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UNA CITTÀ SOTTO ASSEDIO. La burocrazia italiana tra obblighi normativi, vincoli di fedeltà politica e innovazione per il bene comune
Partecipano: Sabino Cassese, Professore di Global Governance alla School of Government, LUISS “Guido Carli” di Roma; Francesco Occhetta, Giornalista e Scrittore de La Civiltà Cattolica; Bernhard Scholz, Presidente Cdo. Introduce Salvatore Taormina, Coordinatore Dipartimento Pubblica Amministrazione Fondazione per la Sussidiarietà – Dirigente regionale.
UNA CITTÀ SOTTO ASSEDIO. La burocrazia italiana tra obblighi normativi, vincoli di fedeltà politica e innovazione per il bene comune
Ore: 15.00 Arena Cdo for Innovation A5/C5
UNA CITTÀ SOTTO ASSEDIO. La burocrazia italiana tra obblighi normativi, vincoli di fedeltà politica e innovazione per il bene comune
Partecipano: Sabino Cassese, Professore di Global Governance alla School of Government, LUISS “Guido Carli” di Roma; Francesco Occhetta, Giornalista e Scrittore de La Civiltà Cattolica; Bernhard Scholz, Presidente Cdo. Introduce Salvatore Taormina, Coordinatore Dipartimento Pubblica Amministrazione Fondazione per la Sussidiarietà – Dirigente regionale.
SALVATORE TAORMINA:
Buon pomeriggio a tutti, benvenuti a questo incontro dal titolo “Una città sotto assedio. La burocrazia italiana tra obblighi normativi, vincoli di fedeltà politica e innovazione per il bene comune”. Non è il primo appuntamento che all’interno del Meeting si tiene sul tema della pubblica amministrazione, è già accaduto lo scorso anno e qualche tempo addietro. L’incontro di questa sera nasce in corrispondenza di un importante anniversario per la pubblica amministrazione; quest’anno ricorrono i 25 anni da quella che ancora oggi possiamo considerare la più grande riforma nella pubblica amministrazione dal dopoguerra ai giorni nostri, quella che appunto ha preso il nome di “riforma Cassese” per cui oggi è un onore, oltre che un piacere, avere qui con noi il professor Cassese. Le radicali innovazioni introdotte con questa riforma negli anni Novanta traevano spunto da una condizione fondamentale. Il divario di efficienza tra il mondo del pubblico e il mondo del privato era causato da due fondamentali aspetti: in primo luogo, una mancanza di separazione tra i compiti di indirizzo, cioè di scelta degli obiettivi, e i compiti di gestione, una separazione esistente nel privato ma inesistente nella pubblica amministrazione dove, prima di questa riforma, il politico fermava tutto, per capirci, e il burocrate non firmava nulla. Il secondo elemento che veniva addotto come deficit di efficienza del pubblico rispetto al privato era il fatto di avere un rapporto di lavoro ancorato molto al pubblico (per dirla alla Zalone, il mito del posto fisso), e non invece uno strumento di privatizzazioni esistente nel privato dove, al limite, poteva accadere che in mancanza di funzionalità ed efficienza potesse corrispondere la cessazione del rapporto di lavoro. Quindi, fu fatta questa scelta, questa grande svolta all’interno della pubblica amministrazione, con riferimento a tre punti fondamentali che oggi un po’ tutti conosciamo, perché anche chi non è addetto ai lavori ha familiarizzato con queste novità. I tre punti introdotti da quella riforma furono: la competenza attribuita ai dirigenti per l’adozione dei provvedimenti amministrativi e di spesa; una nuova e specifica responsabilità dei dirigenti che non era più quella di dire: «Ho svolto il mio lavoro», ma quella di avere raggiunto degli obiettivi e quindi di legare una parte della retribuzione dei dirigenti al raggiungimento di quegli obiettivi di interesse pubblico; e in ultimo, il cosiddetto spoil system, cioè la possibilità che il nuovo Governo aveva di cambiare la dirigenza, il management pubblico, per avere una dirigenza un poco più consona agli obiettivi politici da raggiungere. Devo dire che, per la verità, questo è un punto su cui il professore Cassese fu critico sin dall’inizio della riforma, altri vollero comunque introdurre questo tema dello spoil system come portato di quella riforma. Ora, a 25 anni di distanza, un rapporto assai sofferto tra la pubblica amministrazione e i corpi intermedi (cittadini, imprese e associazioni) ci aiuta, ci induce, ci costringe a farci una domanda: cosa ne è stato di quei propositi originali? 25 anni sono un tempo di bilanci. A questo proposito, occorre trarre spunto da un giudizio critico che proprio un protagonista di allora, come lo stesso professor Cassese, qualche mese fa ha dato sul Corriere della Sera allorquando, ragionando sullo stato attuale dell’amministrazione, la definiva come «la città sotto assedio», per cui una parte del titolo è mutuata da questa riflessione. Oggi vediamo un’amministrazione gravata da obblighi procedurali (pensiamo solo al sistema dell’anticorruzione e alla necessità di mettere piani, programmi, sistemi di valutazione del rischio). Tutto ciò che sarebbe dovuto servire a far funzionare meglio l’amministrazione, spesso diventa un aggravio di procedure, a scapito della cosa più importante che chi lavora nell’amministrazione dovrebbe fare, e cioè preoccuparsi di chi è fuori dal Palazzo, del benessere comune di chi è fuori dal Palazzo. Invece, è come se questo tentativo di correzione sul piano delle procedure abbia introdotto una autoreferenzialità. In ultimo, questo tema dello spoil system che in qualche modo torna, più come limite che come possibilità attribuita alla politica di dotarsi di una struttura efficiente. Per cui, abbiamo la dirigenza pubblica aggravata dalla preoccupazione di compiacere il politico per mantenere l’incarico dirigenziale. Quindi, ancora una volta abbiamo un elemento che, invece di mettere al centro il servizio al bene comune, mette al centro altre cose. In una condizione di questo genere, noi sappiamo che il tema della pubblica amministrazione anche da parte del nuovo Governo è tornato all’attenzione. È proprio di ieri la notizia che il Consiglio dei ministri si avvia a varare un Disegno di legge, annunciato dal ministro Buongiorno come Disegno di legge “Concretezza”, che vuole rimettere a tema alcuni aspetti della pubblica amministrazione. Capiremo anche dal contenuto del Disegno di legge cosa accadrà. Certo, ci sono annunci che lasciano ben sperare, come per esempio la necessità di rilanciare il tema del turn over nella