al quale vorrei dedicare qualche parola riguarda il mercato del lavoro. La recessione finora in Italia ha ridotto di poco il numero delle persone occupate. Sottolineo il finora e sottolineo il di poco perché naturalmente rispetto a quello che succede in altri paesi il poco in assoluto non è poco. Mentre invece le ore lavorate sono diminuite molto più nettamente, essenzialmente per l’effetto dell’ampio e crescente ricorso alla cassa integrazione guadagni, ancora in luglio il ricorso alla cassa straordinaria è aumentato di quasi il 35% sul mese precedente al netto delle offerte stagionali. Poi oltre ai lavoratori in cassa integrazione subiscono i colpi della crisi lavoratori temporanei a cui non vengono rinnovati i contratti di lavoro a termine, di collaborazione e gli occupati autonomi delle piccole imprese. Il nostro mercato del lavoro è diventato negli ultimi anni molto più flessibile di quanto non fosse mai stato in precedenza, la flessibilità ha indubbiamente degli straordinari benefici, per esempio nel caso della crisi la flessibilità permette di riutilizzare immediatamente gli organici e riprendere la produzione immediatamente. Ma incidentalmente a proposito di questo tema, c’è stata recentemente una discussione a proposito di una maggiore corrispondenza fra retribuzione e condizioni di impresa. Io credo che oggi stiano maturando le condizioni per compiere progressi importanti. Si è discusso sulle possibili implicazioni che il sistema di contrattazione salariale, dei divari tra nord e sud, del livello dei prezzi e dei salari. Secondo le nostre stime i salari reali sono pressoché simili, pressoché paragonabili. Ma in ogni caso non si tratta di imporre vincoli aggiuntivi al processo di determinazione dei salari con il ripristino delle gabbie salariali, ma al contrario di conseguire gradi più elevati di decentramento e di flessibilità nella contrattazione. Le parti sociali io credo si sono progressivamente orientate in questo senso da ultimo con l’accordo che prevede il maggior peso della contrattazione di secondo livello. Ma la flessibilità ha anche i suoi costi: la flessibilità introduce incertezza nella vita professionale, l’incertezza dalla vita professionale si trasmette alla vita tout court, i piani di spesa delle persone diventano essi stessi incerti, il risparmio per motivi precauzionali cresce, i consumi sono minori di quanto potrebbero essere altrimenti.
Che fare in questo caso? La risposta è di nuovo un tema che la Banca d’Italia ha toccato molte volte in precedenza. La risposta sta in una riforma organica degli ammortizzatori sociali, una riforma che sia fondata su questi pilastri, prima di tutto certezza del trattamento, secondo commisurazione del trattamento alla vita professionale dell’individuo, e infine sostegno per le situazioni estreme. In altre parole una copertura estesa a tutti coloro che cercano lavoro, non una copertura a raggiera anche a coloro che non cercano lavoro, è importante, importantissimo per questo occorre, per quest’ultimo fine, occorre indubbiamente rafforzare i controlli a che non si abbiano comportamenti opportunistici da parte di molti, comportamenti che alla fine inficiano la stessa credibilità dei meccanismi di ammortizzatori sociali e ne tolgono in un certo senso il consenso che questi potrebbero avere nell’opinione pubblica. Io di nuovo, questo è un altro tema su cui io credo che siano stati fatti passi importanti, sono stati fatti passi importanti in maniera non organica, spinti dall’emergenza, ma pur tuttavia sono importanti. In altre parole ho la sensazione che siamo vicini a questa cosa più nei fatti che in teoria, ma secondo me occorre fare il passo finale, quello di mettere insieme tutte le cose che sono state fatte, aggiungere qualcosina e arrivare ad avere un sistema di ammortizzatori sociali moderno, paragonabile a quello che poi hanno gli altri paesi. I benefici sono abbastanza, non solo la rimozione di quelle incertezze di cui parlavo prima, ma anche la facilità con cui i lavoratori si possono riallocare tra i vari settori produttivi che non vanno in crisi e naturalmente una tenuta dei consumi maggiore.
Il terzo nodo strutturale a cui voglio dedicare alcune parole oggi riguarda il rapporto Nord-Sud, cioè il divario territoriale. È un tema molto complesso, è un tema che nasce con l’unità d’Italia ed è quindi un tema che non posso affrontare rapidamente se non per due considerazioni, tra l’altro è un tema che ha visto da Francesco Saverio Nitti a Carlo Azeglio Ciampi, presidente emerito della Repubblica impegno nella sua soluzione. La Banca d’Italia dedicherà a questo tema un convegno nell’autunno, ma mi si permettano due osservazioni: tornando indietro con i ricordi quando si pensa alla Cassa del Mezzogiorno, si può dire che la Cassa del Mezzogiorno finché faceva ponti e strade non ha fatto male, è quando poi dai ponti e le strade ha cambiato e ha cominciato a intromettersi finanziando, dando incentivi, nei meccanismo produttivi delle società, allora le cose sono andate male. Questo mi fa pensare che i trasferimenti debbano essere limitati alla rimozione di quelli che gli economisti chiamano esternalità negative, cioè dei blocchi allo sviluppo che il settore privato non può affrontare, quindi ponti, strade, ordine pubblico e altre azioni di questo tipo, ma non devono essere trasferimenti che privilegiano certe imprese a sfavore di altre, perché altrimenti l’unico effetto, e questo è documentato, soffocano la concorrenza e sono quindi un fattore di sottosviluppo e non un fattore di sviluppo. La seconda considerazione è una considerazione di metodo. Si è discusso molto a lungo e si continuerà a discutere tra interventi straordinari, leggi straordinarie, leggi ordinarie ecc, però una osservazione veramente da non politico