Una passione per l’uomo

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S. Em. Card. Matteo Maria Zuppi, Presidente CEI, Arcivescovo di Bologna. Introduce Bernhard Scholz, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli ETS.

Il titolo e il tema della 43a edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli, vedrà come protagonista il Cardinale Matteo Maria Zuppi, Presidente della CEI, introdotto da Bernhard Scholz, Presidente del Meeting.

Con il sostegno di Intesa Sanpaolo, Enel, Ars Aedificandi, Gros Rimini, Tracce.

UNA PASSIONE PER L’UOMO

Video (Dall’intervento di don Giussani al Meeting 1985) (Il Vangelo) dice: “Che importa se ti prendi tutto quello che vuoi e poi perdi te stesso? Che cosa darà l’uomo in cambio di sé?” Così è sorto nel mondo il senso del rispetto, venerazione, attaccamento, amore, fiducia, responsabilità nella persona. La persona. L’amore all’uomo. Non si può capire il cristianesimo. Ma forse noi stessi non comprendiamo vivendolo, pur vivendolo pur tentando di viverlo, il cristianesimo, perché non partecipiamo di questa sua origine. Il cristianesimo non è nato per fondare una religione, è nato come passione per l’uomo. Allora si capisce: se parlava del Padre, se parlava del bambino, se tendeva con particolare cura lo sguardo all’ammalato, al povero, era perché povero, bambino, ammalato erano fra tutta la gente i meno difesi, coloro che avrebbero potuto meno imporre loro stessi; ma proprio per questo ne sottolineava la presenza, perché il loro valore era indipendente dalla loro capacità di potere. Io, tu, insisto, figlio di sua madre e suo padre; l’amore all’uomo, la venerazione per l’uomo, la tenerezza per l’uomo, la passione per l’uomo, la stima assoluta per l’uomo.

 

Bernhard Scholz: Abbiamo sentito il video dell’intervento di don Luigi Giussani al Meeting del 1985 dal quale abbiamo tratto il titolo di questo Meeting nel centenario della sua nascita. Vi do il benvenuto e dico anche che voi con la vostra presenza testimoniate che quella passione è ancora presente oggi fra noi. E di questa passione per l’uomo parliamo oggi con Sua Eminenza il Cardinal Matteo Zuppi, Presidente della CEI e Arcivescovo di Bologna.

Grazie veramente, Eminenza, di aver accettato questo invito.

Lei ha detto, in un’intervista recente, che don Giussani era sempre alla ricerca del vero dentro l’esperienza, senza voler difendere nulla e che per lui ogni incontro era una scoperta. Lei ha avuto anche occasione di incontrarlo personalmente. Di che cosa si ricorda in particolare di questa persona, come abbiamo visto, anche dal temperamento forte, incisivo

 

Matteo Maria Zuppi: Innanzitutto grazie dell’invito, grazie di questo confronto, grazie anche della bellissima celebrazione di questa mattina che a mio parere è poi anche l’essenza a cui arrivare, da cui sempre ripartire, perché è l’immagine più vera di questo popolo in cammino. E di questa presenza nella carne, nella vita, nell’esperienza, nell’avvenimento, secondo una semantica a voi cara.

Che cosa mi ricordo? Direi due cose: una indubbiamente la passione, cioè sentire da lui passione per l’uomo era credibile, essa era legata a tutta la sua vita, era la ragione della sua vita, era il desiderio dell’incontro con gli altri, qualcosa appunto di inesauribile che si moltiplicava: sempre in una semantica a voi cara, sarebbe ‘irriducibile’. In lui indubbiamente c’era una passione irriducibile.

Penso, forse l’ultima volta che l’ho visto, molti di voi credo che ci fossero, a quell’immagine commovente, in quell’incontro della Pentecoste con tutti i movimenti con Giovanni Paolo II già un po’ più anziano, e con quel discorso dell’essere mendicanti. Ecco. In questa dimensione sempre una passione per tutti.

E la seconda cosa, direi, una grande attenzione all’altro. L’incontro non era mai ripetitivo, oppure esplicativo, cioè che serve per dimostrare quello che già penso. Era davvero sempre un avvenimento, anche nel senso del creativo, di qualche cosa che generava altro, ecco. Direi che questi due tratti son quelli che conservo di più.

Poi c’è un ricordo: nel 1981 – è uscito da poco un bellissimo libro di Roberto Zuccolini sul rapporto fra il Cardinale Martini e la Comunità di S. Egidio, in cui, come forse molti di voi sanno, son cresciuto, di cui faccio parte -, e nell’81 ci fu un incontro interessantissimo a S. Egidio con il Cardinal Martini, Giussani, Monticone, allora presidente dell’Azione Cattolica, Pietro Scoppola, ed altri, per confrontarsi. Il cardinal Martini voleva ascoltare, discutere. E lì era chiara la passione di Giussani per una presenza che fosse viva, che non fosse lontana dalla concretezza della vita. Veramente una passione per l’uomo trasmessa da tutta quanta la sua vita, per questo credibile.

