Una passione per il lavoro

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Marco Hannappel, Presidente e Amministratore Delegato Philip Morris Italia; Andrea Orlando, Ministro del Lavoro e delle politiche sociali; Monica Poggio, Amministratore Delegato di Bayer Italia; Luca Ruini, Presidente Conai; Luigi Sbarra, Segretario Generale CISL. Introduce Massimo Ferlini, Presidente Fondazione Welfare Ambrosiano, Dipartimento Lavoro Fondazione per la Sussidiarietà.

Relazione con gli altri e relazione con la realtà. Il lavoro è tramite del rapporto con il mondo. Per questo va tutelato e gli va data piena dignità. Il lavoro infatti non vive senza la nostra passione.

Con il sostegno di Philip Morris Italia, CONAI.

UNA PASSIONE PER IL LAVORO

Massimo Ferlini: Buona sera a tutti, grazie per la partecipazione. Avviso subito tutti che come vedete il ministro Orlando si collegherà via zoom perché ha avuto un impegno istituzionale che gli ha impedito di raggiungerci al dibattito qui a Rimini. Ringrazio però per la presenza qui con me sul palco, Monica Poggio, amministratore delegato di Bayer Italia, Marco Hannappel, presidente e amministratore delegato di Philip Morris Italia, Luca Ruini, presidente del Conai e Luigi Sbarra, segretario generale della Confederazione italiana dei lavoratori della Cisl.

Grazie a tutti per la vostra presenza a questo incontro che abbiamo voluto chiamare “Passione per il lavoro”, riprendendo direttamente il titolo del Meeting, “Una passione per l’uomo”.

Non abbiamo visto una contraddizione nei due termini per una ragione molto semplice: per noi il lavoro è l’uomo in azione, l’uomo che si muove nella realtà di fronte alle sue difficoltà, alle incertezze che la realtà gli presenta, ma che in questo modo entra in relazione con gli altri. È quell’io che proprio perché cerca di misurarsi con le cose, di cambiarle, di aumentare la disponibilità delle risorse si mette d’accordo con gli altri. È quell’io che diventa un noi, come abbiamo detto più volte, che è capace di costruire nella realtà per migliorare la propria condizione. Ecco perché abbiamo tenuto il tema molto in generale, senza entrare nel merito delle singole proposte riguardanti il futuro che soprattutto adesso che è partita la campagna elettorale caratterizzeranno gli interventi di molti, ma noi siamo appassionati, interessati a valutare l’insieme di tutte quelle proposte che sostengono questo io in azione.

Abbiamo detto chiaramente che non ci piacciono le politiche neoliberiste perché cercano di isolare l’io e di lasciare tutti da soli di fronte alle difficoltà e non hanno aiutato a risolvere i problemi, tantomeno quelli del lavoro, ma abbiamo detto anche che proprio perché l’io deve essere in azione e il lavoro è la persona che si mette in azione, l’assistenzialismo senza che sia un aiuto a partecipare al lavoro non ci piace, isola altrettanto nello stesso modo e non è quello che contribuisce a risolvere i problemi che abbiamo davanti e soprattutto non aiuta a dare sicurezza alle persone. Il lavoro deve essere utile a sostenere le speranze di tutti, a migliorare la propria condizione di vita, ad aiutare a mantenere non solo il reddito per il sostentamento della famiglia, ma anche a mantenere la speranza di migliorare le condizioni proprie e quelle delle generazioni future.

Credo che questo sia l’aiuto che possono fornire quei servizi che devono essere utili per rimettere al lavoro le persone. Questo è il taglio, il centro di quello che ci anima quando parliamo di lavoro e quando diciamo perché abbiamo una passione per il lavoro.

Ora vediamo però alcune delle problematiche che oggi segnano le difficoltà del lavoro. Una in particolare la stiamo già misurando. Di fronte alle lamentele di molti che dicono che stanno cercando lavoratori e non ne trovano, abbiamo due aspetti: uno quantitativo, infatti cominciamo ad avere delle difficoltà demografiche. Vanno in pensione generazioni che erano numerose e si affacciano sul mercato del lavoro generazioni molto meno numerose, quindi numericamente non c’è una sostituzione piena di tutti i posti di lavoro. A questo si aggiunge quel mismatching qualitativo che è invece una formazione diversa da quella che sarebbe richiesta dai cambiamenti che sono in corso nell’economia e nei cicli produttivi e questo è l’altro grande aspetto che caratterizza le difficoltà che noi stiamo misurando e vivendo. Questo dovrà portarci ad avere una crescita del tasso di occupazione, ad avere più gente che partecipa attivamente al mercato del lavoro, per questo è importante quell’insieme di politiche attive che devono sostenere la formazione nella prima fase della vita e poi lungo tutto l’arco lavorativo, perché le trasformazioni interesseranno tutti e in fondo è quello che ha caratterizzato molte delle iniziative dell’impegno dei lavoratori in Italia. Un tempo ci fu la battaglia per le 150 ore perché portava tutti ad acquisire un primo titolo di studio ed oggi c’è bisogno invece di continuare ad avere una formazione, un adeguamento delle competenze nel lavoro e sul lavoro, prima e dopo la prima fase lavorativa, perché questo è ciò che garantisce l’occupabilità e la possibilità per tutti di spendersi nel lavoro e sul lavoro. Questa è la parte più importante.

In ultimo però richiamiamo una serie di misure che in questo periodo rientrano nell’ambito di una discussione molto animata che riguarda il salario minimo. Io lo chiamerei con il termine “giusto compenso” del lavoro, che non è solo il compenso economico, ma anche il riconoscimento sociale del lavoro di qualità, perché se il lavoro smette di essere sostegno e possibilità di speranza per il futuro delle persone cambia antropologicamente il nostro rapporto con la realtà. Quel ragionamento che ci ha animato, che ci tiene attenti a partecipare al cambiamento della realtà, diventerebbe invece un meccanismo di difficoltà. Cambierebbe la natura di quello che viene assegnato al lavoro. Questa sarebbe veramente la realtà più triste, allora è necessario un insieme di misure che vanno dalla tutela salariale al ridare dignità al lavoro, a tutelarne la qualità. Questo è possibile se abbiamo chiara questa visione, è un insieme di provvedimenti, io parlerei quasi di un patto, che va fatto per sostenere il lavoro e per dargli centralità nel prossimo futuro. Occorre un insieme di provvedimenti e di misure che vanno dalla formazione professionale alla formazione continua, alle tutele che il sindacato e le rappresentanze organizzate possono portare avanti, a come sostenere e favorire la diminuzione del costo del lavoro, alla tassazione del lavoro per favorire una distribuzione migliore del lavoro stesso, restituendogli dignità e facendo sparire quel rischio di lavoro povero che altrimenti sarebbe una contraddizione in termini. Per questo credo che sia importante parlare e ragionare sulle possibilità di fare un vero patto per la centralità del lavoro nel futuro.

Io passerei la parola per un primo intervento al ministro Orlando, che si è collegato, proprio per una riflessione sulla centralità del lavoro nel prossimo futuro e sui provvedimenti che secondo lui sono importanti. Non si tratta solo di una legge, ma anche di come costruire un consenso sociale intorno a queste proposte. Prego, ministro.

 

Andrea Orlando: Grazie. Un saluto. Devo dire che l’intervento è molto più semplice perché, non per captatio benevolentiae, sottoscrivo e condivido l’impostazione che è stata data. Noi oggi discutiamo spesso di un mercato del lavoro sul quale inizia ad avere un impatto molto significativo la curva demografica e questo significa anche un cambio di paradigma, significa pensare al lavoro non solo come un fattore che va valorizzato e sul quale investire, ma anche come una risorsa scarsa sulla quale cercare di impegnarsi per custodirla, non soltanto perché abbiamo una diminuzione dei numeri dovuta all’andamento demografico, ma anche per il fatto che i mercati integrati del lavoro fanno sì che i flussi migratori dall’Italia verso altri paesi soprattutto dei più giovani siano diventati consistenti, aggravando ulteriormente la situazione di difficoltà a reperire manodopera in alcune filiere.

Che cosa possiamo fare? Davvero condivido l’impostazione dell’incontro, perché dire che serve una legge o più leggi è assolutamente riduttivo. Il tema del dialogo sociale, delle forme di confronto, di un vero e proprio patto è secondo me la premessa di qualunque tipo di intervento.

