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UNA RAGIONE PER VIVERE E PER MORIRE: MARTIRI DI OGGI
Una ragione per vivere e per morire: martiri oggi
Partecipano: Douglas Al-Bazi, Parroco di Mar Eillia ad Erbil, Iraq; Ibrahim Alsabagh, Parroco della Comunità Latina di Aleppo, Siria. Introduce Stefano Alberto, Docente di Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. In occasione dell’incontro video-intervista con i profughi iracheni di Qaraqosh Waleed, Alis e Myriam nel campo Ainkawadi di Erbil.
STEFANO ALBERTO:
Buona sera, benvenuti a questo incontro Una ragione per vivere e per morire: martiri di oggi. Voglio introdurre questo incontro innanzitutto con quella frase che sintetizza la condizione in cui tanti nostri fratelli si trovano a vivere, pronunciata a Santa Marta il 4 marzo del 2014 da Papa Francesco: “Ci sono più martiri oggi che nei primi tempi della chiesa: tanti fratelli e sorelle nostre che offrono la loro testimonianza di Gesù e sono perseguitati”. Ed ha aggiunto: “Questa è la strada di Gesù, ma è una strada gioiosa, perché mai il Signore ci mette alla prova più di quello che noi possiamo sopportare”. In questi ultimi anni, il Meeting si è occupato della realtà del martirio dei cristiani in varie parti del mondo: in Asia, Pakistan, India, Cina, Africa, Medio Oriente. Oggi volgiamo la nostra attenzione in modo particolare proprio alla situazione dei nostri fratelli in quelle terre, dove per la prima volta il Mistero, chiamando Abramo, generando l’io di Abramo, si è sentito – è una suggestiva espressione di Giussani – “dare del tu dall’uomo”. Come ci ha ricordato mirabilmente nella mostra su Abramo il professor Buccellati, alle divinità precedenti, non avendo personalità, essendo espressioni di meccanismi e non di una vita nel tempo e nello spazio, non poteva essere dato del tu. In questa stessa terra, sembra che quell’inizio sia destinato a scomparire sotto la furia cieca di una violenza e di un fanatismo la cui gravità una persona autorevolissima e molto assennata come il Presidente Mattarella non ha esitato a definire come “fanatiche distorsioni della fede in Dio, che stanno cercando di introdurre nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, in Africa, i germi di una terza guerra mondiale”. Ma non ci interessa qui l’analisi storica, politica. Ci interessa capire che cosa dice a ciascuno di noi, che cosa dice alla nostra vita di cristiani in Occidente questa prova terribile in Iraq e in Siria. Ricorderete senz’altro il mirabile intervento, l’anno scorso, esattamente un anno fa, del Custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa, che non parlò di scontro di civiltà, non parlò di scontro di religioni e contestualizzò la prova tremenda dei cristiani nella crisi prodotta coscientemente di un modello di convivenza che con alterne vicende andava avanti da secoli.
Abbiamo qui questa sera dei testimoni in contesti molto diversi e con vicende personali diverse. Chiediamo di raccontarci, nei limiti di tempo concessi, la loro esperienza, le prove attraverso cui stanno passando, sono passati. Ma soprattutto di aiutarci a rispondere a questa domanda, che non può non interessare ciascuno di noi che pure non viviamo in tempi facili: perché nessuno abiura? Perché chi deve lasciare la propria terra, come i cristiani in Iraq, la lascia pur di non abbandonare la fede? E perché c’è chi prova a restare, come la parrocchia di padre Ibrahim, di padre Abramo, che è in prima linea?
Vorrei chiedere innanzitutto di raccontare, se possibile, anche la propria vicenda personale, a padre Douglas Al-Bazi, che attualmente è parroco di Mar Eillia di Erbil, in Iraq. E’ arrivato questa mattina direttamente da Detroit, lo ringraziamo del grande sacrificio che ha fatto per noi. Padre Douglas è nato nel ’72, ha conseguito una laurea in Filosofia e Teologia, normalmente vive a New Baghdad, ma è sempre in giro per il mondo. Ricordo che solo che nel 2006 padre Douglas ha subito il rapimento da parte di un gruppo di fanatici e ha subito torture che gli hanno lasciato conseguenze permanenti. Adesso accompagna la vita molto dura e difficile dei nostri fratelli che si sono dovuti forzatamente spostare ad Erbil. Prego.