pubblica amministrazione. Non so se voi sapete che abbiamo una alle pubbliche amministrazioni più vecchia in Europa, abbiamo una età media di 50 anni contro i 34 dell’amministrazione francese. Abbiamo l’amministrazione fatta da un numero di dipendenti notevolmente minore di quello degli altri Stati europei, differentemente da ciò che si pensa, anche in termini di spesa. Quindi, questo tema del turn over è importante anche dal punto di vista generazionale. Altri aspetti forse lasciano qualche punto di domanda. La preoccupazione di introdurre il rilevamento biometrico, cioè le impronte digitali o il riconoscimento dell’iride al posto del tesserino da vidimare per rilevare la presenza in servizio del dipendente dell’ente pubblico, forse qualche punto di domanda potrebbe suscitare. Comunque, non è questa la sede per approfondire. Resta da capire che in una condizione come quella attuale, in cui si continua ad avvertire il disagio di questo rapporto tra amministrazione e società, diventa urgente domandarsi da che cosa può ripartire effettivamente questo cambiamento. Questo è il tema. Forse occorre dire che ciò che si è perso di vista in questi anni è che la centralità di ogni fattore di cambiamento, prima della procedura, prima del processo organizzativo, è il soggetto. Quindi, che cosa vuole dire recuperare la centralità del soggetto di chi lavora all’interno della pubblica amministrazione come fattore di reale cambiamento? Che cosa vuole dire rilanciare in termini motivazionali, oltre che di competenza professionale, quella tensione etica necessaria al servizio per il bene comune, in una circostanza in cui spesso tutte le procedure adottate, per esempio per contrastare la corruzione, devono misurarsi con una corruzione che nell’amministrazione dilaga? Vuole dire che qualcosa come approccio va rivisto. Questo è l’orizzonte su cui questo dialogo si svilupperà e sono certo che l’incontro di stasera saprà offrirci un significativo contributo di riflessione e di proposta grazie ai protagonisti di questo dialogo, che voglio ancora una volta ringraziare per avere accolto questo invito a nome della fondazione della Sussidiarietà e del Meeting. Il professore Cassese: sarebbe troppo lungo elencare le cose che ha fatto, quindi mi limito a dire quello che fa per ora, cioè professore di Global governance alla Luiss di Roma, presidente emerito della Corte costituzionale. Padre Francesco Occhetta, redattore della Civiltà Cattolica ed esperto di problemi sociali, ringraziamo anche lui per la presenza. Bernhard Scholz, che gioca un po’ in casa in questa arena: in questo incontro è la voce della società civile, della compagine sociale ed economica il cui confronto è essenziale in questi termini per non parlare dell’amministrazione senza il confronto con coloro che sono in qualche modo i termini del nostro servizio (ricordiamo che la Costituzione parla di pubblici dipendenti a servizio della nazione, non del Governo), che porterà la voce e la riflessione di una realtà importante e significativa come quella della Compagnia delle Opere. Ciò posto, mi taccio e passo subito il microfono al professor Cassese.
SABINO CASSESE:
Come avete sentito, dobbiamo parlare di una città sotto assedio. Se una città è sotto assedio, bisogna innanzitutto sapere chi sono gli assedianti e poi chi sono gli assediati. Gli assedianti sono almeno tre. Primo: il Parlamento. Perché il Parlamento è un assediante rispetto alla pubblica amministrazione? Perché una delle massime aspirazioni dei nostri parlamenti è adottare delle leggi auto applicative; avete sentito molte volte questa espressione amata da molti ministri. Ora, una legge auto applicativa vuole dire una legge per attuare la quale si può fare a meno della pubblica amministrazione. Quindi, la pubblica amministrazione in qualche modo è rifiutata, esclusa dal processo di attuazione di quella legge. Il secondo assediante è costituito dai troppi controllori, non quelli che controllano dopo ma quelli che controllano prima, il famoso controllo preventivo che 25 anni fa cercammo di sopprimere, eliminando i controlli preventivi nella Corte dei Conti, o meglio, riducendoli fortemente (ora la Corte dei Conti di nuovo esercita controlli preventivi e a questi si sono aggiunti quelli onnicomprensivi dell’ANAC, cioè dell’autorità Nazionale anticorruzione). Il terzo assediante è costituito dal mondo politico. Perché è un assediante, il mondo politico? Perché non si limita a svolgere l’indirizzo della amministrazione, cosa necessaria perché l’amministrazione deve essere guidata da Governi e dalla politica, ma anche un altro potere è stato assegnato al corpo politico, a tutti i livelli, è riassunto in due parole di origine americana: spoil system, che vuol dire “sistema delle spoglie”. Sistema delle spoglie: vuole dire che il vincitore prende le spoglie del vinto. Questo comporta che al passaggio dei Governi, vi sono una serie di funzionari di alto o basso livello che diventano improvvisamente dei precari, perché possono essere confermati o non confermati dal nuovo governante. Questo è un fenomeno che non ha una influenza diretta solo su chi deve essere confermato, ma anche indiretta perché quello che verrà confermato sarà fedele al nuovo Governo o al partito del nuovo Governo che a sua volta, quando dovrà scegliere i collaboratori, naturalmente sentirà l’opinione di chi è stato il suo padrone. Quindi, si crea in questo modo una catena per cui il direttore sanitario della Asl è nominato in base a criteri, che ora sono stati attenuati, di spoil system, e naturalmente anche i barellieri, anche gli infermieri saranno scelti sulla base di criteri che sono di appartenenza politica. Se poi aggiungete il forte intervento dei giudici, delle procure penali, dei giudici amministrativi, vi rendete conto che abbiamo legislatori, controllori interni, politici e giudici che sostanzialmente stringono nelle loro braccia l’amministrazione, non lasciandola respirare. Adesso passo al secondo punto. Chi è l’assediato? Assediato è quello che chiamiamo pubblica amministrazione. Errore, perché dovremmo parlare al plurale; quando parliamo di pubblica amministrazione stiamo parlando di più di tre milioni di persone, stiamo parlando, cioè, del più grande datore di lavoro italiano, della più grande azienda produttiva del nostro Paese. Questo corpo vasto è composto di migliaia di unità: i Comuni sono 8000, le Regioni sono 20, e poi ci sono i ministeri e gli uffici periferici dei ministeri, cioè quelli che sono dislocati in periferia. Ha una caratteristica principale, che purtroppo eredita da un secolo di storia, cioè è un corpo costituito in prevalenza di amministrativi, con una scarsa presenza di tecnici. Avete letto i giornali in questi giorni, e che cosa abbiamo capito? Che il concedente delle concessioni autostradali ha un ristrettissimo numero di tecnici che siano in grado di vedere se gli stralli del cavalcavia o del viadotto sono o meno in funzione. Quindi, lo Stato, a chi deve rivolgersi? Si deve rivolgere a dei professori universitari, si rivolge all’esterno. C’è uno Stato che in qualche modo ha rinunciato a svolgere direttamente alcune funzioni e le fa svolgere da altri soggetti. Badate bene, non un concessionario, in questo caso. Sto parlando dei controllori del concessionario che dovrebbero stare nel corpo del concedente, che è lo Stato italiano che dà la concessione. In secondo luogo, questo è un corpo che ha fatto periodici digiuni e altrettante periodiche abbuffate. Voi sapete che il modo peggiore per nutrirsi è quello di digiunare e poi compensare il lungo digiuno con delle grandi abbuffate. Questo è quello che ha fatto sempre lo Stato. Quindi, che vi posso dire? Sono state bloccate le assunzioni, ma quel ministro che citava poc’anzi Taormina ha annunciato, per quel Consiglio dei ministri che lui citava, l’assunzione di 450 mila persone. 450 mila persone rapportato a tre milioni di persone è non una abbuffata ma una tripla abbuffata, perché voi capite bene che inserire tutte queste persone nella pubblica amministrazione sarà complicato. Queste persone non devono essere solamente selezionale, devono essere guidate, c’è bisogno di qualcuno che spieghi loro come si lavora, bisogna che ci sia qualcuno che li istruisca nello svolgimento delle loro attività quotidiane. Come si suole dire, nessuno nasce imparato. Il lavoro amministrativo è un lavoro in cui prevalgono quelle che si chiamano learning by doing, le cose che si imparano facendo. Poi, bisogna farle bene sotto la guida di qualcuno. L’ultimo fattore negativo dell’assediato è quello costituito dal fatto che le persone vengono scelte in base ad un criterio, scusate, ad una procedura che è prescritta dalla Costituzione ed è fondamentale, il concorso. Ma molte invece vengono assunte sulla base di criteri discrezionali, ad hominem. Cioè, scelgo questo e non scelgo quell’altro, senza una competizione. È la costituzione di sacche di precari che poi vengono stabilizzati. Quindi noi oggi abbiamo ministeri nei quali i direttori generali sono persone che sono state assunte nel 1985 sulla base della legge sull’occupazione giovanile, che fu una legge per agevolare l’immissione nella pubblica amministrazione. E sono direttori generali, badate bene, scelti praticamente senza nessun criterio. Principalmente, sono stati scelti non sulla base di una concorrenza, di una competizione aperta in cui tutti avevano diritto di partecipare: quindi, scelti male. Il secondo difetto, quando si fanno i concorsi, è che i concorsi sostanzialmente si svolgono come una serie di esami universitari. Quindi, si fa il concorso, bisogna conoscere il Diritto amministrativo, si fanno al concorrente le domande che, quando faceva la facoltà di Giurisprudenza, gli faceva il professore di Diritto amministrativo. Quindi, prove di tipo mnemonico, astratto, teorico, non pratico, per svolgere una funzione che è eminentemente pratica, amministrativa: gestire dei servizi, una azienda sanitaria locale, gestire una amministrazione che si interessa dei trasferimenti del personale. Come riesce a svolgere una attività di questo tipo una persona che conosce solo i principi del Diritto amministrativo? Perché i concorsi non vengono fatti secondo dei criteri che misurano invece le capacità pratiche, le capacità di organizzazione del proprio lavoro, la capacità di lavorare con gli altri, la capacità di collaborare, la capacità di risolvere conflitti (perché nella vita e nelle amministrazioni vi sono conflitti)? Tutto questo è peggiorato dal fatto che le riforme amministrative le fanno sempre quelli che non sanno e, quindi, non sanno fare. Perché? Perché le riforme amministrative le aspettiamo sempre dal corpo politico. Il corpo politico in Italia è un corpo transeunte, il Governo attuale mi pare sia il 65° della Repubblica italiana: qualche anno fa, avevo calcolato cha dalla Unità d’Italia eravamo arrivati al 130° Governo. Se togliete i venti anni del Fascismo, siamo al livello di un Governo per anno. Domanda: se l’amministrazione è governata dal criterio della continuità, come può un corpo politico, Parlamento o Governo, pensare ad una riforma se ha davanti soltanto dieci mesi? Dategli il tempo di entrare in funzione, di giurare davanti al Presidente della Repubblica e così via. C’è una tale distonia tra la durata in carica di chi dovrebbe governare e la durata in carica dell’amministrazione, che rende praticamente impossibile fare una vera riforma della amministrazione che richiederebbe di stare lì almeno dieci anni, otto anni per poter assicurare un disegno, degli orientamenti applicativi, un’esecuzione e un controllo dell’esecuzione. Perché queste sono le quattro fasi fondamentali della riforma amministrativa. Taormina prima ha parlato dei tentativi di riforma che facemmo nel Governo di cui ho fatto parte, che era il Governo Ciampi, il 50° Governo della Repubblica italiana, 1993/’94. Se dovessi dire il tentativo che abbiamo fatto, lo riassumerei in due punti e con questo termino. Il primo punto è: spostare l’attenzione dagli erogatori del servizio agli utenti del servizio. Fino al 1993, la riforma amministrativa era concepita come una riforma degli impiegati mentre la riforma amministrativa deve essere concepita come una riforma in funzione dei consumatori che siamo tutti noi, quelli che sono utenti della pubblica amministrazione, quello che va nell’ufficio dello Stato civile e chiede un documento di identità, quello che deve iscrivere il figlio a scuola: è in funzione dell’iscrizione del figlio a scuola ed è in funzione della concessione del documento di identità che esiste la pubblica amministrazione. Come ha scritto un grande giurista, con una frase quasi biblica: «In principio sono le funzioni», va a guardare