Che cosa deve avere questo intervento al suo interno? In parte delle cose che ci sono già oggi, perché il Pnrr mette in campo degli strumenti che secondo me sono assolutamente funzionali a questo ragionamento: quattro miliardi e mezzo di investimento sul fronte delle politiche attive sono un intervento che non ha precedenti nella storia repubblicana. L’altro aspetto importante, l’altro pilastro è quello del fondo Nuove Competenze che ha funzionato molto bene e magari rinnovato dopo un confronto con le parti sociali può essere un ulteriore strumento. Adesso stiamo aspettando il via libera dalla conferenza stato-regioni e avremo la versione 2.0 del fondo Nuove Competenze e poi c’è il tema di come assicurare, sposo anch’io la definizione, un compenso equo e quindi la garanzia di un compenso dignitoso per tutti i lavoratori come elemento di equità, ma anche come elemento di quella cura che è necessaria in ambiti nei quali la manodopera rischia progressivamente di scarseggiare.

Da questo punto di vista io penso che noi dobbiamo provare a fare uno sforzo per mettere insieme strumenti che garantiscano che non si possa andare sotto un compenso stabilito in modo o normativo o pattizio, questo deve essere a mio avviso oggetto di un confronto. Io penso che non vada demonizzata neanche la possibilità di un intervento di carattere normativo, ma il tema fondamentale è come questo intervento, questo parametro può essere derivato dalla contrattazione, come si può supplire alle dinamiche della contrattazione in un paese che come sappiamo ha un patrimonio importante da questo punto di vista. Non a caso il lavoro povero si annida prevalentemente negli ambiti nei quali la contrattazione funziona meno, cioè nelle imprese al di sotto dei cinque dipendenti, nelle aree del Sud e delle isole, nelle realtà del terziario e del turismo dove notoriamente la capacità di incidere del sindacato è meno forte e quindi non si tratta a mio avviso di contrapporre il salario minimo alla contrattazione, ma di vedere come è possibile trovare una via che metta insieme i due aspetti.

Noi un primo passo stavamo per farlo ed era a portata di mano, poi sappiamo come sono andate le cose a causa della caduta del governo. Era un passo che andava nella direzione di far derivare il salario minimo comparto per comparto dai contratti ritenuti comparativamente più rappresentativi o più diffusi a seconda della definizione che poteva funzionare meglio per ricavare qualche tipo di parametro e questo ragionamento a mio avviso resta sul tavolo come primo step di un disegno più complessivo, anche perché non dobbiamo nasconderci che dentro questo ambito c’è anche il tema di una debolezza in alcuni comparti della contrattazione stessa. Ci sono comparti nei quali, ahimè, sui contratti stessi si fissano salari orari che non sono dignitosi e questo chiama in causa anche il problema della concorrenza che spesso viene portata alla contrattazione dalle forme di contratti pirata, dai sindacati gialli, dalle organizzazioni gialle della rappresentanza. A questo proposito credo che si tratti di fare un percorso insieme di carattere pattizio che definisca le regole attraverso le quali strutturare e dare un riferimento alla rappresentanza stessa. Aggiungo ancora e concludo: c’è stata una grande discussione dove si sono contrapposte tre questioni secondo me in modo un po’ schematico e direi in alcuni casi propagandistico: il tema dei minimi salariali su cui ho detto, il tema della riduzione del cuneo fiscale e il tema del rinnovo dei contratti.

Noi dobbiamo fare un patto che tenga insieme queste tre cose, perché il rinnovo dei contratti deve essere stimolato anche dalla riduzione della pressione fiscale che non risolve tutto, perché la riduzione della pressione fiscale sul lavoro, che è assolutamente un obiettivo da traguardare, non affronta il tema dell’andamento prospettico dei salari nel nostro paese che come sappiamo è fermo da trent’anni, anzi ha fatto qualche passo indietro e quindi quel patto che veniva richiamato a mio avviso deve mettere insieme queste cose: come si unisce il tema della riduzione della pressione fiscale sul lavoro, come si unisce il tema delle regole per il rinnovo dei contratti. Ci sono contratti che sono scaduti nel 2014-2015 e noi sappiamo al tempo dell’inflazione che cosa significa il passaggio di un mese, non di un anno e poi c’è la necessità di fare in modo che comunque quella contrattazione avvenga all’interno di regole che non consentano forme di dumping. Ecco, io credo che se noi riuscissimo a fare una discussione almeno impostata così le differenze che paiono insormontabili potrebbero invece ridursi significativamente. Il tema comunque è molto urgente, perché noi non possiamo parlare di competitività e di difesa del lavoro se non affrontiamo prima di tutto il nodo dei salari che come abbiamo visto sono uno degli elementi, come lei diceva, di riconoscimento del valore che una società assegna al lavoro, non l’unico, ma sicuramente non il meno importante, poi cito un aspetto che indico solo come titolo e che era sul tavolo di confronto che si stava aprendo e che riguarda il modo in cui il lavoro viene utilizzato, cioè noi davvero al tempo dell’investimento sul capitale umano, al tempo dell’esigenza di continuare ad investire sul miglioramento delle competenze possiamo mantenere la selva di tipologie contrattuali che caratterizza attualmente il mercato del lavoro oppure senza ideologismi non è il tempo di incominciare a ridurre e selezionare gli strumenti che funzionano di più e quelli che funzionano di meno?

Penso su tutti per esempio al potenziamento dell’apprendistato per quanto riguarda l’accesso al lavoro, magari favorendolo maggiormente dal punto di vista fiscale. Questa io credo sia la discussione che noi dobbiamo fare, non più in termini di contraddizione, ma in termini di custodia vorrei dire, di cura del lavoro. Credo che questo sia l’approccio in questa fase assolutamente necessario in un paese che invecchia, in un paese dove i giovani ricominciano ad andarsene, nel quale senza un investimento pesante sul lavoro, senza la capacità di valorizzare il lavoro, la competitività è a rischio e si rischia anche di non cogliere delle occasioni che si presentano e si presenteranno con il Pnrr. Grazie.

 

Massimo Ferlini: Grazie per l’intervento e grazie per questo spunto finale del parallelo della custodia e cura del creato con la custodia e cura del lavoro che ha fatto nel chiudere la sua riflessione. Io parto da una cosa che diceva proprio nell’ultima parte dell’intervento per chiamare Monica Poggio, amministratore delegato di Bayer Italia e appassionata animatrice di iniziative al di fuori dell’azienda su un tema che è proprio stato richiamato qui adesso, che è quello di cercare di copiare, di estendere le esperienze positive, i fatti positivi che vediamo in atto in Europa e che favoriscono l’inserimento dei giovani.

Il ministro richiamava appunto una riflessione intorno all’apprendistato come percorso di inserimento dei giovani nel lavoro su cui riflettere e magari introdurre semplificazioni e miglioramenti per renderlo più interessante per le aziende. L’apprendistato richiama anche la necessità di un’alleanza tra scuola e lavoro, che è il canale attraverso cui si è sviluppato negli altri paesi europei il sistema duale, cioè quello che sposa la formazione delle competenze insieme alla crescita e che fa coniugare appunto sistema formativo e scolastico con la partecipazione attiva al lavoro. So che su questo può tenerci una lezione e le passo la parola.

 

Monica Poggio: Non farò una lezione. Cercherò di esprimere il mio pensiero e la mia esperienza e, come ha detto lei, la mia passione per questo tema. La mia passione sono i giovani e le giovani e credo che orientarli oggi, dar loro una bussola per orientarsi in un mondo che è molto complesso dal punto di vista di organizzazioni, di aziende, di competenze e quindi di scelte da fare in ambito formativo-educativo scolastico tenendo insieme più anime, sia un compito molto importante. Parliamo molto di competenze, potremmo aprire anche un grande dibattito fra compenso e conoscenze, ma non è oggi il momento per parlarne, però dobbiamo dare strumenti alle nuove generazioni per orientarsi ed avere un percorso che le porti ad essere poi efficaci nel collocarsi nel mondo del lavoro.

Lei ha richiamato le esperienze europee, ovviamente io conosco il sistema tedesco, gioco in casa quindi è facile, però non vorrei parlarvi di Germania. Potrei parlarvi di Francia giusto per non essere di parte.