 

Bernhard Scholz: Approfondiamo un attimo questo aspetto, perché dentro la passione per l’uomo formulato così c’è un forte implicito, cioè che l’uomo ha bisogno di questa passione. Perché l’uomo ha bisogno di questa passione per vivere?

 

Matteo Maria Zuppi: Si dice che la nostra generazione sia la generazione delle passioni tristi. In realtà le passioni tristi son quelle piene di agitazione per l’io, son quelle bulimiche dell’io; son quelle che diventano poi delle passioni tristi, son quelle dell’individualismo che hanno poi un’amplificazione digitale. A mio parere stiamo ancora iniziando a capire che cosa significa un uomo digitale.

La passione per l’uomo è ciò che, al contrario, mi fa trovare me stesso perché incontro gli altri. Apre l’individualismo nell’incontro con il prossimo e, insisto, non un incontro che mi serve per dimostrare, ma generativo, creativo. La passione non è il laboratorio. Ci stanno sempre dappertutto i tecnici di laboratorio, che son quelli che dicono: «attento a non far questo!»… Hanno sempre qualcosa da ridire, perché poi quando la vita non è laboratorio ci sporca anche un po’, si sbaglia, qualche volta la passione porta anche a qualche risultato, anche se non è tutto preciso, però è questa passione che credo che abbia permesso un incontro e quindi l’uscita dalle passioni tristi, dall’individualismo, per trovare sé stessi, per trovare se stessi insieme agli altri, per trovare sé stessi proprio perché si trovano gli altri. Questa è la passione per l’uomo, di cui tutti abbiamo bisogno, un enorme bisogno.

Tempo fa si parlava per esempio della desertificazione spirituale – e credo che non siamo molto migliorati, tendenzialmente ne vediamo tanta -, ma questo dobbiamo leggerlo ancora di più come il bisogno di quell’acqua che è la passione per l’uomo, proprio perché c’è tanta desertificazione spirituale, che si presenta nei modi più complicati, a volte impossibili, in quegli incontri impossibili.

Ne racconto uno che riguardava Giussani che mi ha molto colpito perché dopodomani devo fare un colloquio su Pasolini e il suo film del Vangelo secondo Matteo. A me colpisce, poi dopo leggo il racconto di Lucio Brunelli, come Giussani parlava di Pasolini – e parliamo degli anni ‘60, quando, insomma, non è che Pasolini fosse ben visto nel mondo cattolico: altro che laboratorio, lì bisognava prendere tutte le misure! C’era qualcuno appunto che metteva tutti i puntini sulle i, si stracciava le vesti di fronte a Pasolini – e invece Giussani dice che in lui c’è una ricerca profondissima dell’uomo e se lui avesse incontrato qualcuno del movimento invece di aver incontrato altro, avrebbe capito.

Ma insisto, guardate, non era strumentale, cioè non serviva per dimostrare chi ha ragione, era proprio perché Giussani intuiva una domanda profonda che era appunto la domanda e il desiderio di Pasolini, e lo sapeva leggere. E qualche volta invece uno si straccia le vesti, pensa: «non c’è niente, c’è soltanto il deserto».

Se noi abbiamo passione, riconosciamo la passione al di là delle forme, altrimenti i tecnici di laboratorio ci dicono immediatamente che quello non funziona, non corrisponde a una certa etichetta, a un certo itinerario, ecc.

Direi che la tanta passione di Giussani faceva riconoscere la passione anche nascosta, ma profondissima che c’era, in maniera molto libera, come deve essere.

 

Bernhard Scholz: Eminenza, lei già da giovane sacerdote, poi nella sua vita nelle varie parrocchie, poi come Vescovo, adesso come Cardinale, ha sempre vissuto e testimoniato questa passione per l’uomo anche nelle periferie, come dice Papa Francesco, nelle periferie esistenziali e sociali delle nostre città. Com’è nata in lei questa passione?

 

Matteo Maria Zuppi: Sempre per un incontro, direi. La mia è una famiglia credente, i miei erano delle sante persone credenti, con due fedi molto diverse, complementari, anche per le origini. Perché mio papà era di Roma: una fede affettiva. Mamma era di vicino a Milano: un po’ più essenziale, diciamo così, aveva un rapporto vigoroso: si fa, l’ha detto, si fa, basta, qual è il problema? Mio papà ci discuteva di più. Però poi ho incontrato alcuni della iniziale comunità di S. Egidio che mi hanno detto: «Senti, andiamo a fare la preghiera prima di venire a scuola». Da parte mia ci fu all’inizio: «la preghiera? Grazie già ho papà e mamma che mi insidiano…» e invece, appunto, mi trovai a scoprire qualcosa di nuovo, a scoprire che la preghiera non era qualcosa di ripetitivo, di lontano, alla fin fine di ereditario, ma qualcosa che incontravo io.

