Chi siamo
UN PUNTO DI VISTA SULLA CHIESA E SUL MONDO
Andrea Monda, Direttore de L’Osservatore Romano; Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.
Un punto di vista sulla Chiesa e sul mondo
Andrea Monda, Direttore de L’Osservatore Romano; Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.
ALBERTO SAVORANA:
Buongiorno, benvenuti a questo incontro, in occasione del quarantesimo Meeting per l’amicizia tra i popoli, con Andrea Monda, neo direttore da alcuni mesi de L’Osservatore Romano, il quotidiano della santa sede. Una nomina che è stato un fulmine a ciel sereno, perché Andrea è critico letterario, insegnante di scuola, laureato in Giurisprudenza e in Scienze religiose e immagino che se gli avessero detto che ad un certo punto la sua vita avrebbe preso questa direzione, avrebbe pensato che si trattasse di un sogno. Eppure da dicembre dello scorso anno dirige quello che solitamente si chiama il quotidiano, il giornale del Papa. E allora noi abbiamo voluto invitarlo al Meeting che ha un titolo significativo che ci introduce subito all’incontro con lui: “Nacque il tuo nome da ciò che fissavi”. Potremmo applicare alla sua vicenda questo verso della poesia di Karol Wojtyla, perché in qualche modo il suo nome, in questi otto mesi di direzione, ha subito tanto l’influsso di colui che guardava. In questo caso colui che guarda si chiama papa Francesco. Allora, io vorrei subito chiederti come è cambiata la tua vita da quel 21 dicembre del 2018, in cui hai preso il comando de L’Osservatore?
ANDREA MONDA:
Grazie Alberto, forse si sente anche dal timbro della voce ma mi emoziona un po’ ancora adesso, a distanza di otto mesi; se qualcuno mi chiama direttore, io faccio ancora fatica a capire che sta parlando con me, perché appunto non me lo potevo neanche immaginare.
Io sono venuto tante volte qui, forse qualcuno tra il pubblico mi avrà sentito parlare negli anni passati, sono quasi vent’anni che vengo a parlare di Tolkien o di Lewis o di Chesterton, hai citato la mia passione per la letteratura, o per parlare di temi educativi. In genere io venivo e parlavo e la platea era composta per lo più di giovani ed era tutto più confortevole. Però sento anche la simpatia da parte vostra, adesso mi rilasso e devo capire che è cambiato qualche cosa. Tu mi chiedi come è cambiato, cosa è cambiato. È cambiato praticamente tutto. Anche se io adesso nel mio linguaggio ovviamente userò delle immagini, delle categorie che sono dell’uomo vecchio, perché non è che uno si mette una cravatta nuova e… no, non funziona così. Per usare un’immagine zoologica, i serpenti quando fanno la muta, cioè quando perdono la pelle e fuoriescono… io sono a metà strada, sto mutando, ma c’è ancora qualcosa del…
Il 21 dicembre ho preso servizio, ho firmato da direttore responsabile il primo numero de L’Osservatore romano. Il giorno prima, il 20 dicembre, io stavo in classe ad insegnare religione ai miei ragazzi.
ALBERTO SAVORANA:
I miei ragazzi! Ricorderete che le meditazioni della Via Crucis al Colosseo nel 2018 con papa Francesco sono state scritte dai suoi studenti.
ANDREA MONDA:
Quella è stata la più bella esperienza, devo dire. A rivederla adesso sembra il fiore, la fioritura e quindi forse dovevo poi cambiare.
ALBERTO SAVORANA:
È una delle tante sorprese di papa Francesco!
ANDREA MONDA:
È una delle tante sorprese di un Papa che sorprende continuamente. E quella fu un’esperienza bellissima, perché quei testi scritti esclusivamente dai ragazzi sono stati veramente un dono per me, io ho fatto solo da accompagnatore, che poi insomma… però qui, se apriamo il discorso sull’educazione e sui giovani, mi attiri e posso tediare…
ALBERTO SAVORANA:
No, no. Noi vogliamo sapere cosa è successo da quel 21 dicembre.
ANDREA MONDA:
Ecco, allora il 20 dicembre stavo a scuola e il 21 stavo in redazione. Non mi hanno telefonato il 20 pomeriggio, mi hanno chiamato un pochino prima e io ho vissuto un’esperienza singolarissima. Ho vissuto anche diverse settimane la condizione di chi andava a scuola e faceva il suo lavoro ma con la testa altrove, perché avevo saputo di questa proposta che era stata accettata, il mio nome era stato accettato e ogni giorno sembrava il giorno in cui da un momento all’altro questa cosa sarebbe stata fatta. E lì già io ho cominciato a capire che il tempo è molto relativo. C’è l’eternità, il tempo in effetti… non stiamo a guardare queste cose. Il prefetto del dicastero per la Comunicazione Paolo Ruffini, che voi tutti conoscete, l’unico prefetto laico tra i prefetti che sono tutti o vescovi o cardinali, mi chiama e mi dice: «Devo fare un nome, perché il Papa vuole un nuovo direttore de L’Osservatore Romano e io ho pensato a te, cosa pensi?» e io dico: «Sei impazzito? Non stai bene?» e lui mi ha detto «si sono pazzo». «Guarda che io, Paolo, sono totalmente inadeguato, tu lo sai quello che faccio». È vero che Paolo mi aveva conosciuto a tv2000, ci siamo inventati questo programma, forse alcuni lo conoscono, Buongiorno professore, che è un reality delle mie lezioni, quindi c’è evidentemente una simpatia e una stima e quindi lui contava su di me. E io gli ho detto: «Sì, Paolo, sono totalmente inadeguato» e Paolo mi ha detto: «Anche io sono inadeguato a fare il prefetto e anche san Pietro è inadeguato». «Va beh, allora va bene tutto. Mi arrendo». Allora mi unisco pure io a questa… e mentre parlavo sentivo dentro di me due voci, una che diceva «come faccio a dire di sì», perché insomma, bisogna essere onesti, l’avventura è una follia e tra l’altro dentro di me pensavo anche a tutto quello che stavo perdendo: l’insegnamento, il rapporto con i ragazzi, la bella vita della scuola; e c’era un’altra voce che poi ha prevalso: «Come faccio a dire di no?». Quindi ho vissuto questa stranissima esperienza di stare a scuola, fare il mio lavoro fino in fondo, stare con i ragazzi… Posso raccontare un aneddoto che veramente ogni volta che lo racconto mi viene da piangere? Tanto insomma… Mi arriva questa telefonata e mi viene fatta questa proposta e io dico «va bene, puoi fare il mio nome al Santo Padre e che Dio mi aiuti» e il giorno dopo vado a scuola, faccio una lezione, finisco la mia lezione di religione in un quarto ginnasio, alla fine della lezione spunta un ragazzetto di quella classe, un ragazzino piccolino, uno che aveva fatto fino a pochi mesi prima la terza media, mi guarda e mi dice: «Professore io sono Filippo». E io «ciao Filippo». «Io sono uno di quelli che non fa religione, ma dopo questa sua lezione ho deciso che farò religione. Ma lei rimane con noi per cinque anni?». Dico tra me: «Va beh, bastardo. Chi ti ha mandato?». Stavo per mettermi a piangere, ti giuro. Poi ho mentito, ho detto «sì». Ho iniziato bene il mio lavoro.
