Chi siamo
UN VIAGGIO DI CENTO ANNI
Presentazione del mediometraggio di Pupi Avati, Regista. Partecipano: l’Autore; Michele Mario Elia, Amministratore Delegato Ferrovie dello Stato Italiane. Introduce Letizia Bardazzi, Presidente Associazione Italiana Centri Culturali.
LETIZIA BARDAZZI:
Buona sera a tutti, benvenuti a questa presentazione del mediometraggio Un viaggio di 100 anni. Abbiamo ospiti eccezionali che vi presenterò a breve, è una realizzazione prodotta da Ferrovie dello Stato Rete Ferroviaria Italiana e Trenitalia. Solo due parole per non rubarvi le sorprese, è un viaggio nel tempo all’interno di un treno in cui, di vagone in vagone, ci è data la possibilità di rivivere momenti importanti della storia della nostra Italia negli ultimi cento anni. Prima di augurarvi buona visione, vi presento i nostri ospiti, eccezionali, questa sera, proprio perché abbiamo l’onore di avere il regista di questo film, il maestro Pupi Avati che è un grandissimo amico del Meeting, che è stato tante volte fra di noi. Ricordo brevemente due interventi che mi hanno personalmente segnato, quando nel 2005 ci parlò di talento e passione, parlando della sua storia personale. Ricordo la volta in cui ci raccontò del sogno del ragazzo di provincia che vede il cinema come la scialuppa di salvataggio di una vita più semplice, quella della provincia, e questo grande sogno che lui persegue cercandolo altrove, dalla sua passione per la musica jazz alla vendita dei surgelati per la Findus. Fino a quando vide il film che probabilmente gli cambiò la vita nel cinema dei Ferrovieri e alla telefonata famosa di Tognazzi da Parigi nel 1973, che miracolosamente, per un evento ancora inspiegabile – vero, maestro? – ricevette il copione di La mazurca del barone. Da allora, il suo incredibile successo ci ha donato più di 50 capolavori. Nel settembre del 2014, vince il premio per la Migliore Sceneggiatura dell’anno con il film Un ragazzo d’oro, con Sharon Stone e Riccardo Scamarcio, al Montreal World Film Festival, in Canada. Adesso sta realizzando vari lavori, è autore anche del romanzo Il ragazzo in soffitta per Guanda. E’ qui insieme al fratello, che voglio salutare e riconoscere, perché è una delle prime volte al Meeting per Antonio Avati che, insieme a Pupi, dirige l’azienda di produzione DueA Films. Adesso vi introduco colui grazie al quale questo film si è potuto realizzare, l’Ing. Michele Mario Elia, Amministratore Delegato delle Ferrovie dello Stato. Diamo subito inizio alla visione di questo film, tenete gli occhi aperti perché dopo avremo molte occasioni di dialogo con i nostri ospiti. Buona visione, possiamo iniziare.
Proiezione.
LETIZIA BARDAZZI:
Inizierei a parlare con i nostri ospiti per sapere come questo film è nato, per sentire il lavoro che c’è stato dietro. Inizio da un aspetto che non so se tutti avete notato. C’è un piccolo particolare autobiografico. Maestro, chi è quel ragazzino che lascia Bologna per andare a Rimini con il desiderio di vedere il mare?
PUPI AVATI:
Innanzitutto bisogna che lei non mi chiami maestro, perché se no non capisco a chi si rivolge.