E poi l’altro incontro direi con la periferia, l’incontro con le grandi periferie di Roma, con quel terzo mondo, si diceva allora, che era nascosto nella città, – ci sta ancora, più nascosto per certi diversi aspetti, lì era evidente, erano le baracche. A Roma alla fine degli anni ‘60 vivevano più di centomila persone nelle baracche -, quindi, con la comunità di S. Egidio, fu questo il mio incontro con un vangelo vivo, con un vangelo che coinvolgeva tutta la vita, che era una passione che sentivo e che mi apriva ad una passione per gli altri.

 

Bernhard Scholz: Vorrei ora affrontare un paradosso, perché da una parte sembra che questo mondo, come lei ha appena accennato, con le sue tante ferite sociali, esistenziali, personali dovrebbe essere aperto a questa passione, e invece è come se fosse poco percepita oppure poco accettata. Da una parte c’è questo grande bisogno, direi quasi un’urgenza, e dall’altra parte è come se non riuscisse a penetrare, a entrare in quelle periferie personali e sociali. Come si spiega lei questo paradosso?

 

Matteo Maria Zuppi: Se dovessi riprendere (non vi preoccupate non lo farò…) il Vangelo di oggi, ci sembra una porta stretta, perché in fondo ci fa uscire da noi, e tendenzialmente siamo continuamente stimolati a pensare di essere noi stessi perché prendiamo, perché possediamo, perché con gli altri stabiliamo un rapporto di distanza o un rapporto meramente strumentale.

Perciò non ci accorgiamo delle tante domande, delle tante sofferenze e non le sentiamo nostre, non capiamo che anche la nostra sofferenza trova una risposta nell’attenzione, nella condivisione con gli altri. Cioè ci medicalizziamo molto, l’individualismo ci fa essere sempre intorno al nostro io e il nostro io guarisce incontrando l’altro e trovando quella passione per cui l’incontro con l’altro mi fa capire chi sono. Sostanzialmente, capisco e trovo chi sono. Ecco, direi che purtroppo l’individualismo ci convince e in tanti modi ci persuade che soltanto da soli stiamo bene, o affermando il nostro io. Non c’è niente da fare: noi troviamo il nostro io solo quando capiamo la relazione con ‘noi’ Quando troviamo il noi, non abbiamo più paura del noi. Infatti questo è anche un periodo di tante paure.

 

Bernhard Scholz: Lei ha scritto un libro che si intitola “Odierai il prossimo tuo. Perché abbiamo dimenticato la fraternità” e il sottotitolo è sorprendente: “Riflessione sulle paure del tempo presente”.

Quali sono queste paure? Dove nascono? Cosa producono?

 

Matteo Maria Zuppi: Io penso che nascano soprattutto da un io isolato. L’individualismo che sembrerebbe darci forza, farci essere noi stessi, affermare noi stessi, in realtà ci rende deboli, ci rende pieni di paure, rende l’altro immediatamente un concorrente, un avversario, qualcuno che non capisco, qualcuno di cui non capisco la domanda, per cui cerco di difendermi, di proteggermi. L’individualismo diventa anche i nazionalismi, a mio parere, cioè un grande io che difende tanti io isolati. Invece, al contrario, la forza nasce proprio soltanto scoprendo l’altro, come dicevo prima. E allora ecco tante paure. Siamo più fragili, ci sentiamo più fragili e non capiamo che troviamo la forza non curando continuamente la nostra fragilità, ma facendo di questa il motivo per incontrare gli altri.

La pandemia da questo punto di vista, le pandemie, – quella del Covid e non dimentichiamo tutte le altre, anche quella che stiamo vivendo con tanta forza, quella della guerra- dovrebbero convincerci di questo. Ne usciamo proprio quando abbiamo vinto la paura, quando abbiamo capito che soltanto insieme se ne viene fuori.

Nella “Fratelli tutti” Papa Francesco dice, una cosa a mio parere, molto intelligente: il salva te stesso che è proprio il frutto della paura, diventa tutti contro tutti, e poi ho bisogno di qualcuno che stia dalla parte mia, che senta dalla parte mia, appunto l’amplificazione dell’io, e invece la salvezza è soltanto nella capacità di pensarsi insieme, di capire che la pandemia deve provocare una fratellanza, nella consapevolezza che soltanto insieme se ne esce.