ALBERTO SAVORANA:
Ma eri in compagnia anche di quello che hai citato prima, Pietro?
ANDREA MONDA:
Sì, e infatti. Ho negato e rinnegato. Ho iniziato proprio alla grande. Questo per sottolineare un po’ lo strappo. Ti nomino, un prestigio, un onore, mettiamoci tutto quello che volete ma è tutto vero, è bellissimo, infatti io sono di una felicità traboccante, però ho intrapreso una strada totalmente nuova, un’avventura di cui veramente non avevo i contorni e non conoscevo nulla e lasciavo una cosa che conoscevo bene, dopo diciott’anni, il mio lavoro, l’insegnamento, il rapporto con i ragazzi, ho scritto libri su questo. Era, è talmente intenso che lo strappo si sente in maniera acuta, però ringrazio Dio. Se vuoi adesso parliamo di che cosa è successo da quel momento in poi.
ALBERTO SAVORANA:
Allora, noi abbiamo intitolato il dialogo con te: “Un punto di vista sulla chiesa e sul mondo”. Io invertirei il termine e comincerei dal mondo, perché la caratteristica de L’Osservatore, a differenza di tutti gli altri giornali che si pubblicano in Italia, è che non è un quotidiano nazionale italiano, è un quotidiano mondiale, nel senso che voi lo sfogliate e trovate di tutto. È un ricettacolo di ciò che accade e che evidentemente tu e la tua redazione andate a scovare o ricevete. Allora, evidentemente questo è un punto di vista privilegiato. In questi pochi mesi di direzione, forti anche della tua esperienza passata, in questi mesi che percezione hai avuto dell’uomo, del mondo contemporaneo, delle sfide più urgenti che non sono le sfide di questo o quel Paese ma sono sfide globali?
ANDREA MONDA:
Quando ogni mattina io verso le otto meno un quarto, otto meno dieci oltrepasso il portone di sant’Anna ed entro nel più piccolo Stato del mondo, entro in un altro Stato, diciamo che entro in un altro mondo. Però è una porta d’accesso a tutto il mondo. L’Osservatore Romano è un giornale cattolico, universale, non è un giornale italiano, anzi devo dire che, stando lì dove sto, in realtà l’Italia da un certo punto di vista scompare, diventa uno dei tantissimi stati del mondo di cui io posso tranquillamente anche non parlare.
ALBERTO SAVORANA:
Salvo che un’improvvisa crisi di Governo induca il direttore, come hai fatto ieri su L’Osservatore di oggi, a fare l’editoriale.
ANDREA MONDA:
La concomitanza l’avete studiata bene. Ma avete detto voi a Salvini o a Conte di…? Non ho mai fatto un pezzo direttamente sulla vicenda italiana, perché io posso permettermi di non parlare di tutte le beghe, di tutte le cose piccole… Sono otto mesi che parlo del Venezuela in prima pagina, dello Yemen. Allora, per fare il direttore de L’Osservatore Romano bisogna aver studiato la geografia, che è una materia che in genere non si studia più, però bisogna fare dei ripassi, perché, è interessante questa cosa, il mio sguardo a proposito di quello che guardiamo, si è per forza di cose dovuto estendere, allargare a trecentosessanta gradi. È proprio una panoramica, un grandangolo. Quindi ho il privilegio di non dovere, come tutti i miei colleghi italiani, parlare tutti i giorni di Conte, Salvini, Di Maio. Un bel privilegio, devo dire. Sono rilassato, sono più rilassato. Però devo anche dire che sento la responsabilità enorme del ruolo che mi è stato affidato. Per ritornare alla prima domanda, mi è cambiata la vita, delle volte anche la vita notturna. Delle volte non ci dormo, soprattutto dopo la proposta, nei primi tempi, però rendetevi conto, è un giornale che è considerato il giornale del Papa ed è così, è considerato così. Per scrivere questo editoriale sulla crisi politica ci ho messo ore, una mia sillaba è riconducibile alla volontà, al pensiero del Santo Padre. Io ho un pubblico di lettori limitatissimo, sono pochi i lettori de L’Osservatore romano, ma sono i più qualificati del mondo. Se fossi snob, e prego ogni giorno di non diventarlo mai, potrei dire, potrei darmi delle arie perché leggono L’Osservatore Romano in ordine: il Santo Padre – e lo legge tutti i giorni, attenzione che voi rimarreste impressionati, sono rimasto io impressionato, tante volte mi ha dato la dimostrazione che aveva letto tutto attentamente ogni giorno – i cardinali, tutti i vescovi, tutti i nunzi apostolici, tutti gli ambasciatori, i capi di stato del mondo, le istituzioni, le élite della comunicazione, che numericamente non sono grandi numeri ma… non so chi altro vogliamo aggiungere. Io ricevo lettere tutti i giorni, anche da cardinali, che evidentemente durante la giornata leggono L’Osservatore Romano più volte e ho capito che la virtù fondamentale è la prudenza e non è una balla. Per arrivare alla tua domanda, mi hai fatto una domandona: dove sta il mondo? Di che cosa ha bisogno e che cosa vedo io dal mio punto privilegiato? Certo, io sono in un punto di osservazione straordinario e all’inizio ho apprezzato sulla mia pelle la pars destruens, cioè l’esperienza di essere il direttore de L’Osservatore Romano ha demolito – e fa male, il lavoro di demolizione fa male – tutti i miei schemi mentali, tutte le mie logiche, tutti i miei automatismi rispetto al mondo. Per me, fino al giorno prima, il mondo era Roma, la Raggi, l’Italia che è il centro del mondo, al massimo l’America. Non è così, ovviamente non è così, non solo perché noi abbiamo una pagina internazionale che spazia dalla Patagonia alla Siberia e passa soprattutto per i Paesi più piccoli, non solo per la passione del Papa per le periferie, ma perché è sempre stato così L’Osservatore Romano. Da quel piccolo posto dove sto, transita tutto il mondo. Io incontro tutti i giorni persone che arrivano veramente da tutte le parti del mondo, spesso sacerdoti, missionari, nunzi, ambasciatori, persone semplici. E questo ti costringe a una revisione continua delle tue categorie e delle tue cose. Non è che esistono gli uomini, esiste Alberto, esiste l’uomo del centro Africa e ognuno ha una sua storia, un suo portato straordinario. Il giornale ha una ritmica molto strana, perché noi siamo un giornale del pomeriggio. Tra le tre e le quattro andiamo in stampa, quindi, in realtà, tra i grandi giornali solo Le Monde fa così, però insomma tutti i giornali finiscono a mezzanotte. Però io mi rendo conto che dovrei rimanere lì – e il più delle volte rimango -, perché da questo piccolo posto, da questo piccolo ufficio transita tutto il mondo. E questo non sapete quanto è educativo, quanto fa bene. Noi siamo pieni di pregiudizi, l’unico antidoto, l’unica cosa che demolisce il pregiudizio è quando conosci direttamente, faccia a faccia quella realtà che avevi giudicato. Ecco, un esercizio faticosissimo che passa, appunto, attraverso una demolizione quotidiana, è il primo dono che ho ricevuto da quando sono stato nominato.