DOUGLAS AL-BAZI:
Grazie padre, buona sera signore e signori. La pace sia con voi, l’ho appena detto in aramaico, la nostra lingua. Usiamo l’aramaico nel mio Paese e in Georgia. La mia lingua viene ancora prima di Gesù. Vengo da un Paese che ha migliaia di anni di civiltà. Abbiamo una civiltà ma non abbiamo più cultura. E appartengo alla chiesa, siamo cristiani dal primo secolo. Il nome della nostra chiesa è “la chiesa dei martiri”, la chiesa del sangue. Prima del 2003, c’erano più di 2 milioni di cristiani in Iraq. Adesso ce ne sono poco più di 200 mila. Immaginate cosa possa essere successo a tutti noi. Vi vorrei raccontare alcune cose. Quando l’Islam vive in mezzo a voi, la situazione può anche essere accettabile. Però è impossibile, quando uno vive tra i musulmani. Non sono qui per spingervi all’odio nei confronti dell’Islam e non sono qui per rappresentare la mia gente: io sono il popolo dell’Iraq, io sono il popolo dei cristiani. Quello che è successo ai cristiani in Iraq, lo scorso anno con l’Isis, lo conoscete tutti. Per favore, se c’è ancora qualcuno che pensa che l’Isis non rappresenta l’Islam, beh, ha torto! L’Isis rappresenta l’Islam al cento per cento. Se qualcuno dice: ma no, abbiamo amici musulmani che sono simpatici. Sì, sono simpatici qui, ma là sono assassini. L’anno scorso hanno preso possesso di una intera zona del Paese e hanno costretto più di 120 mila persone a fuggire. Immaginate, dalla sera alla mattina, abbiamo ricevuto migliaia e migliaia di profughi. Sono arrivati con niente. E adesso la mia gente guarda a queste persone e dice: ma che cosa è successo? Negli ultimi cento anni la mia gente è stata attaccata otto volte. E apprezzo quando Papa Francesco, riferendosi a quello che è successo al mio popolo, parla di genocidio, addirittura. Quello che succede adesso alla mia gente è un altro genocidio. Vi imploro, non chiamate quello che succede nel mio Paese un conflitto: è un genocidio. E il genocidio è in Siria. Io sono nato tra i musulmani, ho più amici musulmani che cristiani. Però le persone cambiano. E quando attaccano i cristiani in Iraq, lo fanno perché siamo l’ultimo gruppo di persone istruite. Se ce ne andiamo noi, nessuno più potrà distinguere tra la luce e l’oscurità nel mio Paese. Noi siamo il sale del nostro Paese. Senza quel sale, il mio Paese è senza significato. Comincio a parlare anche della mia storia, che voglio condividere con voi. Ma per favore, non guardatemi come se fossi un eroe. Perché chi sono io per potermi lamentare di quello che mi è successo? Chi sono io per chiedere a Dio: perché stai facendo tutto questo? Come sacerdote in Iraq e nel Medio Oriente, si vive proprio una missione a senso unico. Non sappiamo mai, quando uno esce dalla chiesa, se tornerà dentro vivo. Una volta ero a Baghdad, hanno fatto esplodere la mia chiesa davanti a me. Sono sopravvissuto due volte agli esplosivi. Mi hanno sparato con una k47, che è una sorta di kalashnikov, sono stato colpito nella gamba. E sono stato sequestrato per nove giorni. È stato dopo il servizio della domenica: sono uscito, hanno bloccato la strada e mi hanno portato non so dove. E quando siamo arrivati, uno dei rapitori mi ha colpito con il ginocchio sul naso e mi ha rotto il setto nasale. Mi hanno incatenato e mi hanno tenuto così per nove giorni, mi hanno anche bendato gli occhi. I primi quattro giorni li ho passati senz’acqua. Ho visto tutta la mia famiglia passarmi davanti nella memoria, mia mamma, mia sorella. Mi dicevano: padre, vuoi dell’acqua? Quando l’anno scorso ho cominciato a raccontare la mia storia, è stata la prima volta che la mia famiglia è venuta a conoscenza di quello che mi era successo. Non sapevano ancora i dettagli. Quando sono tornato a casa, vicino al letto ho trovato delle cassette piene d’acqua: non vado mai a letto senza avere la sicurezza di avere una bottiglia d’acqua vicino. Quindi, offritemi dell’acqua stasera, ve lo chiedo per favore. Dopo sei giorni, iniziarono le trattative per la mia possibile liberazione. Ma il prete aveva detto: non abbiamo più bisogno di don Douglas. Perché tutti ormai credevano che mi avrebbero ammazzato. E quando parlavo al cellullare con il prete che faceva da mediatore, c’era il vivavoce e gli ho detto in aramaico: “aiela”, che vuole dire “ci siamo, non tornerò mai più”. E lui disse ai rapitori: “Tenetevi padre Douglas, lo aggiungeremo al nostro numero di martiri”. Quel giorno si adirarono molto e usarono il martello. Mi spostarono dal posto dov’ero, quando mi parlavano alzavano il volume della televisione in modo che, se avessi tentato di urlare, i vicini non avrebbero potuto sentire la mia voce. E dato che volevano mostrare ai vicini quanto fossero credenti, ascoltavano programmi religiosi, tutto il giorno a sentire la lettura del Corano in tv. Uno di loro mi colpì in bocca sui denti. Mi ritrovai un dente nella bocca tutta sanguinante. Mi disse: “Non preoccuparti, hai tanti denti e abbiamo tutta la sera davanti”. Dopo mi hanno picchiato con il martello sulla spalla, mi hanno rotto un disco della colonna vertebrale e hanno anche cercato di prendermi i soldi. Certamente non dimenticherò mai quei nove giorni. E’ la stessa cosa che sta succedendo alla nostra gente, ai cristiani in Medio Oriente. Quando mi hanno incatenato, mi hanno messo un lucchetto grosso: c’erano dieci anelli che avanzavano e io li usavo per dire il rosario. Non ho mai detto il rosario in maniera così profonda come in quel momento. Ho usato i dieci anelli per l’Ave Maria e poi il lucchetto per il Padre Nostro. Durante il giorno ero circondato dai sequestratori: mi chiedevano la mia opinione come padre spirituale. Uno di loro mi ha chiesto: “Cosa dovrei fare con mia moglie?”. Io ero lì, incatenato e incappucciato. Gli ho risposto: “Beh, cerca di essere carino con lei, dille che è il tuo tesoro, il tuo amore”. Erano le stesse persone che poi, la sera, mi picchiavano. Questi sono i cristiani nel Medio Oriente, facciamo le stesse cose che ha fatto Gesù, li guariamo e diamo loro degli insegnamenti. Ma cosa otteniamo? Questo è quello che ci è successo. Non sono qui, fratelli e sorelle, per implorare il vostro aiuto. Guardatemi in faccia, vi sembro spaventato? La stessa cosa si può dire della mia gente. Sono qui per dirvi: quello che è successo alla mia gente è un genocidio. La mia chiesa era ancora nel periodo del Venerdì Santo e ci ha aiutato ad arrivare alla Domenica della resurrezione. Gesù ci ha detto: “Porta la tua croce”. E’ quello che stiamo facendo. Ma l’importante non è portare la croce, è seguirla. Seguire vuol dire accettare, seguire vuol dire sfidare, vuol dire impegnarsi fino alla fine. Credo che in Medio oriente ci distruggeranno ma che l’ultima parola sarà la nostra: Gesù ci ha salvati, non rinunceremo mai. Cari fratelli e sorelle, io sono orgoglioso di essere iracheno, amo il mio Paese ma purtroppo il mio Paese non è orgoglioso del fatto che io sia parte di esso. Quindi sono qui a dirvi una serie di cose. Siate la nostra voce, parlate, svegliatevi! Il cancro ormai è alla vostra porta! Vi distruggeranno! I cristiani in Medio Oriente, in Iraq, sono l’unico gruppo che ha visto il volto del male: l’Islam. Pertanto, pregate per la mia gente, aiutatela, salvatela. Qual è il punto? Lasciare libere le pecore in mezzo ai lupi. E non guardatemi come uno che ormai ha rinunciato: sono un sacerdote e credo. Io penso che un giorno mi ammazzeranno, però mi preoccupo dei nostri figli, penso alla comunità come a una madre. Anche Abramo ha lasciato la sua terra, anche Gesù: il paradiso, il cielo, non era il posto in cui Lui viveva? L’ultima frase che vi lascio è: apparteniamo a Dio, non alla terra, Gesù è la nostra terra, la terra promessa. Lasciate che la mia gente raggiunga la sua terra promessa, per favore. Potete fare questo? Ebbene, agite, grazie.