LETIZIA BARDAZZI:
L’abbiamo sempre chiamata maestro…
PUPI AVATI:
Anche perché il fatto di continuare ad essere chiamato Pupi è l’unico elemento che mi trattiene vicino ad un’età che non ho più. Maestro vuole dire la quarta età, quella definitiva, quella vicino ai titoli di coda, e quindi non mi interessa. Poi parleremo di Michele Elia, che è una persona veramente straordinaria, lo dico senza nessuna forma di piaggeria, perché tanto questo è il film che abbiamo fatto, questo è il film delle Ferrovie e rimarrà definitivamente il film delle Ferrovie, anche se noi tenteremo di proporgli un Freccia Rossa 1000 la vendetta come seconda ipotesi di sequel. Non credo che accetterà. Volevo dire che la cosa bella del rapporto è stata che, malgrado siano esseri umani che appartengono a un contesto professionale completamente diverso, completamente lontano dal nostro – noi facciamo cinema, loro fanno viaggi, fanno treni, fanno rotaie – c’è stata una partecipazione, una simbiosi veramente straordinaria, che è difficile avvenga con le committenze cinematografiche e televisive, al punto che quando Michele ha letto il finale del film mi ha detto: “Ma quel bambino che perde il treno per la colonia sei tu?”. Io non sono mai andato in colonia, francamente, ma mi è piaciuto tanto che lui pensasse che fossi io. Glielo sto rivelando adesso, forse dandogli un grande dolore, ma la mia famiglia guardava ai bambini nelle colonie con una certa supponenza e diceva: “Guarda quei poverini, se non fai il bravo ti mando in colonia”. Questa è la realtà dell’Italia borghese, indecentemente borghese dalla quale provengo: oggi non sarebbe più così. Comunque, per concludere la domanda, l’idea del mare sì, invece, è un elemento molto importante e molto legato al treno. Ricordo che quando con mio fratello, mia sorella, finalmente venivamo al mare – venivamo a Rimini perché il mare era Rimini – quando il treno ad un certo punto si trovava in prossimità del mare, uno urlava da qualche vagone, non mi ricordo da quale, davanti o dietro: “Mare!”. E tutta la gente si scaraventava ai finestrini ed era una gioia, uno di quei tipi di gioia da catalogo delle gioie che secondo me questo film in qualche modo cerca di riassumere. Il catalogo delle gioie, la visione del mare, l’arrivo al mare dei bambini degli anni ’50 è un tipo di gioia che difficilmente nella Silicon Valley riusciranno a riprodurre e a trasmetterci, perché era veramente, autenticamente qualche cosa di straordinario, il treno che ci portava al mare. Ecco, ho cercato di raccontare il treno che portava al mare e quel bambino che perde questo treno, e che evidentemente aveva il tipo di nostalgia, di mancanza che avrei avuto io se fossi rimasto, se non fossi salito sul treno.
LETIZIA BARDAZZI:
Questo bambino che arriva all’Expo con il Freccia Rossa 1000 da protagonista, colui che ha il permesso di guidare il treno e di suonare il campanello, è un po’ un risarcimento?
PUPI AVATI:
Brava, è un po’ un risarcimento, è un po’ soprattutto un lieto fine. Perché era la cosa che volevano Michele e i suoi uomini, che volevano tutti i ferrovieri quando li ho incontrati: c’è stato un rapporto al di fuori di qualunque forma letteraria, demagogica, populista; il mio rapporto con quegli uomini della ferrovia è stato assolutamente straordinario. Perché abbiamo trovato un mondo che vive l’orgoglio dell’appartenenza. A tutti i livelli, in tutte le gerarchie, fino all’ultima, abbiamo trovato i ferrovieri orgogliosi della propria appartenenza. Quando abbiamo girato, li abbiamo utilizzati, abbiamo usato questo straordinario materiale che avete visto: non c’è molto lavoro in digitale nel mettere insieme, mi auguro in modo abbastanza efficace, il repertorio con le nostre riprese. C’è soltanto il blocchetto del Milite Ignoto che è – non perché l’abbiamo fatto noi – un piccolo gioiello di tecnologia.