quale io sono è che se noi prendiamo un catalogo di leggi sulla amministrazione giudiziaria, sull’ordine pubblico, sullo smaltimento dei rifiuti, sull’istruzione, sulla sanità; la spesa procapite nella sanità è pressoché equivalente nel sud, nel centro e nel nord, eppure i livelli di qualità nel sud sono molto più bassi, ne è poi conseguenza un esodo straordinario di pazienti dal sud al nord; questo è uno spreco di risorse e francamente anche uno scandalo; ma se noi vediamo tutte queste leggi, e possiamo andare avanti leggi sulla concorrenza, l’amministrazione della giustizia stessa ecc, queste sono leggi sull’intero territorio nazionale però la loro applicazione produce al sud una performance inferiore a quella del nord, sistematicamente. Allora la conclusione che uno ne dovrebbe trarre è che le leggi possono essere sbagliate o giuste ma di per sé queste leggi non hanno effetto sul sud, è la loro applicazione che è diversa. Quindi piuttosto che inventare nuove leggi occorre investire nella applicazione delle leggi esistenti. Condizione però per affrontare tutti questi nodi, lasciatemi dire due parole da governatore della banca di Italia, è la stabilità finanziaria. Senza stabilità finanziaria non si va da nessuna parte e la stabilità finanziaria poggia su due pilastri: la buona tenuta dei conti pubblici, da un lato, ma soprattutto la crescita. Senza crescita non si esce dalla situazione di alto debito pubblico che noi abbiamo avuto. Pensate soltanto che il debito pubblico rispetto al PIL era, se non sbaglio, il 105% nel 2008 e sarà nel 2010 il 118%. Tredici punti in più di debito pubblico rispetto al prodotto non tanto o non solo perché spendiamo un po’ di più ma soprattutto perché è caduto il denominatore di questo rapporto, cioè il PIL. E la storia dimostra sostanzialmente che da situazione di alto debito pubblico non si esce altro che, non aumentando le tasse, ma con la crescita e, quando noi avevamo la possibilità di manovrare il cambio e di avere una politica monetaria indipendente, con l’inflazione. Per fortuna questa possibilità non l’abbiamo più e quindi dobbiamo mirare alla crescita. Ecco quindi che il mantenimento della stabilità finanziaria si salda con quelle riforme a cui alludevo prima; quelle riforme servono a rilanciare la crescita, la crescita è essenziale per mantenere la stabilità finanziaria, questa assicura il quadro per le riforme stesse.
Devo dire che non partiamo da zero; abbiamo punti di forza e non sono pochi. Il primo punto di forza sono le nostre imprese; molte imprese sono state capaci di avviare un processo di ammodernamento tecnologico ed organizzativo; si sono spostate dal comparto originario, sono entrate in segmenti nuovi connotati da una più elevata intensità tecnologica dei prodotti. C’è ancora un ritardo di competitività con gli altri ma il quadro che emerge è certamente dinamico; indica che molti imprenditori sanno ancora far bene illoro mestiere anche se altri bravi imprenditori stanno oggi soffrendo per la crisi. Qui naturalmente fondamentale è il ruolo delle banche. Ho detto in altre occasioni che questo è, in un certo senso, il test per ii banchieri: bisogna saper fare il banchiere anche quando le cose van male. Che cosa significa? Significa saper dar credito alle imprese che si pensa, grazie alla conoscenza che se ne ha, possano superare la crisi ed essendo invece molto cauti nei confronti di quelle imprese dove invece si pensa che non ce la faranno, ma non ce la faranno non per motivi loro, strutturali ma semplicemente perché sono imprese che sarebbero comunque scomparse dal mercato. Il secondo punto di forza è il lavoro straniero e qui devo immediatamente dire una cosa: questa è una risorsa vera e propria soltanto se riusciamo a governarne l’integrazione economica e sociale; altrimenti si ha una situazione che gli economisti definiscono come una situazione dove i benefici privati sono minori dei costi sociali. In altre parole se non si riesce a governare questo processo i costi sociali superano i benefici che gli individui possono avere dall’utilizzo del lavoro straniero. Non abbiamo alternative, però, perché i numeri sono impressionanti: fino agli anno ’80 il saldo migratorio dell’Italia è stato negativo; negli ultimi 20 anni il numero di stranieri residenti è salito fino a 3,4 milioni all’inizio del 2008, che è il 6% della popolazione; tenendo conto delle persone presenti ma non iscritte all’anagrafe, di quelle che non dispongono di permesso di soggiorno si sale circa verso 4,3 milioni. I cittadini stranieri in Italia sono in media più giovani e meno istruiti degli italiani ma partecipano in misura maggiore al mercato del lavoro, svolgono mansioni spesso importanti per la società e l’economia italiana, anche se poco retribuite. Questo è uno studio della Banca d’Italia ma è simile studi fatti anche in altri paesi, non si rilevano conseguenze negative apprezzabili sulle prospettive occupazionali degli italiani. Quindi noi non abbiamo alternative, con questi numeri, al governare questo processo; rifiutarsi di governare non porta da nessuna parte. Tra l’altro bisognerebbe combattere la tendenza alla marginalizzazione degli studenti stranieri in atto nel sistema di istruzione italiano e questa marginalizzazione la segnalano i ritardi di apprendimento significativi già nella scuola primaria e gli elevati tassi di abbandono nei gradi scolastici successivi; vi contribuisce solo in parte l’esposizione a contesti famigliari meno favorevoli. Esercizi basati su recenti proiezioni demografiche dell’ISTAT suggeriscono che entro il 2050 circa 1/3 delle persone residenti in Italia con meno di 24 anni avrà almeno un genitore straniero, un valore in linea con quello registrato oggi dagli Stati Uniti e dal Canada. Questo significa che la