Chi siamo
Un lavoro degno per una vita buona
In collaborazione con Cdo Opere Sociali.
Stefano Granata, Cooperatore sociale, Presidente Federsolidarietà e Aiccon; Alejandro Marius, Trabajo y Persona, Venezuela; Enrico Novara, Cooperativa L’Iride; Michele Tiraboschi, Professore di diritto del lavoro, allievo di Marco Biagi; Eleonora Vanni, Cooperatrice sociale, Presidente Legacoopsociali. Introduce Stefano Gheno, Presidente Cdo Opere Sociali.
Nonostante le innumerevoli dichiarazioni d’intenti a riguardo dobbiamo riconoscere che l’inclusione lavorativa di persone con disabilità o altre condizioni di fragilità è ancora troppo limitata per poterci definire un Paese davvero capace di accogliere e di garantire pari opportunità. Questo nonostante ci siano tutte le evidenze di come il lavoro sia un fattore di sviluppo umano per tutti, e a maggior ragione per quanti vivono quotidianamente la fatica del vivere per la loro fragilità. Non sono peraltro gli strumenti legislativi a mancare, né le organizzazioni capaci di favorire questa inclusione. Nell’anno in cui si ricorda la tragica scomparsa di Marco Biagi, uno dei principali architetti della possibilità di inclusione lavorativa, è preziosa l’occasione per affrontare questo tema attraverso la testimonianza di alcuni protagonisti.
UN LAVORO DEGNO PER UNA VITA BUONA
Stefano Gheno: Buonasera. Benvenuti a questo incontro della 43° edizione del Meeting per l’amicizia tra i popoli. Il titolo è: “Un lavoro degno per una vita buona”, che vuole essere da un lato la descrizione di una cosa di cui tutti siamo profondamente convinti, almeno noi che sediamo in questo panel, ma anche una provocazione perché invece oggi questa affermazione non può più essere considerata un’evidenza.
Un lavoro degno perché la dottrina sociale della Chiesa e papa Francesco in particolar modo fin dall’inizio del suo pontificato, ci hanno richiamato alla necessità del fatto che il lavoro sia degno. Non tutti i lavori sono degni, ma c’è bisogno che un lavoro sia degno. Ci siamo permessi di aggiungere a questa affermazione, a questa provocazione del Santo Padre: “per una vita buona”, perché noi siamo convinti che il lavoro possa migliorare la vita delle persone e pensiamo che tutti abbiano diritto di avere questa possibilità, anche persone che secondo molta gente non hanno nessuna possibilità di avere una vita buona e sto parlando di persone con disabilità. Bene, nel nostro paese c’è una grande tradizione di inclusione lavorativa di persone con disabilità. Certamente non abbiamo risolto il problema, un problema del genere non si può certo risolvere, ma di casi di esperienze di successo che dimostrano che attraverso il lavoro anche una persona con evidente svantaggio può recuperare una qualità della vita, può ritrovare appunto una speranza di vita buona, noi ne abbiamo visti molti.
Questo nostro incontro nasce dopo un percorso che abbiamo fatto. Io sono il presidente di CdO Opere Sociali, un’associazione che raggruppa diverse centinaia di opere che lavorano nel campo sociale dell’educazione, dell’inclusione lavorativa, della disabilità. Lo scorso anno abbiamo fatto un percorso proprio sul tema dell’inclusione lavorativa nelle cooperative sociali, perché c’è uno specifico, poi lo sentiremo dai nostri ospiti. Questo percorso è stato molto interessante. Ha partecipato tra gli altri il professor Tiraboschi e da lì è nata l’idea di proseguire questo cammino, da un lato mettendo in piedi un tavolo di lavoro su questo che raggruppasse le diverse realtà della cooperazione e dell’associazionismo che sono attive in questo ambito, ma appunto avevamo ritenuto che il Meeting di Rimini potesse essere un luogo importante in cui porre questa questione e quindi eccoci qua.
Io vi presento le persone che interverranno oggi, che ci aiuteranno ad affrontare questo tema.
Innanzi tutto ho citato prima il professor TIRABOSCHI, sembra scortese perché abbiamo qui una sola signora, ma c’è un motivo per cui cito prima il professor Tiraboschi e il motivo è che uno dei contributi a nostro parere più significativi sullo strumento della cooperazione per l’inclusione sociale delle persone con svantaggi e disabilità ci è venuto da Marco Biagi. Quest’anno ricorre l’anniversario della scomparsa del professor Biagi che è stato ucciso dalle Brigate Rosse anche per la sua posizione controcorrente rispetto alla rilevanza del lavoro. Michele Tiraboschi è stato allievo di Biagi e mi permetto di dire, questo lo dico io, la persona che più evidentemente ha raccolto l’eredità di Marco Biagi nel suo lavoro. Lui è professore di Diritto del lavoro ma mi permetto di dire, anche qui dal mio punto di vista, l’inventore di ADAPT, che in questo momento nel nostro paese è sicuramente il centro di lavoro sul lavoro, perdonate il gioco di parole, più interessante e significativo che c’è. Michele Tiraboschi ci aiuterà a giudicare quanto stiamo facendo e stiamo provando.
Eleonora VANNI, cooperatrice sociale. Lei è nata come cooperatrice sociale, prima ci raccontava che lei si è mossa in questo campo partendo dall’arte, perché ha studiato arte prima di diventare un’amministratrice, una dirigente del movimento cooperativo. Oggi è presidente di Legacoop sociali. La ringrazio molto, è la prima volta che è al Meeting, quindi la ringrazio tantissimo di essere con noi.
Alla sinistra di Eleonora c’è Stefano GRANATA. Anche lui è un cooperatore ed è il presidente di Federsolidarietà, cioè l’aggregazione delle cooperative sociali aderenti a Confcooperative. Prego un applauso. Sono sigle che raccontano più, se vogliamo, un passato, perché oggi in realtà la cooperazione è un movimento unitario e in qualche modo questo non può che farci piacere. Appunto Eleonora e Stefano ci aiuteranno anche in virtù del loro ruolo di rappresentanza che hanno nel mondo cooperativo, a ragionare su questi temi.