LETIZIA BARDAZZI:
Il repertorio delle Ferrovie dello Stato…
PUPI AVATI:
No, no, repertorio delle Ferrovie e delle varie cineteche che ci hanno accompagnato in questo viaggio, ma soprattutto il materiale della Fondazione Ferrovie dello Stato, cioè materiale rotabile, tenuto e conservato. Se voi andate nei musei delle Ferrovie dello Stato, scoprite che la storia del treno c’è ancora tutta: si può veramente salire su questi treni, tenuti e conservati da un essere umano straordinario che si chiama ingegner Cantamessa, che ha qualche cosa dell’umano e qualche cosa del disumano, in questo amore per il treno, che è anche un po’ preoccupante, in certi casi. Glielo abbiamo toccato un po’ troppo con le mani e lui ha delle crisi isteriche… ecco, è l’amore che gliele detta. Abbiamo scoperto veramente un mondo dove impera la conservazione, anche grazie a Mario Moretti, che è Presidente della Fondazione. La conservazione e il restauro: lei ha detto una cosa giusta, ha detto “viaggio nel tempo e nello spazio”. Unire queste due cose in un mondo come oggi, che rimuove completamente e continuamente, sempre, il passato, che sta sempre e solo dentro il presente e che è capace di vivere solo il presente, che già ieri non conta, questo tipo di operazione, secondo me, ha una valenza didattica, aldilà del fatto che si celebri il treno. Quando vedo che lo prendevano con le valigie, avete visto quante corde aveva quella valigia? Chissà cosa c’era dentro! Ecco, secondo me, invece di una lezione universitaria, bisognerebbe aprire una di quelle valigie ai ragazzi di oggi, ai trentenni di oggi, aprire una di quelle valigie e mostrare. Noi siamo stati questa cosa qua, ci siamo portati appresso questa valigia legata sulle spalle con gli spaghi, ritenendo di portarci appresso la nostra esistenza, la nostra vita, di trasferire una cultura, di non lasciare indietro niente. Credo che la valenza didattica di questa nostra -perché non è solo mia – proposta narrativa sia notevole, perché dice e compara, in questo finale che voleva essere un lieto fine, il risarcimento di questo bambino che sale sul treno dell’impossibile, sul treno miracoloso, sul treno che è anche difficile immaginarlo così bello. Non abbiamo avuto nessuna titubanza nel definirlo subito il treno più bello del mondo, perché, avendo l’opportunità che ci è stata data prima di girare il film – a me, mio fratello e ai nostri uomini – di fare questi percorsi di prova che faceva il Freccia Rossa 1000 sulla rotta Napoli-Roma, di notte, con tutti questi tecnici che studiavano, abbiamo vissuto un’esperienza magnifica. Ci hanno permesso di anticipare la scoperta di questo che veramente è uno dei treni più straordinari, il più bel treno, e ho suggerito a Michele una cosa – “Io, quando sono su questo treno, non vorrei più scendere” – che è diventata un po’ uno slogan. E’ diventato talmente fruttuoso il treno, è così confortevole, è così bello starci che tu, quando sali e ti sistemi, metti il computer, le cuffie, il cellulare, con questa poltrona che ti avvolge, e senti che si stacca dal marciapiede, e là sul marciapiede rimangono tutti i problemi, non vuoi sapere niente, te ne vai, e il tempo del viaggio dovrebbe durare in eterno: non voglio arrivare perché so che quando arrivo sul marciapiede mi aspettano tutte quelle che sono le problematiche. Credo che il treno oggi per i viaggiatori rappresenti un po’ questa sorta di parentesi dentro la quale andarsi a nascondere.
LETIZIA BARDAZZI:
Dopo ne parleremo. Io so perché per lei è così, perché lei il treno lo ha definito il cinema più bello del mondo.
PUPI AVATI:
Non ero io: l’ho definito così? È la serata delle smentite. Lei ha letto un’intervista a Gianni Amelio, che mi assomiglia.
LETIZIA BARDAZZI:
No, no, è un’intervista per Ferrovie dello Stato in cui lei dice che in effetti, per come è fatta la nostra Italia, è un cinema…
PUPI AVATI:
Se vuoi me ne approprio, va bene, l’ho detto.
LETIZIA BARDAZZI:
Fra un attimo possiamo parlare di cinema e treni.
PUPI AVATI:
Volentieri.
LETIZIA BARDAZZI:
Passiamo al nostro ingegnere, poi farei anche a lui una domanda per sapere l’intenzione che c’era dietro questo film. Soprattutto vorrei farle una domanda legata alla produttività, alle nuove generazioni, allo sviluppo, alla crescita. Come sappiamo, il treno ha segnato la trasformazione sociale ed economica dell’Italia, ha accompagnato gli Italiani nelle tappe fondamentali della vita, è diventato un modo per avvicinare il potere alla gente, è sinonimo di vicinanza, di familiarità. Quali sono i vostri intenti, da ora in poi?