componente straniera della popolazione contribuirà in misura significativa a determinare il livello e la qualità del capitale umano su cui si fonderà la nostra economia, condizionandone il ritmo di crescita. Quindi, nella sostanza, è una risorsa solo se riusciamo a governarne l’integrazione economica e sociale ma non abbiamo scelta a questo obiettivo. Non è un obiettivo da cui possiamo prescindere né vogliamo prescindere perché, in fondo, gran parte di quello che vediamo di negativo di questo fenomeno è proprio dovuto al fatto che abbiamo rinunciato per molto tempo a governarlo. E finalmente abbiamo un altro punto di forza che è, in un certo senso, il progresso fatto. Molti interventi sono stati messi in cantiere negli ultimi anni, sono stati compiuti passi significativi per avviare le riforme nel settore del mercato del lavoro e anche nell’istruzione, nonché nel cercare di aumentare la concorrenza in settori tradizionalmente protetti, in particolare la riforma della pubblica amministrazione merita menzione in tutto questo. C’è poi una riforma molto impegnativa che è in corso che è la riforma del federalismo fiscale e questa avrà riflessi diretti su tutti i problemi strutturali italiani, in particolare sui tre che ho menzionato. La Banca d’Italia ha spesso sottolineato come la condizione necessaria affinché il federalismo fiscale produca i benefici che se ne attendono e che esso sia effettivo, non virtuale e cioè che si stabilisca un collegamento stretto tra decisione di spesa e decisione di entrata, fermo restando il principio di solidarietà. L’ultimo vantaggio che vedo, l’ultimo punto di forza che vedo è di natura più generale. Credo che i problemi di struttura dell’economia italiana, sicuramente i tre che ho indicato prima, siano sufficientemente ben definiti, sotto il rifilo analitico, con una sostanziale convergenza di un largo spettro di forze politico-sociali e lo stesso di può dire degli effetti della crisi su di esse e dell’urgenza che ne discende per le riforme da avviare o da accelerare. Se il quadro analitico è condiviso a grandi linee, la domanda successiva che dobbiamo porci è questa: “esiste oggi in Italia un consenso di fondo sui tratti fondamentali di queste riforme?” Io credo che l’apertura alla capacità, al talento, al merito, alla concorrenza è un valore condiviso da tutti oggi; è il mezzo principale che noi abbiamo per contrastare corporazioni, rendite, clientele nel nostro paese. L’uguaglianza delle opportunità, è da ricordare, avvantaggia anche i meno capaci grazie all’aumento dell’efficienza complessiva ma implica il rischio che vantaggi e svantaggi sociali siano generati dalla distribuzione originale dei talenti o dalle diverse possibilità di sviluppo di questi ultimi determinati da contesti sociali e famigliari particolarmente privilegiati. Quindi è qui che occorre una istanza compensativa di natura etica ispirata agli ideali di solidarietà. Il rapporto tra la ricerca umana di benessere materiale e la carità cristiana, affrontato da ultimo anche dalla Caritas in Veritate del Pontefice, percorre la dottrina sociale della Chiesa Cattolica. Valutazioni di natura etica compaiono sempre più spesso anche nella ricerca teorica in economia che, fino a poco tempo fa, ignorava questo aspetto. I tre problemi di struttura dell’economia italiana che ho prima evocato richiedono al tempo stesso apertura al merito e solidarietà, ricerca dell’efficienza ed equità. È così per l’istruzione; all’esigenza di far emergere e sospingere nelle scuole gli studenti più meritevoli deve corrispondere l’obiettivo di garantire a tutti i ragazzi e le ragazze un livello adeguato di conoscenza senza privilegi di sorta eticamente inaccettabili. La costruzione di un sistema di protezione sociale universale ed omogeneo risponde ai bisogni di una più elevata efficienza ma anche a quello di fornire una copertura generalizzata aperta a tutti contro i rischi di disoccupazione. E lo sviluppo del sud merita di essere perseguito non solo per rendere le condizioni di vita dei cittadini meridionali più simili a quelle esistenti nel nord ma anche per imprimere un impulso alla crescita dell’intera economia nazionale. Quindi efficienza ed equità, merito ed equità, merito e solidarietà sono un filo conduttore che unisce queste riforme. Prima di terminare voglio raccontarvi una cosa che mi è venuta in mente venendo qui; è una storia un po’ personale. Mio padre tra le due guerre, in Germania, vide su un monumento una iscrizione che mi è rimasta molto impressa; questa iscrizione diceva “se hai perso il denaro non hai perso niente perché con un buon affare lo potrai recuperare, se hai perso l’onore hai perso molto ma con un atto eroico lo potrai riavere, ma se hai perso il coraggio hai perso tutto”. Ecco io ho l’impressione che questo coraggio da noi ci sia; sia sparso, spesso non sappiamo neanche noi di averne, ma di averne tanto; questo e la condivisione della diagnosi e delle terapie di questi problemi sono il terreno da cui partire insieme, superando il proprio individualismo, per rilanciare la crescita. Grazie
GIORGIO VITTADINI:
Ringraziamo moltissimo il governatore Draghi per questa relazione profonda che ci invita a un lavoro. Questo Meeting è dedicato alla conoscenza, un argomento di studio e di riflessione non solo immediata perché, come molte di queste relazioni al Meeting, su altri argomenti, ci invitano ad approfondirla, a non esaurirla in un attimo. La possibilità di un approfondimento e di una conoscenza comincia immediatamente, attraverso il dialogo che continua con Pierluigi Bersani e Maurizio Lupi. La prima domanda che faccio ad entrambi è un commento alla relazione, l’evidenziazione di quelli che secondo loro sono i passaggi e le questioni che questa relazione apre. La parola a Bersani.