 

Bernhard Scholz: Vorrei approfondire il tema della conoscenza di sé che è parzialmente emerso, la conoscenza delle proprie paure che invece di diventare aperture rimangono chiusure. Il filosofo francese Jean Paul Sartre ha scritto nel 1943 un libro famosissimo “L’essere e il nulla”. In questo libro afferma, “ È la stessa cosa in fondo ubriacarsi di solitudine o condurre i popoli. L’uomo è una passione inutile”. Una passione inutile, le passioni umane sono inutili, cioè proprio il contrario di quello che stiamo affermando. Dico con le mie parole, poi lei lo approfondirà sicuramente molto meglio: com’è possibile che l’uomo possa essere così infedele, così trascurante rispetto alla propria esperienza, cioè essere così lontano da sé stesso per poter fare un’affermazione simile? perché questo vuol dire che io sono una passione inutile. Com’è possibile che l’uomo sia così lontano da sé stesso?

 

Matteo Maria Zuppi: È molto possibile purtroppo. Direi che ci sono tante varianti che ci accompagnano, penso davvero che l’uomo digitale sia un’ultima variante che stiamo iniziando a capire, che stiamo iniziando a vivere.

Ecco com’è possibile? È possibile perché ci sta il male e il male ci isola, il male, qualche volta, lo vediamo nelle sue manifestazioni più evidenti. Uno pensa che davvero non dobbiamo abituarci all’orrore della guerra, della disumanità, del guardare gli altri come se non ci riguardassero, come se la loro sofferenza non interrogasse la mia vita, quello che io posso fare per loro. E il male ci divide dagli altri, c’è poco da fare. In questo senso, la passione per l’uomo è, direi, esattamente il contrario di un’idea che il male instilla: quell’essere te stesso affermandoti sugli altri, facendo a meno degli altri, oppure, per esempio, tutta un’idea della vita a me verrebbe da dire molto pornografica, nel senso di prestazione, nel senso di vitalismo, nel senso di affermazione di sé, che diventa offensiva per la debolezza, per la fragilità o addirittura porta a definire quelli che Papa Francesco chiamerebbe gli scarti, per cui non servi più a niente. Poi lo si dice, qualche volta, in maniera elegante, ormai non conti più, non vali più. Io penso che questi siano davvero tanti frutti del male. Noi siamo la generazione che ha di più rispetto a tutte le generazioni precedenti, non c’è storia, eppure vuota d’amore, eppure con persone tristi e credo che ciò appunto sia proprio la conseguenza del male. Il salmo avrebbe detto: l’uomo nel benessere è un animale che non capisce. E non siamo molto migliorati. Abbiamo molto benessere, ma non abbiamo capito molto di più, anzi, capiamo molto di meno.

 

Bernhard Scholz: Etimologicamente la parola passione implica le parole patire, soffrire, anche la parola sacrificio, da lì anche la compassione con chi soffre. È possibile vivere la passione per l’uomo senza queste caratteristiche?

 

Matteo Maria Zuppi: Io penso che, appunto, sarebbe la vita pornografica che dicevo prima, in cui i tanti elisir di benessere ti garantiscono, per esempio, appunto di non soffrire. Attenzione, io penso che siamo tutti abbastanza sani per cui nessuno di voi, nessuno di noi (io certamente proprio scappo) di fronte al la sofferenza direbbe: «Più soffri meglio stai». No, grazie. Sarebbe un po’ pericoloso. Ma c’è la sofferenza, la debbo affrontare, se amo qualcuno, certo che soffro per lui.

A me colpì, dopo pochi mesi che ero arrivato a Bologna, la morte di un ragazzino di 12 anni e avevo ricordato questo bambino. Qualche mese dopo mi fermarono il papà e la mamma e mi dissero: «Guardi lei ha fatto un errore. Mio figlio non aveva 12 anni, ne aveva 10 quando è morto». Poi il papà si mise a piangere e mi disse: «Io avrei dato la vita perché potesse arrivare a 12 anni». Ecco, questa è la passione. Cioè è amore.

Faccio un altro esempio: c’è stata polemica per Civitanova Marche, dove per 4 minuti, diciamo, è durata l’uccisione di quell’uomo nigeriano. La polemica «Non abbiamo fatto niente, non l’abbiamo difeso». Forse anch’io non avrei fatto niente, forse avrebbe vinto la paura, forse… tirar fuori il telefonino onestamente no, cioè, fa parte della vita pornografica, a mio parere. Però so quello che di sicuro tutti noi avremmo fatto che se quello lì era tuo padre: gli saresti saltato addosso, avresti fatto qualcosa se quello lì era tuo fratello. Allora la compassione è: quello lì è tuo fratello. Poi dici «non so che fare. Ma è mio fratello e faccio qualcosa». Questa è la differenza, io credo, è sempre un problema di amore, appunto, di compassione. Quando non c’è più la compassione si vive per sé stessi. Siccome tendenzialmente siamo fatti per voler bene, siamo fatti per amare, se dimentichiamo questo, ecco, la vita diventa davvero un’altra cosa.