Poi c’è un terzo operatore: Enrico NOVARA. Ha lavorato per tantissimi anni nello sviluppo. Lui è stato un ingegnere, ha lavorato per molti anni in Brasile all’urbanizzazione di favelas importanti, poi è tornato in Italia e adesso ormai da alcuni anni sta accompagnando una cooperativa sociale, una media cooperativa sociale di Monza, la cooperativa Iride, che è nata da un gruppo di famiglie che avevano figli disabili e volevano in qualche misura permettergli una vita con più possibilità. Enrico ha lavorato molto allo sviluppo di questa cooperativa. Chiederemo di portarci la sua testimonianza, ma anche, come dire, un po’ di spunti su criticità e opportunità che poi appunto chiederemo ai nostri ospiti di aiutarci a comprendere meglio e a giudicare.
L’ultima persona che cito, si potrebbe dire last but not least è Alejandro Marius, che viene dal Venezuela, una terra molto difficile, una terra in cui il lavoro non c’è e in cui a dir la verità la povertà è il tratto più caratteristico di questo tempo, ma oggi Alejandro ci porta la testimonianza che anche in un luogo così difficile, così impegnativo, è possibile lavorare per offrire un lavoro degno per una vita buona.
Inizieremo proprio da questo. Chiedo alla regia, quindi, di partire. Alejandro ci ha portato un video dal Venezuela che racconta un’esperienza di inclusione lavorativa di ragazzi con disabilità psichica. Vedremo questo breve video e poi chiederei a Sandro di iniziare questo nostro incontro portando la sua testimonianza al riguardo. Grazie ancora a tutti e buon incontro.
Visione del video.
Alejandro Marius: Grazie, Stefano. Grazie a tutti voi per essere qua e partecipare a questo incontro. Veramente questa è un’esperienza molto iniziale per noi. Come dice Lila, la professoressa, e anche Neptali, siamo imparando anche noi come stare di fronte ad una realtà, come avete sentito, speciale. In Venezuela si chiamano persone speciali e tutti siamo speciali. Già da 13 anni lavoriamo per offrire opportunità soprattutto a donne e giovani perché possano imparare un mestiere e possano iniziare un’attività, soprattutto le microimprenditorialità, come produttori di cacao, cioccolato, meccanici, falegnami, parrucchieri, quindi diversi mestieri. In questi anni abbiamo imparato tantissimo in un paese dove è difficile trovare un lavoro per una persona diciamo apparentemente normale, perché, come dice un grande amico, tutti abbiamo una condizione speciale nascosta e quindi immaginate per persone speciali come loro che non hanno opportunità. In Venezuela c’è una legge per cui lo stato fino a 21 anni supporta persone con qualche tipo di disabilità psichica o motoria, però dopo i 21 anni loro si trovano da sole, senza nessuna compagnia, senza nessuna opportunità., quindi se è già difficile trovare un lavoro per tutti, pensate per loro. Allora ci siamo fatti questa domanda: di fronte al sì di Lila, già pensionata, di voler continuare a lavorare con questi ragazzi.. Conoscendo io personalmente Neptali, per esempio, che aveva voglia di raccontare la sua storia a tutto il mondo, infatti se si va su Amazon si trova il libro con la sua storia… Neptali ha voluto scrivere la sua biografia perché la gente possa conoscere come lui ha trovato lavoro. Sembra una cosa molto banale. Quanti di noi quando abbiamo trovato lavoro abbiamo pensato che era giusto e basta? Invece per lui trovare lavoro facendo le pulizie in una scuola è una cosa che ha cambiato la sua vita. Per questo penso che mai dobbiamo fermarci di fronte ai bisogni e alle difficoltà. A chi dobbiamo chiedere un permesso per poter collaborare fra noi? C’è bisogno della legge per iniziare a lavorare? C’è bisogno di una legge per coinvolgere cooperative, associazioni non profit come noi per collaborare, per lavorare insieme? No, secondo me la legge, mi scusi il professore, viene dopo, serve per documentare, per favorire le esperienze che sono nate. Nella storia è stato così e quindi noi vogliamo continuare imparando e tutti stanno lavorando in quest’area per far crescere questa opera, perché non solo la storia di Neptali si possa conoscere in tutto il mondo, ma anche perché possiamo arrivare a più persone, a più donne, a più giovani, perché il lavoro, come ha detto Stefano nell’introduzione, ha un valore immenso, è lo strumento privilegiato per noi uomini e donne per entrare in rapporto con la realtà, scoprire quello che siamo, i nostri talenti, collaborare con altri, produrre beni e servizi per gli altri, quindi favorire il bene comune. Io dico che una persona senza lavoro è veramente una persona condannata, una persona che avrà sempre uno svantaggio per poter essere felice, per poter crescere. Credo che tutti siamo d’accordo, dobbiamo impegnarci perché in qualsiasi modalità di lavoro tutti abbiano l’opportunità di imparare a lavorare e poi di lavorare per conto proprio, in un impiego, non importa.
Questo Meeting per me è un esempio di gente che paga per lavorare gratis: i volontari che vengono a Rimini per lavorare gratis sono un esempio che mi porto nel cuore. Non dobbiamo tralasciare nessuna opportunità, non dobbiamo stancarci e quando a me capita spesso in Venezuela di sentirmi da solo e stanco perché le difficoltà sono molte, la crisi è molto complessa, non entro nel merito perché sarebbe lunga, c’è sempre un amico che mi dà una mano e come dice Alessandro, non sei da solo. Pensate agli slogan dello sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, che dicono: che nessuno deve rimanere indietro. Sono d’accordo, dobbiamo lottare contro la povertà, è peggio che uno rimanga solo piuttosto che rimanga indietro, perché la gente può rimanere indietro, però se rimane sola è ancora peggio, quindi io direi che nessuno rimanga indietro, però che nessuno rimanga da solo, perché questa è una malattia terribile, quindi per lavorare noi dobbiamo concepirci così. Le opere sociali, le imprese, le scuole, le università, chi sa un mestiere, di fronte a tutte queste sfide delle persone con disabilità psichica, devono impegnarsi per lavorare insieme, perché così, secondo quello che ho visto, secondo le testimonianze di tante donne e ragazzi che abbiamo formato in questi anni, più di 3000, è l’unica possibilità per costruire il bene comune. Grazie.