innanzitutto qual è lo scopo per il quale ci sono. Il primo tentativo è stato questo, cercare di mettere in primo luogo i consumatori e gli utenti, e solo in secondo piano i dipendenti e gli erogatori del servizio perché le scuole ci sono per insegnare agli studenti, non per dare lavoro agli insegnanti. È vero questo? Se è vero, bisogna che ci si preoccupi innanzitutto dell’istruzione e poi di chi dà l’istruzione. La seconda cosa è stata una lezione di metodo, lezione che vi posso assicurare nessuno ha ascoltato dopo. La lezione di metodo è che bisogna conoscere per deliberare. Questa era una espressione adoperata da Luigi Einaudi, Presidente della Repubblica italiana. «Conoscere per deliberare» vuole dire che non si va in Consiglio dei ministri dopo due mesi di attività del Governo, proponendo un Disegno di legge, perché bisogna prima analizzare il problema, poi bisogna preparare un rapporto, renderlo pubblico, discuterlo, raccogliere le opinioni intorno a questo problema. Perché possono esserci delle opinioni, gli stessi sostenitori della democrazia diretta dimenticano questo: e quindi noi abbiamo il paradosso, adesso, di un Governo che proclama la democrazia diretta ma che poi, quando deve fare la riforma dell’amministrazione, non applica nessun criterio della democrazia diretta, cioè almeno la consultazione preventiva sugli indirizzi di Governo. Una volta preparato un documento con l’indirizzo di Governo, si procede ad un dibattito, dopo il dibattito si prendono delle decisioni e queste devono essere realizzate. Come aveva cominciato a fare Giannini dieci anni prima, a quell’epoca noi facemmo un grosso rapporto di 300 pagine, una radiografia della realtà, come la fa un medico quando deve tenere in cura una persona; poi un piccolo rapporto di 30 pagine in cui erano indicati gli obiettivi, gli strumenti e le procedure per realizzare le riforme. E poi queste, nella misura in cui un Governo che dura quattordici mesi può fare, furono realizzate. Penso che questi siano due lasciti: il primo lascito è «non vi dimenticate che l’amministrazione sta lì per gli amministrati e non per gli amministratori», e il secondo lascito è «non ci dimentichiamo che la riforma della pubblica amministrazione non si fa nel chiuso di una stanza, si fa studiando attentamente l’amministrazione e poi proponendo, discutendo e infine realizzando». Questo è quel poco che vi potevo dire sinteticamente sull’esperienza vissuta un quarto di secolo fa.
SALVATORE TAORMINA:
Se tutto il poco fosse di questa portata, avremmo di che ragionare per un altro quarto di secolo. Diceva il professore Cassese di quello che è un salto culturale. Sembra un’ovvietà, un salto culturale da realizzare: nel guardare i temi dell’amministrazione, rimettere al centro i destinatari dell’attività amministratrice (i cittadini, le imprese, i corpi intermedi) e non chi lavora all’interno del Palazzo. Questo passaggio non è solo un passaggio procedurale, implica una vera e propria transizione, un passaggio culturale. Qui, su questo aspetto, credo ci possa dare un grosso contributo padre Occhetta.
FRANCESCO OCCHETTA:
Vorrei ringraziarvi innanzitutto della vostra attenzione e ringraziare lei, dottor Taormina, e il Meeting, dell’invito a questa festa dell’incontro, e dirvi anche che sono molto onorato di poter stare qui con il dottor Cassese e il dottor Scholz. Vorrei entrare nel tema con un versetto del Talmud, vorrei toccare questo tema a livello antropologico ed etico, con tre punti brevi. Dice questo versetto: «Ricco è colui che si accontenta di quello che ha. Potente è colui che controlla i suoi istinti. Sapiente è colui che è in grado di imparare da tutti». Questa citazione mi permette di fare tre premesse. La prima. La pubblica amministrazione, lo ha detto il professor Cassese che è una vera autorità sul tema, è una comunità di persone, non è una mera idea, non è una cosa ma ha una sua coscienza morale che si è formata e funziona in una certa maniera, se elastica o rigida. I nostri filosofi dell’Ottocento se lo ricordavano: «Chi ha un perché, ha sempre poi nella vita -diciamo così – riesce sempre poi ad accordare il come fare le cose». Noi dobbiamo capire qual è oggi il perché della pubblica amministrazione. Questo è il primo dato. Perché? Perché la ricchezza è l’antidoto (la ricchezza come la dice il Talmud) alla corruzione. Sono troppo alti i livelli di corruzione che stiamo raggiungendo nel nostro Paese. Ho vissuto in tanti altri Paesi del mondo, non è tanto il sistema democratico ma i tanti livelli di corruzione che non permettono l’accesso ai cittadini e l’uguaglianza. Quindi, questo versetto ti dice come colui che si accontenta di quello che ha, è già ricco. Il potere, prima di imporlo sugli altri, è un potere del governo di sé, inizia anche da chi è in prima linea. E la sapienza, guardate, è la condivisione di ciò che funziona per metterlo in rete. Il secondo punto. La pubblica amministrazione è come un transatlantico. Il professor Cassese già lo ha detto: tre milioni e 300 mila impiegati. Solo le forze di polizia e le Forze armate hanno quasi mezzo milione di persone, la magistratura 10 mila persone, gli enti pubblici non economici, come l’Inps, l’Inail, 53 mila, le Regioni e le autonomie locali quasi 600 mila, il Servizio sanitario nazionale quasi 700 mila persone. Chi tiene il timone per guidare questo transatlantico? Quanto tempo occorre per virare un transatlantico così grande? Verso dove dirigerlo? Questo è il punto per noi: dove dobbiamo dirigerlo? Quindi, la prima carta che vorrei mettere sulla nostra riflessione è: «Che idea di Stato vogliamo?». Quali idee di riforme, anche costituzionali, devono esserci per sbloccare qualche cosa che si è inceppato oggettivamente, perché è troppo pesante? Quando io ero amministratore pubblico, lo sono stato da giovane, avevo 19 anni, c’erano tre regole per giudicare il buon amministratore: il buon amministratore era quello che si teneva aggiornato, che andava oltre la rassegna stampa, curava la propria formazione, la curava, aveva una sua sintesi, era un buon amministratore quello che faceva rete con altri amministratori, magari di Comuni vicini, mettendo insieme le buone pratiche. La terza dimensione: era quello disposto a cambiare funzione e non a irrigidirsi o alienarsi nella stessa funzione, dopo un po’ di anni, non necessariamente dopo pochi. Solo che la