STEFANO ALBERTO:
Questo intervento di padre Douglas, duro, è senza distinzioni. Noi sappiamo distinguere. Lo dico pensando ai miei grandi amici musulmani, ai molti uomini di buona volontà. Ma è proprio questo che io vorrei chiedere – con tutta la partecipazione al dramma di chi non solo porta la croce ma deve seguirla giorno dopo giorno – a padre Abramo, nella sua prima linea della zona di guerra. È uno dei protagonisti di quell’avventura: mi pare siano tredici frati della Custodia, in Siria. L’anno scorso ce ne aveva parlato padre Pizzaballa, ed ecco il parroco della parrocchia di rito latino di Aleppo. È partito due giorni fa, all’alba, sotto un bombardamento: in otto ore ha raggiunto Beirut. Mi ha detto: “La mia gente mi ha lasciato andare via volentieri”, perché, come osservava già padre Douglas, più che l’aiuto materiale – se occorre siamo pronti – è la certezza di portare noi la vostra vita. Padre Ibrahim Alsabagh, 44 anni, sacerdote da dieci anni, dal 2014 è parroco di san Francesco d’Assisi ad Aleppo. Dopo vari incarichi, l’ultima sua iniziativa – parliamo di una parrocchia a poche decine di metri dalla linea del fuoco – è stata quella di un oratorio estivo con un centinaio di bambini di tante famiglie, non solo cristiane. Prego, padre.
IBRAHIM ALSABAGH:
Buonasera buona gente! Sono contento, onorato di essere questa sera con voi. Ho voluto veramente partecipare alle giornate bellissime di questo Meeting. Mi è stato concesso, per i bisogni della mia gente, delle mie pecorelle, soltanto per tre giorni, ma mi fa veramente un grande piacere essere con voi per condividere la gioia della fede. Se voglio un po’ introdurre la situazione dei cristiani, ma di tutto il popolo in Siria, posso dire soltanto una parola, che siamo nel caos, siamo nel disordine totale. La città di Aleppo è divisa in decine di parti, città e periferia. Lì regna il caos, perché ci sono tanti gruppi di miliziani jihadisti, ciascuno dei quali controlla una parte. Noi viviamo nella parte della città sotto il Governo e la protezione dell’esercito regolare. Viviamo nel caos la mancanza di tutto: innanzitutto della sicurezza, perché ci sono i bombardamenti dei gruppi jihadisti che non risparmiano la gente che vive nelle case, le moschee e le chiese, i bambini e gli anziani. Siamo sotto un bombardamento continuo che arriva ovunque e lentamente diverse parti della città sono state completamente distrutte, come è successo nella zona vicina a noi, dove adesso ci sono soltanto ruderi. I bombardamenti lentamente si avvicinano al nostro convento, come diceva don Pino, sono arrivati alla strada parallela alla nostra, fino a lambire la nostra bellissima chiesa di san Francesco. Tantissima gente aveva già lasciato le case, non ce la faceva più, scappava in altre zone. Siamo proprio sulla linea di fuoco, non sappiamo quando potranno colpire la chiesa. Hanno colpito tante chiese, noi siamo sulla linea del fuoco e siamo sotto tiro. Questi gruppi di terroristi, purtroppo, hanno colpito ospedali, scuole, tante case, con dei missili di grande impatto distruttivo, non solo con bombole di gas. L’emorragia continua e semina morte: tante persone mutilate, tanta emigrazione, tanto terrore, tanta amarezza nel cuore. Dopo la mancanza della sicurezza, c’è anche il caro vita: i prezzi degli alimentari sono arrivati alle stelle, è molto difficile trovare carne, latte, formaggio, burro. La gente non ce la fa, anche perché quelli ricchi sono ormai partiti nei primi due anni del conflitto, sono rimasti con noi i più poveri. C’è inoltre anche la mancanza di medicine e l’impoverimento di tutta la struttura sanitaria: tanti medici infatti hanno lasciato il Paese e tante cliniche private e tanti ospedali si trovano senza medicine. Manca infine l’acqua, una cosa micidiale che ci ha colpito proprio in questi giorni e che da un mese e mezzo si è intensificata. Alcuni gruppi di jihadisti controllano le pompe da dove si può fare arrivare l’acqua alla città e quindi tirano l’acqua verso il fiume per impedire alla gente di bere. La gente non ha nelle case né elettricità né acqua. In un mese e mezzo l’acqua è arrivata solo per otto giorni, mentre abbiamo una sete terribile. Diversi bambini sono finiti all’ospedale perché hanno bevuto acqua non potabile e abbiamo avuto anche casi di morte. Quando mancano questi elementi necessari, come convincere un cristiano a rimanere? Perché deve rimanere? È meglio scappare, buttarsi in mare. Infatti ci siamo sorpresi quando abbiamo scoperto che tanti nostri giovani cristiani, educatissimi, che hanno studiato e preso lauree in svariate scienze, hanno accettato di buttarsi in mare, per arrivare in qualche Paese sicuro, per poter continuare la vita in pace. Tanta gente è obbligata, non ce la fa a continuare a vivere lì e quindi scopriamo di più che ci sono diversi casi di cristiani che lasciano il Paese e forse lo lasceranno anche domani. Sembra di essere nel libro dell’Apocalisse, che io medito quasi ogni giorno, perché per noi cristiani del Medio Oriente, in particolare di Aleppo, siamo quasi nell’ambiente dell’Apocalisse: cavalli che arrivano, non si sa quando, il cavallo della morte, della sete, delle malattie, e poi, in modo imprevedibile, improvviso, girano e puntano di nuovo e fanno anche un altro giro. Ci sono sorprese e la situazione è di una instabilità totale, continua. Come viviamo lì? Noi frati del convento, a distanza