 

Bernhard Scholz: Lei ha fatto diversi cenni sul cambiamento culturale dovuto alla digitalizzazione. Mi permetto di leggere un breve pensiero di un famoso scienziato, De Kerckhove, che è stato presente al Meeting dell’anno scorso e che ha detto questo:

«A partire da Cambridge analitica, avremmo dovuto intuire quanto le opinioni pubbliche sono profondamente influenzate dagli algoritmi, ma d’altro canto sono gli stessi algoritmi che creano divisioni, correnti di fake news e di conseguenza opinioni polarizzate che portano alla radicalizzazione del pensiero pubblico… Il livello cognitivo e critico si sta abbassando a causa dell’impatto dei media digitali. I social hanno messo al centro della discussione le emozioni e le opinioni, di più facile consumo rispetto al pensiero critico che ormai non viene più sviluppato. Siamo nella più grande crisi epistemologica della storia. Al digitale non interessa né del significato letterale, né del senso».

E poi finisce questa diagnosi con una domanda che vorrei sottoporre a lei. Il quesito rimane aperto, come può passare l’uomo dalla cultura alfabetica alla cultura digitale mantenendo integro il suo io.

 

Matteo Maria Zuppi: Dunque, sono tante cose, devo dire, anche della nostra esperienza. Prima accennavo appunto all’uomo digitale, per esempio pensiamo all’intelligenza artificiale o all’induzione che la navigazione digitale porta su ognuno di noi.

L’induzione in molti casi è proprio evidente, io scelgo una cosa e chissà perché dopo un po’ continuano a venirmi delle cose che sono vicine a quelle, che vogliono catturare la mia attenzione portandomi da quella parte lì, perché io ho fatto già una volta quella scelta.

Gli algoritmi non sono mai ininfluenti sulla nostra vita e ci sono tanti algoritmi a cui a volte ci affidiamo. Come dire, decide lui perché poi, in fondo, nelle passioni tristi o in una poca passione per il Signore e per gli altri, a un certo punto mi affido anche a qualche algoritmo, va bene un po’ tutto. Io penso che sia una grande sfida, e la riflessione che vi accompagnerà in questi giorni vi aiuterà sicuramente anche a capire la passione che vi ha raggiunto, che vi ha coinvolto, che voi vivete, e anche a riaccendere tanta passione.

Davvero il cristiano è uno che vede perché ha passione. Quando uno non ha passione non si accorge di niente, oppure, l’uomo digitale si accorge di tutto, smozzica un po’ tutto ma non si lega a niente perché appunto tutto diventa un consumo per sé, e poi tutto alla fine è per il proprio benessere. Quando uno ha passione per l’uomo si rende conto, poi si complica la vita? Anche. Io però qui io non vedo tante persone tristi, anzi tanti di voi so che si sono complicati la vita.

Non so quanti di voi vadano a fare la caritativa in mille modi, per esempio coi vecchi, quella vita complicata invece di andare allo stadio, oppure anziché passare la giornata davanti alla televisione. Un tempo si cantava se non ricordo male “Allegramente”, si andava in bassa… Ecco, credo che questa vita un po’ più complicata vi abbia fatto scoprire un mondo, abbia aperto tante risposte. Anche tante esperienze che conosco mi colpiscono perché quell’esperienza è diventata intelligenza. Tante risposte, tante cooperative, tante storie per cercare di rispondere a quell’incontro, a quella passione di cui io non mi sarei accorto. Io, se non avessi incontrato qualcuno che mi ha portato in periferia, al massimo avrei fatto qualche studio sociologico, avrei fatto un po’ da tecnico di laboratorio, avrei sentenziato, avrei parlato di problemi… Altro è quello che Papa Francesco continuamente dice: toccare, cioè è la carne, è la passione per l’uomo e non è qualcosa di astratto è qualcosa di molto concreto. Penso che si capisca se uno si è, appunto, complicata la vita. In realtà vive con un po’ più di passione e questa ci fa trovare anche chi siamo, chi sono, perché ci sono e il tanto che posso fare.

 

Bernhard Scholz: Quindi, se ho capito bene, questa passione per l’uomo vissuta fino in fondo diventa poi anche un criterio per utilizzare adeguatamente strumenti digitali, come altre scelte nella vita.