Il punto è cercare di articolare il nostro sistema educativo, formativo, scolastico in maniera più moderna, puntuale, attuale rispetto alle esigenze del mercato del lavoro. Stamattina Giorgio Vittadini in un altro incontro ha presentato alcuni dati che sono inquietanti dal punto di vista del sistema paese. Noi abbiamo un tasso di occupazione generale che è aumentato, ma sempre un tasso di disoccupazione giovanile più alto, abbiamo due milioni di neet, i cosiddetti inattivi sia da un punto di vista di ricerca del lavoro che da un punto di vista di formazione, di un percorso formativo, abbiamo un tasso di dispersione scolastica nelle varie fasce, per arrivare poi anche all’ultima fascia, quella terziaria, se pensiamo all’abbandono dopo il primo anno di università, ancora molto molto alto rispetto agli altri paesi.

Allora cosa succede negli altri paesi dove i dati sono sicuramente inferiori ai nostri? Succede che da anni ormai, culturalmente è stato sdoganato, accettato e comunque affonda in radici culturali molto più antiche rispetto al nostro sistema per ragioni di impostazioni del sistema stesso, per le riforme che il nostro sistema educativo ha avuto negli anni, comunque si è affermato un concetto, un approccio di alternanza scuola-lavoro, di sistema duale, molto più attivo del nostro e in particolare riguardo alla fascia formativa terziaria, quindi post diploma di maturità, c’è un’articolazione dell’offerta formativa molto più ampia rispetto a quella a cui noi siamo tradizionalmente abituati, per cui una volta conseguito un diploma di maturità si può scegliere tra percorso accademico universitario, semplifico per comprendere, oppure dei percorsi alternativi secondo l’impostazione duale. In Germania sono le Fachschule, in Francia sono i brevetti tecnici superiori o i diplomi tecnici universitari, percorsi più brevi, più accelerati, con una spendibilità più immediata nel mondo del lavoro, dove si formano competenze con un metodo didattico che prevede un inserimento in azienda anticipato con stage, quindi un’alternanza vera, cioè nella stessa settimana si sta sia in classe sia si va a fare un’esperienza lavorativa. Questo fa sì che naturalmente chi è in uscita da questi tipi di percorsi formativi maturi competenze che sono immediatamente spendibili nelle organizzazioni delle aziende secondo quanto richiesto dal mercato del lavoro. Noi in Italia ci stiamo provando, io in particolare da molti anni sono ambassador di un’offerta formativa, quella degli istituti tecnici superiori, ora che finalmente abbiamo una legge approvata il 12 luglio si chiamano Istituti tecnologici superiori, percorsi biennali post diploma che formano dei tecnici superiori, cioè professionalità o competenze tecniche. Si caratterizzano per avere più del 30 per cento del tempo totale di ore di formazione spesso in azienda, docenti che vengono per più del 50-60 per cento dal mondo professionale, è una co-progettazione, questo è il punto fondante, tra scuola e aziende, molto puntuale. Non sono percorsi rigidi come quelli universitari, quindi dal punto di vista didattico si possono rimodulare il tipo di didattica, il tipo di competenze, i moduli formativi e quindi sono molto più veloci per rispondere alle richieste di competenze delle aziende che, questo è un dato di fatto, sono attraversate da una grande accelerazione in termini di cambiamenti organizzativi, quindi di competenze. È un concetto che da noi fa ancora fatica culturalmente ad essere conosciuto e accettato, però è un tipo di impostazione che può dare risultati e i dati degli altri paesi evidentemente lo testimoniano, ma anche da noi perché, ricordava qualcuno stamattina, negli istituti tecnologici superiori in Italia sono iscritti circa 18.000 studenti. All’estero parliamo di un ordine di grandezza di centinaia di migliaia, però anche da noi i dati ormai dimostrano che più dell’80 per cento di questi studenti ad un anno dal diploma trova lavoro e lo trova in coerenza con quello che ha studiato, quindi assolutamente in linea con le competenze che ha acquisito, dunque sono dati assolutamente positivi. All’inizio quando promuovevamo il concetto di Its non avevamo ancora dati, ma oggi che ci sono lo possiamo dire in maniera molto chiara e provata. Allora è un percorso che ha dimostrato di funzionare, è un percorso su cui il Pnrr prevede un investimento di un miliardo e mezzo perché vengano potenziati, devono diventare scalabili, sono un’esperienza ancora di nicchia che deve essere potenziata, è un percorso che funziona se c’è collaborazione con il territorio e la filiera produttiva del territorio. Non basta fare un Its per fare occupazione, bisogna che ci siano tre fattori: bisogna che ci siano delle aziende che cercano quel tipo di competenza di una certa filiera produttiva, l’ente formativo che può formare rispetto a quelle competenze, occorre reclutare gli studenti, cosa che può sembrare ovvia, ma quando il percorso non è così conosciuto anche la parte del reclutamento degli studenti, del far conoscere il percorso, può richiedere un certo investimento di energie e di tempo.

Questa è una delle risposte alle esigenze di risolvere il tema del mismatch, perché il mismatch, come diceva stamattina Vittadini, è assurdo. Un terzo non trova lavoro, ma le aziende non trovano lavoratori, quindi è veramente un paradosso. Occorre formare secondo inclinazione, orientamento e competenze, quindi è qualcosa che secondo me va potenziato, dato che noi abbiamo dal punto di vista culturale trascurato per anni la formazione tecnica, che non vuol dire trascurare la parte di soft skills umanistica. La persona è al centro e non si tratta di inseguire la tecnocrazia, dobbiamo continuare a formare pensiero e persone, consapevoli però che una volta arrivate ad affacciarsi sul mercato del lavoro devono acquisire le competenze tecniche che possono aiutarle ad inserirsi in maniera efficace.

 

Massimo Ferlini: Grazie del tenere assieme nella persona il pensiero, la conoscenza e l’approfondimento tecnico. È proprio quello che permette di sviluppare non solo le competenze, ma una partecipazione cosciente al processo produttivo e al percorso lavorativo che uno intraprende. Mi pare la cosa principale l’apprendimento personale. Vorrei coinvolgere però adesso il segretario generale della Cisl Luigi Sbarra.

Il ministro ha fatto un accenno ai contenuti essenziali di un possibile patto inserendolo in una riflessione, perché aveva la volontà, l’obiettivo di rimettere al centro il lavoro nell’iniziativa sociale del prossimo periodo. Come lo vedi, dato che di patto hai parlato a lungo negli ultimi mesi?

 

Luigi Sbarra: Grazie per l’invito, grazie al Meeting per aver voluto dedicare in queste importanti giornate di riflessione uno spazio alla passione per il lavoro, al valore sociale, alla qualità del lavoro, al principio che il lavoro è anche forma di realizzazione professionale che mette in collegamento la persona con la comunità. Il tema del patto per il lavoro è stato per lungo tempo al centro, tra le priorità della nostra agenda sociale. Come sindacato abbiamo da lungo tempo rivendicato la necessità di imprimere una forte accelerazione nel confronto con le forze nazionali e locali su un tema che per noi è decisivo per il presente e per il futuro del nostro paese. Io sono convinto che bisogna allontanarsi dall’illusione che il lavoro lo si possa realizzare per decreto o con uno schizzo di inchiostro su una gazzetta ufficiale. Il lavoro lo difendiamo, lo salvaguardiamo, lo creiamo soprattutto per giovani generazioni, uomini e donne, se lo facciamo diventare asse centrale di un percorso che metta al centro la ripartenza degli investimenti pubblici e privati. Nel lavoro ci sono state nel passato troppe interferenze legislative, c’era chi si illudeva negli anni passati che con il decreto Dignità noi avremmo superato la logica del precariato, del lavoro a termine e avremmo creato condizioni per la stabilizzazione dei rapporti di lavoro, invece abbiamo dovuto prendere atto che quel decreto non ha fatto altro che alimentare un circuito e una forte accelerazione di rapporti di lavoro a termine. C’era chi si illudeva, fatemelo dire, che attraverso il reddito di cittadinanza noi avremmo creato le condizioni per un ingresso stabile di tante persone abili al lavoro nel mercato del lavoro. Io penso che quell’esperienza si sia rivelata inadeguata, un fallimento almeno da questo punto di vista. Se è vero come è vero che quella misura è stata importante per contrastare la povertà, sotto il profilo della crescita delle opportunità di lavoro è stata un’iniziativa improvvida.