di 50, 60 metri dai miliziani, cosa dobbiamo fare? La gente povera attorno a noi guarda e spera, aspetta da noi tante cose. Le risposte non sono solo, come uno può immaginare, passive, anche in senso positivo: bisogna avere pazienza, portare la croce ogni giorno. Ma bisogna reagire immediatamente, quindi la nostra risposta, che è sicuramente la risposta della fede, della Resurrezione, ha questo senso positivo: bisogna essere sempre attenti allo spirito che soffia, ai bisogni della gente per la strada, non solo quella cristiana ma anche musulmana. Quando bussa alla porta una signora per chiedere acqua, non importa se sia velata o no, importa che sia assetata. Lo stesso anche per i bambini affamati, lo stesso per le persone che scappano da qualche bomba e hanno bisogno di sicurezza. L’uomo lì è privato della sua dignità umana e noi soffriamo molto, io e i miei confratelli, non soltanto per la nostra sofferenza personale, che è preziosa e importante, ma perché vediamo la dignità umana lesa, rubata alla gente. Abbiamo visto tantissime persone che puzzano, dopo 14 giorni senza acqua. Abbiamo visto persone di 85 anni portare i secchi per avere un po’ di acqua da qualche rubinetto vicino al convento. Abbiamo visto bambini di 10 anni che non fanno altro che andare e tornare verso i rubinetti del convento. Abbiamo visto e sentito le lamentale di tanti uomini che hanno avuto problemi alle ginocchia perché hanno portato acqua al quarto, quinto, sesto piano. Quello che fa veramente soffrire è la dignità tolta all’uomo, con un’assurdità terribile, la sofferenza di Gesù crocifisso oggi, nell’umanità, nel cristiano ma anche nel musulmano. La nostra risposta è creativa: cerchiamo di essere sempre svegli alle ispirazioni dello Spirito Santo, ai bisogni della gente. Ascoltando profondamente la voce del Signore e il grido degli innocenti, riusciamo a capire come reagire. Chiediamo, viviamo e sentiamo in noi questa grande generosità, legata alla nostra stessa natura cristiana di consacrati e sacerdoti, pronti a dare anche la vita. Siamo pieni di spirito di sacrificio per accogliere, aprire la porta alla gente, giorno e notte, quando c’è bisogno. Occorre veramente, nel bisogno della grande croce, imparare da Gesù che, durante la sua crocifissione durata tre ore, ha saputo pensare agli altri, al futuro di Maria, di Giovanni, alla salvezza di quelli che gli erano vicini e quindi al buon ladrone. Che ha saputo pensare, nonostante tutta la sofferenza, a come salvare non solo tutto il mondo con l’opera redentrice ma proprio il vicino che soffriva con lui. Cristo pensava a una cosa bellissima, che poi abbiamo imparato a fare sempre noi cristiani, il perdono: perdonare, elargire il perdono anche ai crocifissori che non lo chiedevano. Per questo dico che la nostra risposta è molto creativa, viene dalla fede, dall’esempio di Gesù. Cerchiamo davvero di essere creativi: per quanto riguarda la mancanza dell’acqua, questo cavallo giallo della sete, l’ultimo cavallo con cui ora facciamo la lotta quotidiana, abbiamo cominciato a prendere in affitto autisti e piccoli camioncini con cisterne d’acqua e pompe per portare acqua nelle case. La lista è pienissima: l’ultima volta c’erano 500 famiglie che aspettavano l’acqua e noi riuscivamo a farne solo 30 o 40 al giorno. Certo non abbiamo potuto fare da ministero dell’acqua, ma siamo riusciti a colmare la sete di tante famiglie. Abbiamo aperto anche i rubinetti dal nostro pozzo del convento e, con volontari assidui dal mattino alla sera tardi, distribuiamo ogni giorno tantissimi litri a tutte le persone. Ringraziamo il Signore per l’acqua potabile del nostro pozzo. La gente viene anche da lontano, dal mattino alla sera. Abbiamo notato poi la presenza di moltissimi anziani lasciati soli, che non ce la facevano ad attingere e a portare acqua a casa loro. Quindi, con un gruppo di volontari dai 12 ai 18 anni, attrezzati con i contenitori, facciamo arrivare agli anziani l’acqua, almeno ogni due giorni. Ci siamo trasformati: qualche volta guardo a me stesso e rido perché, innamorato del libro e amante dello studio e di tanti discorsi teologici profondi, mi trovo lì ad Aleppo a fare il vigile del fuoco, l’infermiere, la badante e alla fine, come ultimo ruolo, il sacerdote. Ma è molto bello, perché è questa l’esperienza vera del consacrato o del sacerdote, ma anche del laico che si sente chiamato a servire e a edificare la chiesa. Una volta mi ha fermato una persona che portava un po’ di secchi e c’era anche un po’ di olio e di sporcizia. Io volevo prendere questi secchi, ma la persona non si voleva far aiutare: “Ma padre, ti puoi sporcare l’abito!”