Stefano Gheno: Grazie, Alejandro, credo che sia stato un inizio molto interessante. Io penso che l’idea che il lavoro sia un’opportunità che debba essere il più possibile garantita a tutti sia un elemento su cui ancora non facciamo abbastanza, questo è certamente vero.
Enrico Novara: Grazie, buona sera. La prima cosa che mi viene in mente quando devo parlare della fragilità è la normalità, perché da una parte siamo tutti fragili e dall’altra parte mi ha colpito molto nella mia esperienza professionale proprio un incontro qui al Meeting una ventina di anni fa con l’allora osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite Daimon Martin, a cui durante una cena abbiamo chiesto: “Ma chi è il povero?” e lui ha risposto che il povero è quella persona che non può mettere in gioco i talenti che Dio gli ha dato nella forma che Dio vuole e questa per me era una definizione operativa di come affrontare una fragilità che era assolutamente normale, che era una normalità, perché in qualche modo non bisognava guardare alla fragilità come la mancanza di qualcosa: la mancanza di soldi, la mancanza di assistenza, la mancanza di forza per affrontare situazioni complesse, ma come un lavoro per mettersi in gioco. Questo per me è stato un punto fondamentale, infatti sono contentissimo di incontrare Leandro, dato che ci conosciamo da tanto tempo e vediamo come in una situazione che penso conosciate bene, come quella del Venezuela dove non c’è lavoro, la preoccupazione di far lavorare tutti sia una normalità, quindi parlare di fragilità vuol dire affrontare un tema che è normale per tutti. La povertà o la fragilità ci toccano direttamente o perché possiamo diventarlo o perché comunque è una modalità con la quale noi ci raffrontiamo. Mi ricordo che all’epoca, dovendo tenere dei corsi sull’esperienza che facevamo di urbanizzazione di aree povere, quindi corsi per architetti, ingegneri, sociologi, quella che ho detto prima era la frase che introduceva un po’ il percorso. Mi ricordo che una volta una ragazza, giovane architetto, mi diceva che non le andava bene quello che dicevo. Le ho chiesto il perché e lei mi ha risposto che se era vero quello che dicevo, allora poteva essere povera anche lei e questo non le andava bene. Quindi che noi viviamo in un contesto dove la nostra situazione è comunque una situazione di fragilità per me è il primo punto di partenza. Stiamo parlando dunque di una situazione di normalità e provo ad affrontare questo punto a partire da quello che è sempre stato il mio lavoro, sostanzialmente un lavoro da datore di lavoro, quello che ha accomunato un po’ il mio impegno in questi anni essendo quasi sempre stato amministratore di progetti o di associazioni, io sono sempre stato sostanzialmente un datore di lavoro e soprattutto negli ultimi anni, come diceva Stefano, affrontando questa cooperativa di Monza, l’Iride, che oggi compie 40 anni. Quindi sono 40 anni che lavora sul tema della disabilità, essendo una cooperativa sia di lavoro sia che offre soluzioni residenziali, sia che offre percorsi educativi, mi sono posto il tema di cosa voglia dire offrire un lavoro o se c’è una differenza fra l’offrire un lavoro e mettersi al lavoro, perché la definizione sulla povertà è un mettersi al lavoro. Una persona che non può giocare i talenti che Dio le ha dato nella forma che Lui vuole, quindi deve mettersi al lavoro, bisogna far scattare qualcosa perché questo talento si metta al lavoro ed è diverso dall’offrire un lavoro la possibilità di mettersi al lavoro, quindi per una cooperativa come la nostra o per un datore di lavoro che cosa vuol dire mettere al lavoro? Noi siamo una cooperativa molto silenziosa, nel senso che nel nostro lavoro non facciamo ristorazione o pulizia, produciamo prodotti per il settore dell’elettromeccanica che è un settore manifatturiero forte nella regione della Brianza, quindi un lavoro molto silenzioso, di poche relazioni, se volete, però il gusto del lavoro che i nostri operatori, che sono una quarantina in una unità operativa in cui una trentina sono disabili, è la stessa gioia, lo stesso desiderio che avete visto nei due ragazzi che Alejandro ci ha proposto, un lavoro semplice, ma diceva il primo: “Mi riempie la vita” o qualcosa del genere. Questo lo sentiamo normalmente nei loro commenti, perché noi non pensiamo, non è possibile pensare di separare un lavoro dal suo significato, perché l’uomo per ricomporre il suo essere, il suo destino, l’armonia che c’è tra sé e le cose deve impegnarsi nella vita fino ad essere consumato. È il nostro lavoro, il nostro destino, quello a cui siamo chiamati. È una considerazione questa che ci porterebbe lontano, perché potremmo aprire una parentesi sull’assistenzialismo e sullo sviluppo, potremmo aprire una parentesi sul fatto che è necessario un lavoro anche per chi non può lavorare e la cooperativa propone percorsi che siano educativi, cioè che uno possa attraverso questi percorsi affrontare ciò che la vita gli chiede, perché indipendentemente dalla condizione in cui siamo, gli affetti, il vivere, il fare, il lavorare, la morte dei genitori, dei cari è una cosa che la vita ci chiede e la risposta a quello che la vita ci chiede è un lavoro. Questo è il vero lavoro, quindi questa affermazione apre un tema molto più ampio, perché c’è un lavoro anche per chi non può lavorare