Significa quindi agire su due versanti: da un lato rimettere al centro il valore, il rilancio degli investimenti pubblici e privati, il lavoro prima di redistribuirlo lo devi creare e lo crei solo attraverso gli investimenti pubblici e privati. È lì che noi possiamo negoziare forme nuove per assicurare lavoro di qualità ben retribuito, ben contrattualizzato.

Il secondo intervento, lo si di diceva e lo si richiamava, è quello di recuperare anni di disattenzione sul fatto che le politiche per il mercato del lavoro sono state concentrate nelle riforme sotto il profilo delle politiche passive. Questo paese non investe da anni sul capitale umano, sulle politiche attive, sui servizi per l’impiego, sulla necessità di concentrare interventi forti sulla crescita delle competenze, delle conoscenze attraverso percorsi di formazione e riqualificazione. Il sistema duale, si diceva, in Germania ha ben funzionato negli anni perché ha posto al centro il tema dell’apprendistato come canale, tipologia contrattuale di accesso dei giovani al mercato del lavoro. Da noi, ahimè, da lungo tempo scuola e lavoro diventano sempre più mondi distanti.

Investire sul capitale umano, investire sulle politiche attive significa affrontare questo tema dei servizi per l’impiego, del coordinamento tra i livelli nazionali e i livelli regionali. Noi abbiamo, per effetto di una legge sulla riforma del titolo quinto, costruito venti modelli di politiche per il lavoro; per la formazione in questo paese c’è da assicurare un forte collegamento tra la dimensione nazionale e quella regionale, bisogna investire sui centri per l’impiego pubblici.

Molti ci dicono che dobbiamo guardare alla Germania e guardiamola l’esperienza tedesca: lì funziona l’apprendistato, c’è il sistema duale, nei centri per l’impiego pubblici ci sono più di 110.000 operatori che si mettono a disposizione della popolazione disoccupata prendendo in carico, orientando, facendo bilancio delle competenze, lavorando sull’occupabilità, creando le condizioni di governo del disallineamento tra domanda e offerta di lavoro.

In Italia abbiamo meno di diecimila operatori e la metà è gente precaria i cui rinnovi dei contratti avvengono ogni sei mesi, massimo ogni anno. Noi dobbiamo fare un grande investimento sui centri per l’impiego pubblici da collegare con le agenzie di lavoro private che hanno maturato grandi esperienze in questi ultimi anni, dobbiamo mettere in relazione sul territorio centri di servizio per l’impiego con le imprese, con la scuola, con le università, con la formazione professionale accreditata, io aggiungo con i fondi bilaterali. Sostanzialmente dobbiamo operare un grande investimento. Il ministro diceva che il Piano nazionale di ripresa e resilienza è una formidabile opportunità perché libera risorse da investire sul programma garanzia, occupabilità, lavoro, sul sistema duale, sul fondo per le nuove competenze e quindi questo oggi è il vero tema. Per noi diventa importante assicurare la formazione lungo tutto l’arco della vita lavorativa, non a caso in alcuni contratti nazionali abbiamo negoziato una sorta di diritto-dovere soggettivo della persona per la formazione continua. Dobbiamo creare condizioni attraverso la stessa contrattazione decentrata perché si moltiplichino le opportunità per le persone che hanno necessità di adeguare competenze e professionalità, perché viviamo questa assurda contraddizione: un paese che ha tassi di disoccupazione elevatissimi soprattutto in alcune aree, penso al Mezzogiorno, e imprese che cercano personalità nuove e non le trovano. Ecco perché oggi diventa centrale l’investimento sulla persona, sul capitale umano, sui lavoratori e diventa importante spostare il baricentro delle tutele dal posto di lavoro alle persone nel mercato del lavoro.

Ecco perché oggi la vera grande sfida è investire sulla formazione, sui percorsi di riqualificazione se vogliamo stare dentro come lavoro in questo processo di transizione epocale, che è sia transizione digitale che transizione ambientale che transizione democratica, come giustamente si richiamava all’inizio. Dobbiamo quindi ripensare al lavoro alla luce di questi cambiamenti e qui diventa importante negoziare un vero grande patto per il lavoro. Lo abbiamo fatto non riuscendoci con il governo in carica, ma io penso che questo deve essere per le parti sociali e per i corpi intermedi l’asse centrale, prioritario nel confronto e nel dialogo con il futuro governo, per creare le condizioni di un vero patto sociale per la crescita e lo sviluppo che metta a valore, a significato il tema del lavoro, della formazione, delle competenze. Qui la vera grande sfida che oggi abbiamo: salvaguardare, tutelare il lavoro, dare dignità alla persona, non è possibile che il lavoro diventi una catena caratterizzata da forme di sfruttamento per giovani e donne, non può essere che il lavoro diventi un elemento che mette a rischio la vita delle persone. Troppi incidenti, troppi infortuni, troppe morti sul lavoro, troppo lavoro nero, troppo sommerso e fatemi dire che chi si illude che il salario minimo per legge riesca a risolvere questo tema semina solo illusioni.

Il vero problema è che l’Italia deve operare un vero salto di qualità, perché c’è un tema di crescita salariale in questo paese, noi dobbiamo alzare stipendi, salari, retribuzioni ed anche il valore delle pensioni, perché se siamo in fondo alla graduatoria dei paesi Ocse per consistenza salariale questo è anche legato al fatto che il paese non cresce da più di 25 anni, non c’è produttività, non la puoi redistribuire e quando non redistribuisci ricchezza o produttività le disuguaglianze aumentano e lo stacco tra ricchi e poveri si infittisce sempre di più, quindi bisogna investire sulla crescita, rilanciare gli investimenti, ridurre le tasse sul lavoro per recuperare retribuzione netta in busta paga e poi dobbiamo rilanciare un confronto per una nuova stagione di relazioni sindacali.

Qual è il modello di organizzazione del lavoro necessario nelle imprese nella fase post Covid? C’è il tema del salario, dell’orario, degli inquadramenti, della formazione, della conciliazione vita-lavoro, dello smart working. Sono nuovi paradigmi che ci chiedono di ripensare anche il sistema e il modello delle relazioni industriali che deve essere sempre più centrato e tarato su principi di responsabilità, su un modello partecipativo. A me dispiace che di tutto si stia parlando in questa campagna elettorale tranne che ascoltare parole chiare sul tema del lavoro che cambia, del nuovo lavoro che avanza e che va governato, rappresentato e anche rispetto al tema della partecipazione, per aprire in questo paese una vera stagione di democrazia economica e di responsabilizzazione delle persone rispetto alla gestione e agli indirizzi delle proprie aziende, perché è maturo il tempo per avviare una grande discussione sul modello partecipativo, così la facciamo finita, fatemelo dire, con il fatto che quando le aziende vanno bene utili e profitti vengono spalmati sulla testa di pochi e quando invece le aziende vanno male per errori e per scelte sbagliate i costi di quelle scelte li pagano le persone, i lavoratori con i licenziamenti, gli esuberi e la cassa integrazione. Apriamo una vera discussione sul modello partecipativo, io penso che la contrattazione nazionale e decentrata, la bilateralità, un nuovo modello di responsabilità sociale nel mondo delle imprese sia la condizione per rappresentare e dare un futuro alle lavoratrici e ai lavoratori italiani.

 

Massimo Ferlini: Grazie al segretario della Cisl. Ministro, so che lei si deve staccare, se non mi hanno informato male. In questo caso le darei la parola per un intervento, per aggiungere le sue riflessioni e salutare.