. Io ho risposto: “Quest’abito è stato fatto per essere sporcato nel servizio degli altri”. È questa la nostra vocazione cristiana, di sacerdoti. Siamo in una grande crisi, in una grande difficoltà, la paura regna nei cuori, è grande la sofferenza, non solo dei cristiani, ma anche di alcuni musulmani che si vergognano di quello che succede attorno e cercano di evitare qualsiasi discorso sul fondamentalismo. Siamo in una grande incertezza, non sappiamo quando finirà. Ma non importa quando e come finisce, l’importante per noi cristiani è saper testimoniare Gesù Cristo, non saper salvare noi stessi. Bisogna interessarsi dell’acqua e del cibo, degli alimenti, della sanità, di aiutare tutti. Bisogna pensare a una soluzione anche politica, bisogna operare. Ma il primo compito nostro come cristiani è testimoniare la vita cristiana, come possiamo portare la croce amando, perdonando, pensando anche alla salvezza degli altri. Siamo a distanza di 60 metri da questi terribili terroristi che seminano terrore nei cuori, la morte, mutilano la gente, distruggono tutto. Però noi ogni giorno, nella nostra comunità, offriamo la nostra sofferenza per la loro salvezza, preghiamo per loro, li perdoniamo. Una signora che viveva vicino alla nostra chiesa, dove la maggior parte delle famiglie erano cristiane, si lamentava perché le facce erano cambiate. Tanti musulmani infatti sono arrivati attorno a noi, hanno preso in affitto le case, anche dei cristiani, e tanti le hanno comprate dai cristiani. Questa signora sentiva che qualcosa di molto grande era cambiato, il respiro nelle strade, lo sguardo. E sentiva un po’ questo disagio della presenza straniera, di non cristiani, attorno a noi. Io ho risposto a questa signora cristiana molto amata: “Non è forse il Signore che permette di cambiare la gente, l’ambiente attorno a noi, perché il profumo di Cristo arrivi anche a loro? Non potrebbe questa essere una bellissima missione che il Signore risorto chiede a noi?”. Quindi, non c’è un disagio, dobbiamo solo pensare a quello che chiede da noi il Maestro risorto e a come possiamo noi testimoniare la fede anche a quelle persone che arrivano e si muovono attorno a noi. Abbiamo tanto da trasmettere. Io ho imparato anche dalla storia della Chiesa che un cristiano non ha paura di niente, del confronto, della diversità, di sottomettere la Bibbia ad altri studi umanistici o di geografia o storia, non ha paura di aprire le frontiere. Non ha paura di vivere con nessuno, non teme il dialogo. Il cristiano ha un tesoro molto forte nel cuore, tanto che può dialogare con tutti liberamente, senza perdere la sua natura, anzi, la sua natura è fatta di dialogo, di scambio di ricchezze. È quello che noi cristiani, lì, nel mezzo della città semidistrutta, cerchiamo di fare con tutti, anche musulmani, e tante volte riusciamo a trasmettere valori, senza neanche dire le parole. È molto bello che, in questi ultimi giorni, prima del mio arrivo qua, sia arrivato un musulmano che ha lavorato sempre con noi e mi abbia sussurrato nelle orecchie: “Padre, a guardare come la gente viene ad attingere acqua, con grande sorriso, con grande pace nel cuore, senza litigi, senza alzare la voce, io che ho girato tutta Aleppo e vedo cosa si fanno, che si ammazzano per attingere ai pozzi, mi meraviglio. Voi siete diversi, pieni di pace, di gioia. Riuscite a condividere con gli altri, anche musulmani, tutto con tanta pace. Padre, voi siete diversi”. Ecco, essere lì da cristiani, in mezzo a questa pentola bollente, ha un grande senso, perché un po’ di sale è importante per dare il sapore. Molta della mia gente sogna di scappare fuori dal Paese: è normale, sono sotto stress, hanno paura e incertezza per il futuro dei figli, sperimentano tutto il male che può essere immaginato. Ma diversi di noi sono convinti che se il Signore ha piantato in un giorno della storia, all’inizio della Chiesa, l’albero della cristianità nella cultura della Siria, nel Medio Oriente, noi cristiani dell’oggi semplicemente non abbiamo il diritto di pensare di portare fuori quest’albero di ulivo e impiantarlo in un’altra zona. Perché la volontà del Signore è essere fruttuosi lì. Lì è la nostra radice della fede, la nostra radice è la terra dove è passato san Paolo: Antiochia dall’inizio è la terra dei nostri martiri e quindi ci sono tantissime famiglie convinte che esserci oggi e rimanervi sia una grande missione: la volontà del Signore per continuare a testimoniare il cristianesimo. Immaginate se i tutti cristiani lasciassero il Medio Oriente e venissero in Europa: quanto tempo ci vorrebbe per il Signore stesso e il Suo Corpo mistico, la Chiesa, per impiantare di nuovo il cristianesimo in quella terra? La nostra presenza è una missione e rimaniamo lì. Non ci arrendiamo, amiamo di più, perdoniamo e testimoniamo di più. Con la fede, con la speranza e con la carità, continuiamo questo nostro cammino che è una via crucis. Sappiamo che la vita cristiana, il cammino, non è una passeggiata neanche per voi qua, per un bambino che cerca di fare un cammino serio con il Signore, per uno che vive in Italia, in Germania, negli Stati Uniti. È sempre un cammino per una via stretta: tante difficoltà ma tante vittorie. Iniziamo con la sofferenza, viviamo anche la morte, ma non abbiamo paura, perché abbiamo la forza della risurrezione. Non è questo il primo mistero cristiano della nostra fede? Con la fede sappiamo che le nostre sofferenze hanno un grande significato, un significato redentore per noi e per quelli che ci ammazzano, anzi, per tutto il mondo. Ragione per vivere, ragione per morire: abbiamo tanta ragione per vivere da veri cristiani ed essere radicali nel vivere la nostra fede con gioia, con la pace nel cuore, condividendo gioia e pace, edificando con il bene comune anche tutto il mondo. Mancanza: io lì ad Aleppo, pensando un po’ a questo titolo del Meeting che è di una grandissima profondità, vedo tantissimi segni della risurrezione. Avere per esempio la messa quotidiana senza interruzione da quando è iniziata la crisi fino ad oggi, con le porte aperte della chiesa, per me è già un miracolo. Se siamo ancora vivi, è un grande miracolo. Riusciamo