 

Matteo Maria Zuppi: Io penso che se non abbiamo una passione per l’uomo, l’algoritmo alla fine è più forte. Cioè, lo strumento in realtà ci fa diventare un oggetto… Il più grande innamorato dell’uomo che conosco, non c’è niente da fare, è nostro Signore, che ancora perde tempo con noi, che ancora ci prova, ancora insiste, ancora è convinto nonostante i molti motivi per arrendersi, che l’uomo può trovare sé stesso ed è la passione per l’uomo che incontriamo, appunto, incontrando Gesù Cristo. Senza passione, pensiamo di essere noi a decidere, in realtà decide lo strumento ed è veramente questo quanto di più disumano c’è. Per questo dobbiamo difendere la nostra passione per l’uomo e renderla davvero vicina, intelligente, capace di rispondere a quel desiderio che in realtà c’è in ognuno di noi, che c’è in tutti, perché se c’è il deserto spirituale vuol dire che c’è bisogno di acqua. C’è poco da fare. Ma noi ci stracciamo le vesti, perché c’è il deserto spirituale. Sì, crea tanta sofferenza ed è quella che ci interessa. La compassione è questa, ma invece di stracciarci le vesti o di chiuderci in un recinto ben protetto in cui difenderci dal deserto, dobbiamo insieme cercare l’acqua, perché vuol dire che tanti la desiderano. Forse vuol dire che l’acqua che abbiamo trovato può togliere la sete a tanti. È il discorso per esempio di don Giussani su Pasolini perché cercava l’uomo, perché non accettava l’omologazione, non accettava un mondo borghese. ‘Borghese’ è un aggettivo che usiamo molto poco ultimamente, ma credo che all’inizio dell’esperienza anche il cattolicesimo, il cristianesimo sia un po’ borghese, prima dicevo da tecnico di laboratorio, da quelli che sanno spiegare tutto.… Per questo a don Giussani interessava Pasolini, capiva che c’era una ricerca vera, forse, proprio quello che oggi possiamo incontrare negli stessi modi complicati. non era facile allora parlare di Pasolini: per tanti motivi era proprio, o poteva sembrare, quasi l’opposto. La libertà della passione, quella di poter giungere a domande vere con tanta libertà, ma che, appunto, esige tanta passione per l’uomo.

 

Bernhard Scholz: Adesso non cito Pasolini ma un fumettista, un famoso fumettista americano. Charles Schulz. In un disegno c’è un dialogo tra Linus e Lucy, dove Linus dice che da grande vorrebbe fare il medico e Lucy dice: «Tu non farai mai il medico perché tu non ami le persone». E Linus risponde: «Io amo l’umanità, è la gente che non sopporto». E questo fa molto ridere, ma c’è tanta verità, tanti sono i proclami di salvare il pianeta, l’umanità, di fare pace, ma quando si tratta di guardare il vicino cambia. Lei cosa direbbe a Linus?

 

Matteo Maria Zuppi: Dunque, anzitutto direi che ci ritroviamo tutti tendenzialmente nella situazione espressa da Schulz. A me fa venir in mente una persona di Trastevere che bestemmiava continuamente. Allora gli dissi: «Dai, ma non bestemmiare!» e lui mi rispose: «Ma che c’entra? non sono io che bestemmio, sono gli altri che mi fanno bestemmiare».

Che cosa direi a me stesso, perché la passione per l’uomo, e in questo il Signore ci ha inguaiato davvero, non è per ciò che penso io, non è per la categoria che mi aggrada, o che mi crea meno problemi, o che mi sta simpatica, che me lo chiede nel modo giusto, è la passione per l’uomo così com’è, senza categorie! e anche Mazzolari, che era un sant’uomo, diceva: «non è che uno ama il povero come lo vorrebbe lui, ma con tutti i problemi che può avere, anche con le contraddizioni». Come, per altro, lo dico anzitutto a me stesso, anche gli altri amano noi. Rientra sempre nel discorso del laboratorio, della vita pornografica in cui mi costruisco degli ideali, poi guardo gli ideali, poi guardo la vita, riguardo quelle immagini, poi guardo il vicino di casa, mi guardo allo specchio (qualche volta vale la pena guardarsi allo specchio) e, come diceva Totò: «Convinciti che sei uno scemo». Era anche un po’ così, ma, insomma, facciamo fatica in genere tutti noi in questa operazione di sano relativismo, perché siamo contro al relativismo che è proprio prendere tutto e relativizzarlo all’io; poi c’è un sano relativismo che è relativizzare l’io nel senso che è anche appunto guardarsi allo specchio, con la lezione di Totò, convinciti che sei quello che sei, ecco, e relativizzarci agli altri. Il migliore modo per relativizzarci agli altri è metterci in relazione con nostro Signore che ci mette subito in comunicazione. E quindi, amare l’altro per quello che è. Qui rientra un qualcosa che per voi Giussani ha, che Pasolini e Giussani avevano tutti e due. Quest’anno è anche il centenario di Pasolini, erano tutti e due del ‘22. Cioè la carne è quella, diffidiamo di un cristianesimo idealizzato, diffidiamo di un’entità senza volto, senza storia, disponibile a tutto, che va bene per tutto, che non dice niente a nessuno perché tanto è senza volto. Io credo che sia questa l’origine della scelta di Giussani di rifuggire un cristianesimo spiritualizzato che non sa misurarsi con la concretezza della vita, che è quella che è; per nostra fortuna, perché siamo quello che siamo e quindi, possiamo amare ed essere amati per quello che siamo e sarà questo che ci cambia. Perché non c’è una perfezione astratta, ma c’è nostro Signore che ha passato i pochi anni della sua vita con dei discepoli che avrebbe licenziato tutti se avesse fatto qualche calcolo di convenienza. Poi quello su cui puntava più di tutti, insomma, addirittura si mette contro di lui, dice: «ti spiego io quello che devi fare, non capterà mai… insomma, beh ho sbagliato, ricominciamo da capo, azzero tutto». Ci prende, ci cambia proprio perché non smette di avere una passione per l’uomo.