ALBERTO SAVORANA:
Ieri, alla presentazione del suo libro, Daniele Mencarelli, che è tuo caro amico, ha usato una espressione che mi ha molto impressionato: “Dobbiamo abituarci a lasciarci battezzare dalla realtà, perché la realtà è l’unica condizione e strumento per fare il nostro cammino e la nostra strada”. E la sua è stata, come racconta nel romanzo La casa degli sguardi, un cammino e una strada drammatici, molto accidentati. E adesso mi viene in mente, mentre parlavi, una espressione di Jean Guitton che diceva nel suo Arte nuova di pensare, che “ragionevole designa colui che sottomette la ragione all’esperienza”, che oggi sembra una virtù abbastanza rara, scarsa da trovare. Si cerca infatti di sottomettere l’esperienza ad una ragione che è fatta, come tu hai accennato, di preconcetti e pregiudizi. Allora in questo il tuo lavoro, il punto di vista con cui tu ti porti sulla realtà, come ti aiuta in questa sottomissione? Perché tu ogni giorno devi decidere, tra migliaia di input che raggiungono la tua redazione, cosa mettere in pagina e per una cosa che metti cento ne escludi. Questo input di Mencarelli o di Jean Guitton, come reagisce e ti fa reagire al flusso che è istantaneo, continuo di notizie? La rete poi oggi è esorbitante da questo punto di vista.
ANDREA MONDA:
Bellissima questa cosa sia di Daniele Mencarelli, essere battezzati dalla realtà, dalla esperienza, sia di Jean Guitton, la ragionevolezza che vuol dire sottomissione alla esperienza. E’ verissimo. Tra l’altro, in fondo dicono lo stesso movimento, perché la sottomissione del battesimo è essere immerso, immergersi, una esperienza di morte per certi versi, il battesimo no? È andare sotto per poi appunto riemergere nati, vivi, viventi. Ed è l’esperienza che secondo me assicura alla vita un tasso di drammaticità assoluto, ma anche di autenticità. Finché non viviamo così, non stiamo vivendo veramente. E io lo sperimento. Tra l’altro, Daniele Mencarelli è un valido collaboratore de L’Osservatore Romano. Ho ripristinato una pagina che non c’era più, ma che secondo me è fondamentale, Cronache Romane. Prima di me c’è stato Gian Maria Vian e prima ancora Mario Agnes. Mario Agnes faceva la Cronaca di Roma, e Vian aveva tolto la Cronaca di Roma e io ho messo queste Cronache romane che ho affidato a persone del calibro di Daniele Mencarelli, cioè a poeti, perché hanno lo sguardo, perché sanno fissare, sanno fissare e anche esporsi, lasciarsi guardare dalla realtà, da quello che succede in questa città incredibile che è Roma. Secondo me L’Osservatore Romano uno sguardo su Roma lo deve dare, quindi Daniele è bravissimo. Sì, io devo sottomettermi alla realtà che arriva sul tavolo di lavoro de L’Osservatore Romano, come arriva su tutti gli altri giornali, in maniera soverchiante, in maniera assolutamente impossibile da gestire, perché viviamo in un’epoca da questo punto di vista inedita e anche faticosissima da organizzare. L’Osservatore Romano nasce il 1° luglio del 1861. Proviamo un attimo ad immaginare, uno dei primi giornali, è nato lo Stato Italiano, sta nascendo e, quindi, non dico per cento anni, ma per sessanta, settant’anni è stato l’unico mezzo di comunicazione esistente per il Vaticano. E all’epoca la stampa era il dominus. Poi è nata la radio e il Vaticano è stato, come spesso capita, sulla frontiera con Guglielmo Marconi, la radio Vaticana, ci sono anche i filmati, Pio XI, poi è arrivata la televisione e negli ultimi anni venti, trenta anni è scoppiato di tutto. La rete ha fatto saltare tutto, tanto che, come sapete, i giornali di carta sono in difficoltà, tutti quanti, Osservatore Romano compreso. Io come mi sono regolato? In fondo quali criteri, quali priorità mi hanno guidato a riconsegnare il mondo, a restituirlo al lettore de L’ Osservatore Romano? E’ un giornale singolarissimo, questo aggettivo lo usa Paolo VI, anzi Montini, prima ancora di diventare Paolo VI, nel centenario de L’Osservatore Romano, nel 1961. C’è un articolo splendido di Montini, all’epoca arcivescovo di Milano, che dice “questo singolarissimo quotidiano” e ha ragione. Io scherzo anche sul fatto che sia “singolarissimo”, nel senso che vendiamo così poche copie che proprio.. Io spero di raddoppiare le copie, almeno due, almeno due, diventare insomma non dico plurale ma almeno duale. Che succede? E’ un giornale strano, perché ha otto pagine, a volte, quando il Papa si allarga, diventano dodici, perché noi raccontiamo quello che il Papa combina. Noi abbiamo queste otto pagine suddivise in quattro servizi: il servizio vaticano, cioè tutto quello che fa e combina il Papa; il servizio internazionale, lo abbiamo detto, straordinaria pagina, dico straordinaria perché obiettivamente, da quando sono arrivato, ho incontrato tantissimi direttori italiani e stranieri, tutti mi dicono – e non mi sembravano ipocriti, mi sembravano sinceri – che invidiano questo respiro internazionale de L’Osservatore Romano; la cultura, ovviamente; e poi un quarto servizio, religioso, che vuol dire tutto ciò che riguarda il mondo delle religioni, è una pagina anche questa internazionale, ma non il mondo della politica, della cronaca. Quindi, già c’è una selezione, c’è un filtro. E io questa struttura l’ho lasciata. Ho messo delle novità. A una, le Cronache romane, ho fatto cenno. Ma io penso che L’Osservatore