MICHELE MARIO ELIA:
L’avventura del treno con Pupi è stata meravigliosa, lo ringrazio per le parole che usa a nome di tutti i ferrovieri, ha scoperto un mondo che effettivamente è legato alla storia del passato, al presente e al futuro, perché non ci siamo fermati sul passato. Quei treni effettivamente sono lucidati da una persona che si chiama Cantamessa, talmente affezionato al treno che veramente non lo lascerebbe mai, ci dormirebbe, sul treno, in quei letti, in quelle vasche da bagno che ci sono sui treni d’epoca. E’ la nostra vera storia. Sul cinema, invece, volevo dirle che noi ogni tanto facciamo dei treni per situazioni particolari con il Vaticano. Due anni fa abbiamo portato a Roma dal Papa i ragazzi di Scampia. Io chiesi a una ragazzina scesa dal treno: “Cosa ti è piaciuto di più del viaggio?”. E lei disse: “Il panorama”. E’ la storia del cinema, era una proiezione per questi bambini che avevano bisogno di aria, di spazio, di visibilità. Molti di loro erano di Scampia ma non avevano mai visto il mare, per dirvi che cosa ha rappresentato per loro il treno. Noi, come Ferrovie, vogliamo essere il sogno di tutti i bambini, un’opportunità per i giovani laureati che mettono le Ferrovie al primo posto, per andare a lavorare in una società. Sarà perché il treno è quello che li ha sempre accompagnati da piccoli, che ha dato loro questa immagine di velocità e di potenza, con tutte le manifestazioni che avete visto nel film di Pupi. E poi vogliamo essere sempre qualcuno e qualcosa che fa un servizio per tutti quelli che vengono da noi. Abbiamo 2 milioni di pendolari al giorno, 50 milioni di individui che viaggiano sull’Alta Velocità per tutto l’anno. Come vedete, la nostra attenzione è sempre più spostata verso i pendolari perché sono 2 milioni di persone. Pensate che, se l’1% non è contento, sono 20 mila persone scontente: non è un numero irrisorio, anche se percentualmente può sembrare piccolo, per cui il nostro sforzo è dare il meglio in ogni situazione. Amo tantissimo la Ferrovia. Dicevo tempo fa che il numero 5 ricorre sempre: il 1905 è l’anno in cui nasce Ferrovie dello Stato, il 1915 è l’inizio del film, con la I Guerra Mondiale, il 2015 è cento anni dopo, c’è l’Expo. Ci eravamo chiesti, che cosa facciamo? Troviamo qualcosa che rappresenti, che racconti la storia ferroviaria dell’Italia attraverso un film. Avete visto anche dei piatti speciali, le orecchiette: non è perché sono pugliese ma perché il film doveva rappresentare qualcosa anche per Expo. Quindi, abbiamo legato un po’ tutto: la storia d’Italia, la storia del cibo, la storia dei treni. I ragazzi amano il treno, c’è un ragazzo di 18 anni che da 4, 5 anni si occupa dei treni, ha scritto anche una tesina e sa tutto. Ha fatto una gara di abilità con un nostro funzionario e l’ha vinta. È un caso, Raphael. Vi leggo solo dieci righe della sua tesina che è abbastanza estesa, completa. “Il passaggio di un treno oggi non solleva più nessuna curiosità, forse siamo abituati a vederlo, piuttosto molte volte ci dà fastidio”. Parla del rumore. Oggi sembra così, invece il film ci fa riscoprire il treno e dire: “Guardate che è una cosa bella per tutti, è un evento dato per scontato come tanti altri aspetti della nostra vita quotidiana”. La tesina parte un po’ pessimista poi migliora: “Ma un secolo e mezzo fa la nascita della ferrovia ha avuto l’effetto dirompente di una rivoluzione. Per la prima volta, il trasporto di persone e cose via terra si è svincolato dai limiti della trazione animale che da sempre ne aveva dettato i tempi e i modi. Improvvisamente le distanze si sono accorciate e il diabolico marchingegno, come a qualcuno è apparsa la locomotiva a vapore, ha permesso di viaggiare con poca spesa a moltissime persone. Un cambiamento epocale in anni nei quali la maggior parte della popolazione non si allontanava mai per tutta la vita dal proprio Paese”. Grazie ancora a Pupi.