PIER LUIGI BERSANI:
Grazie, buonasera a tutti. Sicuramente non vorrei banalizzare adesso con poche battute, un intervento, al solito pregevolissimo e molto complesso. Quindi, mi scuso e prendo solo due o tre spunti. Il primo si riferisce al passaggio dell’intervento di Mario Draghi, che considera gli insegnamenti da trarre, anche a livello globale, da quello che è avvenuto, perché noi avremo un percorso lungo per tornare al punto dove eravamo, ma già nei passi di oggi bisogna che facciamo in modo di non cascarci più. E qui c’è un punto di regolazione degli aspetti della finanza, che Mario Draghi è impegnato a fare: gli facciamo tantissimi auguri di buon lavoro. Impresa difficile perché, in tutti questi anni, la finanza è diventata una forza reale e non si lascerà imbrigliare molto facilmente e ricondurre alla sua nobilissima funzione ma non oltre. Mario Draghi faceva cenno anche ad un’altra dimensione: quella delle politiche economiche da correggere. Ecco, qui c’è un primo punto. Se ne parla poco ma, se siamo arrivati fin qui, è anche per politiche economiche sbagliate. Se Obama adesso corre a correggere; se in Cina si rompono le gambe a fare interventi sul welfare sociale, e così via, è anche perché in tutti questi anni si è pensato agli Stati Uniti invece di distribuire la ricchezza prodotta, aiutando il lavoro, aiutando i salari, aiutando il potere d’acquisto, aiutando la produzione, aiutando il welfare. Si è distribuito in mutui e carte di credito, e là in Cina si è pensato di produrre tutto e consumare quasi niente, neanche dal punto di vista delle grandi politiche sociali, per poi prestare i soldi agli americani. Ma non puoi pensare che il 10% della popolazione, se diventa ricchissima, poi mangia dieci volte al giorno, perché non ci riesce. E quindi, l’idea di tornare ai fondamentali, in poche parole, l’idea che non puoi star bene da solo, che stai bene se tutti gli altri stanno un po’ bene. Un’idea di comune dignità, un’idea di beni comuni è un’idea razionale dal punto di vista economico; non è irrazionale ma razionale. Occuparsi di disuguaglianza fra gli uomini, le persone e i paesi, significa anche occuparsi di un’economia più sana. E quindi, l’economia e la società devono darsi la mano un po’ meglio. Questo è un punto che dovremmo ricavare da questa crisi. Secondo punto che ho colto nel passaggio, per me rilevantissimo, sulla particolare situazione italiana. Noi siamo entrati prima di altri in questa recessione, ne usciremo dopo gli altri, speriamo che locomotiva tedesca ci tiri un po’ dentro un contesto di crescita molto bassa, che dura da tantissimi anni. Qui c’è una nostra caratteristica particolare, un sistema di imprese che ha bisogno di mercati aperti più che di protezionismo. Noi trasformiamo da mille anni materie prime che non abbiamo, è il mestiere che sappiamo fare, lo facciamo al meglio. Ma queste imprese hanno poca possibilità, poco fiato finanziario. Siamo quelli più bancocentrici, più legati al meccanismo delle banche. E dentro questo universo – Bankitalia se n’è occupata più volte, e forse certi studi avrebbero dovuto essere considerati di più -, uno straordinario processo di ristrutturazione che è avvenuto in questi anni: investimenti, sfide nuove da parte di sistemi di piccole e medie imprese in innovazioni tecnologiche, soluzioni organizzative, meccanismi che ti affacciano al mondo esterno. Si sono indebitate, queste imprese. Ma sono quelle che ci tirano. Ora, questa crisi rischia di selezionare non al basso ma all’alto. In Francia ne hanno cinquanta, di imprese che affaccia il paese sul mondo. E cinquanta ne difendono, le stanno difendendo. Noi abbiamo migliaia di imprese che probabilmente, mentre il mondo è tutto fermo, non è che non avranno mercato, non è che non avranno prodotto, ma bisogna vedere se hanno il fiato per arrivare a riprendere l’occasione. Questo è il punto. E faccio notare – e badate, lo dico per esperienza – a proposito dei sistemi di formazione e del ragionamento che è stato fatto sul capitale umano, che tutte le volte che quelle imprese lì hanno fatto l’operazione di innovazione, immediatamente è cambiato il mix professionale, immediatamente. Perché improvvisamente hai bisogno di uno che conosca le questioni giuridiche, anche verso la Cina. Perché improvvisamente hai bisogno di qualcuno che sappia l’informatica, e devi metterti in rete con la subfornitura. Perché hai bisogno di enne professionalità, e cominci anche a pagarle. Questo è un driver anche per i processi di formazione: io sono sempre stato contrario che togliessero il credito d’imposta per la ricerca e l’innovazione, rivolto dalle imprese verso l’università. E dotiamole, le imprese, di questo stimolo, andranno a cercarsi la roba buona. Il meccanismo deve girare così. Noi dobbiamo far perno su questi sistemi d’impresa. Non abbiamo tante altre carte. Aggiungo, e chiudo, sul tema dello stimolo. Il Governatore diceva una cosa, anche questa da sottolineare: il famoso rapporto deficit-PIL è fatto da due cose. Alla fine, se non dai qualche stimolo a questa economia, rischi di impantanarti nella stagnazione e nella crisi della finanza pubblica. Ci vuole coraggio, certo, questa è la discussione che abbiamo avuto anche con il governo. Sostanzialmente, alla fine, la discussione che abbiamo avuto, o non abbiamo avuto, perché non ci sono stati molti posti per discuterne, è questa: se noi, oltre che riallocare risorse già presenti nel bilancio pubblico, dovessimo o no fare una manovra con risorse nuove. Certo, delle quali rientrare, eh! Ma questa è una funzione del governo. E quindi edulcorare, sdrammatizzare, e non mettere l’Italia davanti al problema, per me è un errore, per lo stesso motivo che diceva il Governatore: che questo è un paese che, se lo metto davanti al problema, se lo mangia. Se continui a dirgli che non c’è, non so dove va. E l’ultimissima notazione: io voglio cogliere tutti i segnali. C’erano anche in questa lezione del Governatore sulla questione nord-sud. Io la leggo così, guardate: chi parla di gabbie salariali non si ricorda che allora, nelle gabbie salariali c’erano dentro un po’ di Calabria e un po’ di Rovigo. Stavamo parlando di un divario di cui c’è percezione anche al nord. Anche al nord c’erano zone povere, anche a casa mia c’erano zone paragonabili a quelle del sud. E allora la psicologia del divario era diversa. Poi è cominciata la fase del divario nord-sud, la fase pericolosa per l’unità del paese. E il pericolo si è aggravato perché in venti, trent’anni, parliamoci chiaro, non siamo riusciti, non solo a ridurlo ma neanche a far vedere che c’è una strada per ridurlo. E quindi, eccoci oggi con una politica che pericolosamente comincia a dar segni per cui, invece di combattere il male, lo vuole interpretare. Lo interpreta il nord, lo interpreta il sud, quasi avesse sfiducia di poter fare qualcosa. No, bisogna fare qualcosa, cambiando le politiche, sbaraccando le intermediazioni, andando sugli automatismi, dando i soldi solo a chi migliora gli standard di servizi. Però bisogna che riprendiamo, abbiamo davanti il 2011. Fra il globale e il locale, dobbiamo decidere come vogliamo essere italiani, perché l’unità da difendere non è un tema, il tema è rimettersi a costruire.