Romano debba offrire una chiave interpretativa del mondo e del tempo che viviamo e del pontificato in cui ci troviamo. Sai una delle più belle soddisfazione che ho avuto in questi otto mesi? La posso citare perché mi fa piacere, soprattutto perché è un fatto pubblico, ci sono i video, quindi potete andarla a ritrovare. Viaggio di ritorno, il volo dalla Romania e il Papa ha fatto quella cosa che in molti avete sentito perché è molto divertente: «Io leggo il giornale di partito. Voi lo leggete L’Osservatore Romano?». A tutti i giornalisti, eh? In videoconferenza. «No, dovreste leggerlo L’Osservatore Romano, perché offre chiavi interpretative e quello che io penso sta lì». Il Papa stava parlando, io stavo dietro la tenda e mi sono commosso, perché non c’eravamo detti… cioè non è che io vado lì e… però ha detto esattamente quello che io desideravo, quello che in questi otto mesi ho cercato di fare. Secondo me il direttore de L’’Osservatore Romano deve offrire una chiave interpretativa di questo pontificato e di questo tempo in cui ci troviamo. E finisco. Avevo detto tutto, avevo scritto tutto nel primo editoriale che è uscito il 21 dicembre, che ho scritto veramente in condizioni psicologiche che voi potete immaginare: ero appena uscito da scuola, stava cambiando drasticamente e velocissimamente la mia vita e in più, per una serie di motivi, il passaggio è stato molto più veloce, mentre doveva essere molto più lento. Mi dicono «devi scrivere un editoriale perché è il tuo ingresso», quindi doveva essere anche l’editoriale in cui mi presentavo e io lì uso una immagine e dico che L’Osservatore Romano deve fare un pochino come suggerisce, come indica il nostro maestro, che poi ne abbiamo solo uno che è Gesù Cristo. E uso l’immagine dei discepoli di Emmaus. Cosa fa Gesù? Incontra queste persone lungo la strada e si mette a conversare con loro. «Di che cosa state parlando?». Ah! E lì è interessante, perché quei due sanno tutto del fatto del giorno, della cronaca, è morto Gesù, no? Crocifisso. Il fatto del giorno loro lo conoscono, ma non l’hanno capito, non lo sanno interpretare e Lui, invece, gli offre una chiave di lettura, una chiave interpretativa. All’inizio fa finta di non sapere «di cosa state parlando?» e gli dicono «solo tu sei così forestiero da non sapere quello che è successo?». Ecco, L’Osservatore Romano deve essere un po’ forestiero, cioè deve essere uno che da una parte entra nelle conversazioni degli uomini, non ha paura del mondo, ci entra dentro, «di che state parlando? Cos’è che guardate, cos’è che vi tocca il cuore, cos’è che vi fa soffrire? Perché state tristi?». Quindi, entrare nelle conversazioni degli uomini. Secondo, però, starne un po’ fuori, essere forestiero, cioè avere quella capacità, quello sguardo più alto e Gesù ce lo aveva più alto, che in qualche modo attraversa la cronaca e ne offre in qualche modo il senso. Questo era l’audace promessa.
ALBERTO SAVORANA:
Adesso però mi rispondi alla domanda che ti ho fatto su come vedi l’uomo e il mondo contemporaneo. Ti do un aiutino che traggo da L’Osservatore Romano. Tu da alcuni mesi stai facendo un percorso, hai fatto una decina di interviste con le personalità le più varie, del mondo ecclesiale, culturale, sociale e politico e mi ha stupito perché una delle domande ricorrenti, una delle considerazioni su cui sfidi le persone è questo duplice tema molto connesso dello smarrimento e della paura. Allora, siccome hai parlato di chiave interpretativa che aggiunge ai fatti non una spiegazione, ma un significato e quindi una conoscenza della realtà, da questo punto di vista appunto, da questo punto di osservazione che ha la sua originalità nel punto sorgivo che hai descritto, quali tratti caratteristici puoi trattenere? Io ti ho detto questo della paura e dello smarrimento perché, visto che lo domandi ricorrentemente, in modo quasi ossessivo a quasi tutti, forse questo è un dato che ci può aiutare a prendere consapevolezza di cosa ha bisogno l’uomo di oggi.
ANDREA MONDA:
Sì, grazie. Ma quanto tempo abbiamo? Te lo chiedo perché è bellissima questa conversazione. Sì, io sto facendo molte interviste. Ho ripescato un genere letterario, le interviste, che era un po’ caduto in disuso, soprattutto per L’Osservatore Romano, perché fa parte di quell’ascoltare le conversazioni degli uomini. Ma cosa si dicono gli uomini? Cosa pensano gli uomini? Se li vai a stuzzicare, cosa tirano fuori? Mi è sembrato giusto. L’intervista cui tu facevi riferimento è una serie di ventisei interviste che ho fatto da maggio a pochi giorni fa, sulla vicenda italiana, che poi politicamente è precipitata, però non volevo parlare di quello, volevo parlare…
ALBERTO SAVORANA:
Lui non ve lo dirà, ma diventerà un libro tra poco.
ANDREA MONDA:
Sì, sì.
ALBERTO SAVORANA:
Ho una percentuale poi su…
ANDREA MONDA:
Sì, sì. Lo presentiamo qui. Allora, hai colto una cosa vera, lo smarrimento, la paura. Forse anche qui c’è qualcosa dell’uomo vecchio, nel senso dell’Andrea Monda vecchio, cioè insomma dell’altro ieri. Nel senso che io ho ritrovato, incontrando gli adulti, quello che vedevo stando con i giovani. Del resto non c’è da meravigliarsi, anzi direi che forse ho visto la fonte, la sorgente, di quello smarrimento, di quella paura che avvertivo fisicamente educando, insegnando ai giovani.