PUPI AVATI:
Volevo aggiungere una considerazione, se me lo permette: va in qualche modo a sottolineare quello che diceva Michele riguardo alle richieste di lavoro in Ferrovia. Ho avuto figli, ho nipoti, quindi ci sono stati scambi generazionali e ci siamo trovati dentro i negozi di giocattoli a pensare a che cosa comprare. Ancora oggi, una settimana fa, il mio nipotino vuole il treno. E ne avrà 10, 15, ma vuole ancora il treno. Ho chiesto alla signora del negozio: “Qual è il giocattolo che si vende di più?”. “Il treno”. Tutti gli altri sono andati via via sbiadendosi, scadendo: il fortino con gli Apache, gli Indiani, i soldatini, tutti spariti. Il treno è rimasto il giocattolo più evocativo, che suscita più immaginazione nel bambino: e questo è un elemento straordinario. Altro elemento singolare, altra coincidenza che fa sì che probabilmente quella risposta, in effetti, l’abbia data io, su cinema e treno, è che nel primo film, quello che svuotò la sala dal terrore, quello dei fratelli Lumière, il film della locomotiva che improvvisamente irrompeva e tutti scappano via perché hanno paura, c’era già l’intuizione che il treno avrebbe potuto essere un elemento narrativo per il cinema non indifferente.
LETIZIA BARDAZZI:
Veniamo alle immagini girate sui treni, anche nella storia del cinema e dei suoi film. Ha in mente?
PUPI AVATI:
La sequenza più bella – forse mio fratello mi può supportare in questo -, la sequenza cinematografica più bella su un treno è quella di Manfredi con una vedova, che film era, Antonio? Era una sequenza meravigliosa: c’era Manfredi su questo trenino a vapore, seduto così, e di fronte a lui c’era questa donna molto piacente ma molto vedova, nel senso che aveva un velo nero, le calze nere, avrà avuto anche un intimo nero: insomma, si immaginava che fosse veramente, completamente rassegnata al dolore, allo strazio di questa perdita del marito. Ecco, era Fulvia Franco, l’ex moglie di Tiberio Mitri. Il treno va, il soldatino guarda la vedova, la vedova non lo guarda, poi, a un certo punto, il soldatino, sempre sul traballare del treno, si siede di fianco alla vedova. Il treno continua ad andare e la vedova a fare la vedova, e a un certo punto il soldatino prende la vedova e incomincia a piegarla: la vedova si fa reclinare in quei vagoni con i sedili di legno, si fa sdraiare giù lentamente e il treno continua ad andare. A un certo punto il soldatino si sdraia sopra la vedova, senza che la vedova abbia nessuna reazione: è un episodio meraviglioso. Hanno un rapporto carnale, privo di qualunque preliminare e di qualunque richiesta. Alla fine, il soldatino si toglie, si risiede, scende dal treno, la vedova rimane sul treno. Ecco, Un amore difficile. Non si salutano neanche ma è una delle sequenze più straordinarie su un treno che uno possa avere immaginato. Di chi era?
LETIZIA BARDAZZI:
Il treno è stato spesso un luogo lirico, poetico, questi dieci vagoni da voi raccontati hanno dentro storie, drammi, poesie, desideri: è come un osservatorio privilegiato.
PUPI AVATI:
Hanno dentro porzioni della grande storia – Mussolini che scende, il Milite Ignoto -, ma anche, e quella parte mi piace di più, della piccola storia. Il matrimonio di due ore di quel ragazzo militare che morirà a Caporetto, che viene a mangiare la torta di nozze e gli rimangono gli sposini in mano: fra le cose della mia vita che ho girato, quella sequenza, ne vado orgoglioso perché lì c’è veramente una storia di un pezzo della nostra Italia, in cui veramente si era sottomessi in modo così totale alle condizioni economiche, finanziarie, ma anche a regolamenti ingiusti. 650 mila ragazzini non sono tornati, e non erano mai saliti probabilmente su un treno, sono saliti su un treno per andare a farsi ammazzare, senza nessuna ragione, perché alla fine quella guerra non si è capito a cosa sia servita.
LETIZIA BARDAZZI:
E il marito di quella sposa era a Caporetto?