ad apprezzare di più il dono della vita, ma anche dell’acqua. Io che sono francescano, amante per natura dell’acqua, del sole e della luna, non ho ringraziato il Signore per il dono dell’acqua ogni volta che bevo come l’ho fatto con la mancanza dell’acqua lì ad Aleppo. Ringraziamento per la vita, per la salute, per la forza della carità, per la forza del perdono, per la forza del servizio che riusciamo a fare: con tante mancanze riusciamo a ringraziare. Siamo sempre più pieni di gratitudine verso Dio che ci dà molto. Tornando alla mancanza, vedere una ricerca molto forte di Dio da parte dei cristiani stessi, dei sacerdoti, dei Vescovi, un risveglio di questa sete a vivere in comunione con Dio, per me è un segno della risurrezione che vedo lì. Anche nei nostri fratelli di altre religioni che stanno lì, vedo il risveglio di una grande ricerca, di una grande mancanza. Al cospetto del fondamentalismo, vengono le domande essenziali: il cammino che facciamo è la verità? Quanta ricerca di Dio c’è anche tra i nostri fratelli musulmani, da quelli che bussano alle nostre porte a quelli che si domandano di Gesù Cristo, a quelli che entrano nella chiesa per ascoltare la Parola. E’ tanto l’anelito e la sete che si risvegliano. Nella persecuzione, nelle sofferenze che viviamo noi, siamo sicuri che anche questo è un grande segno che Gesù risorto è presente ancora lì ad Aleppo.
STEFANO ALBERTO:
Ringraziamo padre Abramo che davanti ai nostri occhi ci fa vedere che la vicenda di Abramo non è in Genesi 22, il sacrificio di Isacco, ma nell’inizio, nella generazione di un soggetto, di un io nuovo. “Voi siete diversi”, ha detto di schianto quel musulmano che non è un nemico, ha un cuore che grida la felicità anche lui, ma quello che sta accadendo nel nostro percorso è un passaggio interessante. Avremo modo di approfondirlo ancora. Nonostante tutte le provocazioni di Carrón, noi pensiamo tutto sommato che la testimonianza sia qualcosa che facciamo noi per Cristo. E quando non riusciamo, quando le cose non vanno come vogliamo, siamo tristi e arrabbiati. Quello che abbiamo davanti ai nostri occhi, quello che sta accadendo, è il valore di conoscenza nuova della testimonianza, che non è quello che io faccio per Cristo ma è quello che Cristo opera in me, Cristo morto certamente nel Venerdì Santo ma risorto, cioè vivo, presente. Vi chiedo ancora venti minuti, perché c’è una terza testimonianza non in programma, attraverso un video di cui ringraziamo Giacomo Fiordi, operatore di Avsi. Torniamo ad Erbil: una delle protagoniste la conosciamo già. Penso che tutti voi abbiate presente quel canto bellissimo di Myriam che migliaia di noi hanno visto nell’ultimo incontro di Scuola di Comunità il 17 giugno. Tra l’altro, mi è venuta in mente quella frase profetica che oggi si realizza: quando l’islam violento ci taglierà la gola, noi vinceremo con i nostri canti. Oggi, con questo video, incontriamo la sua famiglia, il suo papà, la sua mamma e la sua sorellina. Vediamo da dove nasce questa letizia, questa pace, questo perdono di una bambina di dieci anni buttata fuori in un giorno da Qaraqosh. Entriamo nella sua baracca di lamiera, temperatura 48°. Per questo non funziona bene la telecamera, vedrete che si offuscherà. Attenzione, la traduzione è un po’ laboriosa. Giacomo fa le domande al papà che le traduce in aramaico a Myriam. Noi sentiremo in oversound l’italiano sulla traduzione inglese del papà. Tutto un po’ artigianale, un po’ complicato. Ma questo ci dà modo di guardare quel gioco di sguardi tra di loro. Ci aveva chiesto, quella sera del 17 giugno, Julián: “Di che cosa hanno bisogno i nostri figli per vivere come Myriam? Di che cosa abbiamo bisogno per tirare su dei figli capaci di vivere come lei?”. Questa è la grande sfida educativa, la radice ultima della sfida è questa: se la fede, qualsiasi sia il contesto in cui ci troviamo a viverla, è in grado di resistere. Per questo abbiamo detto negli esercizi: “Nel Mistero della resurrezione è il culmine e il colmo dell’intensità della nostra autocoscienza cristiana”.
Videointervista.
GIACOMO FIORDI:
Buongiorno, mi chiamo Giacomo Fiordi e vivo ad Ebril da poco più di quattro mesi: lavoro per la fondazione AVSI. AVSI collabora con la Caritas e con le suore domenicane nell’assistenza ai profughi iracheni, sia nella distribuzione di generi di prima necessità, sia per quanto riguarda la questione educativa attraverso l’asilo che abbiamo aperto e nel quale sono presenti circa 130 studenti. Oggi mi trovo nel campo profughi, un luogo dove la chiesa ha radunato tutti i cristiani in modo tale da permettere loro di stare insieme come una comunità. Come AVSI, stiamo cercando di costruire una collaborazione insieme alla chiesa per tutti questi profughi cristiani. Qui un mese e mezzo fa è avvenuto un incontro per me inaspettato, un regalo. Ho incontrato la famiglia di Myriam e Myriam stessa: è stata una cosa bellissima che continua dentro un’amicizia. Quindi c’è Myriam, Walid, il suo papà, la mamma Alice e la sorella. La famiglia di Myriam è scappata da Qaraqosh a seguito delle persecuzioni contro i cristiani: vivono in un caravan qua dentro il campo. Ieri hanno ricordato un anno dalla data nella quale sono dovuti scappare. Abbiamo deciso di farveli incontrare e di ascoltare quella che è la loro esperienza. Adesso farò loro alcune domande. Miriam, com’è la vita a Erbil, nel campo?