ALBERTO SAVORANA:
Cioè stai dando un giudizio su noi grandi non da poco. Cioè che noi iniettiamo nei ragazzi, nei figli smarrimento e paura.
ANDREA MONDA:
Di fronte a questa percezione chiara, forte, su questo ho voluto investigare, ho voluto capire se è soltanto una prima impressione. La prima impressione viene confermata, ma secondo me c’è qualcos’altro. Questa è anche la mia speranza in qualche modo. La frase che mi hai detto adesso mi ha fatto venire in mente – lo dicevo spesso quando insegnavo a scuola – che quando incontravo i genitori degli alunni, vedevo e rivalutavo positivamente l’alunno e dicevo: «Beh, alla fine, non è male, pensavo fosse un disastro ma ecco, fatta la pace, poteva andare molto bene». Il problema spesso, in effetti, sono gli adulti. Però allora, come c’è questo dato in quell’uomo che è l’uomo occidentale? Attenzione, io non riesco più a parlare come parlavo prima. Io dicevo «noi uomini, l’umanità…» e mi riferivo a Roma, Milano, Londra, New York, ma per fortuna, siamo un piccolo spicchio di tutta l’umanità. Questo piccolo spicchio, però, segue le sorti dell’umanità ed è attanagliato dalla paura e allora sto cercando di capirne di più, perché la paura ha un effetto terribile, che è quello di non capire più nulla, e ti crea lo smarrimento. Ma secondo me la paura rivela qualcosa di più. Secondo me ha a che fare con il desiderio, ho questa sensazione. La paura rivela lo smarrimento rispetto ad una ferita, che però nasce dal fatto che il tuo desiderio non trova corrispondenza. E allora mi sono fatto questa idea, che la paura è sempre secondaria, sempre seconda, perché noi abbiamo sì paura, chi è che non l’ha, ma abbiamo sempre paura di perdere qualche cosa, e quindi c’è qualcosa prima. Quando facevo l’insegnante di religione facevo vedere i primi cinque minuti di quel film bellissimo, imperfetto ma bellissimo, che è “Inside Out” della Pixar, dove ci sono le emozioni, quindi la paura, la gioia, la tristezza, la rabbia, e lì c’è un’idea anche teologica straordinaria. Guardate i film della Pixar, sono dei trattati interessanti. Inizia che compare la gioia, la prima cosa è la gioia, e poi dopo venti secondi arriva la tristezza. Questa cosa secondo me è fondamentale: la tristezza, come anche la rabbia e la paura, nascono perché c’è questa sensazione di aver perso la gioia primogenita, però all’origine c’è la gioia, che poi è quello che è raccontato nella bibbia, “e Dio vide che era tutto molto buono”, e tutta la storia dell’uomo è che abbiamo perso quel contatto, che ogni tanto recuperiamo anche se fugacemente, con la gioia. Quindi io sto cercando di interrogare, intervistare, far raccontare le storie degli uomini, perché vedo nell’uomo occidentale un grande smarrimento, una grande paura, che molte volte si trasforma peggio ancora in un rancore, in un risentimento, ma voglio andare ad esplorare il sentimento, ciò che c’è prima del risentimento e capire che forse ha a che fare con un nostro desiderio di gioia vera.
ALBERTO SAVORANA:
Mi stupisce questo che dici perché, lo chiedo a te, per l’esperienza che hai, dal posto che occupi, se c’è un aspetto che a me colpisce delle movenze del magistero di papa Francesco, è che ha questa capacità molto singolare di leggere sotto la superficie, e questo del desiderio mi sembra uno degli aspetti che lui coglie addirittura al fondo di tutte le ferite dell’uomo di oggi, a tutti i livelli, affettivi, conoscitivi, esistenziali, come qualcosa di persistente. E mi stupisce perché questo è anche uno dei tratti che si possono rintracciare in alcune figure contemporanee totalmente laiche, agnostiche al limite dell’ateismo, ne penso una che i questi mesi domina la mia immaginazione che è Houellebecq, che in un carteggio con Bernard-Henri Lévy, ad un certo punto dice: “Io tutta la vita sono stato perseguitato dal desiderio di essere amato”. Uno che, come tu ben sai, letterariamente e umanamente, le ha provate tutte, non si è fatto mancare nulla, ed è arrivato a un fondo buio, che è quel nichilismo che oggi domina, eppure in quel fondo buio, la frase di Guitton, l’esperienza, gli ha restituito qualcosa, e lui dice: “Ho avuto questo desiderio totale. La mia ragione mi dice che è un desiderio impossibile, tuttavia il desiderio persiste. C’è qualcosa di più originale, sorgivo, potente, che neanche tutta la negazione che uno ne può fare, per le esperienze che ha vissuto, per le paure, per gli smarrimenti”. Allora ti chiedo, da questo punto di vista, che cosa ti colpisce, come vedi – tu ce l’hai lì, quasi dirimpettaio – il muoversi di papa Francesco in questo contesto umano a cui lui si rivolge, quasi facendo saltare la categoria dentro/fuori, perché a questo livello tutti siamo parte del dramma e della sfida.
ANDREA MONDA:
Ti rispondo un minuto, però ti volevo dire che tutto quello che hai detto, mi ha fatto sentire anche un po’ di sana pelle d’oca, perché lo condivido pienamente. Come direttore, cosa faccio io quotidianamente? Un tentativo che sto facendo, una cosa che ho pensato, è aumentare, amplificare, rinforzare dentro L’Osservatore Romano, quello che io chiamo il taglio narrativo, cioè andare a cercare storie, perché sono convinto che se io lascio parlare i protagonisti – i protagonisti sono la suora che in Congo combatte contro l’ebola, o contro la tratta, i protagonisti sono gli ultimi – i protagonisti veri della storia, e se io riesco a mettere in pagina storie, forse, sia per chi le racconta sia per chi le ascolta, si crea quel momento, perché il tempo è fondamentale. Quando uno ti racconta una storia, sospendi… cioè non sei una macchina che deve fare cose, produrre ecc., ve lo dico perché molte volte il direttore de L’Osservatore Romano diventa un po’una macchina…
ALBERTO SAVORANA:
Oggi ce n’è una stupenda di un sacerdote della fraternità sacerdotale dei missionari San Carlo Borromeo a Taiwan che ha questa caratteristica.