PUPI AVATI:
Era a Caporetto, non tornerà, di quelli di Caporetto quasi nessuno è tornato. E gli hanno dato due ore per sposarsi, e lei non si è più tolta il velo. Mi sembra si possa fare cinema anche impegnandosi in un progetto con gli aridi dirigenti delle Ferrovie dello Stato, segli scambi a livello umano sono di una qualità superiore, che non vede nel progetto la finalità di dire: “moltiplichiamo per 10 le vendite dei biglietti di Trenitalia”. Non era questo l’accordo. Loro volevano fare una cosa bella, e quando incontri qualcuno che vuole fare una cosa bella, allora il mondo diventa improvvisamente migliore. Non soltanto le Ferrovie dello Stato, tutto il mondo diventa migliore, perché capisci che non è così indecente come cercano di instillarci, di suggerirci. È stato veramente un rapporto sul piano della qualità e basta, non finalizzato ad altro che alla qualità.
LETIZIA BARDAZZI:
E’ incredibile.
PUPI AVATI:
E’ incredibile in questa Italia di oggi che sia ancora possibile. Voglio aggiungere una cosa, e non è piaggeria: la stessa qualità della partecipazione, del sentire la cosa come propria, dell’avvertirla come propria, io la sento qua. Quando vedo i ragazzi volontari del Meeting, veramente, tutte le volte che vengo mi commuovo perché sono il punto di forza. Quale altra organizzazione in Italia può sollecitare un affezione così? E anche gli adulti, quelli che sono venuti a prenderci in macchina a Roma, con le hostess. Uno ci ha raccontato che è trent’anni che lo fa, la ragazza lo fa da sei anni ma non è che dice “non torno più”, al contrario! E partecipando anche finanziariamente, economicamente: sono le loro vacanze e vengono qua. E’ una cosa assolutamente meravigliosa, perché c’è un’idea, sono tutti coinvolti da un’idea. I ragazzi del Meeting un po’ come le Ferrovie: c’è un’idea, c’è qualcuno che ha detto una cosa, una parola, e dietro alla parola ci si va. Purtroppo in questo Paese non succede così spesso di vivere l’esperienza di coralità in cui ognuno si sente parte di un progetto. Io credo che questo Paese abbia bisogno di un po’ più di coinvolgimento, abbiamo bisogno di sentirci un po’ più indispensabili. I ragazzi del Meeting che ho incontrato, ognuno di loro si sente parte indispensabile del percorso. E il prossimo anno ci torno: sennò come fanno? È bello sentire uno che dice: “sennò come fanno?”. Sennò come fanno senza di me? Ecco, questa è l’idea di Ferrovie, questa è l’idea del Meeting, questa è l’idea di qualunque cosa si voglia fare insieme agli altri. E’ un’idea della vita, del mondo, nobile, bella, un po’ rischiosa, forse, un po’ ingenua, però assolutamente necessaria. Non ci sono alternative.
LETIZIA BARDAZZI:
E’ l’esperienza di coloro che partecipano a qualcosa che collabora al loro cambiamento. Perché chi fa il Meeting ha bisogno del Meeting, si accorge che per avere una coscienza di sé, del mondo, delle cose, c’è un luogo che assicura una presa di coscienza, un nutrimento a cui attingere.
PUPI AVATI:
Sì, ma avviene nello scambio, nella reciprocità.
LETIZIA BARDAZZI:
E chi di voi mi diceva che i ferrovieri erano contenti, baldanzosi, gioiosi…
PUPI AVATI:
Tutti, tutti, eccoli qua.
LETIZIA BARDAZZI:
Perché grazie a questo film erano più coscienti della storia, del valore del loro lavoro.
PUPI AVATI:
Lui (indica uno spettatore, ndr) si è sentito sicuramente una porzione essenziale di questo racconto. Avrà pensato: “Senza di me, come avrebbero fatto?”. E’ così che ognuno dovrebbe pensare. Quando fai un film, fai una troupe: e non è populismo, ma il manovale che scarica il camion deve scaricare il camion perché sta scaricando il legname per fare la storia – non so, un titolo qualunque -, Regalo di Natale: sta portando il legname di Regalo di Natale, non un legname qualunque. È questo, è far parte, i capi, i leader devono far sentire ai loro collaboratori, al loro gruppo, alla loro squadra, che fanno parte di quel progetto e che sono essenziali, che con quegli uomini si fa quel progetto là, e senza quegli uomini si farebbe un’altra cosa.