 

Bernhard Scholz: La passione per l’uomo di Giussani era una passione profondamente educativa, educare oggi i ragazzi è difficile, secondo me molto più difficile che solo 20 anni fa o 10 anni fa. Cosa vuol dire oggi avere una passione educativa in questo momento storico, guardando i ragazzi?

 

Matteo Maria Zuppi: E questa è una bella sfida, credo, no? Mi sembra che molti di noi non siano più ragazzi, non vi vedo bene perché ho le luci contro, ma comunque lo eravamo, lo siamo stati. E molti di noi stanno qui perché hanno incontrato qualcuno. Non so se ha ragione Bernhard quando dice, oggi è peggio, è più difficile. Io se penso quant’ero zuccone cinquant’ anni fa, penso per esempio all’ideologia, a certe semplificazioni un po’ millenaristiche, cioè si fa così con certi dogmatismi dell’epoca. Beh, non è che fossimo molto più facili e addomesticabili, ecco. Poi abbiamo incontrato qualcosa che ci ha cambiato, che ci ha parlato, che ci ha toccato, una passione che ci ha fatto capire quello che non capivamo, ci ha fatto trovare quello che cercavamo. Ecco, forse, senza fare tante lezioni, la mia sensazione è che oltre a fare gli amiconi, tutti, anche i nostri ragazzi, hanno casomai bisogno di testimoni, di gente credibile, vera, che fa quello che dice, che ha passione, che sogna, degli anziani che sognano, e quindi anche i giovani sognano. Persone che non si fanno gli esami continuamente, ma che provano nel grande esame della vita, a uscire dal laboratorio che dicevo prima, o dalle mille interpretazioni per vivere. Poi l’interpretazione la faremo alla fine se servirà proprio. Ma soprattutto nel frattempo c’è tanto da fare, no? Ecco credo che di questo abbiano bisogno… e anche di non moltiplicare ulteriori istruzioni per l’uso, ma di essere aiutati ad usare e a giocare il bellissimo gioco della vita.

 

Bernhard Scholz: Ci avviciniamo alla fine del nostro dialogo. Storicamente, questa passione per l’uomo che è il cristianesimo è stata una liberazione reale, ha liberato dalla schiavitù, ha liberato le donne, ha liberato da tante paure che esistevano nelle varie società, quindi è stata oggettivamente un fattore che ha cambiato la storia e ha creato anche una vita sociale molto più umana, fino a creare un certo benessere. Spesso viene dimenticato questo fattore rivoluzionario del cristianesimo.

Oggi, nella storia che stiamo vivendo, qual è la liberazione che porta il cristianesimo alle persone che vivono questo periodo, e qual è il compito della Chiesa per comunicarlo? perché c’è un’attesa, anche se non sappiamo se non verrà accettata o se non viene percepita, questa passione che rappresenta la Chiesa stessa.

 

Matteo Maria Zuppi: Sì, certamente può non essere capito, qualche volta può essere frainteso, però poi la vita che si fa parla poi da sola.

Io ti risponderei con la grande visione di “Fratelli tutti”. A mio parere, cioè, non quelli della mia etnia, non quelli soci del mio club, non quelli che non mi danno fastidio, quelli già addomesticati, ma questa grande visione del “Fratelli tutti”. La ricordo perché alle pandemie, alla pandemia e alle altre pandemie, direttamente o indirettamente, pensate alla guerra con tutto quello che comporta, rischiamo di abituarci. Mai! guai abituarci in tanti modi anche nell’accettare che la guerra sia per certi versi una soluzione! Ecco, io credo che noi abbiamo una riserva di umanità. E questa visione del “Fratelli tutti” penso sia la vera risposta alle pandemie. La consapevolezza di essere nella stessa casa comune; Paolo VI avrebbe detto “la stanza del mondo”, la casa comune, con tutta la cura che questo comporta, e con aiutare, con la passione per l’uomo, aiutare a ricostruire un pensarsi insieme, che non è scontato, non è facile per il discorso che facevamo prima per le tante paure, per l’individualismo, per il “salva te stesso”, ecc. Io credo che questa grande visione del “Fratelli tutti” che per certi versi poi mi sembra faccia anche tanta parte dell’esperienza dei cristiani, che è un fratello universale che sa vedere nell’altro il suo fratello, qualcuno con cui cammina assieme, una carovana, avrebbe detto Papa Benedetto, con cui ritrovare quello che altrimenti nella paura, nell’isolamento non sappiamo più vivere. Per cui direi: la risposta è proprio la grande visione di “Fratelli tutti”; credo che sia la risposta che guarda oltre e che ci coinvolge oggi in questo momento, in queste difficoltà che viviamo, drammatiche, anche tanto reali. Cioè ci hanno fatto anche un po’ riscoprire che la vita è questa, ma non perché ci piace, tutt’altro, perché abbiamo tanto creduto in un benessere che non esisteva, perché il male, la compassione lo vede, ci è entrato dentro. Allora “Fratelli tutti” è la grande risposta che richiede anche l’impegno di tutti, che ci coinvolge tutti quanti.