 

Andrea Orlando: Volevo dire due cose che riprendeva Sbarra che condivido e che penso dovremmo tenere insieme. Noi stiamo guardando tutti un po’ alla Germania come riferimento sulla questione della formazione duale, sul tema dell’istruzione tecnica, sul meccanismo dell’adeguamento delle competenze, tutti istituti che però stanno dentro un quadro che secondo me non dobbiamo smarrire e che ci spingono a fare altre cose che vanno oltre anche alle politiche del lavoro. In primo luogo le politiche industriali. Nel nostro paese c’è un tema di crescita dimensionale, le imprese gestiscono bene questi processi anche perché sono attrezzate meglio per farlo avendo una media dimensionale più significativa della nostra. Questo è un primo punto. La seconda è un’altra questione che secondo me è un elemento di discussione assolutamente importante. Adeguamento delle competenze e transizioni chiamano in causa, se tutto quello che abbiamo alle spalle non l’avesse fatto, il tema della partecipazione dei lavoratori alle decisioni delle grandi imprese. Io credo che questo sia un punto cruciale, noi non possiamo pensare che funzionino meccanismi che in qualche modo sono mutuati da altri sistemi se non teniamo insieme il circuito positivo che ha determinato gli altri sistemi, allora io credo veramente che occorra riflettere anche nel nostro paese su una stagione di democrazia economica, che diventa sempre più importante nel momento in cui è chiesto anche ai lavoratori di cambiare costantemente i propri profili e nel momento in cui le transizioni o sono uno sforzo collettivo, penso a quella digitale, ma anche a quella ecologica, o altrimenti rischiano di essere fallimentari e di creare a loro volta delle diseguaglianze. Io credo che questo sia assolutamente un punto che questa campagna elettorale dovrebbe provare ad affrontare.

Io qui parlo da ministro, dirò quello che penso come esponente politico nelle prossime settimane, ma da ministro devo dire che questo tema è poco al centro della discussione, mentre attraverso un meccanismo di democrazia economica secondo me si possono trovare strade diverse da quelle seguite nel corso di questi anni che hanno fatto esclusivamente ricorso a forme di svalutazione e di precarizzazione del lavoro come unica via possibile per rispondere alle cose che stavano cambiando.

Sulla questione delle politiche attive è stato fatto e si sta facendo uno sforzo importante, però pesa quel titolo quinto a cui faceva riferimento Sbarra. Quando mi sono insediato il potenziamento dei centri per l’impiego era circa il 15 per cento delle potenzialità previste da finanziamenti che erano già stati erogati, finisco la mia esperienza arrivando vicino all’80 per cento, però in quel 20 per cento che manca ancora pesano molto le difficoltà di quelle regioni che avrebbero più bisogno di politiche attive del lavoro. Noi in fondo se guardiamo a questi mesi abbiamo messo in fila tutte le cose che sono necessarie per affrontare le nuove sfide che abbiamo di fronte: la nuova legge sugli Its, le risorse sul duale, i soldi sulle politiche attive, il potenziamento dei centri per l’impiego, insomma c’è molto. Aggiungerei, rispetto ad un’altra sottolineatura già fatta, il potenziamento dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che vede un ampliamento dell’organico del 65 per cento, perché tanto su quei numeri legati ai neet quanto sul tema del mismatch pesa da molto anche l’alterazione che è determinata dal nero, dal sommerso, dall’elusione.

Ora però ci sarebbe bisogno di continuità, di costanza, ci sarebbe bisogno sostanzialmente che la discussione sul lavoro guardasse davvero a delle invarianti che non vengano rimesse in discussione ogni volta e che stanno dentro alle direttrici del Pnrr. Io mi auguro che questo dato si consolidi perché altrimenti i passi avanti che si possono compiere per i quali abbiamo fatto le premesse necessarie rischiano di essere vanificati e rischiamo di pagare un prezzo molto alto sia in termini di competitività sia in termini di possibilità di ridurre quelle diseguaglianze a cui si faceva riferimento. Grazie.

 

Massimo Ferlini: Grazie, ministro, per aver trovato comunque modo di partecipare fra un impegno e l’altro e in bocca al lupo e buon lavoro per la campagna elettorale che la vedrà attivo da questi minuti.

Adesso vorrei sentire invece dal dottor Hannappel, amministratore delegato di Philip Morris Italia, una sua riflessione che viene da un’esperienza di cui i numeri potrà darli lui, un grande investimento straniero fatto qua su tecnologie avanzatissime, su prodotti che erano di completa innovazione per quel mercato che è il mercato di riferimento della Philip Morris e che non si è fermato. Vi siete trovati bene e state investendo ancora sia in termini tecnologici sia nel formare quelle competenze che non riguardano solo voi, ma se ho ben capito, tutta la filiera e quindi date una risposta a quel bisogno di fare assieme con il territorio che avete richiamato prima, ma lascio a lei il modo di spiegarcelo.

 

Marco Hannappel: Buongiorno a tutti, grazie per l’invito e grazie al Meeting. Anch’io mi associo a quanto detto da Sbarra sull’importanza di parlare di lavoro, del lavoro del presente e del futuro. Credo che sia fondamentale. Sì, vero, noi abbiamo un processo di trasformazione, mi sento di poter dire unico, tra le multinazionali, ma mentre il cambiamento non arriva mai dall’interno, dal leader del settore, se pensiamo all’automotive la Tesla non è una costola della Bmv o della Mercedes, in questo caso il grande cambiamento viene dal più grande attore del mercato tradizionale del mondo delle sigarette.

Nel 2016 fa un importantissimo pezzo di carta in cui tutto il board afferma di voler uscire nel più breve tempo possibile dal mercato tradizionale sostituendolo con prodotti di innovazione e per farlo sceglie l’Italia perché quando c’è da creare qualcosa che non esiste, un prodotto che non esisteva, noi siamo formidabili e in finale c’era la Germania, parlando di calcio, ma anche quando parliamo di industria ce la giochiamo bene e lo stabilimento più grande al mondo della Philip Morris è qui nella stessa regione da cui parliamo, quindi in Emilia Romagna ed è il più grande stabilimento fatto in Italia negli ultimi ventidue anni, quindi in questo secolo non c’è una fabbrica più grande fatta in Italia, di quella di Crespellano. È un fulcro e su quel fulcro produce le Ips che vanno nei sistemi high cost. Sei anni fa era un prato di sterpaglie, oggi è una fabbrica che da sola esporta in quaranta paesi del mondo e da sola esporta più di tutto l’olio di oliva italiano, più di tutti i motorini, più di tutti i formaggi stagionati italiani. Da in prato di sterpaglie con innovazione di macchinari fatti in Italia, pensati in Italia e che hanno creato uno sviluppo formidabile.

Su quell’ecosistema abbiamo potuto continuare ad investire in Italia, abbiamo investito in un importantissimo rinnovo degli accordi con l’agricoltura, con Coldiretti, 21.500 persone in Italia lavorano per noi attraverso Coldiretti, sono mille aziende agricole e siamo gli unici ad avere un progetto di lungo periodo con loro, cinque anni di visione, cento milioni all’anno di investimenti ogni mezzo miliardo.

Che cosa ha consentito questa visione nel lungo periodo? Ha consentito di migliorare i processi produttivi in agricoltura, per esempio, visto che abbiamo parlato di siccità tutta l’estate, oggi queste mille aziende risparmiano il 40 per cento di acqua, cosa che per noi è molto importante rispetto al passato, quindi agricoltura e una fabbrica monstre. Questo ecosistema ha permesso di aggiungere servizi digitali, cento milioni sono stati investiti a Taranto, dove nel novembre del 2020 è stato inaugurato il nostro Disc (Digital information service center). Oggi ci lavorano più di 350 persone e questa struttura poi ha portato un altro pezzo di cervello che è la ricerca e sviluppo sia in ambito di prodotto sia in ambito di persone, perché più si sviluppano le macchine, più si sviluppano le attività innovative di prodotto più c’è necessità di investire in parallelo sullo sviluppo delle persone.