ANDREA MONDA:
Non l’ho fatto perché sapevo che non…
ALBERTO SAVORANA:
Non ho detto nulla, ho constatato…
ANDREA MONDA:
Non so se voi verificate quello che sto dicendo io, pensate in famiglia, non c’è più il tempo di ascoltare una storia che può essere quella del nonno, del papà, ma anche dell’ultimo figlio, il più giovane. E se salta questo, si inceppa la generatività, poi subentra la paura, perché il nichilismo, che è l’effetto ultimo, il nichilismo deriva dal latino “nihil”, che vuol dire “ne hilum”, cioè “non c’è il filo”. Siamo una società sfilacciata, perso il filo, non connettiamo più niente alle cose, e qui arriva papa Francesco, che invece sente e sa, che vede che tutto è connesso, per cui non c’è dentro o fuori. Siamo tutti dentro questo grande dramma che è la vita, questo grande dono drammatico che è la vita, per cui lui può parlare liberamente, e lo fa con poche parole e con molti gesti, perché sa che è come in famiglia: il papà non parla, e il Santo Padre non parla. Però lo dico da direttore, sta sempre in movimento, non sta mai fermo. Tu stai facendo una domanda a me sul Papa, ma tu non devi mai fare una domanda su un personaggio, non puoi chiedere allo staff più ristretto, perché lo staff più ristretto non sopporta il suo capo. Non dite questa cosa che ho detto…
ALBERTO SAVORANA:
Rimane qui tra noi, “Monda non sopporta il Papa”. Un bel titolo…
ANDREA MONDA:
Cosa voglio dire: è ovvio, perché in realtà siamo travolti, affascinati, insomma è straordinario vederlo all’opera, però tenere il suo passo non è semplice. Dico un altro aneddoto che non dovrei dire ma lo dico. È capitato una volta ma ho la sensazione che capiterà di nuovo. Noi della comunicazione vaticana, delle volte, il più delle volte, riceviamo i testi che il Papa va a pronunciare, magari il giorno prima ce lo danno, e quindi il giorno prima io avevo ricevuto un testo bellissimo che il Papa avrebbe pronunciato non mi ricordo più in quale occasione. Leggo questo testo bellissimo. Mi lascio ispirare, scrivo un editoriale formidabile.
ALBERTO SAVORANA:
Cioè te lo sei rivenduto?
ANDREA MONDA:
No, aspetta, no, doveva uscire alla fine del discorso del Papa. Il Papa arriva in questo luogo, si siede, prende il testo, io stavo guardando, e lui fa: «Avevo preparato un testo ma non lo leggo più». E non si fa così! E no! E va a braccio, non dice niente di quello che aveva scritto, per cui il mio editoriale l’ ho cestinato, piangendo e con un po’ di risentimento.
ALBERTO SAVORANA:
Questo è un esempio solare di sottomissione della ragione all’esperienza, perché la realtà ci supera continuamente, la grandezza dell’uomo e in questo caso dell’uomo, è di non incaponirsi sul suo editoriale bellissimo e di obbedire a quel fatto.
ANDREA MONDA:
Tu hai citato Mencarelli, Guitton e io ti cito Chesterton che dice “l’uomo sano è quello che allarga la sua testa e invece l’uomo logico cerca di mettere tutta la realtà dentro la sua testa e la sua testa scoppia”. Di fatti poi il logico impazzì. Dice sempre Chesterton: “Il pazzo non è quello che ha perso la ragione, ma che ha perso tutto tranne la ragione”. Se ti rimane solo la ragione, l’arido raziocinio, alla fine scoppi. Infatti impazziscono, diceva Chesterton, i cassieri, gli scacchisti, questi personaggi qui. Io ho fatto anche il cassiere nella mia vita, perché nella mia vita ne ho combinate tante, lavoravo in una banca, facevo il cassiere. Poiché stavo capendo che stavo impazzendo, mi sono messo ad insegnare religione, che tu dici «sì era proprio matto», però lì mi divertivo a fare il professore di religione, ma tanto, adesso m’hanno preso e il Papa è convinto che io possa fare bene questo lavoro, che poi vuol dire appunto stare molto a fianco a lui e cercare di comunicarlo, comunicare questa persona che ha qualcosa veramente di straordinario. Innanzitutto ha 82 anni, e quando soprattutto io lo incontro nei viaggi, quando fa i viaggi dici «boh? Come fa?», perché io che ho trent’anni meno di lui non riesco a stare al suo passo e secondo me lui ha ben presente quello che stavo dicendo prima, che se dovessi dire un aggettivo nel suo caso direi che lui è una persona urgente, cioè sente l’urgenza, sente e percepisce l’urgenza, perché il mondo vive in una situazione drammatica. Quindi lui non fa sconti, è il Papa dell’allegria, della gioia, ma le cose sono strettamente collegate, per quella cosa che dicevo prima, cioè lui va a scavare oltre la superficie e riesce il più delle volte a toccare il cuore di tutte le persone, perché invita le persone a fermarsi un attimo, a rivedere, a raccontare la propria storia, alla ricerca di quel desiderio persistente.
ALBERTO SAVORANA:
E a questo desiderio persistente, che cosa offre?
ANDREA MONDA:
Beh diciamo che offre la sua esperienza di fede, perché appunto fisicamente non si spiega. Lui attraversa il mondo, adesso tra pochi giorni andiamo in Mozambico, Mauritius, Madagascar, e poi si va in Thailandia, Giappone. C’è qui mia moglie che mi vede…
ALBERTO SAVORANA:
Entusiasta eh?
ANDREA MONDA:
Eh sì. È venuta perché così mi vede, se no non mi vede più. Ci siamo dati appuntamento a Rimini.
ALBERTO SAVORANA:
Soprattutto rimpiange i pranzi dopo la scuola.
ANDREA MONDA:
Lei insegnante di religione delle medie, io del liceo, eravamo tutti i giorni a pranzo insieme, bellissimo. Lei mi parlava della sua preside, io della mia. Era una cosa stupenda, tranquilla, e adesso ogni tanto accende la Tv e mi vede vicino a quello vestito di bianco, lì. «Ma se stavi in Romania» e dico «sì è vero, stavo in Romania. Ci sono le prove». E lui ha questa forza, questa energia e poi ha questa serenità, non mi piace questa parola ma al momento no riesco a trovarne un’altra, che nasce… perché c’è sempre una sorgente, c’è sempre una fonte, nasce secondo me dalla sua grande fede. Lui sa che il diavolo è il principe del mondo, lui lo cita ogni giorno, ma c’è il Signore della storia, e questa storia ha già un vincitore, quindi ha una capacità di abbandonarsi, di affidarsi, per cui passa lietamente attraverso il fuoco e le fiamme, che il mondo non gli risparmia. Parlo adesso dell’esperienza che ho avuto, anche fisicamente, direttamente con lui, nei viaggi soprattutto. I viaggi sono momenti molto intensi e in genere quando sei in viaggio arrivano gli attacchi più terribili, scandali a orologeria, fake news, di tutto. Per cui, io che sono il direttore de L’Osservatore Romano, delle volte dico «rispondiamo, facciamo qualcosa». Lui mi guarda: «Rilassati. Dio esiste e non sei tu», il sottotesto è questo, «ti puoi anche rilassare».