letteratura della scuola del prof. Cassese dice che bravi amministratori così ne abbiamo un 30%, poi abbiamo un 40% di tendenti, amministratori che potrebbero entrare in quest’area, e poi abbiamo un 30% di amministratori che oggettivamente fanno fatica e nel transatlantico remano contro. Il terzo punto: la pubblica amministrazione italiana è la sua storia. Cosa voglio dirvi con questo? Noi non abbiamo scelto la discontinuità nel passaggio dal Regno al fascismo e, se volete, a me non piace questa definizione, alle due Repubbliche, non abbiamo scelto la discontinuità: cambiavano i politici ma rimaneva il corpo della pubblica amministrazione, Scoppola racconta come il Pc e la Dc avessero fatto un patto su questo nel fare continuare l’amministrazione fondamentalmente fascista, dopo il passaggio dal fascismo alla Repubblica. Allora la cultura cattolica ha una grande responsabilità, secondo me: ha sempre puntato molto sul costituzionalismo e ha sempre trascurato la vita dell’amministrazione pubblica, lasciandola in mano a quella che noi chiamiamo la cultura laica. Non siamo mai entrati per vedere che cosa c’è in questo scatolone, che è come la matrioska, che è difficile adesso da capire, perché l’abbiamo trascurata, ci siamo occupati solo di costituzionalismo. Otto Mayer dice: «Le costituzioni passano ma le pubbliche amministrazioni restano». E noi abbiamo una grande responsabilità in questo, per cui il secondo punto che vorrei dirvi è di ritornare anche come cultura, diciamo cattolica, a occuparci di pubblica amministrazione. È stato scelto poi il modello borbonico e dello Stato pontificio a livello culturale, che noi sedimentiamo ancora nella nostra memoria: che cosa ha questo modello? Che la rigidità nelle norme poi vive di elasticità dell’applicazione. Si poteva scegliere il modello teresiano, io sono torinese, quello del Veneto, della Lombardia, che aveva un controllo molto più rigoroso di quello borbonico. Abbiamo scelto il primo e ancora si sedimenta, rigidità nelle norme ed elasticità nell’applicazione. E poi, negli anni Settanta, l’ingerenza dei partiti nella vita politica dell’amministrazione, che cosa ha fatto? Ha fatto sì che l’amministrazione diventasse una matrioska di addizioni e quindi: più ministeri, aziende di Stato, enti pubblici, società a partecipazione pubblica, Regioni a statuto speciale, province autonome, tutte con le loro burocrazie. Elia parlava di questo già negli anni Settanta. Tutto questo era già chiaro in un rapporto che ha citato il prof. Cassese, il rapporto di Giannini che diceva, attenzione bene, queste sono righe importantissime: «È causa di amarezza constatare che lo Stato non sa di se stesso ciò che il più semplice imprenditore sa della propria azienda!». Questa è la domanda che dobbiamo fare e farci. Allora, qui per noi è centrale non tanto chiedere l’ennesima riforma della pubblica amministrazione, che è giuridica, ma quale modello di Stato vogliamo. Io cito sempre nelle mie conferenze l’immagine di Aristotele dell’arciere. Aristotele parla dell’arco, dell’arciere e di dove dirigere la freccia. Molto spesso, noi, quando parliamo di amministrazione, di pubblica amministrazione, siamo concentrati sull’arco, sui codici, sulle procedure, sulle leggi e le abbiamo schiacciate, tant’è che la persona soggetto non ha quasi potere discrezionale, non ha potere di discernimento, diremmo noi gesuiti, perché la norma dice quello che deve fare. Negli anni Novanta, in più – io ero consigliere quando è saltato il sistema -, gli amministratori pubblici hanno iniziato a diventare impauriti, avevano paura di tutto, per cui la pubblica amministrazione era gestita dagli amministrativisti, dagli avvocati che dicevano, lettera su lettera, cosa dovevamo fare, perché avevamo tutti paura in quegli anni. Questa paura è sedimentata nella nostra coscienza e c’è ancora, c’è ancora. Allora, quello che voglio dirvi è questo e finisco: il cardinal Martini, nel 1984, si è posto una domanda: «Esiste ancora un’etica nel lavoro pubblico?». Lui diceva di si, però con alcune condizioni, e faceva tre passaggi. Il primo: lui chiedeva di bilanciare il potere che ha l’amministratore pubblico con la dimensione razionale della ragione che ti fa calcolare l’uomo morale, le conseguenze di quello che fai e contemperare l’azione con la dimensione della giustizia. Diceva che, in un certo senso, interessa più una concezione sostanziale che non formale di lavoro pubblico. Potrei esprimerla così: lavoro pubblico o servizio pubblico è quello che di fatto, dal punto di vista del bene comune, occupa un posto determinato o almeno di notevole rilievo. E questo è il punto: l’amministratore pubblico deve costruire bene comune e il parametro è il cittadino! Conta meno, deve contare meno il francobollo messo o non messo rispetto ad un bisogno della persona che non ha voce o che è povera, che in quel momento per forma non può avere accesso alla pubblica amministrazione, capite? E questo gioco, noi gesuiti lo chiamiamo discernimento, il discernimento si fa sempre sulla persona, mai sulla legge, perché? Perché abbiamo un fenomenico, il fenomenico è ciò che è, il reale, e poi c’è una fenomenologia, l’interpretazione del fenomenico. Ma tra il fenomenico e il fenomenologico, se noi lo schiacciamo, la pubblica amministrazione diventa burocrate, e a noi non serve una burocrazia di questo genere. Dobbiamo lasciare la maglia ampia, perché in questo spazio tra la realtà e l’interpretazione della realtà ci sia discernimento umano di chi ha potere per farlo, questo è fondamentale! Quindi, bisogna allargare le norme, non serve continuare ad aggiungere codici! Io seguo tanti giornalisti, loro hanno 16 codici. Quando una categoria entra in crisi, cosa fa? Aumenta i codici, ma se non li rispetta nessuno, cosa li aumentiamo a fare? Bisogna toglierli! Qual è il punto? È la trasparenza! Rendere semplificati i processi, più si è trasparenti e i processi sono semplici, meno la corruzione si innerva. E quanto sarebbe bello un Paese con meno corruzione, diciamoci la verità tutti insieme! A partire da me! Non sto giudicando nessuno! Vorrei aggiungere un’altra cosa rispetto a questo: negli atti della Costituente, lo Stato deve servire le persone e soprattutto la società. Allora, vorrei dire: riattiviamo la vita della società per sbloccare anche la vita della pubblica amministrazione, perché è lì la nostra