Che cosa abbiamo fatto? L’anno scorso abbiamo investito 600 milioni in tre anni creando il centro per le eccellenze industriali Philip Morris, anche questo il più grande del mondo. È una fabbrica che fa fabbriche, non solo produciamo il prodotto finito che poi mandiamo in tutti i paesi del mondo, ma quando c’è da costruire una nuova fabbrica una grande parte di questo processo produttivo viene sviluppata in Italia. Con questa inaugurazione che è avvenuta nell’ottobre dell’anno scorso abbiamo impiegato 250 persone di altissimo profilo e vi preannuncio che c’è un grandissimo processo di sviluppo in questo ambito. Gran parte di queste sono ingegneri, professionisti di grande profilo. Oltre a questo abbiamo collegato un approccio alle competenze. Le grandi multinazionali normalmente hanno tutte delle accademie aziendali che una volta funzionavano così: al momento dell’ingresso in azienda faccio formazione oppure dopo vent’anni con due giri di cacciavite ridiamo ai senior la possibilità di essere aggiornati. Questa è una academy che abbiamo chiamato Institut for manufactory competences, che lavora giustamente non da sola, perché le competenze non si possono sviluppare da soli, c’è la necessità di farlo in un rapporto pubblico- privato, lo facciamo con l’università di Bologna, con il politecnico di Torino, col politecnico di Bari, lo facciamo con grandi investimenti sui corsi di aggiornamento che finanziamo ai docenti degli Its che anche per noi, sono d’accordissimo, possono diventare un grande fulcro di sviluppo perché in una linea produttiva di Crespellano ci sono cinquanta persone e non sono tutti ingegneri e c’è bisogno ovviamente di queste tipologie di persone. Quindi c’è un momento di formazione precedente all’ingresso in azienda e questo si fa con un lavoro che abbiamo fatto insieme alla regione Emilia Romagna, ma stiamo lavorando anche con altre regioni. Si fa allo stesso modo con cui si fa l’open innovation in ambito di prodotto, si collabora con start up, si collabora con chi ha delle idee formative su importantissimi pezzi dell’industria 4.0, ma adesso parlerò anche di agricoltura 4.0. Questo si sviluppa non più come una volta quando si faceva ricerca e sviluppo con gli alambicchi, chiusi dentro ai centri di ricerca delle aziende. Oggi si fa con grande partnership: università, Its, piccole e medie imprese che fanno parte di una grande filiera. Oggi per Philip Morris 38.000 persone lavorano nella nostra filiera creata da un prodotto e da una fabbrica che sei anni fa era un prato di sterpaglie a centocinquanta kilometri da qua.

 

Massimo Ferlini: Grazie, bell’esperienza che cresce ancora.

Adesso Luca Ruini, presidente del Consorzio nazionale per gli imballaggi, quel primo pezzettino di economia circolare che sviluppando le raccolte differenziate ha introdotto anche nel nostro paese il recupero di materie e il riciclaggio. A lui chiederei, da protagonista, come presidente di Conai, di uno dei tasselli della trasformazione, proprio quello del passaggio all’economia circolare, della sostenibilità ambientale nei cicli produttivi e nei sistemi sociali, quali aspetti vede nell’impatto fra il lavoro, la formazione e le esigenze che verranno a crearsi per quei greenworks che dovrebbero essere anche buona parte dell’occupazione futura.

 

Luca Ruini: Partirei da un’altra esperienza. Visto che oggi si è parlato di Its e a proposito di eccellenze italiane, perché poi anche noi abbiamo una serie di esercizi italiani su un Its, provo a raccontarvi l’esercizio che è stato fatto negli ultimi tre anni a Parma. In questo caso parliamo della culla dell’alimentare e l’esercizio si chiama Food Farm 4.0. C’è una insegnante, anzi una preside, che ad un certo punto ha ereditato un vecchio capannone che ha deciso di provare a ristrutturare per mettere dentro delle linee sperimentali per fare conserve, marmellate, un po’ di biscotti e del formaggio. Ha vinto un bando del ministero che ovviamente non era sufficiente per fare la ristrutturazione, per cui ha chiesto al territorio di riuscire a finanziarne una parte, quindi metà è venuta dal ministero, ma l’altra metà è venuta fuori dal mondo imprenditoriale locale fra banche e aziende alimentari, ovviamente.

Accanto a questo è nata una sperimentazione interessante, perché la scuola è brava a fare alternanza con il lavoro o con gli Its per portare specializzazione, però bisognava prima che questo piccolo laboratorio con le linee sperimentali potesse funzionare, quindi acquistare le materie prime, pagare le energie, oggi care, poi a questo punto vendere i prodotti. Per far questo è nata un’organizzazione privata assolutamente volontaria di cui hanno iniziato a far parte mulini, aziende alimentari, chi faceva pomodoro, chi faceva pasta, ma anche in un secondo momento la grande distribuzione, qualche grande marchio come Esselunga ed anche le società che si occupano invece di trovare l’incrocio del mismachting del lavoro, cioè chi offre servizi.

Devo dire che siamo partiti con questo tipo di esercizio, quindi scuola con i ragazzi gestiti dagli insegnanti, una società cooperativa fatta da questi soggetti che invece dovevano gestire acquisto materie prime, definire il prodotto e andare a venderlo sul territorio. Siamo partiti in pieno lockdown, quando si è fermato tutto. Devo dire però che l’esercizio è stato tale che oggi è il secondo anno che andiamo in pari, cioè con quel che vendiamo riusciamo a pagare tutto il funzionamento della scuola, i ragazzi fanno formazione, vengono utilizzate le strutture per fare anche altri prodotti e il tutto a costo zero, perché con quel che si vende si riesce a mettere da parte dei soldi, tant’è che c’è un altro rudere su cui in qualche maniera stiamo cercando di fare un altro investimento per allargare l’attività.

Aggiungo un terzo esercizio. Ho portato chi si occupava di mettere insieme aziende e start up e quando ha visto l’attività che stavamo svolgendo ha osservato che in Italia non c’è nessuna struttura che ha una dimensione di linee produttive così piccole che servono alle start up per uscire dalla cucina, come si suol dire, per cui ha detto che bisogna trovare il modo di riuscire ad usare questa struttura per poter in qualche maniera far fare il primo salto alle start up che si occupano di alimentazione, quindi siamo anche in questa fase.

Devo dire che l’esercizio è assolutamente non semplice da fare, perché bisogna lavorare bene con la scuola, con la mentalità e con il modo differente, ma d’altra parte lavorare con il territorio. Prima giustamente si diceva che non basta avere l’Its, bisogna fare un progetto sul territorio, tant’è che l’aver messo dentro chi si occupa di mettere insieme chi cerca lavoro e chi propone lavoro è stato uno dei fattori vincenti di questo tipo di esercizio, perché si stanno costruendo dei percorsi che servono esattamente per le aziende di cui fanno parte, però facendo un progetto di territorio. Servono passione e tempo per poterlo realizzare. Mi fermo qui, al primo esercizio di cui non avevamo parlato. Tutti hanno parlato di Its. Faccio il presidente della società sopra citata e mi hanno chiesto di provare a far funzionare questo progetto. Spesso sono la persona che si occupa delle cose un po’ difficili da portare a casa e devo dire che è stato uno degli esercizi più interessanti quello di costruire percorsi di formazione perché i ragazzi possano acquisire una competenza, che è quello che serve all’interno delle aziende. Questo è stato fatto in periodo di lockdown, con l’incertezza della riuscita, invece sono due anni che andiamo in pari, anzi riusciamo ad avere soldi per fare ulteriori investimenti, cosa non banale.

 

Massimo Ferlini: Grazie, bella iniziativa. Io vi invito adesso a guardare quei numeri. Abbiamo ancora dieci minuti per un possibile dibattito. Voi avete dato prova nel primo giro di interventi di essere persone di impresa molto impegnate, con uno sguardo aperto a quello che viene fuori e a quello che sono le problematiche che il lavoro porta dentro all’organizzazione di imprese. Noi abbiamo avuto il lockdown, veniva ricordato adesso, con l’avvio dello smart working che ha accelerato un processo di cambiamento del lavoro che la digitalizzazione aveva già in qualche modo avviato. Nello stesso tempo nel primo intervento Sbarra a nome del sindacato diceva che si può aprire una nuova stagione di democrazia economica, di nuove forme di partecipazione dei lavoratori in azienda. Se vi do tre minuti a testa e lascio a lui l’ultima parola potete dire che cosa secondo voi verrà indotto di cambiamento nell’organizzazione del lavoro reale che non sia di isolamento delle persone, ma di costruzione delle relazioni e se si può in questo modo aprire una stagione di collaborazione reale con i lavoratori dentro le aziende, tale da dire che si apre una nuova stagione di patto per il lavoro che passa anche attraverso la vostra esperienza aziendale?