 

Bernhard Scholz: Anche per il dialogo interreligioso che avrà oggi un testimone importante alle 19 con Al-Issa.

 

Card. Matteo Maria Zuppi: Assolutamente. Credo in questa visione in cui il dialogo rafforza l’identità… Qualche volta uno può pensare il contrario, cioè il dialogo come un modo per smorzare… No, direi, anzi, esco più rafforzato nella mia identità, ma nella consapevolezza che con quel tale ci posso vivere insieme e trovo qualcosa di più profondo, di più umano che mi lega e che non soltanto non fa perdere, ma mi fa capire perché siamo cristiani e quanto possiamo essere da cristiani fratelli universali.

 

Bernhard Scholz: Lei prima ha accennato di voler fare una citazione…

 

Card. Matteo Maria Zuppi: È il botto finale. Il botto finale è una cosa di Giussani (così vado sul sicuro) che mi aveva colpito tanto. Alcune cose le ho ricordate questa mattina nell’omelia, parlando dei due motivi per cui Giussani dice: “perché io piangevo”.

Durante uno dei suoi primi viaggi tra il 1960 e 61, don Giussani incontra un gruppetto di missionari del PIME a S. Anna, una cittadina fluviale sul Rio delle Amazzoni che è vicino a Macapá. Uno di questi sacerdoti si chiama padre Angelo Biraghi.

“Padre Angelo Biraghi grande e grosso mi dice una sera: «Accompagnami in un pezzo di visita pastorale, alle comunità dell’interno». E ho visto che lo diceva con un’aria un po’ sorniona, con il sorriso sotto i baffi, un po’ ironica, ma io ho detto di sì. Sono andato e a un certo punto, dopo qualche ora di macchina si fermava tutto, la macchina doveva tornare indietro. Iniziava un pantano che dovevamo attraversare in 8 ore, ed era già verso sera, (c’era un nugolo di moscerini che faceva diventare la faccia gonfia). A quel punto padre Biraghi gli dice: «Guarda, scherzavo: torna indietro tu». Quindi il padre missionario si è messo le galosce che gli arrivavano fino alla vita, e poi ho capito perché mi aveva detto così: ha incominciato ad entrare in quel fango fino all’anca e ci voleva un minuto per fare un metro. E io ero là, lo vedevo allontanarsi, e lui che si voltava indietro, mi salutava, sorrideva col sorriso sornione del giorno prima. Ed era sera e il sole lì cade in un quarto d’ora, quindi ormai imbruniva, lo vedevo un po’ lontano circondato proprio dalla nuvola, nel senso di insetti, e la sua prima meta dopo otto ore era un serengheiro che stava tirando fuori in quella zona di quella foresta la gomma degli alberi”. Una persona. Giussani non lo dimenticherà per tutta la vita.

“Racconto sempre ai miei amici questo particolare: sarò stato lì almeno mezz’ora senza muovermi pensando: «Ma guarda cos’è il cristianesimo! Quest’uomo che rischia la pelle per uno, uno, per andare a trovare uno che prima non aveva mai conosciuto che magari non avrebbe mai più visto nella vita». In quell’istante, in quel momento ebbi la percezione vivida del fatto che il cristianesimo nasce proprio come amore all’uomo”. (da “Vita di don Giussani” pg.282)

Me lo auguro e ve lo auguro: la stessa passione. (lungo applauso)

L’applauso chiaramente era per Giussani: fate bene.

 

Bernhard Scholz: Sicuramente l’applauso del pubblico era per don Giussani, ma anche per lei, Eminenza, per l’amicizia che vive con noi e anche per la sua sensibilità profondamente appassionata con la quale ci ha reso presente Giussani, ma anche la sua propria passione. Sicuramente l’accompagneremo con la preghiera nel suo grande compito.

Data

21 Agosto 2022

Ora

15:00

Edizione

2022

Luogo

Auditorium Intesa Sanpaolo D3
Categoria
Incontri