MYRIAM:
Adesso che siamo qui nei caravan stiamo bene, per lo più ci manca il fatto di non avere la corrente elettrica e l’acqua potabile. Oltretutto, la vita qui non è proprio come quella che svolgevamo nel nostro Paese, a Qaraqosh. Qualsiasi cosa ci sia offerta, non sarà mai come essere a Qaraqosh, a casa. Però siamo grati alle persone che ci hanno offerto l’acqua che stiamo bevendo e la corrente elettrica. Stiamo cercando di vivere meglio, abbiamo anche un generatore.
GIACOMO FIORDI:
Puoi raccontarci qualcosa della tua vita di tutti i giorni?
MYRIAM:
Come rifugiata e come figlia di questa famiglia, mi sveglio alla mattina e faccio tutto il necessario. Mi lavo la faccia, prego Dio, soprattutto prego Gesù e Maria perché ci salvino e ci diano un giorno nuovo. Poi esco, magari mi trovo con degli amici, cerco di farli venire da me per giocare insieme. A volte vado anche a trovare mia zia nel suo caravan, a volte invece faccio un giro per il campo, solo per vedere le persone che ci sono. Quando il Signore ci dà del tempo per mangiare, vengo a pregare il Signore che ci ha dato questo cibo attraverso le persone che ci aiutano di tanto in tanto.
GIACOMO FIORDI:
Hai nuovi amici, hai visto ancora la tua amica Sandra?
MYRIAM:
Sì, ho visto Sandra, la mia amica di Qaraqosh, un paio di volte. Una volta, in televisione, con un nostro collega che si chiama Tony, altre volte l’ho sentita al cellulare. Poi non sono più riuscita a contattarla, non saprei proprio come fare. Però adesso ho trovato anche dei nuovi amici, a scuola e anche al campo: si chiamano Sandra, Mina e Modian. Stiamo creando delle nuove amicizie anche qui. Anche mia sorella è mia amica.
GIACOMO FIORDI:
Facciamo una domanda anche a lei. Com’è la relazione fra te e tua sorella?
ALIS:
Anch’io ho degli amici come Miriam, però per la maggior parte del tempo sto con lei. Quando ci alziamo la mattina, come al solito, a volte andiamo d’accordo, altre volte un po’ meno. Magari c’è qualcosa che io ho, che voglio e che vuole anche lei: quindi litighiamo un po’, però alla fine ci vogliamo sempre bene.
GIACOMO FIORDI:
Da chi avete ricevuto la vostra fede, e come?
WALEED:
Dato che sono sposato, ho ricevuto la fede da Gesù. Da quando conosco Gesù, è cambiato il concetto di vita che avevo, mi rivolgo a Lui con tutto il cuore. Non ho tempo per dire: “Sì, ho fede in Gesù”. Nei momenti buoni o in quelli cattivi, ho sempre fede in Gesù e nessuno potrà rubarmela. Posso essere triste, lottare con il male, posso essere ricco o povero, posso condurre una bella vita oppure una vita di stenti, ma questo non cambierà mai la fede che provo per Dio.
ALIS:
Sicuramente è Gesù. Quando eravamo più giovani, non conoscevamo Gesù come lo conosciamo adesso. Soprattutto nel corso dell’ultimo anno, abbiamo conosciuto Gesù e abbiamo tratto la nostra fede da Lui che ha avuto una vita difficile, di sofferenze. Tutte le difficoltà che abbiamo dovuto superare nel corso dell’ultimo anno, davvero ci hanno avvicinato a Gesù. E’ in Lui che ci nutriamo, da Lui traiamo la nostra fede, la nostra forza. È Gesù che ci dà la forza, la speranza. Lui stesso ci ha dato l’esempio, Lui stesso ci ha mostrato con il suo esempio e la sua vita come sia necessario amare il prossimo, dargli fiducia. Quindi, per noi è Gesù la fonte della fede.
GIACOMO FIORDI:
Come vedi il tuo futuro?
WALEED:
Tutto il futuro è nelle mani di Dio. Non c’è uomo al mondo che possa decidere del suo futuro. Si possono fare programmi per il futuro, però alla fine uno deve dire che il futuro è nelle mani di Dio. Farò tutto quello che mi sarà concesso fare ma alla fine non è la mia volontà, è la volontà di Dio. Questo è il modo in cui sto vivendo la mia vita, che sia per il bene o per il male, ma penso che Dio non mi arrecherà mai del male.
ALIS:
Io non posso prevedere il futuro. Nessuno di noi può farlo ma abbiamo fede in Dio, sappiamo che Lui ha un piano per noi e per il nostro futuro. Forse non per noi in particolare, per me o per la mia famiglia, ma per i cristiani qui in Iraq. In generale, il futuro è incerto e sconosciuto ma nonostante questo abbiamo fede, sappiamo che, malgrado le difficoltà che stiamo vivendo, Dio ci aiuterà e ci darà supporto. Sicuramente riuscirà ad aiutarci, malgrado la vita che conduciamo adesso, perché stiamo soffrendo tanto ma al tempo stesso siamo pazienti e fiduciosi, abbiamo fede nel fatto che il futuro è nelle Sue mani e che sarà buono per noi. Mi scuso perché non riesco a spiegarmi molto bene in inglese, ma io davvero sento Dio nel mio cuore e ho fiducia in Lui. Dio ce l’ha detto, e a poco a poco lo vediamo in tutte le piccole cose intorno a noi. Tutto quello che vediamo è segno di Dio e noi abbiamo fiducia in Lui, nel fatto che ci darà giorni migliori.