 

Monica Poggio: Direi che l’introduzione a questo secondo giro già ha posto le basi. Sono molto d’accordo sul fatto che ci voglia un nuovo modello di relazioni, innanzi tutto un nuovo modello di lettura e decodifica dei cambiamenti all’interno delle organizzazioni, anche alla luce di quelli che sono stati gli impatti della pandemia, per esempio il lockdown con l’accelerazione sul digitale, perché si è detto e ridetto che il Covid è stato un acceleratore di processi che erano già avviati. Ci vuole un nuovo modello di lettura però. Noi continuiamo a leggere con categorie concettuali ed interpretative di un’altra epoca storica. Se non ci rendiamo conto del salto di paradigma che stiamo facendo come organizzazione, come modello organizzativo del lavoro e quindi del lavoro complessivo come relazioni, valori, rapporti e poi ovviamente attività e processi, non riusciamo a capire come costruire su questa base. Sicuramente c’è lo smart working che ci ha cambiato. Noi come Bayer abbiamo un accordo sindacale, stiamo monitorando con due anni di sperimentazione che doveva finire una volta terminata la gestione della pandemia, che per ovvi motivi non possiamo ancora dichiarare chiusa, stiamo pensando a disegnare, a progettare quello che sarà, scusate l’Inglese, il next normal, cioè la nuova normalità dopo più di due anni di gestione di emergenza. Quando un’emergenza dura così a lungo non può diventare che strutturale per certi versi, quindi cosa significa da un punto di vista di impatti, di relazione, di appartenenza, come gestire riunioni in modalità ibrida, cioè con persone in presenza e persone collegate, cosa vuol dire fare relazioni sindacali con una modalità completamente diversa? Richiamava prima Sbarra il modello partecipativo, credo si riferisse al modello della cogestione tedesca, se ho capito il riferimento. Noi, come credo Philip Morris, siamo nel settore chimico-farmaceutico dove già il modello di relazioni sindacali è un modello partecipativo, noi incontriamo i nostri interlocutori sindacali continuamente in azienda, continuiamo a dialogare, continuiamo a condividere informazioni. Abbiamo esperienze di osservatori previsti dal contratto e previsti anche dalla nostra contrattazione di secondo livello, allora il confronto è necessario e deve continuare. Accenno solo per chi ha seguito stamattina e cito di nuovo Vittadini, che ha posto una domanda sui corpi intermedi e sulla loro importanza. I corpi intermedi sono fondamentali, bisogna capire come continuare a sviluppare un modello di relazione con un’organizzazione del lavoro che cambia, dove quello che cambia non è solo il fatto che siamo on line o off line, sta cambiando proprio il paradigma del lavoro, quindi o cambiamo i codici di lettura, di conseguenza lo interpretiamo in maniera diversa o rischiamo di diventare schizofrenici, perché i linguaggi sono diversi, i valori sono diversi. C’è un tema di relazione, di legami, di sociale all’interno dell’azienda che sta cambiando molto e quindi partecipazione sì, ovviamente, sia per la nostra matrice tedesca sia per il tipo di settore in cui operiamo siamo assolutamente favorevoli alla partecipazione. Bisogna comprendere ovviamente come realizzarla in questo mondo che è diverso.

L’apprendistato alla tedesca così come la cogestione alla tedesca, noi parliamo molto di Germania, ma i tedeschi guardano anche noi, perché anche nel nostro caso, per esempio, come diceva anche il collega di Philip Morris, quando si è trattato di fare innovazione digitale all’interno dello stabilimento il primo progetto pilota in tutto il mondo è stato fatto in Italia anche per Bayer. Siamo innovativi, siamo aperti all’innovazione, ma poi soprattutto nel nostro settore anche grazie al rapporto con le organizzazioni sindacali abbiamo portato avanti insieme la voglia di portare innovazione, allora i tedeschi guardano a noi. Noi siamo primo partner commerciale per la Germania, scusate, la Germania per noi è il primo partner commerciale e noi siamo il sesto per la Germania, abbiamo catene del valore azienda su settori assolutamente interconnessi e ci stimano molto, quindi guardiamo alla Germania, sicuramente un riferimento sia dal punto di vista degli Its che da un punto di vista di partecipazione, ma non facciamo copia e incolla e basta, bisogna capire che cosa significa nel nostro sistema che vede per esempio la governance delle aziende di un certo tipo diversa da quella tedesca, portare il modello partecipativo e che cosa significano i cambiamenti organizzativi a cui stiamo assistendo.

 

Luca Ruini: Provo a recuperare la tua domanda perché effettivamente nei cambiamenti che stiamo affrontando si rivela centrale il tema della transizione ecologica, della sostenibilità, dei cambiamenti climatici con tutta la loro violenza che stiamo vedendo in quest’estate, legata non soltanto alla guerra alle porte dell’Europa, ma anche al fatto che con la crisi energetica a maggior ragione ci stiamo accorgendo che la transizione verso un’economia circolare risulta essere assolutamente determinante. Personalmente io mi occupo di questi temi da tanti anni, sono una delle persone che hanno disegnato il sistema Conai italiano venticinque anni fa e oggi faccio il presidente, ho l’onore di poterlo fare ed è molto interessante vedere, guardandomi indietro, quale è stato il tipo di percorso che è stato fatto. Una volta il tema era più un tema tecnico, oggi sta veramente diventando un tema organizzativo ed il modo con cui andare ad affrontare le competenze necessarie per farlo risulta essere molto rilevante. Come Conai, proprio perché abbiamo portato a casa i risultati, oggi in Italia siamo al primo posto tra i paesi europei in termini di imballaggi avviati al riciclo, intorno al 73 per cento. Siamo davanti alla Germania, fra i paesi europei c’è soltanto il Lussemburgo davanti a noi, ma decisamente è più piccolo e da qui abbiamo imparato, nel contesto italiano, a capire in che maniera portare a casa determinati tipi di risultati. Nell’esercizio che stiamo facendo il Pnrr ha dato una mano perché nel momento in cui c’è la necessità di presentare progetti per poter accedere ai fondi, occorre presentarli, bisogna avere le persone che scrivono i progetti quindi le competenze per poterlo fare. I tempi stretti hanno fatto sì che in qualche maniera si potesse fornire questo tipo di competenze e noi l’abbiamo fatto ad esempio dando una mano ai comuni per presentare i progetti. Abbiamo presentato più di cento milioni di progetti facendo percorsi semplificati su alcune tematiche e questo ha fatto sì che sia nato un meccanismo di lavoro e di trasferimento delle competenze rispetto al mondo ad esempio dei comuni. Per lo stesso motivo riguardo ai bandi del Pnrr si tenga conto che se in passato era un problema di soldi, oggi il problema è come si fanno i progetti, per cui occorrono persone che li sviluppino, quindi è una grande occasione per usare le competenze.

Prima si diceva che spesso si fanno i piloti in Italia, ma per forza, perché abbiamo la flessibilità e la capacità di riuscire a fare innovazione di un determinato tipo. Questa è la grande risorsa che abbiamo e che dobbiamo sfruttare. Chiudo dicendo che proprio perché non si fa da soli, l’abbiamo detto prima, ma bisogna lavorare con le università, con i territori, anche noi l’esperienza che abbiamo sviluppato l’abbiamo data in mano anche facendo dei corsi con l’università, in particolare nel centro-sud, perché è l’area su cui l’attività di raccolta differenziata e di avvio al riciclo era più indietro. Circa 500 ragazzi hanno fatto dei corsi post laurea per riuscire a dar loro in mano competenze in maniera interdisciplinare e questo è un altro tema importante. Non c’è bisogno infatti di avere competenze verticali, bisogna riuscire ad avere competenze molto più aperte, riuscire a parlare linguaggi differenti, perché è un tema di comunicazione, per questo bisogna avere le categorie e riuscire a farlo e quindi abbiamo fatto una serie di corsi negli ultimi 2-3 anni per 500 ragazzi con sei università e stiamo intensificando perché è l’unico modo per dar strumenti per poterlo fare.

 

Marco Hannappel: Il modello partecipativo, sono d’accordo dottoressa Poggio, nel nostro caso è già una realtà nel mondo chimico-farmaceutico e credo che sia una realtà importante. Noi in piena pandemia abbiamo concluso l’accordo di contrattazione sindacale sia nazionale che locale, il dialogo è costante e ritengo che sia la modalità giusta di portare avanti le cose. Mi permetto di ricordare, visto che siamo in conclusione, dei temi che se non se ne parla rimangono nel dimenticatoio. C’è un tema grande come una casa che è l’inserimento dei giovani in azienda: durante la pandemia nel 2020 abbiamo assunto in fabbrica 150 persone a tempo indeterminato. Molte di queste sono giovani, immaginatevi in uno stabilimento produttivo super innovativo con tutta robotica e macchinari in cloud, quindi in un’industria 4.0 che cosa significhi integrare persone che non hanno mai visto un impianto produttivo. C’è molto nello smart working, ma una vita in smart working resto convinto che debba essere un pezzo della vita lavorativa. In un’azienda in cui si vive e si lavora c’è un rapporto con i colleghi ed anche con il macchinario e questo deve proseguire.