MAURIZIO LUPI:
Anch’io vorrei reagire alle cose che ho sentito e ascoltato dalla relazione del Governatore Draghi. Permettetemi prima, anche a nome dell’Intergruppo parlamentare per la Sussidiarietà – ci sono tanti amici e colleghi che vedo qui in aula, l’amico Albonetti, Farina, l’amico Sposetti e tanti altri che adesso non cito, che saranno poi presenti venerdì – di ringraziare il Governatore per l’invito che ha accettato. E’ un riconoscimento anche per il lavoro che l’Intergruppo parlamentare ha svolto in parlamento, con una funzione istituzionale, in tutti questi anni, e anche da un governo all’altro, nel senso che è nato sotto un governo di centrodestra, nel 2002, poi è vissuto nel governo di centrosinistra, e oggi, anche in questa terza legislatura, sta proseguendo il suo lavoro. Non ho la pretesa, come non l’ha avuta Pier Luigi, di esaurire tutto il contenuto della relazione. Reagisco anche alle cose a cui sono più sensibile, sulle quali ci siamo confrontati in questo anno all’interno dell’Intergruppo. E poi, qualche battuta anche sulle cose che ha detto Pier Luigi. Vorrei partire dalla fine della relazione, perché il rischio che percepisco è che quella conclusione sembri una premessa che non c’entra nulla con la risposta sulla strada per uscire dalla crisi, sulla strada per ricostruire l’Italia. La frase del padre che gli ricordava l’idea del coraggio: un uomo può perdere tutto, ma se non ha il coraggio di accettare la sfida che la realtà gli pone, se non ha il coraggio di essere se stesso, di pigliare in mano la propria libertà, il proprio desiderio, la propria volontà di rispondere al bisogno che incontra, può perdere tutto ma non ne esce. Ci possono anche essere mille manovre – io la interpreto in questo modo -, mille piani straordinari per uscire dalla crisi: ma l’Italia non ritrova la sua strada, il paese non ritrova la sua strada. Mi sembra sia il punto essenziale da cui partire. Tante volte ci siamo confrontati all’interno dell’Intergruppo, ma anche in parlamento e nei dibattiti televisivi, su quel tema della fiducia, dell’ottimismo nei confronti della situazione. Qualcuno anche tra di noi, tra maggioranza e opposizione, ha detto: sì, fiducia e ottimismo, e poi si rischia di dimenticare il dramma della realtà. Io credo invece nella sottolineatura che colgo, importante e positiva, ed è la testimonianza che ricevo ogni giorno, girando il paese, incontrando e vivendo nella società, che è esattamente questo il punto di forza, non solo dell’Italia ma di qualsiasi paese. Il punto di forza è che non si spenga, che si riparta e che la risorsa di fondo sia la persona, il suo desiderio, la sua voglia di accettare la sfida nei confronti della realtà. Questa è l’irriducibile dimensione che l’uomo ha in sé: ci possono essere mille piani, ma nessun piano può rimettere in moto, o mettere in moto, questo elemento essenziale. E non è un caso che tutti noi condividiamo il primo punto, l’aspetto educativo. Perché l’aspetto educativo ha colpito noi politici, ha colpito il Governatore della Banca d’Italia, ha colpito tutti i grandi del mondo? Come gli intellettuali di questa terra si sono trovati, a un certo punto, a parlare del lavoro e dell’economia e a discutere di carità e verità? C’entra qualcosa con quel coraggio cui accennava il Governatore della Banca d’Italia? Quell’idea del desiderio, dell’uomo protagonista, quella parola che ci ha messo insieme: sussidiarietà? E dopo tutto, in questa crisi, non abbiamo riscoperto delle cose che prima pensavamo fossero punti di debolezza? Qual è il più grande ammortizzatore sociale che abbiamo scoperto nel momento di crisi, come si chiama? Prima ancora degli ammortizzatori sociali che un governo può mettere a disposizione – quando l’uomo perde il lavoro, quando un figlio non sa dove andare -, c’è la famiglia. Si chiama famiglia e non è altro che quel rapporto tra libertà e responsabilità che ogni uomo vive nei confronti di se stesso e del suo destino. Sono rimasto colpito quando, in campagna elettorale, per parlare anche di esempi molto concreti, siamo andati a Prato, una città che ha vissuto e vive drammaticamente l’esito di questa crisi. Qualcuno forse si è dimenticato che un imprenditore si è suicidato per la crisi, perché quello che stava costruendo, lo vedeva svanire poco alla volta. In quella città, in campagna elettorale, sono rimasto molto colpito perché la Compagnia delle Opere distribuì un volantino dal titolo “Perché Prato non chiuda” e ci fu una grande manifestazione di tutti gli imprenditori della città. Questo volantino citava una frase che tante volte è stata ricordata: io l’avevo sentita ad Assago. “Il desiderio accende il motore dell’uomo, e allora l’uomo si mette a cercare il pane, l’acqua, si mette a cercare il lavoro, a cercare la donna, si mette a cercare una poltrona più comoda e un alloggio più decente. Si interessa a come mai taluni hanno e altri non hanno, si interessa come mai certi sono trattati in un modo e lui no, proprio in forza dell’ingrandirsi, del dilatarsi, del maturarsi di questi stimoli che ha dentro e che la Bibbia chiama globalmente cuore e che io chiamerei anche ragione. Luigi Giussani