oppure il lavoro che uno fa è una parte del tentativo di ricerca del destino che uno vive. Mettersi al lavoro sappiamo che è un’esigenza della libertà della persona e questo è un percorso che la persona deve fare. Dare un’opportunità di lavoro per un lavoro degno vuol dire riconoscere le potenzialità che la persona ha perché possa mettersi al lavoro e aiutare a costruire un luogo dove queste condizioni permangano, dove uno possa fare una reale esperienza di significato del lavoro. Questo secondo me è il compito di un povero datore di lavoro come me, che offre un’opportunità di lavoro. Un’opportunità di lavoro degna vuol dire la possibilità che uno ha di mettersi effettivamente al lavoro. Faccio un esempio parallelo a questo sulla disabilità sempre per rimanere un po’ sul tema della normalità. Nei vari progetti che seguo sono amministratore di una società che fa automazione robotica e industriale ed è molto difficile negli ultimi anni fissare, tenere con noi un ingegnere neolaureato per più di un anno. Al secondo che se n’è andato ho chiesto: Che cosa hai imparato qua? In modo inaspettato mi ha detto che aveva imparato a lavorare. In una piccola società come questa, che va dal vedere il problema alla soluzione, dal progetto alla sua realizzazione, a fare l’assistenza post intervento, questa persona, che è un ottimo ingegnere informatico, aveva imparato a lavorare. Allora la proposta fatta alla nuova persona che abbiamo assunto non è stata quella di fare l’ingegnere informatico, ma: Vuoi imparare come si lavora in un’azienda? Ti chiediamo di farlo svolgendo questa mansione, cioè di mettere in gioco quello che uno cerca nel significato del lavoro. Sulla disabilità non è diverso. Noi come dicevo siamo una piccola cooperativa, lavoriamo nel settore dell’elettromeccanica che vuol dire per noi due attenzioni: un’attenzione al cliente, al prodotto che dobbiamo fare, al contesto nel quale è inserito il cliente, per cui produrre vuole dire non solo fare bene il pezzo, ma capire lo stoccaggio, capire come fare la movimentazione, capire come fare l’assistenza post vendita, quindi entrare in relazione con il cliente per capire che cosa dobbiamo fare. Secondo: capire il processo. Noi smontiamo il processo, smontiamo i pezzi che dobbiamo fare e ricomponiamo la filiera produttiva in funzione delle potenzialità che abbiamo, in funzione del poter mettere in gioco i talenti che abbiamo. Sembra una banalità, ma con questo processo abbiamo portato persone nello spettro dell’autismo a lavorare sui torni manuali, perché in questo modo tu riesci prendere ciò che uno riesce a dare. Da questo punto di vista l’intuizione di Biagi ( non ho conosciuto il suo percorso perché ero in altre parti del mondo, non l’ho conosciuto direttamente) mi sembra oggi un’intuizione geniale, perché di fatto noi stiamo cercando di creare con i nostri clienti delle filiere ibride produttive sul territorio e questo noi lo facciamo principalmente con multinazionali che hanno sede nel nostro territorio dove questi processi sono più evoluti perché hanno già al loro interno uno studio dei processi, quindi è facile dialogare sulla ricomposizione dei processi. Questo vuol dire sostanzialmente andare a trovare le condizioni per mettersi effettivamente in gioco. Allora le provocazioni per il dibattito sostanzialmente sono quelle di capire come continuare a creare queste filiere e che l’inserimento lavorativo non sia semplicemente il rispetto di un obbligo fondamentale, così come fondamentale è il percorso assistenziale, ma la risposta ad un obbligo non permette di fare quell’esperienza che abbiamo visto nel brevissimo e bellissimo video iniziale di Alejandro. Sono esperienze di significato, non è la legge. La legge sulla cooperazione in Italia è venuta 10 anni dopo che sono nate le cooperative sociali. La legge è del ‘91, la nostra cooperativa è dell’82. Sono nate all’incirca in questo periodo, se non ricordo male a metà degli anni Settanta le persone con disabilità sono andate a scuola poi sono uscite e quindi si è posto il problema. Quindi come mettere in evidenza quei percorsi che possano creare delle filiere produttive e che riescano effettivamente a mettere al lavoro? Un nostro cliente ci ha chiamato per rivedere i processi interni della sua azienda a partire dai processi che avevamo fatto sui suoi prodotti. Questo secondo me vuol dire la sfida con la disabilità, cioè la sfida normale di affrontare quella realtà che hai davanti con la passione per quelle persone che hai.
Stefano Gheno: Grazie Enrico per il tuo contributo. Credo che tu abbia messo sul tavolo molte questioni che vanno per certi versi ben oltre il tema dell’inclusione delle persone con disabilità, perché il tuo richiamo alla questione del significato credo che sia centrale rispetto al tema del lavoro tutto. Mi permetto di aggiungere che questo per noi in questo momento è fonte di grande preoccupazione, perché ci pare che in generale l’idea che il lavoro sia intrinsecamente significativo non possa più essere data per scontata, quindi credo che questo dovrà essere un compito che in qualche modo ci dobbiamo assumere per i prossimi tempi. Grazie ancora e adesso la parola a Eleonora e Stefano. Credo che interverrà per prima Eleonora. No, Stefano. Che cosa ci dici, che cosa ci racconti, come reagisci a questi contributi?