vita, non è tanto riformare – io sono per una riforma della Costituzione importante, l’ho scritto, ho pagato anche un prezzo nello scrivere e lo rifarei – ma la vita vera della società è nella società. Perché nella nostra tradizione questo è importante? Perché da persone sole quali noi siamo, nel nostro stato, la società ci fa diventare persone, essere in relazione con altri. Ti sposi, entri in una comunità di religiosi, hai un’associazione, hai un partito, hai l’impresa: tutta questa dimensione, che è sociale, ti fa diventare persona, essere in relazione. Impari a perdonare, a vivere con gli altri e a costruire bene comune, dunque, ciascuno di noi deve chiedersi: che mattone porto di bene comune agli altri? Disfo solo oppure aggiungo? Perché disfare, la parte destruens, è troppo semplice; la parte costruens è troppo difficile e sono pochissime le persone che la fanno. Qui abbiamo un protagonista del nostro Paese, ma non possiamo contare i protagonisti sulle dita delle mani. L’ultima cosa che volevo dirvi è questa: la cultura populista sta minacciando la pubblica amministrazione per un punto molto grande: quello della disintermediazione. C’è un testo del 1912 che dice che i populismi sono come delle onde che si scagliano su Governi e istituzioni e li minacciano; sono come delle onde, sono come delle burrasche e compromettono la funzione del politico e dell’amministratore pubblico. Perché? Dice questo testo: «Perché da popolari, i politici e gli amministratori pubblici ad un certo punto, alcuni di questi, o comunque la percezione di alcuni di questi, diventano aristocratici, si staccano dalla popolazione, non respirano più quello che era la loro emanazione». Allora dobbiamo ritornare a questa dimensione, e come si fa a ritornare a questa dimensione? Ci sono una serie di riforme. Anzitutto, tenete conto che quando i Costituenti hanno parlato dell’articolo 54 e 98, parlavano del servizio da dare alla nazione come comunità di persone, non come Stato o ancora peggio come Governo, perché essere sudditi di un Governo significa essere troppo di parte. L’amministrazione pubblica deve essere super partes, sub lege libertas, sotto la legge è la nostra libertà, non sopra, non c’è un leader che può fare più della legge da noi! Non può farlo perché noi abbiamo questa storia e ci crediamo! Ma le riforme possibili che ci sono, le schematizzo, sono a mio giudizio queste: anzitutto (spero che non ridiate, eh?), nella mia esperienza di amministratore ho seguito questo campo, la riforma degli spazi. Molte volte gli amministratori si mandano mail ma non si parlano! Io accompagno dei dirigenti della pubblica amministrazione che mi dicono che il settanta per cento del loro tempo è sciogliere le tensioni e le incomprensioni che si hanno dal non parlare insieme, dal non incontrarsi. E allora ci sono degli spazi, delle possibilità comunitarie che vanno rilanciate! Primo. Secondo: la dialettica e la condivisione delle informazioni. Molto spesso nelle nostre amministrazioni la tensione cresce perché non si sanno i dati o non si sa che cosa sta cambiando e si genera paura, si genera la possibilità di dire: ma che cosa sta succedendo sulla mia testa? E invece di costruire, che cosa si fa? Si frena, si decostruisce. Allora, noi dobbiamo secondo me – ma non lo possiamo fare con un codice o una legge, lo dobbiamo fare come cultura antropologica – porre le condizioni per cui le decisioni sono partecipate, i dati vengono messi sul tavolo. Terzo punto: gli straordinari devono essere mirati, non a gettito per fare piacere. Chi consegue un risultato concretamente, è importante che sappia che ci può essere un premio da dare, perché l’incentivo e il merito sono importanti nella pubblica amministrazione. Quarto: la rotazione delle mansioni, io credo molto a questo! Lo dico perché, da gesuita, quando ruoto nelle mansioni che ho nasce nuova vita. Ma lo dice anche il Vangelo: quando potiamo, nasce nuova vita, altrimenti sono rami rinsecchiti, che non fanno più frutto o sono frutti immangiabili. Potare, che non vuole dire amputare, significa dare nuova vita, capire dove nasce una nuova vita! Poi, guardate, da pubblico amministratore, ricordo che la questione degli appalti era un problema per noi! Il minor ribasso è troppo poco, ci vogliono altri criteri e ci vogliono criteri anche di controllo, non solo ante ma post. Se do dei criteri e una ditta mi vince con quei criteri, io la devo controllare anche se questi criteri vengono poi nel tempo soddisfatti, perché altrimenti i soldi pubblici vengono volatilizzati ed è un’umiliazione per tutti. Come dicevo, il ritorno della nostra cultura nella pubblica amministrazione è importantissimo, perché è la pubblica amministrazione che può far riattivare l’incontro solidale con i cittadini, soprattutto quelli che non ce la fanno, e poi creare questa cultura nuova di azienda. Anche nella nostra Costituzione, la riforma della pubblica amministrazione è un problema gestionale, non è un problema giuridico. Noi c’eravamo lasciati l’anno scorso con una piccola storia, quando abbiamo parlato di lavoro, se qualcuno c’era. Era la storia del viandante nella città medievale, che entrava, vedeva due muratori costruire e chiedeva: «Ma che cosa state facendo?». Un muratore stanco, senza nessuna voglia di lavorare, gli dice: «Sto ammassando mattoni». E l’altro: «Sto costruendo la cattedrale della mia città». Allora, i due stavano facendo la stessa cosa ma noi, a livello morale e a livello antropologico, o andiamo a fecondare dei pubblici amministratori – l’intenzionalità morale è la bussola etica che li muove, ma deve essere una dimensione anzitutto personale, poi comunitaria, di una coscienza civile che si risveglia – o altrimenti saremo paragonabili al primo muratore che, stanco, dice: «Non ce la facciamo». Io credo che ci sia ancora parecchio spazio culturale e politico per recuperare la seconda intenzionalità. Grazie a tutti!
SALVATORE TAORMINA:
Se avete fatto caso, le linee di riforma che ha tracciato padre Occhetta chiamano tutte in causa una dimensione, la dimensione morale, lo ha detto lui, la dimensione del fine e la dimensione del dialogo, dello spazio di dialogo con chi è destinatario, anche di quel bene comune che l’amministrazione concorre a costruire, non da sola. E questo ci riporta al confronto con la società: su questo chiederei un contributo a Bernhard.