ALBERTO SAVORANA:
Capisco, perché è un’esperienza che io vivo, a fasi alterne, con don Carrón, che è il presidente della Fraternità di Cl. Io di spirito sono un po’ ansioso e “preoccuposo” – l’accusa che mi fece don Giussani tanti anni fa «tu sei troppo preoccuposo», termine che non c’è nel vocabolario della lingua italiana, ma lui faceva i neologismi – un giorno mi ha detto: «Guarda, rilassati, Dio c’è». Come dire: il protagonista è un altro. Questo colpisce del Papa.
ANDREA MONDA:
È vero, è così, io non aggiungo altro. I grandi, per dare il giusto spazio alla realtà, piegano la lingua. È interessante questo. Lui offre una storia che non è solo la sua storia, lui è il canale di questa storia, ma è la storia di Gesù. Fateci caso che lui non parla, non usa mai la parola Cristo, dice Gesù, Dio fatto uomo, cioè la storia di quest’uomo di Nazareth e la offre a tutti, perché sa che questa storia tocca e scioglie…
ALBERTO SAVORANA:
Ti faccio una domanda impertinente perché riguarda noi cristiani innanzitutto e non il mondo esterno: questa preminenza data all’esperienza e, in linguaggio ecclesiale si direbbe, all’irruzione dello Spirito che fa acqua da tutte le parti, non sarà forse anche questo uno dei motivi per cui papa Francesco è mal sopportato in un contesto in cui invece, spesso, si tende o tendiamo ad assicurare la possibilità del cristianesimo oggi attraverso regole, divieti, strutture, organizzazioni? Non perché non siano giuste tutte queste cose, ma perché questo non è in grado di rispondere a quella persistenza del desiderio, a quell’urgenza di vivere che c’è in chiunque. Dico non sarà che al di là dei problemi riduttivamente politici con cui si tende a leggere il pontificato, c’è questa sottolineatura, come l’hai detta tu, del fattore storico dell’incarnazione senza il quale cristianesimo e chiesa sono parole?
ANDREA MONDA:
È bello conversare con Alberto, perché fa la domanda e dentro c’è già la risposta… un applauso. Adesso, sono talmente d’accordo…
ALBERTO SAVORANA:
Perché non potevo farlo dire a te… come quel gioco: tu non mi dici niente, mi dici si o no.. come nei film polizieschi…
ANDREA MONDA:
Si, si, vedi che il direttore de L’Osservatore Romano da mesi sta facendo solo interviste. Mi son detto: o racconto storie o le faccio uscire fuori. E visto che siamo a questo livello di racconto di storie, mentre parlavi mi sono venute in mente due romanzi che forse possono servire a dire quello che stavi dicendo tu. La letteratura in questo è una grande amica, e i due romanzi a cui io tengo particolarmente sono: uno “Il Signore degli anelli” e l’altro “I promessi sposi”. Tutti e due letture di Bergoglio: “I promessi sposi” l’ha scatenato, ma anche “Il Signore degli anelli”. Dicono più o meno la stessa cosa…
ALBERTO SAVORANA:
Ha messo I promessi sposi e l’“Innominato” anche nel messaggio che ci ha mandato per il Meeting…
ANDREA MONDA:
Infatti! Pensiamo alla scena dell’Innominato. Qui abbiamo Lucia, nome che tra l’altro dice qualcosa, Lucia, che è un punto luminoso, va nel castello dell’Innominato, cioè nel luogo più buio, la terra di Mordor, e lì ci troviamo il paradosso per cui chi ha paura è l’Innominato, non è Lucia. Lucia ha paura, ma ha molta più paura l’Innominato. E Lucia non fa altro che dire: «Il Signore perdona tante cose per un’opera di misericordia». Sembra il messaggio di papa Francesco in un mondo in guerra, in un mondo fosco, in un mondo anche truculento delle volte, ma lui non fa altro che essere se stesso, come Lucia non fa altro che essere se stessa. Forse trema anche dentro il suo cuore, ma ripete: «Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia», è il messaggio di Papa Francesco, e questa cosa… ecco lo Spirito che scompiglia, quello che succede all’Innominato Manzoni ce lo descrive in maniera proprio… “Il Signore degli anelli” più o meno è la stessa cosa: qui ci sono degli Hobbit, che non c’entrano niente nella Terra di Mezzo, perché la Terra di Mezzo sembra quella dell’Innominato, dei potenti. La morale è quella del “Magnificat”: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha esaltato gli umili”; questi umili, questi Hobbit, arrivano e scompigliano tutto, dovunque vanno seminano il panico. Ecco, secondo me, la mia nomina, di un professore di religione, a direttore, corrisponde tutto alla stessa logica, che è la logica degli Hobbit, cioè la logica dell’outsider, la logica dell’umile Lucia che mette in crisi il potente, è la logica che afferma che se il mondo diventa sistema, per cui diventa soltanto regole e schemi, non si salva, non si riscatta, muore soffocando e ha bisogno di una breccia, ha bisogno del vento gagliardo di Pentecoste. Ecco, gli Hobbit, Lucia e chissà, forse anche io, facciamo parte di questa stessa storia.
ALBERTO SAVORANA:
A me ha colpito che in una delle interviste che hai fatto in questi mesi a don Carrón, hai messo un titolo abbastanza sorprendente, La forza squilibrata del cristianesimo, ripresa da una risposta di Carrón, desunta da un’immagine di papa Francesco: “lo squilibrio dello Spirito”. Perché ti ha colpito così questa immagine?