Stefano Granata: Intanto ben trovate e ben trovati. Cosa dire? Molto belle le esperienze che avete sentito, tra l’altro bellissima quella del Venezuela, ma devo dire che in Italia da questo punto di vista non siamo l’ultimo vagone del treno, anzi sul tema dell’inserimento lavorativo, grazie alla cooperazione sociale siamo assolutamente all’avanguardia. Se pensate all’organizzazione che rappresenta Confcooperative, poi aggiungiamo anche i numeri di Legacoop, stiamo parlando di cooperative che si occupano di inserimento lavorativo di diverse migliaia di persone in situazioni di vulnerabilità e fragilità conclamata. Stiamo parlando del fatto che vengono inserite stabilmente quasi 25.000 persone in Italia, quindi stiamo parlando di una grande azienda, di imprese che se vanno avanti ad inserire significa che stanno in piedi. Ci sono due questioni che in questo momento ovviamente nel clima generale andranno affrontate. La prima è culturale: abbiamo questa ricchezza nel nostro paese, ma ne siamo assolutamente poco consapevoli, la politica non la valorizza, spesso, lo devo dire, arriva anche a penalizzarla nelle istituzioni. Pensiamo a tutta una serie di agevolazioni legislative che in verità non ci sono, comunque non sono attuate, pensate alla dimensione delle politiche locali, tra l’altro con un trend assolutamente assurdo. Stiamo parlando di persone, e poi entriamo anche nel tema più sociale, che anche dal punto di vista più prettamente economico, se dovessero essere assistite dalla comunità di riferimento sarebbero prettamente un costo. Pensate a tutti i costi assistenziali e qui non stiamo parlando solo della disabilità. Pensate ai detenuti, al disagio psichico, a tutte le forme di vulnerabilità che oggi sono così diffuse. Sono assolutamente un costo che costringe l’istituzione a fare attività riparativa o assistenziale. Viceversa, abilitare le persone significa non solo ridare un senso, cosa che sarebbe l’obiettivo primario in verità, ma abbattere i costi di una comunità e generare ricchezza, dunque è esattamente l’opposto. È veramente un ossimoro concettuale il perché in questo paese ancora non si riconosca un movimento che riesce a dare delle risposte. La seconda questione che chiaramente a noi sta più a cuore, che ha mosso a far sì che la cooperazione sociale avesse in primo luogo come obiettivo l’inserimento lavorativo, perché la finalità non è assistere le persone, ma è quella proprio di abilitarle a piena dignità e a pieno diritto di vita nella comunità. Accedere ad un lavoro è già una questione difficile, imparare a lavorare è una seconda abilitazione, perché imparare a lavorare non significa avere solo dell’abilitazione tecnica, ma avere anche un’abilitazione sociale, sapersi relazionare con gli altri, saper risolvere problemi in un mondo del lavoro oggi così complesso e così, come dire, liquido, perché anche il lavoro è liquido, queste sono abilità fondamentali prima ancora che tecniche. Vado oltre: non è solo un’abilitazione sociale, ma vuol dire aprirti alla vita, a una tua sostenibilità, alla tua autonomia, e qui entra la questione della libertà, perché pensate al tema della disabilità, che non è solo avere un lavoro, ma raggiungere l’autonomia, voler disporre anche di un’autonomia abitativa, ma se tu non hai un’autonomia lavorativa quella abitativa non la raggiungerai mai, dovrai sempre essere assistito da qualcuno e ditemi voi dove sta la dignità in questo, dove sta la libertà. Capite come l’innesco del lavoro sia l’innesco di tutta una serie di passaggi che chiamano a pieno titolo ad essere protagonista della propria vita e anche dentro la comunità, a non usufruire solo delle relazioni di aiuto, ma ad essere in grado anche di dare e di costruire la relazione di aiuto con gli altri. È questa la piena abilitazione della persona. È chiaro che per fare questi passaggi occorre tutta una serie di requisiti che oggi il mondo del lavoro rende molto più complessi. Questo lo dico anche rivolto al nostro mondo, al mondo della cooperazione sociale, delle parrocchie. Lo sentivate anche prima da Enrico, serve più impresa, oggi le cooperative sociali devono essere ancora più imprese. In passato spesso e volentieri la prima relazione di auto nasceva di fronte alle domande di famiglie che non sapevano dove sbattere la testa, non volendo tenere il proprio figlio in casa per tutta la vita, non volendo che fosse sempre assistito. Nascevano così queste cooperative molto sullo spirito volontaristico che poi hanno costruito delle storie come quelle che abbiamo appena sentito, come quella da cui io provengo a Milano, che è del gruppo Spazio aperto, ma che oggi devono rispondere alla domanda vera che chiede di costruire delle filiere, delle capacità di connessione e di stare sui mercati, che sono caratteristiche tipiche dell’impresa. Perché l’impresa crea beneficio dentro una comunità? Perché crea valore e in particolare il mondo dell’impresa sociale, della cooperazione sociale, pensate quale valore crea, non solo per l’obiettivo dell’inserimento lavorativo, ma per il fatto di generare ricchezza, una ricchezza che può essere totalmente distribuita alla comunità in quanto nelle cooperative e imprese sociali non c’è un investitore da remunerare o dei dividendi da corrispondere agli azionisti. La finalità è quella: si crea quella ricchezza e quindi ben vengano i profitti nelle cooperative e nelle imprese sociali perché vengono totalmente reinvestiti nelle attività, per dare opportunità ad altre persone o per allargare quel tema delle connessioni delle produzioni che oggi richiede sviluppo, ricerca, investimenti. Oggi è fondamentale operare investimenti anche per le cooperazioni sociali, perché altrimenti non si evolve, non si aggregano le nuove forme. Vi racconto un piccolo episodio che vi dà l’idea di che cosa voglia dire questo: io sono milanese, quindi voi sapete che l’esperienza ad esempio dell’utilizzo del car sharing in Italia è iniziata proprio a Milano, perché è la città che aveva più domanda e la cooperativa sociale Spazio aperto da cui provengo ha partecipato ad una gara con tutte le altre imprese. Ha vinto la gara ovviamente non presentando il fatto che faceva inserimenti lavorativi, ma rispondendo ai requisiti di quella gara che richiedevano un presidio territoriale molto forte. Ha vinto la gara e la Mercedes, cioè i tedeschi che erano appunto coloro che gestivano il primo car sharing a Milano, non hanno approfondito, hanno posto tutta una serie di conseguenze. Quando dopo sei mesi il servizio è stato avviato e sono venuti gli stati maggiori dalla Germania e hanno visto che questa attività funzionava a puntino, perché sono tedeschi, quindi attenti alle regole e all’impatto sul mercato perché era il primo car sharing in Italia e doveva funzionare, si sono accorti che questa impresa che conduceva questo servizio era, lo dico io perché appartengo a quella famiglia, una banda di scappati di casa, non ci volevano credere. C’erano dentro ex carcerati, messa alla prova, disagio psichico, disagio mentale che gestivano questo servizio rivolto a decine di migliaia di persone, un servizio alla città che funzionava perfettamente. Questa cosa è stata pedagogica perché ovviamente poi l’abbiamo sviluppata sulle altre città italiane, ma a quel punto Mercedes ha messo una clausola quando ha espanso il servizio in Europa, perché l’Italia era la prima sperimentazione.