Assago, 1987”. Allora, l’ottimismo che tante volte anche il presidente Berlusconi ha richiamato, il coraggio a cui oggi ci ha incitato il Governatore della Banca d’Italia, o il tema della fiducia, c’entrano, sono una promessa. La sussidiarietà, che poi è esattamente la declinazione di questa idea di società che mette al centro la persona, l’uomo come protagonista, la politica al servizio di, possono essere una premessa o una risposta decisiva. Possiamo imparare qualcosa dalla crisi? Perché si ritorna a parlare di etica, perché anche oggi nell’Intergruppo – guardo il mio amico Sposetti – parliamo di economia sociale, di mercato, ritorniamo a parlare di economia sociale e di mercato, dove due grandi filoni della tradizione di questo paese si incontrano: quello cattolico e quello riformista socialista. Ecco, questa è la prima cosa. L’ho tirata lunga ma voglio implicarmi poi nelle altre considerazioni perché, come giustamente dice Pier Luigi, abbiamo la responsabilità di governo, dobbiamo accettare la sfida delle riforme, i tre punti strutturali, ecc. Se noi riteniamo che questa sia la premessa, abbiamo ancora una volta perso la sfida. Questa non è la premessa, è il punto decisivo da cui ripartire, è la grande risorsa che questo paese ha: e non a caso, a un certo punto, anche i grandi giornali devono accorgersi che c’è un’Italia che non ti aspetti; che, nonostante la crisi, c’è qualcuno che aumenta la sue esportazioni, che crede che col proprio valore si possa realizzare certo il suo desiderio di profitto, ma innanzitutto sudare il suo contributo al bene comune. Penso che questa sia la prima, grande questione. Poi la declinazione, perché questa non è che la premessa alla politica, alla politica che governa, che è maggioranza, e a chi fa opposizione e deve svolgere il suo ruolo. Ma se partiamo da lì, mi sembra che i tre punti delineati dal Governatore siano esattamente le questioni su cui dobbiamo confrontarci, anche se il Governatore ha correttamente sottolineato che non partiamo da zero e tanti passi sono stati fatti. La questione, appunto – e vado verso la conclusione – dell’educazione, del capitale umano, della famiglia, strettamente connessa a questo tema. Qui abbiamo una grande sfida – c’è il ministro Gelmini in sala -, la sfida della riforma dell’università, di una riforma che rimetta al centro esattamente il merito, la persona, l’investimento del capitale umano come punto fondamentale per un paese. Il tema del mercato del lavoro. Il Libro bianco sul welfare, credo sia un punto di partenza, il tema del federalismo, la grande riforma su cui discuteremo. Per me, ad esempio, il federalismo è una grande sfida che ci siamo lanciati e per una volta – lo dico perché non bisogna sempre parlare in negativo del lavoro del parlamento -, sul federalismo fiscale, c’è stato un metodo nuovo, il metodo del confronto, di una maggioranza che ha fatto la proposta, che si è assunta delle responsabilità, che crede che il federalismo sia una grande riforma epocale. Ma il dialogo, il confronto con l’opposizione, con la società civile, sono stati un elemento fondamentale. Vedo dei segni positivi anche nell’atteggiamento del partito democratico in aula, che si è astenuto rispetto a questo tema del nord e del sud. Però credo che ci sia un’ultima grande questione che colgo dalla relazione: l’invito che il Governatore fa a noi, classe dirigente di questo paese, e a noi che siamo chiamati a governare. Oggi il governo ha un grande consenso. Il consenso è un patrimonio che abbiamo e va utilizzato: è la sfida perché questo paese possa essere cambiato. Il riformismo nel nostro paese, per tanti anni, è andato di apri passo con la paura di perdere consenso. Nono possiamo più seguire questa strada. Riformare il paese, cambiarlo, il paese, anche perché la fiducia c’è ed è stata riconquistata anche grazie alla pragmaticità, alla politica del fare, molto concreta. E’ il patrimonio che nei prossimi anni dobbiamo mettere a disposizione del paese e della classe politica, per cambiare. Su questo saremo misurati.
GIORGIO VITTADINI:
Seconda e ultima domanda. Visto che stiamo all’Intergruppo, una domanda politica: quali partiti per questo scopo? Sono rimasto colpito dall’intervento del Papa, che ci ha detto che la conoscenza non avviene senza affezione. Ne traggo la conclusione che per anni si è pensato che la classe politica dovesse non avere ideali ma corpo, essere al di fuori di interessi e legami, appartenenze. È questo il partito che volete costruire o c’è un’altra immagine di partito legato al territorio, legato alla realtà, agli ideali? E chi è l’uomo politico che deve portare a questo? È vero che il parlamento deve avere solo soldatini, che alzano la mano perché non contano niente, o abbiamo bisogno di parlamentari che vengono dalla base, legati al territorio, legati alle realtà? Avete qui davanti Nicola Sanese, ha fatto 25 anni da parlamentare con il 98% di presenze in parlamento, perché discuteva dell’aliquota del prezzo del caffè, del cacao, legato agli interessi delle varie associazioni. Questo è clientelismo o è politica? Che partiti volete fare? La domanda, prima a Lupi poi a Bersani.