Il secondo tema oltre ai giovani e al loro inserimento è il mondo della diversità e dell’inclusione, in particolare femminile, in azienda. Noi rimaniamo come Philip Morris Italia la prima azienda certificata da PricewaterhouseCoopers come equal salary, siamo noi e la Ferrari. Non me ne vorrà la Ferrari, ma io ho un po’ più donne in azienda, quindi non è da dimenticare che il salary gap c’è, anche se non ce lo vogliamo ricordare è lì che ci guarda, è un lavoro molto importante da fare non solo il recupero del gap, ma anche degli strumenti di welfare aziendale che devono integrare quelli dello stato, altrimenti è difficile questa integrazione. Noi lo facciamo con un parental leave che abbiamo messo a punto negli ultimi tempi e con tantissime attività che facciamo, vi assicuro, per far sì che ci sia in ambito aziendale una facilità per l’inserimento e il mantenimento e lo sviluppo dell’impiego femminile. Concludo: più possibilità ci sono di integrazione tra persone, macchinari e processi più questa efficienza porta a utili investimenti. Sono d’accordo con Luigi Sbarra: le politiche attive devono essere molto più attive e molto più allineate a quelle che sono oggi le esigenze di chi sul modello paese Italia vuole sviluppare soprattutto su forme lavorative non precarie, ma a tempo indeterminato. Su questo c’è molto spazio su cui lavorare per un nuovo modello di lungo periodo con industria o servizi e lavoratori insieme.

 

Massimo Ferlini: Grazie. Segretario generale, una tua ultima riflessione.

 

Luigi Sbarra: Penso e sono sempre più convinto che questo può essere il tempo per riprogettare un nuovo modello sociale di crescita e di sviluppo soprattutto in questo paese che si allontani dalla logica delle rendite speculative di una globalizzazione mal governata, che seppur importante ha creato negli anni un abisso di disparità, tante diseguaglianze, nuove forme di povertà e al centro di questo processo vedo la dignità, la centralità, la qualità del lavoro, la responsabilità della persona. Questo significa rilanciare e rafforzare un quadro di relazioni sindacali e industriali nel nostro paese ispirato da profili di responsabilità, di pragmatismo, di riformismo, di partecipazione.

È vero, lo si richiamava, molte volte noi volgiamo lo sguardo a ciò che avviene fuori dai confini nazionali, per esempio alla Germania sulla cogestione, sulla partecipazione, sul sistema duale, sull’apprendistato e aggiungerei un’altra cosa importante che hanno fatto i tedeschi e che noi non riusciamo a fare: cade il muro di Berlino e parte una potente operazione di coesione sociale, economica, geografica tra est e ovest che ha portato in pochi anni la Germania ad essere una grande potenza economica europea e internazionale.

Noi continuiamo a parlare da più di 160 anni di questione meridionale e il paese tende sempre di più a dividersi e ad allontanarsi, quindi noi dobbiamo costruire nel sociale un fronte largo di responsabilità che può essere anche un valore forte nel rapporto col futuro governo. A me preoccupa questa tendenza della politica, di forze presenti in parlamento ad affidare tutto il cambiamento e la trasformazione alle virtù salvifiche della legge: legge sul salario minimo, legge sulla riduzione dell’orario di lavoro, legge sullo smart working, sulla rappresentanza. Io penso che questi sono temi che devono essere lasciati all’autonomia negoziale e contrattuale delle parti sociali, perché anche noi abbiamo in questo paese primati che altri ci invidiano. La Germania ci invidia il nostro sistema contrattuale che abbiamo costruito in più di settant’anni, oggi non c’è attività economica in Italia che non abbia un contratto collettivo nazionale di riferimento.

La dottoressa Poggio parlava del rapporto e delle relazioni sindacali nella chimica farmaceutica. In piena crisi economica noi abbiamo rinnovato settimane fa uno dei migliori contratti del settore privato, quindi noi dobbiamo valorizzare e custodire questo patrimonio di relazioni sindacali e contrattuali. Non serve il salario minimo per legge in Italia, noi dobbiamo rafforzare le dinamiche salariali e retributive attraverso la buona contrattazione, la buona rappresentanza negoziale nazionale e nella dimensione territoriale. Qualcuno mi dice sì ma in Germania stanno facendo il salario minimo a 12 euro, ma in Germania c’è il 50 per cento di copertura contrattuale rispetto all’Italia, in Germania non hanno contratti collettivi nazionali salvo che in qualche settore, perché lì esistono contratti di land, invece noi abbiamo un patrimonio contrattuale che dobbiamo custodire, salvaguardare, estendere, innovare e valorizzare. Una volta tanto che l’Europa nella direttiva sul lavoro dignitoso ci indica come uno dei paesi di riferimento, noi dovremmo abbandonare queste pratiche per affidarci ed inseguire le pratiche peggiori. Ecco perché non mi convince quest’idea. Salario, dinamiche dell’orario, conciliazione vita-lavoro, smart working devono restare temi nel perimetro dell’azione negoziale e contrattuale delle parti sociali. Il governo vuole legiferare? Gliela indichiamo noi la via. Ci aiuti ad attuare l’articolo 46 della Costituzione in materia di partecipazione, per consentire alle parti sociali attraverso le dinamiche negoziali e contrattuali di responsabilizzare meglio i lavoratori rispetto al destino della propria azienda, rispetto all’indirizzo e alla gestione anche di tipo organizzativo. Così costruiamo le condizioni del cambiamento e così valorizziamo la persona nel mercato del lavoro. Sento ancora parlare in giro di articolo 18 e di reintegro. Per me oggi nel cambiamento e nella trasformazione delle dinamiche lavorative il vero articolo 18 si chiama investimento sulla formazione, sulla formazione, sulla formazione. Questo è quello che rende più forte e sicura la persona nel mercato del lavoro. Ecco perché io considero nella prospettiva un ruolo importante delle parti sociali che ci può aiutare ad essere anche più forti nel rapporto con il futuro governo per costruire le condizioni di un nuovo e moderno patto sociale che aiuti il paese a risollevarsi dalle macerie dell’emergenza pandemica, ad affrontare la crisi economica e sociale ed anche i riverberi e gli effetti negativi della guerra in Ucraina. Oggi noi dobbiamo porre insieme a centralità e priorità un nuovo patto sociale per investimenti nelle politiche industriali, nelle politiche energetiche, nelle politiche infrastrutturali, nei processi di modernizzazione della pubblica amministrazione e della scuola. Occorre fare grandi politiche di coesione nazionale. Io provo una certa soddisfazione nel vedere oggi tanti politici folgorati sulla via di Damasco che dicono che è ineluttabile e necessaria una nuova politica energetica in questo paese quando per lungo tempo hanno creato sponda ai professionisti del no che dicevano no ai termovalorizzatori, no ai rigassificatori, no alle rinnovabili, no alle trivelle nel mare Adriatico. Oggi si svegliano e capiscono che la politica energetica è necessaria ed è centrale nella prospettiva di crescita e di sviluppo di una comunità, quindi la responsabilità delle forze sociali può essere un elemento centrale per ricostruire un nuovo modello sociale di crescita e di sviluppo che metta in priorità la qualità e il valore del lavoro, la dignità della persona, la partecipazione e una nuova fase di democrazia economica che guardi al bene comune della comunità nazionale.

 

Massimo Ferlini: Grazie a tutti voi che ci avete seguito, grazie ai partecipanti a questo nostro dibattito. Ricordo che un grande sociologo del lavoro diceva che non si possono obbligare gli altri ad amare il lavoro quanto lo amiamo noi, però io questa sera ho sentito in tutti gli interventi una passione tale, una partecipazione personale con passione all’uomo e al lavoro che fa parte del patrimonio di idee e di contributi che arricchirà l’impegno che come Fondazione per la sussidiarietà portiamo avanti quest’anno per tutelare la dignità del lavoro e che ci vede impegnati in molti campi nel sostenere tutte le iniziative che tengano in azione l’uomo e che tutelino il lavoro dignitoso in questo paese. Grazie ancora per il contributo che ci avete dato.

Data

23 Agosto 2022

Ora

17:00

Edizione

2022

Luogo

Sala Neri Generali
Categoria
Incontri