ANDREA MONDA:
Prima ti riferivi alle regole. Ebbene, io sono arrivato lì con tutte le mie forme, formule, e stare pochi giorni già a L’Osservatore Romano mi ha devastato tutta la mia precedente ricostruzione del mondo. Se pensiamo che il cristianesimo sia una formula che ci riequilibri il mondo, non abbiamo capito bene cos’è il cristianesimo. Ricordiamo il Vangelo di domenica, il fuoco, “Come vorrei che fosse già acceso.. io sono venuto a portare il fuoco”. A quella bellissima conversazione con Carrón il titolo gliel’ho dato prendendolo dalle sue parole, che riprendevano però un’immagine del Pontefice, perché il 9 maggio scorso il Papa, a San Giovanni in Laterano, parlando alla diocesi di Roma, ha detto: «Bisogna mantenere lo squilibrio, cioè il cristianesimo è la manutenzione dello squilibrio». Non si sta inventando nulla papa Francesco, è il Vangelo, questa cosa qua si vede anche dalla fine che ha fatto Gesù: non è venuto a riconciliare e ad aggiustare le cose, le è venute a convertire…
ALBERTO SAVORANA:
E gli dice che ha portato il più grande disordine…
ANDREA MONDA:
Eh appunto! E questo ce lo dobbiamo ricordare, perché è inevitabile: cristiani di venti secoli di cristianesimo siamo portati a… come quelli che leggono la Bibbia come se fosse il libro delle risposte, ma è il libro delle domande. Se noi lo prendiamo come il libro delle risposte abbiamo, uso un’immagine di Northrop Frye, grande critico letterario canadese, che ha scritto un libro straordinario che si chiama “Il grande codice”, finiamo per fare con la Bibbia quello che hanno fatto i filistei con Sansone: gli togliamo i capelli, cioè gli togliamo la forza. Però i Filistei non sapevano che quei capelli, piano piano, ricrescevano. Cioè la Bibbia si riprende la sua rivincita, la Bibbia, la parola di Dio, il Vangelo e anche la Chiesa, quando è voce della parola di Gesù e della parola di Dio, si riprende la sua rivincita. Noi cerchiamo di aggiustarcelo il Vangelo, è inevitabile. Io parlo di me, ma penso che lo possiamo riconoscere tutti. Questo Papa ha questa grandissima capacità che nasce dalla sua grande libertà interiore: di essere perfettamente, come dire, semplicemente, canale di questo vento che non è suo, ma che arriva dall’alto.
ALBERTO SAVORANA:
Per chiudere: dicci che cosa ti ha suscitato il titolo del Meeting: “Nacque il tuo nome da ciò che fissavi”, che è un verso di una poesia di Karol Wojtyla dedicata alla Veronica.
ANDREA MONDA:
Bellissimo, verissimo. Forse il nostro nome, che tecnicamente ci viene dato all’inizio della nostra vita, in realtà è un’acquisizione ultima e ce lo conquistiamo o lo riceviamo da quello che fissiamo, verso cui ci dirigiamo, verso cui tutta la nostra vita tende: solo alla fine saremo, avremo un nome. Mi ha fatto venire in mente un’osservazione che faceva Flannery O’Connor, questa grande scrittrice cattolica americana che diceva: “Noi diventiamo quello che vediamo”. E allora si tratta non solo di questa sana manutenzione dello squilibrio, ma di una faticosa educazione dello sguardo. Cosa guardiamo noi, cosa fissiamo? È bellissimo questo termine! Fissare è un termine bellissimo, che noi non facciamo, ci mette un po’ in imbarazzo, perché noi non fissiamo più nulla. Pensate invece a tutta la dimensione contemplativa della vita, che è una dimensione dove il fissare è fondamentale. Noi non fissiamo più nulla, perché andiamo di corsa, andiamo di fretta. Forse abbiamo gli occhi fissi sul telefonino. Ma forse quello non soddisfa, no? Allora secondo me, dovremmo avere la capacità e, cito di nuovo la O’Connor che parla proprio dello stare a fissare, a contemplare. Dice: “L’artista – ma se ci pensate questo vale per ogni uomo – deve avere la capacità di stare a guardare le cose, a little bit of stupidity, a little grain of stupidity”, con un pizzico di stupidità, di stupidaggine. Perché questa stupidaggine vuol dire la capacità di stupore. Secondo me abbiamo perso questo, siamo molto seri, pensiamo di essere persone rispettabili, pensiamo di avere molte cose da fare, di non poter perdere tempo a fissare niente e nessuno. No, dobbiamo avere un po’ anche il coraggio di apparire stupidi, in questo gli Hobbit sono meravigliosi. Come vedi parlo sempre delle poche cose che so. Grazie.
ALBERTO SAVORANA:
Ti ringrazio. Io credo che la cosa più interessante di oggi è l’incontro così come si è sviluppato, in un dialogo libero con una persona che deve misurare anche le virgole. Ma la sincerità e la lealtà con cui tu ti sei esposto, può solo essere frutto di una stima e di un’amicizia. E allora io mi ero appuntato due frasi e le tue citazioni ultime, il tuo ultimo intervento le rendono ancora più pertinenti. Sono due brevissimi pensieri di due persone che anche in questo documentano un’affinità, non essendosi mai incontrati, che può essere solo frutto di una comune esperienza della fede e dell’umano. La prima è questa, parlano entrambi ai giornalisti: “Lo scopo specifico, lo scopo per un giornalista deve essere quello di aprire, tra parola e parola o dentro le sillabe della stessa parola, aprire il più possibile uno spazio, come quando si aprono le finestre. Uno spazio per un’aria vera, per un senso vero. Creare lo spazio che renda più riconoscibile e accettabile il senso vero, il giornalista crea spazi per una registrazione più vera del presente”. La seconda è questa: “Dai frutti possiamo riconoscere la verità degli enunciati. Se suscitano polemica, fomentano divisioni, infondono rassegnazione, o se invece conducono a una riflessione consapevole e matura, al dialogo costruttivo, a una operosità proficua. Il miglior antidoto contro le falsità non sono le strategie, le regole, i precetti, ma le persone, persone che libere dalla bramosia, sono pronte all’ascolto e attraverso la fatica di un dialogo sincero lasciano emergere la verità, persone che attratte dal bene si responsabilizzano nell’uso del linguaggio”. La prima frase è di don Giussani, la seconda di papa Francesco. Questo è l’augurio, perché noi vogliamo vedere sempre più incarnato in te e nello strumento che fai questa sensibilità che oggi è così rara e pure così necessaria.
ANDREA MONDA:
Grazie di cuore, non aggiungo altro. Posso citare la frase più ripetuta da papa Francesco: pregate per me.
Trascrizione non rivista dai relatori