Quando i tedeschi sono andati in Spagna a Madrid e Barcellona hanno inserito come clausola che alle gare partecipassero imprese sociali. Questo significa che è importante oggi per queste imprese che oltre ad essere efficaci, perché il termine primo è l’efficacia, sappiano rispondere alla domanda che c’è sul mercato e sappiano farlo ovviamente con metodi diversi, perché l’organizzazione di una cooperativa in cui ci sono degli scappati di casa è diversa da un’altra impresa, però il risultato non cambia, anzi Mercedes ci ha pure guadagnato perché ci ha fatto poi una campagna di responsabilità sociale. Dico questo perché oggi noi abbiamo bisogno di imprenditori, abbiamo bisogno di un nuovo management, sicuramente, ma abbiamo bisogno anche di imprenditori che facciano della passione per le persone il motore del loro agire. È chiaro che un’impresa per stare in piedi deve avere un risultato, creare profitti, ma se uno non ha dentro questa passione per cui in una cooperativa sociale, in un’impresa sociale al primo posto c’è quella persona e il primo risultato è la prestazione di quel capitale sociale, evidentemente quell’impresa non starà mai in piedi e oggi noi patiamo questo ricambio generazionale. Abbiamo bisogno delle nuove generazioni che abbiano competenze e desiderio per poter fare qualcosa per la propria comunità e questo tramite il lavoro è sicuramente un’opportunità. Stamattina ho visto la partenza di un panel dove Vittadini presentava dei numeri che sono noti a tutti e che sono agghiaccianti: abbiamo due milioni di nostri giovani che non studiano e non lavorano e guardate, non perché non trovano lavoro, ma perché non gli interessa neanche trovarlo, perché non trovano il senso del lavoro nella loro vita. È chiaro che qui noi possiamo giocare una partita fondamentale, perché da queste esperienze si evince che la prima esperienza che devi fare nella vita è fare qualcosa che dia senso alla tua vita e il lavoro è sicuramente una di quelle cose, ma deve trovare senso dentro una comunità, radicato in una comunità. Quella cosa non la fai solo per te, ma la fai anche per qualcun altro e qualcun altro si riconosce in quello che fai tu e te lo riconosce, anche economicamente, perché è importante che io possa fare la mia vita, fare le mie scelte, dove andare ad abitare, con chi vivere, ecc. È fondamentale che questa scelta di libertà sia un’opportunità per tutti, ma parte da una ricerca di senso, allora io spero che ci sia anche una scelta vocazionale nella nuova generazione, se scelgo di fare l’imprenditore perché non fare l’imprenditore sociale? Guardate che saranno questi i nuovi imprenditori che sanno capaci di attrarre quei due milioni che non studiano né lavorano, perché avranno gli alfabeti, il linguaggio, la capacità attrattiva di dire: Fai questa scommessa con me, ne vale la pena. Questo è il vero buco del nostro paese, in cui c’entra anche la dimensione educativa. La crisi educativa parte anche da qui, da questa mancanza di vocazione al lavoro, perché non ci sono imprese, o ce ne sono ancora poche, che hanno questa impronta. Le imprese sociali devono riscoprire questa vocazione, perché al loro interno possono permettere questa esperienza all’uno e all’altro, a quello già abilitato che vuol giocare la sua scommessa imprenditoriale e professionale della propria vita, ma anche a quello che oggi ha un rifiuto verso ogni proposta che apparentemente gli viene da una comunità che in verità lo sta rifiutando perché non ha il linguaggio per poterlo attrarre e credo che nelle nostre famiglie tutti abbiamo esperienze di questo tipo, cioè la mancanza di trovare quella cosa che ingaggi i più giovani. Poter invitare ad andare in una cooperativa sociale a fare quell’esperienza perché c’è qualcuno che può accompagnare, che ha la pazienza di aspettare ed anche quella capacità organizzativa che permette di supportare quei costi che consentono questi tempi di apprendimento, è tanto. Io credo che anche questo deve essere un luogo dove si maturi la consapevolezza che questo tipo di imprese è il futuro non solo per la nostra economia. Ribadisco infatti che non stiamo parlando di fare assistenza, stiamo parlando di fare impresa. Credo che anche il Meeting potrebbe essere un luogo di lancio culturale del fatto che l’impresa sociale è veramente una strada di riscatto per tanti che non ce la fanno, ma anche per tanti che non trovano la luce nella loro vita. Da questo punto di vista io vi dico che è anche la scommessa della nostra organizzazione che io rappresento, di giocare questa partita fino in fondo sapendo che abbiamo bisogno come il pane di nuove competenze che le nuove generazioni sicuramente potranno portare.
Stefano Gheno: Mi sembra che la questione del senso e del significato emerga come il fatto caratteristico. L’altra cosa che vorrei riprendere, ma credo che riecheggerà poi anche nelle parole di Eleonora è, come dire, questa ricaduta di valore comunitario, collettivo, sociale, perché noi in fondo viviamo in un’epoca in cui si è costruita una narrazione in cui l’individuo è altro dalla comunità e per curare l’individuo, per curare sé stessi bisogna tirarsi fuori, costruire il proprio ambito. Io credo che invece voi stiate raccontando una storia diversa che trovo molto affascinante.
Eleonora, andiamo avanti su questa storia.
Eleonora Vanni: Innanzi tutto grazie a tutte e a tutti. È la prima volta che vengo al Meeting ed è sicuramente un’esperienza interessante e coinvolgente proprio rispetto al pensare a se stessi e pensarsi nella comunità.