BERNHARD SCHOLZ:
Buonasera, grazie per questo invito, io sono in una posizione fortunata perché il prof. Cassese e padre Occhetta hanno già parlato dei problemi inerenti alla pubblica amministrazione. Quindi, vorrei parlare del dialogo fra i corpi intermedi e la pubblica amministrazione. Normalmente, quando si parla di questo dialogo si parla dei corpi intermedi, delle varie associazioni dal punto di vista della rappresentanza: meno pressione fiscale, riduzione dei tempi di autorizzazione, semplificazione, maggiore trasparenza. L’elenco è lunghissimo, non lo faccio perché non è di questo che voglio parlare. Lo sappiamo tutti e tutti i giorni sono pieni. Però questo dialogo spesso si fa difficile per una incomprensione reciproca. E lì voglio arrivare. Non è che ci sia sempre l’astio che arriva fino ad accusare gli uni di essere fannulloni e gli altri di essere evasori. Ma c’è un’incomprensione che nasce dal fatto che non si mettono a tema i problemi che oggettivamente esistono. Bisogna guardare bene quali sono questi problemi, che insieme bisogna risolvere. Io voglio partire da un dato: la pretesa nei confronti della pubblica amministrazione che risolva problemi che oggettivamente non può risolvere, almeno non può risolvere da sola, crea non solo inefficacia ma anche questa incomprensione. Io vorrei elencare alcuni di questi problemi: il venir meno della capacità educativa nelle famiglie, il crescente disagio sociale di tanti giovani – abbiamo due milioni di Neet in Italia -, la solitudine delle generazioni anziane, una povertà sempre più sommersa, nuove forme di devianza sociale, la disgregazione del tessuto sociale nelle periferie delle nostre grandi città, la de-natalità con tutte le sue cause e tutte le sue conseguenze. Poi si aggiungono i fenomeni della corruzione, della collusione. Abbiamo a che fare quindi con un indebolimento della società civile e quindi un aumento di problemi sociali ed etici. Pensare che la PA possa risolvere tutto questo, secondo me, è semplicemente fuorviante. Vi voglio fare tre esempi. Pensiamo alle scuole. Voi sapete che in primavere sono stati pieni i giornali di fatti molto deplorevoli, dove alcuni ragazzi sono stati assai violenti nei confronti non solo di altri ragazzi ma addirittura degli insegnanti. Allora, cosa occorre? Occorrono insegnanti molto autorevoli, con un grande cuore, molto dedicati al bene dei ragazzi. Domanda: lo Stato può creare insegnanti così? No. Altro esempio: sanità. Noi abbiamo strumenti di terapia e di diagnosi sempre più sofisticati e con costi elevatissimi. L’abuso di questi strumenti aumenta i costi. Cosa deve fare lo Stato: mettere delle procedure che inevitabilmente non sono più in grado di contemplare la singolarità del caso? Diventano generiche e quindi, da un certo punto di vista, ingiuste. Occorre una grande ragionevolezza da parte del paziente e da parte dei medici. Lo Stato la può generare? No. Adesso vi leggo un pezzo sugli appalti pubblici che è stato pubblicato sul Corriere della Sera prima dell’estate. Tenete conto che in Italia i tempi delle opere che superano i dieci milioni durano otto anni, quelli che arrivano ai 100 milioni durano 14 anni. Più inefficace di così, è difficile. L’articolo conclude così: «Nel nostro Paese la corruzione si annida proprio negli appalti di opere pubbliche», e questo è vero. «La buona notizia è che nel 2016 è entrato in vigore il nuovo Codice degli appalti con lo scopo di rendere le procedure più selettive e più trasparenti. La cattiva notizia è che il nuovo regolamento sta contribuendo a dilatare ulteriormente i tempi del cinquanta per cento». Allora, abbiamo il dilemma tra un’educazione necessaria e che lo Stato non può garantire; abbiamo il dilemma tra la maturità dei cittadini dai quali lo Stato dipende per non elevare i suoi costi, ma che non può generare; abbiamo il dilemma tra l’efficacia degli appalti pubblici e il loro controllo. Ci sono altri: uno dei dilemmi che viviamo tutti sempre di più è tra sicurezza e privacy. Sono temi oggettivi dove non esistono colpe di qualcuno, vanno affrontati insieme con la massima trasparenza. Ed è questo il punto sul quale si inseriscono i corpi intermedi. Perché i corpi intermedi sono quel luogo dove le persone fanno esperienza di sé, un’esperienza positiva proprio nelle relazioni che vivono; fanno esperienza che è un bene per sé impegnarsi per il bene comune, per il bene degli altri e che questo porta ad una maturazione di sé e del contesto nel quale vivono. Senza relazioni, sistematiche e non casuali, perché il corpo intermedio è caratterizzato dalla sua sistematicità e dalla sua durata, questo non avviene. E faccio subito un esempio. Immaginatevi una persona che lavora alla Protezione civile, nella Croce rossa, nel Banco alimentare, nel Banco farmaceutico, che fa parte di un’opera sociale, che si impegna nel suo quartiere. Sono persone che creano un bene e riducono la pretesa nei confronti dello Stato e dalla PA perché: a. risolvono già tanti problemi per il bene loro e degli altri, b. non c’è più la pretesa nei confronti dello Stato perché di fronte a certi problemi sei consapevole che questo non è e non può essere un problema amministrativo. Vi dico adesso velocemente tre esempi virtuosi, invece, dove questo è avvenuto negli ultimi tempi: il Piano Industria 4.0, riconoscendo il merito e non lavorando con la burocrazia, non lavorando a pioggia, ha favorito chi realmente ha investito; gli ITS, gli Istituti Tecnici Superiori, ancora molto farraginosi ma ottimo esempio di collaborazione tra pubblico e privato, per la professionalizzazione dei ragazzi, il welfare aziendale. Sono esempi per dire che è possibile farlo ma hanno come presupposto che ci sia un soggetto maturo nella società. Allora, vuole dire che la PA è tanto più efficace quanto più il suo interlocutore è un soggetto maturo. Adesso vorrei leggere un testo famoso di Ernst- Wolfgang Böckenförde. Scusate se la citazione è un po’ lunga ma ci tengo tanto per uno scopo specifico. «Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio che esso si è assunto per amore alla libertà. Da una parte, esso può esistere come Stato liberale solo se la libertà che garantisce ai suoi cittadini, si regola dall’interno, come dire a partire dalla sostanza morale del singolo e della omogeneità della società. Dall’altra parte, se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne attraverso i mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, esso rinuncia alla propria liberalità e ricade su un piano secolarizzato, a quella stessa istanza di totalità da cui si era tolto dalle