MICHELE MARIO ELIA:
Bravo. Molti colleghi ferrovieri hanno pianto guardando il film, e si sono un po’ lamentati perché lo spot che diamo in televisione per la pubblicizzazione dei nostri servizi è un po’ troppo corto. Perché voi che avete visto il film, capite la storia del bambino che perde il treno e poi lo riprende è lunga rispetto allo spot pubblicitario che è limitato per questioni di tempo.
LETIZIA BARDAZZI:
Quanto dura lo spot?
PUPI AVATI:
Trenta secondi.
MICHELE MARIO ELIA:
Mentre l’altro, più lungo, è di 90 secondi e racconta la storia del bambino. Però molti colleghi si sono commossi e anche noi abbiamo cominciato a commuoverci, raccontandoci come doveva essere il film, quel giorno di fronte a un gelato al limone. E l’abbiamo costruito lì, abbiamo detto: abbiamo tante vetture d’epoca, a partire da 70, 80 anni fa, possiamo costruire una bella storia ferroviaria, che parli dei ferrovieri e di quello che hanno fatto per il Paese.
LETIZIA BARDAZZI:
Ecco, ingegnere, dietro certi particolari si capisce l’eccellenza italiana. Per esempio, mi chiedevo cosa ci vuole per costruire una carrozza reale – quanti tessuti, quanti legnami, quanta preziosità – o la carrozza dove ha viaggiato il Papa. Veramente, come dicevamo prima, il treno è metafora di sviluppo, in cui c’è anche questo concentrato di tecnologia, di confort, di tutto il Made in Italy che esportiamo nel mondo e per cui la gente ci riconosce.
MICHELE MARIO ELIA:
E’ così. In quel treno reale, c’è la carrozza del re, la carrozza della regina, la carrozza telefonica, la sala riunioni, la carrozza dei camerieri, della governante, è completa. Si vede persino l’arrivo del telegramma, è tutto vero. Oggi abbiamo i telefonini. E come dicevo, il nostro obbiettivo è sempre l’innovazione, la ricerca e lo sviluppo. Il nostro sistema ferroviario, che vede insieme tutti i binari con le ruote del treno, contribuisce a questa riuscita del treno che avete visto, il treno 1000, che diversamente non si farebbe. Lo farebbero i costruttori, e venderebbero il treno che costruiscono loro, non quello che vuole il committente. Il committente ferroviario è molto attivo, esigente. Dice: “lo voglio così”. Le altre imprese ferroviarie comprano il treno che già esiste mentre quel treno 1000 che il bambino porta dentro all’Expo insieme al macchinista, non ha uguali oggi nel mondo per tecnologia, potenza e velocità. Speriamo nel giro di qualche mese di poter andare con quel treno a 350 all’ora sulla nostra linea ad Alta Velocità. È una conquista incredibile, in Europa nessuno viaggia a questa velocità. È questo forse che i giovani vedono nelle Ferrovie, qualcosa che cambia, dove c’è motivazione, c’è sviluppo e anche armonia.
PUPI AVATI:
Assolutamente sì.
LETIZIA BARDAZZI:
Spero non vi dispiaccia, dopo quanto detto, se vi chiedo di fare una riflessione sul titolo di questo Meeting. Soprattutto per te, Pupi: la mancanza come l’aspetto più costitutivo del fondo del nostro cuore sembra un tema che ricorre in tante tue pellicole. Lo possiamo definire un tema avatiano, almeno la nostalgia? Cosa ti evoca, che provocazione ti mette addosso questo titolo, questo verso di Luzi che quest’anno ha fatto un po’ da cornice al nostro festival culturale?