Prendo le mosse da dove ha lasciato Stefano e cioè soprattutto dai giovani, dal ricambio, dal trovare senso nel lavoro e nel misurarsi come imprenditori sociali. Io credo che anche noi prima di tutto come cooperative, mentre lavoriamo dobbiamo riflettere sul lavoro degno e cioè su come anche il senso della dignità del lavoro sia cambiato. Non so se è evoluto o involuto, però ci sono alcuni contesti in cui tutti i lavori sono degni e però ci sono delle condizioni discutibili, che sono quelle del tipo di lavoro che si fa, perché se è vero che tutti sono degni, tuttavia forse ce ne sono alcuni che magari condividiamo anche un po’ meno. Pensiamo a chi produce le armi, per esempio, e però quei lavoratori lì fanno comunque un lavoro che per loro è degno ed hanno diritto alla dignità di lavoratore, ma è altrettanto vero che anche le condizioni di contesto rendono un lavoro degno o meno. E allora io mi chiedo: quegli immigrati che raccolgono i pomodori fanno un lavoro degno? Beh, il lavoro in sé e per sé della raccolta dei pomodori è degnissimo, così come lo sono tutti i lavori, ma le condizioni in cui sono costretti a lavorare non solo non sono degne, ma minano anche la dignità umana, sono, mi verrebbe da dire, estrattive della dignità di quelle persone. Allora credo che in maniera molto laica e pragmatica dobbiamo ripensare un po’ anche al senso che diamo oggi al lavoro, proprio anche per riuscire a parlare quel linguaggio che aggancia quei due milioni di giovani, che aggancia anche tutti quei giovani che hanno idee innovative, che si impegnano in molti ambiti e che però magari fanno fatica a mettere insieme appunto il loro impegno, il loro talento, la loro intelligenza, anche la voglia di misurarsi, con l’aspetto più comunitario, più sociale del lavoro. Io ho l’impressione che il senso sociale del lavoro, a partire da noi cooperazione, lo pensiamo ancora un po’ come 40 anni fa quando le cooperative sociali sono nate, ma dobbiamo riuscire a farlo evolvere, a ragionarlo e a pensarlo e poi ad agire in maniera diversa. Noi in questo paese abbiamo trasversalmente un problema di lavoro e di dignità del lavoro: un problema di dignità del lavoro che è anche connesso alla parte economica del lavoro, perché noi parliamo spesso dei cervelli in fuga, dell’investimento nella ricerca, ma noi abbiamo molti giovani che vanno all’estero a fare i camerieri, perché lì ci sono più possibilità, c’è una maggiore flessibilità e comunque fare il cameriere dal punto di vista economico è più degno che in Italia e questo è un problema che la cooperazione sociale ha sofferto molto, perché a proposito delle condizioni di chi fa certi lavori, per lungo tempo è prevalsa l’idea che le persone in situazioni di difficoltà, quelle fragili e svantaggiate, potessero fare dei lavori residuali, in qualche modo un pochino meno “degni” delle persone normali. Come si sa, poi, visto da vicino nessuno è normale e questo può valere per noi tutti quanti, quindi secondo me abbiamo bisogno di una riflessione profonda su questo tema del lavoro che ci interroga direttamente come cooperazione sociale e come organizzazioni di rappresentanza, perché per noi, come diceva Stefano, c’è il senso e la centralità della persona nel nostro fare. Nel lavoro la persona trova non solo la risposta ai suoi bisogni, e appunto c’è il tema stringente della parte economica e del riconoscimento economico, ma trova anche la possibilità di esprimersi, di affermare i suoi talenti e attraverso questo, in quel percorso di cui parlava Stefano, dal lavoro viene la possibilità di vivere da soli, di avere un’abitazione, viene quel pezzo di dignità del cittadino che porta con sé il diritto all’autodeterminazione delle persone. Io questo me lo porto un po’ dietro perché fa un po’ parte della mia educazione personale e familiare il tema dell’autonomia, dell’autodeterminazione che passa attraverso il lavoro, perché il lavoro comunque è una parte anche temporalmente significativa della nostra vita e quindi noi non possiamo sprecare un tempo così importante della nostra vita in una cosa che ci porta via dignità, che ci porta via soddisfazione, che non ci realizza. Questo è un elemento, non lo dico per buttarla sul culturale perché in realtà è molto concreto e reale ed ha veramente a che fare con la possibilità di promuovere e sviluppare sempre di più il lavoro per le persone più fragili, più svantaggiate. Se pensiamo alla cooperazione sociale e andiamo oltre l’inclusione lavorativa e pensiamo alle cooperative che fanno servizi alla persona, consideriamo quante opportunità hanno dato alle donne anche di reinserirsi nel mondo del lavoro, accompagnandole nella formazione e dando loro un senso, un ruolo e una dignità all’interno della società, molto spesso all’interno della famiglia, molto spesso purtroppo all’interno di famiglie che nel tempo hanno avuto difficoltà, si sono disgregate, ad esempio. Per noi cooperazione sociale, quindi, questo tema del lavoro è particolarmente importante, poi insomma siamo cooperative di lavoro che mettono insieme a questo una finalità più ampia, che quindi ci mette per forza in comunicazione, in rapporto con il contesto più ampio, che è quello economico, sociale, politico. Noi siamo un paese anche avanzato, come è stato detto, abbastanza avanzato rispetto all’inclusione lavorativa, dove, come spesso succede, le leggi seguono un movimento sociale, culturale che è avvenuto nella società e hanno dato e danno delle opportunità a volte, non so se ne parleremo magari più approfonditamente, non sfruttate fino in fondo, per esempio quelle che ci sono date di entrare in stretta relazione con mondi profondamente diversi dal nostro, con mondi dell’impresa profit coi quali confrontarsi. L’esempio che faceva Stefano mi fa venire in mente anche un impegno e un ruolo di contaminazione sociale positiva che noi abbiamo