MAURIZIO LUPI:
Il caffè in parlamento è una cosa importante, i cittadini ci stimano per questo. No, voglio partire da una risposta che oggi Pier Luigi Bersani ha dato in conferenza stampa e che mi ha colpito. Perché partiamo da lì, dalla responsabilità che ognuno di noi ha nella scelta che ha fatto, per me è la scelta di militare nel Popolo delle Libertà, di accettare questa sfida affascinante di costruire un grande partito del 35, 40%, che rappresenti i valori, non solo dei moderati ma dei cattolici, del laici, che si incontrano e si riconoscono in un’idea di politica al servizio della persona, della libertà, della responsabilità. Quando hanno chiesto a Pier Luigi Bersani perché veniva al Meeting di Rimini, visto che oggi lui è candidato alla segreteria del nuovo partito democratico – facciamogli gli auguri, in bocca al lupo – lui ha risposto: per me potrebbe essere una giornata persa, nel senso che qui non vengo a fare campagna elettorale. Ma la politica è qualcosa di più grande di questo. Può essere che uno decida di perdere un giorno per la campagna elettorale e di dedicare la giornata a incontrarsi, a pensare, al bene comune per tutto il paese. Credo che questa sia la questione che unisce me e i miei tanti amici, dal giorno in cui abbiamo deciso di impegnarci in politica, di fare anche una scelta di campo, ma partendo da quello che uno vive, dall’esperienza che fa, per mettersi al servizio del bene pubblico. Quella parola tanto dimenticata – ogni tanto tu dici che fai politica e chissà cosa pensano -, gratuità, carità. La politica è la più alta, esigente forma di carità che l’uomo possa compiere, diceva Paolo VI. Per noi è così? Credo sia questa la grande domanda. Per entrare invece nel tema (quale partito, che confronto vogliamo), credo che abbiamo davanti una sfida veramente affascinante: in particolare, l’abbiamo davanti noi che abbiamo deciso di fondare questo nuovo, grande partito, che è il partito delle libertà. Una sfida affascinante, innanzitutto sul motivo che ci ha messi insieme e che ci fa prendere tanto consenso. Ieri sera ci siamo confrontati tra amici. Dicevamo: se non percepissimo che il grande consenso che il PdL riceve è innanzitutto per la proposta ideale e valoriale che fa, per il suo progetto, la sfida che traduce nella politica ideali e valori, che lancia il paese, avremmo sbagliato direzione. Non è che il partito possa essere senza identità, senza una strada chiara e precisa da percorrere. Noi l’abbiamo, questa strada: è il motivo per cui ci siamo messi insieme. Molti di noi vengono dalla tradizione cattolica, fanno esperienza cattolica, alcuni di noi hanno militato nella democrazia cristiana, ma la sfida più affascinante è stata quella che in politica su alcune grandi questioni ci si ritrovi insieme, laici e cattolici, credenti e non credenti: insieme. Perché l’idea di libertà, l’idea di responsabilità, l’idea che la famiglia non sia che il centro su cui possiamo costruire, l’idea di bene comune, l’idea di sussidiarietà, è una cosa che ci accomuna. Ecco, io credo che questo sia il punto di partenza che può far guardare – lo dico anche a Pier Luigi Bersani, anche all’altro partito in maniera diversa. Noi speriamo molto che questa sia una legislatura in cui, tra maggioranza e opposizione – poi ha ragione lui, di chi è la colpa? Noi diciamo che la colpa è ovviamente loro, e loro dicono che la colpa è ovviamente nostra – ci si possa confrontare seriamente e anche duramente, perché è giusto che, partendo dal bene comune, partendo da una medesima concezione, partendo dagli ideali e dai valori della nostra storia, le proposte siano diverse. Ma non per questo la proposta che l’altro fa è il male, il male assoluto, il demonio, il peggio. Ho detto oggi sul giornale che io ho votato con convinzione la legge sull’immigrazione, il diritto di un paese a regolamentare l’accesso sul proprio territorio. Mi sono sentito offeso quando qualcuno, in parlamento, mi ha detto che, poiché ho votato quella legge, sono un razzista. E’ una cosa inconcepibile, che non permette di entrare nel merito del problema, come se garantire la dignità e la sicurezza di una persona non fosse esattamente garantire e difendere la dignità della persona nella sua integralità. Come se difendere la sicurezza in questo paese, darsi delle leggi, fosse in contrapposizione e in contraddizione al desiderio di accoglienza, di rispetto della dignità umana, di integrazione. Noi abbiamo una cultura per cui, nelle fila del PdL, questi due temi possono essere uniti, non essere in contraddizione, dove il riformismo può essere attuato veramente, dove il consenso non è parlare alla pancia del popolo ma, innanzitutto, rimettersi in discussione per creare la coscienza di dare un piccolo, grande contributo alla costruzione del bene comune. Se questo accadrà in questa legislatura, credo che per il paese sarà un bene. Noi, ognuno di noi, non può, nel ruolo che ha e nella responsabilità del partito, demordere per un minuto da questo. E’ l’invito che colgo oggi e l’impegno che prendo. Grazie.