PUPI AVATI:
E’ il mistero dell’essere umano, di come è fatto questo essere umano che vive la nostalgia di se stesso. Io posso parlare impunemente dell’essere umano perché ho 76 anni, fra poco 77, e fra poco spero anche 78, non lo so. Questo essere umano, incomincio a conoscerlo bene, perché bisogna avere molti anni per poter parlare dell’essere umano. E incomincio a conoscerlo bene perché ho vissuto una vita. A parte il mestiere che ho fatto, forse non lo sapete, ma sono sposato con la stessa donna da 51 anni: è una delle esperienze più traumatiche, è uno dei passaggi fondamentali per la conoscenza dell’altro, perché non c’è nessuno più altro di mia moglie, e di quanto non sia altro per lei. Litighiamo tutti i giorni, anche stamattina aveva il muso, non mi ha neanche baciato, mi ha dato una testata, così. Lo sto dicendo per suffragare l’idea che io possa parlare impunemente dell’altro, dell’essere umano. Ecco, la nostalgia che produce il vuoto, la mancanza, l’assenza, quella sorta di misteriosa, non so come definirla se non felicità che noi avvertiamo che da qualche parte si cela, ed è possibile però irraggiungibile. E nel momento in cui – io ho parlato molto spesso del nostro agire presente – la raggiungi, è già finita. Ci sono dei momenti chiave, nella vita di ognuno di noi, in cui io avverto che veramente tutto quello che mi sta accadendo in quell’attimo è meraviglioso, tutto è perfetto. Ci sono tutti i miei figli seduti a tavola, coi nipotini, con le nuore, con le candele accese, con il ristorante e la cameriera che sta portando i piatti che abbiamo ordinato, c’è una musica giusta, magari Sinatra. Tutta la mia famiglia lì, di una bellezza sfolgorante, è una panoramica da un volto all’altro, da un volto all’altro, e arriva il conto. È già finito? È finito! È finito! È durato quello che ho detto io, non è durato un secondo di più, è già finito, cioè si alzano già, stanno già uscendo, io rimango lì con la carta di credito a cercare il PIN. È già finito. Allora, la nostalgia del presente cosa vuole dire? Fare tesoro di quei quattro, cinque fotogrammi, è un baluginio, l’attimo in cui è durata quella felicità. Allora bisogna tenerla dentro, nasconderla. C’è una parte di te in cui probabilmente andarla a celare per poi tornarci e riutilizzarla, ricordarla, rammentarla. Io credo che abbiamo questa nostalgia nei riguardi di noi stessi, della nostra felicità, di quando è accaduta la nostra felicità.
LETIZIA BARDAZZI:
Aspetti, prima di tenerla dentro lei l’ha saputa guardare.
PUPI AVATI:
Ho imparato ultimamente, e sa chi me lo insegnò? Hermes Pan, che è stato un grandissimo coreografo di Fred Astaire e Ginger: voi non sapete neppure più chi è Fred Astaire, parlo con della gente che non sa più niente. Sapete chi era Fred Astaire o no? Uno di Comunione e Liberazione? No. Era molto contrario a Comunione e Liberazione. Allora, lui ballava con Ginger Rogers e c’era un coreografo che si chiamava Hermes Pan, che ha fatto 18 film con lui. Lui sonorizzava le claquettes di Ginger Rogers mentre Fred Astaire sapeva non soltanto il tip tap ma anche fare il rumore sul legno. Invece Ginger Rogers non sapeva produrre il suono, però andava. Allora Hermes Pan sonorizzava le claquettes, ma non c’entra niente con la nostalgia del presente. Siccome è venuto a fare un film con noi in Italia, un film musicale con la Melato nel 1980, come coreografo, gli ho chiesto: “Ma quando stavate a Broadway, con Busby Berkeley, il più grande regista di musical di New York, e George Gershwin, cosa provavate?”. La nostalgia del presente, mi insegnò questa cosa: sentivamo che stavamo facendo una cosa di una bellezza che sarebbe finita e bisognava fissarla, questa gioia che stavamo provando nel creare questo miracolo di bellezza. Ecco, questa è la lezione, questo il suggerimento che sto dando a questi nostri amici: se avete un momento di felicità, un attimo, cercate veramente, invece di fare la fotografia, di fotografarlo dentro di voi, di tenerlo dentro di voi. Perché nei nostri ricordi è molto importante pensare di essere stati felici, perché l’unico punto di forza è credere e sapere che, se non siamo felici adesso, però lo siamo stati, perché ognuno di noi è stato felice. Basta.