guerre civili confessionali». La grande domanda che si pone rispetto alla politica, alla democrazia, ma anche alla PA, è questa: da dove nasce, cosa genera la sostanza morale e l’omogeneità sociale? Per me, i corpi intermedi hanno questo come primo compito, non la rappresentanza che è un di cui, perché altrimenti diventano veramente delle lobby di basso livello. Perché, se io vado a parlare con la PA, devo poter parlare in base ad un’esperienza virtuosa di impresa, di opere sociali, di esperienza civile, altrimenti è semplicemente la pretesa che un altro risolva i problemi che io non voglio o posso risolvere. E questo alla fine mette a repentaglio anche le democrazie, perché diseduca la gente alla responsabilità e la democrazia vive di responsabilità di ognuno, in un modo non delegabile. È per questo, io penso, che guardare esempi virtuosi è importante. Ho letto l’altro giorno che abbiamo in Italia 4 mila famiglie che si sono assunte la responsabilità di accogliere minorenni rifugiati senza accompagnamento. L’Italia è la società con il maggior numero di volontari, quattro milioni, in Europa. Solo che questo viene poco valorizzato. Rimane lì o viene trattato come pietismo sociale. Sono forze sociali democratiche che devono essere valorizzate e messe in rete perché altrimenti rimangono senza voce. E quindi c’è il presupposto per cui non dobbiamo parlare di cose che non ci sono, dobbiamo parlare di cose che ci sono e che vanno rafforzate. Se posso parlare per un secondo della Compagnia delle Opere, io non pretendo che la nostra associazione abbia come primo compito quello di dire o di chiedere allo Stato cosa fare. La prima questione è creare un’imprenditorialità vera, utile, orientata al bene comune. Questo è il primo compito della nostra associazione: formare le persone. Oggi come oggi, c’è un tema fondamentale, che un’associazione, un corpo intermedio deve aiutare le persone ad affrontare la complessità del mondo che stiamo vivendo. Perché questa complessità tecnologica, politica, con tutti i suoi imprevisti, crea paura. Inevitabilmente, se non sei accompagnato moralmente e nella comprensione dei fenomeni. E faccio un esempio: sul debito pubblico, ne abbiamo parlato stamattina, c’è un’ideologia, una discussione che fa paura. Perché non è facile capire le cause, le conseguenze, lo spread. Su queste cose, se non c’è nessuno che le spiega, nascono dei complottismi inenarrabili. Allora, anche questo è un compito di sostegno nel fare entrare le persone nella complessità, valorizzare la capacità di guardare ciò che va e non solo ciò che non va, chiederti perché la tua impresa o la tua opera vanno bene mentre la mia non va tanto bene, invece di diventare invidioso. E questo vuole dire costruire una società civile che è indispensabile perché uno Stato possa vivere bene, perché la PA possa funzionare. Questo non mette minimamente in secondo piano tutti i problemi della PA di cui si è parlato, ma non è il mio compito di oggi. Voglio finire con una citazione di Alexis de Tocqueville, che è stato profetico quando è andato in America e ha scritto, udite, nel 1840:«Nei Paesi democratici la scienza dell’associazione è la scienza madre». Si è reso conto che in una società egualitaria, se non ci sono corpi intermedi, nasce un’atomizzazione dei soggetti che non sono più in grado di essere soggetti perché sono invivibili, ridotti allo stato di sopravvivenza, senza relazione, senza libertà, manipolabili, abbandonati al potere dello Stato. E quindi il corpo intermedio non ha, ripeto ancora una volta, come problema la lobby ma la possibilità che l’uomo possa esprimere tutto se stesso, con tutto il desiderio di bene che c’è in lui, in relazioni sistematiche, durature. E tanti problemi della PA nascono dal fatto che questo viene meno, non tutti, certo, ma tanti. E adesso chiudo veramente. Penso anche che questi 3 milioni di persone che lavorano nella PA, se hanno un padre, un cugino, un fratello che vive così, saranno anche più lucidi nel loro operare. Non sarà un’esperienza diretta ma l’esperienza indiretta può essere ancora più forte. Perché se io vedo cos’è un soggetto, una persona che si muove con libertà e responsabilità, se ho questo nell’occhio, e non tutti i rischi possibili immaginabili di corruzione e di collusione, se la mia finalità mira al positivo e non ha come primo problema di evitare il negativo, io comincio a costruire. Il controllo ci vuole, assolutamente, ma non può essere preponderante. Adesso potrei citare un lungo articolo su questo ma il tempo non c’è: il primo compito della PA è sostenere, non controllare. Grazie mille.
SALVATORE TAORMINA:
Ringrazio davvero Bernhard Scholz e gli altri due relatori per la ricchezza di spunti veramente imponente. L’incontro di oggi non voleva essere un incontro che dà delle conclusioni ma che apre ad un lavoro: credo che con il contributo dei nostri autorevoli relatori ci siamo forse un po’ riusciti. Noi questo lavoro intendiamo proporlo, accompagnarlo attraverso alcuni spazi, uno dei quali è il Dipartimento della pubblica amministrazione della fondazione per la Sussidiarietà che da qualche anno è attivo proprio come spazio di dialogo a questo livello. E mi piace ricordare che anche il Meeting è uno di questi spazi. Ricordo che è uno spazio che vive del sostegno che liberamente tutti coloro che riconoscono il valore e il significato di questo spazio gli danno. Questo è anche un punto da ricordare: ci sono nel Meeting luoghi, Dona ora, dove si può contribuire anche economicamente al sostegno di questi spazi. Ma mi piace chiudere, è d’obbligo una citazione anche per me, con questa sottolineatura che diceva Scholz sui corpi intermedi: il primo compito non è quello della rappresentanza lobbistica degli interessi ma un compito educativo. E su questo aspetto educativo ci si può ritrovare liberamente insieme, perché scevri da interessi particolaristici, tra chi lavora dentro il Palazzo e chi lavora fuori. Badate che questo è un salto culturale veramente importante, nella consapevolezza di un lavoro sempre in divenire perché porta in sé un orizzonte che trascende di gran lunga la nostra capacità di definirlo in realizzazione concrete. È per questo che vorrei finire con una frase di Friedich Holderlin, che tra l’altro so essere il poeta più amato da papa Francesco, l’ha dichiarato in un’intervista a Padre Spadaro. In una sua opera, Iperione, così dice: «Ciò che ha sempre reso lo Stato un inferno in terra è stato proprio il tentativo dell’uomo di renderlo un paradiso». Sottraiamoci a questa tentazione. Grazie.
(trascrizione non rivista dall’autore)