GIACOMO FIORDI:
Un’ultima domanda: chi è Gesù per voi, oggi, in questo momento della storia?
WALEED:
Per me e per la mia famiglia Gesù è come il Paradiso che stiamo aspettando. E prego di vederLo in quel luogo. Mi sono reso conto che è stato sempre con me tutto il tempo. Non so come sia per gli altri ma io sento che sta con me e non mi posso separare da Lui. Come uomo, conosco Gesù molto bene e vivo per Lui. Penso che nessuno sia in grado di spiegare esattamente chi è Gesù, però è sempre con me e so che mi sta aiutando.
ALIS:
Per me Gesù è prima di tutto il mio Salvatore. Dal primissimo giorno della mia vita, soprattutto nel corso di quest’ultimo anno, davvero è stato il mio Salvatore. Un amico, qualcuno che è sempre con me, che mi ama. È con me ovunque vada, con chiunque io parli, ogni volta che penso, ogni volta che prego. So che ci accoglierà tra le Sue braccia, so che la Sua mano è sempre accanto a me. So che ci sostiene e che condivide e conosce i nostri sogni, sa quando siamo tristi e quando siamo contenti. Lui sa tutto di noi, Lui è la nostra vita, soprattutto per questa famiglia, Lui è la nostra guida, il nostro Dio, e io lo amo. Credo davvero che ogni persona che abbia la fortuna di conoscere Gesù non possa fare altro che amarlo e sentirlo sempre vicino. Chiunque conosca Gesù e abbia un incontro con Lui, non può più lasciarlo. Si sente circondato da Lui, indipendentemente da quello che fa nella vita: anche se uno lascia il suo Paese, la casa, le sue cose, non viene mai abbandonato da Gesù, perché Lui ci sostiene e si prende cura di noi. E’ una presenza costante, il nostro tutto. E io sono davvero felice di essere Sua seguace, Sua amica.
GIACOMO FIORDI:
Bene, grazie per il tempo che mi avete dedicato. Cos’altro volete dire ai vostri amici?
WALEED:
Il nostro amico Jack ci ha mandato un saluto dall’Italia. Spero un giorno di riuscire anch’io ad andare al Meeting di Rimini.
GIACOMO FIORDI:
Grazie.
STEFANO ALBERTO:
Speriamo che l’anno prossimo questo desiderio si avveri. Lui è la mia vita, Lui è la mia guida, Lui è tutto: da dove nasce questa certezza, questa positività, questa diversità umana? Non so se ve ne siete accorti, ma Myriam ha fatto sorridere e ridere più di una volta padre Douglas. Questa domanda resta decisiva per noi, che non dobbiamo ancora versare il sangue, anche se Balthazar, parlando del martirio come di un caso serio anche in Occidente, osserva che si può versare il sangue goccia a goccia, ogni giorno. Le contraddizioni non mancano. Ma la questione che sta davanti ai nostri occhi è la natura della testimonianza: o qualche cosa che devo riuscire a fare, qualche cosa di buono ma che dipende da me, o la vita, la mia libertà, il mio cuore che sussultano al riconoscimento della Sua presenza, della Sua opera, come ci ricordava Juliàn agli esercizi, “immersi nel grande mistero”. E citando Giussani: “E’ sperperare qualche cosa dell’Essere, dilapidare l’Essere della sua grandezza, della sua potenza, della sua signoria, è lentamente svuotare di contenuto e fare appassire l’Essere, Dio, il Mistero, l’Origine, il Destino, se noi non ci sentiamo immersi in questo mistero, nel grande mistero, la risurrezione di Cristo, immersi come l’io è immerso nel Tu, pronunciato con tutto il proprio cuore, come il bambino quando guarda la madre, come il bambino sente la madre”. Ringraziamo di tutto cuore per il loro sacrificio, per la loro vita, per la loro azione, per il loro esserci, padre Douglas e padre Ibrahim.
Vi rubo ancora due minuti. Ieri sera a cena padre Ibrahim, sorprendendo tantissimo me che sono come trapassato da questa letizia, da questa pace, da questa immersione permanente in Cristo Risorto, dice: “Noi abbiamo bisogno di voi. Non abbiamo bisogno degli aiuti materiali, non abbiamo paura, ce la caviamo. Abbiamo bisogno che voi ci siate”. E’ la risposta di monsignor Nona: “Abbiamo bisogno della vostra, della nostra fede”. Ma padre Ibrahim ha usato questa espressione: “Sono colpito dal vostro lavoro continuo”, e parlava del suo dialogo con l’autista verso Rimini; “dal vostro lavoro continuo sul pensiero, che la fede per voi sia un approfondire continuo: noi abbiamo bisogno di questo. Abbiamo bisogno di questa educazione, abbiamo bisogno di questo cammino”. Noi abbiamo bisogno della vostra letizia, della vostra certezza semplice. Ma voi, mi hai detto, avete “bisogno di questo cammino”. Bene, il Meeting è uno strumento assolutamente provvisorio, potrebbe non esserci, potrà non esserci. Ma che ci sia, ciascuno lo percepisce come un bene, non solo per noi ma, come tanti ci hanno testimoniato, per tutti. Per questo non vi stupisca che anch’io insisto richiamandovi la campagna del Fundraising, perché che il Meeting esista non è scontato. Dipende realmente da ciascuno di noi. Dove donare, ormai dovreste saperlo, oppure andate sul sito. Con la vostra donazione, non importa quanto, riceverete la card della community Meeting, che permette di avere alcune agevolazioni legate al noleggio delle mostre itineranti. Buona sera, grazie a tutti.