PIER LUIGI BERSANI:
Io rispondo così alla domanda di Vittadini: intanto, il partito è un mezzo, non un fine, il fine è la società, l’Italia, sono gli ideali. E siccome passo per un partitista, mi fa sorridere perché è l’opposto. Mi dicono: ma tu vuoi rifare la DC, vuoi rifare il PCI? Io rispondo con una battuta: voglio fare l’AVIS, intendendo molto semplicemente che per me un partito è un’associazione di volontari della politica, che hanno uno scopo fuori. Quelli dell’AVIS si cavano il sangue loro per darlo fuori, anzi, si danno regole limitative dei loro diritti di cittadini perché, se sei uno normale, fai l’esame del sangue quando vuoi e se ti associ all’AVIS, devi fartelo quando te lo dicono. Per me il partito non è un dopolavoro, non è un posto dove faccio la democrazia perfetta, no, è un’associazione che ha finalità rivolte all’esterno. È per questo una macchina da guerra, chiusa, ecc.? No, lo voglio apertissimo. È vero che i partiti, parlo mica solo del mio, devono essere apertissimi, devono coinvolgere gli elettori, i cittadini. Però questi elettori, cittadini, chiedono ai partiti di esserci, di farsi vedere. Per esempio, questa cosa: ma tu sei iscritto, sei elettore? Non c’è una differenza antropologica. Come ho detto più volte, quando vai sul mercato e dai via il volantino, spesso e volentieri ti chiedono: ma perché vi fate vedere solo in campagna elettorale?. Quello che te lo chiede non è un iscritto, è un tuo elettore che però vuole vederti. Allora, credo che i partiti debbano riprendere un forte legame con la gente, usando tutte le tecnologie, le innovazioni, che però non possono che fare da back office a un rapporto fisico. Perché la gente va guardata all’altezza degli occhi, sennò uno alla fine non capisce. La seconda cosa che voglio dire sulla domanda di Vittadini è che io sono assolutamente contrario, proprio per indole, a un’idea giacobina, contrario a partiti evanescenti, contrario all’idea giacobina dei partiti, a un’idea giacobina della politica. Mi piace troppo la gente per pensarla così: credo alla politica e ai partiti, credo dovremmo pensare tutti alla crescita, al progresso, alle conquiste di uguaglianza attraverso sforzi collettivi di emancipazione. Anche qui, vedendo gli esempi di oggi, cosa vado a raccontare del mio partito a un giovane fra dieci anni? Che il partito del PD è nato dai DS e dalla Margherita? Di che cosa stai parlando ? No, ma neanche… E siccome vorrei fare il partito del secolo, devo pormela, questa domanda. Ma neanche gli proporrei, francamente, il compromesso storico, Moro, tutte cose che commuovono ma sono fuori da questo orizzonte. Io gli darei la libertà più larga, andando a prendere le radici molto più indietro. Perché le radici sono l’orizzonte, il famoso orizzonte che vuoi, sono le radici a cui ti richiami. Questo è fondamentalissimo. E allora io preferisco indagarle laddove c’erano moti di emancipazione, di auto organizzazione. L’ho detto altre volte, insomma, adesso abbiamo il 2011. Quando ci arriviamo, dobbiamo rifletterci un po’ su questa nostra storia, ma la radice fondamentale che diede luogo ai grandi partiti popolari nacque fuori dai rami alti del sistema. I cattolici avevano il Non expedit, non votavano, i socialisti non erano in parlamento, giravano per le stalle ad organizzare i braccianti. La primissima vicenda sociale e politica del nostro paese è nata così. Vorrei che nel secolo nuovo, in una condizione del tutto nuova, non si disperdesse questa grandissima cosa che non è ribellismo, non è ostilità, è emancipazione. È l’idea che se ti metti dalla parte dei più deboli, di chi lavora, di chi produce, puoi fare una società migliore per tutti. Questa è, era e deve essere, anche nel futuro, l’idea. E poi ci mettiamo tutto il nuovo, perché nessuno vive nei secoli, anche io vivo nella modernità. Però, senza questo sguardo, non posso. E mi auguro che la politica riprenda la sua dignità. Parliamoci chiaro, anche noi a novembre parleremo del 1989, del muro. Facciamo stavolta una riflessione sul nostro muro, perché noi avevamo i muri in casa, a differenza di altri paesi europei. Il muro è caduto, ha creato un vuoto d’aria. Quel che è venuto fuori, da diverse parti, ha comunque avuto un’impronta di antipolitica, di delegittimazione della politica. E invece, perché l’economia e la società si diano una mano, ci vuole assolutamente la politica, una politica credibile. Ecco, partiamo quando è novembre, facciamola questa riflessione. Grazie.
GIORGIO VITTADINI:
Due conclusioni a questo incontro. Innanzitutto, secondo il titolo del Meeting, “La conoscenza è un avvenimento”, io penso che tutti abbiamo apprezzato l’avvenimento dell’intervento del governatore, un intervento che, come ho detto, non è da consumare contingentemente. Stando di fronte all’incontro con una persona come lui e con quello che ha detto, cominciamo a conoscere, conosciamo di più. E per noi, l’inizio della politica, l’inizio dell’affronto dei temi più alti, tra le più alte forme di gratuità, come diceva prima Lupi citando Paolo VI, non è la passione partitica, non è l’impeto sentimentale. È la conoscenza: conoscendo di più possiamo essere al servizio del bene comune. Noi vogliamo rispondere a quello che ci ha detto il governatore, dimostrandoci pronti a questo servizio al bene comune, col nostro coraggio, con la nostra intelligenza, con la nostra passione. Vogliamo imparare quello che ci è detto e metterci a disposizione di questo tema per il bene del paese. Secondo aspetto: questo può avvenire nel dialogo tra posizioni diverse, come abbiamo sentito nella seconda parte, posizioni che si confrontano ma che non si dividono, che apprezzano la diversità, che mostrano che c’è un modo per confrontarsi che non è la dialettica ma la ricerca appassionata del bene comune che arriva a un’immagine di partito come quella che ho sentito da Lupi e da Bersani, diverse da quelle, anche, del recente passato. Partiti come strumenti per una società civile, per una passione, per una ricerca della verità, strumenti indispensabili ma non esclusivi. Quindi, usciamo da questo dibattito avendo più voglia di fare politica, ma avendo più voglia di vivere, avendo più voglia di costruire, avendo più voglia di servire tutto quello che abbiamo a disposizione, personalmente e socialmente. Grazie e arrivederci.
(Trascrizione non rivista dai relatori)