all’interno delle nostre comunità e appunto noi lì lavoriamo, le persone con cui lavoriamo sono su quel territorio. Pensiamo a molte comunità anche piccole dove siamo l’unico punto di riferimento economico e lavorativo e quindi abbiamo questo ruolo e questa contaminazione del mondo profit, perché appunto come dicevo coltiviamo una cultura del lavoro che non pensa alla meritocrazia in modo un po’ becero, del tipo: se non hanno un lavoro è perché non se lo meritano, è perché non si impegnano abbastanza. Se certe condizioni non sono date io non colpevolizzo i giovani che non studiano e non lavorano, però dobbiamo orientarci a pensare al lavoro in una maniera diversa: c’è stata un’evoluzione, i giovani cercano anche altro, mentre molti pensavano al lavoro che consentisse di soddisfare i propri bisogni e poi magari di andare fuori, andare nel tempo libero a trovare la realizzazione di se stessi, ci sono anche molti giovani che nel lavoro cercano la realizzazione di se stessi, provano a mettere in piedi attività nelle quali sviluppare i loro talenti. Allora io credo che questo ci richiami a una riflessione importante da mettere sul tavolo del confronto in maniera trasversale, perché riguarda l’impresa sociale, ma anche l’impresa profit. Fare impresa e conseguire un risultato positivo: a questo siamo chiamati anche noi, poi noi abbiamo fatto la scelta di reinvestire il risultato nell’impresa stessa e anche nelle comunità. Credo sia il momento di approfondire questo ragionamento. Abbiamo una grande esperienza, molte cooperative sono nate con una visione valoriale del lavoro, dell’esperienza cooperativa del fare impresa sociale, si sono evolute nel tempo ed oggi si trovano a confrontarsi proprio con questi cambiamenti. Alcune ci riescono bene, altre fanno un po’ più fatica e per questo credo che sia anche un ruolo primario delle organizzazioni di rappresentanza quello sia di promuovere la riflessione più complessiva sia anche quello di accompagnare le imprese in questo percorso di avvicinamento ad una modernità del lavoro che purtroppo tende a faticare nel nostro paese. Mi sembra che lanciare da qui questo tema che riguarda le persone con disabilità, con fragilità, però tenendo conto che in qualche modo siamo tutti fragili e che esistono le fragilità dei dei giovani, delle donne, le fragilità che possono riguardare ognuno di noi in qualche momento della nostra vita, sia molto importante. Io credo che sia fondamentale la dignità del lavoro, che non viene solo dal senso che noi riusciamo a dargli, ma deve essere una dignità che è riconosciuta dalla comunità, riconosciuta culturalmente, riconosciuta anche economicamente, perché se, come accade a molti dei nostri giovani, non si riesce a programmare di avere figli, di andare a vivere da soli, a realizzarsi e magari occorre cambiare lavoro, allora ci troviamo nelle condizioni anche di molte altre imprese, che non trovano giovani che lavorino, ma noi non ci dobbiamo prestare al rischio di colpevolizzare loro, perché in gran parte dipende anche dalla cultura e dalla società del lavoro che tutti quanti abbiamo contribuito a costruire.
Stefano Gheno: Grazie ad Eleonora Vanni. Io voglio riprendere questa questione perché l’essere umano è sempre in relazione con il suo ambiente, l’uomo non è un’isola, la donna non è un’isola, c’è un mondo che ci è stato dato e che noi popoliamo, un mondo fatto di relazioni, in cui poter trovare uno spazio che ci sostenga. Riprendo una cosa che tu hai detto e che mi ha toccato molto, perché tre settimane fa alle settimane sociali dei cattolici a Cagliari ci fu la testimonianza di quel marito che perse la moglie appunto impegnata nella raccolta di pomodori. A me colpì molto la sua posizione perché mai in nessun momento mise in discussione il valore che sua moglie portava. Giustamente disse: “Noi dobbiamo ribellarci al fatto che uno debba scegliere” e monsignor Santoro l’anno scorso a Taranto affermava: “Noi non possiamo permettere che la gente debba scegliere tra lavoro e salute”. È una vergogna quando noi ci poniamo in questi termini, credo davvero che valga la pena ripartire. Michele Tiraboschi, adesso hai un compito impegnativo. Ci devi in qualche modo guidare verso l’uscita da questo dialogo per rilanciarne un altro, evidentemente.
Michele Tiraboschi: Buona sera a tutti e a tutte e grazie per questo invito. È un compito impegnativo, però c’è una ricchezza negli interventi che mi hanno preceduto e credo anche in molte delle esperienze che sono qui presenti nel pubblico. Conosco delle esperienze molto importanti che aiutano in realtà noi studiosi a guardare la realtà con occhi diversi. Mi è piaciuto molto per esempio l’intervento di Enrico quando ha evidenziato la sua tensione operativa. Lui voleva fare qualcosa e ne cercava la declinazione operativa. È vero, come dice Alejandro, che non serve una legge quando c’è dentro questo fuoco, questa voglia di incidere sulla realtà, sulla comunità, sulle persone che sono intorno a te, però devo dire che anche le leggi possono mettere degli ostacoli o creare delle opportunità e se non sbaglio, Stefano, tu mi hai invitato per riflettere su un’esperienza particolare. Per noi uno degli strumenti a disposizione, ce ne sono tanti e tutti con qualche problema, potrebbe essere il ruolo delle cooperative sociali nell’aiutare le imprese ad adempiere agli obblighi di legge sulle assunzioni dei disabili, oltrepassando un’impostazione fondata sull’obbligo della quota di riserva, obbligo che nella realtà molte aziende non adempiono. Non parliamo mai di dati e statistiche sul punto, però dall’ultimo rapporto del parlamento, che è fermo al 2018, sappiamo che il 30% delle aziende non assolve all’obbligo delle quote di riserva e un’impresa su due ha problemi, è in difetto, magari riesce ad inserire qualcuno, ma non adempie pienamente agli obblighi di legge e voi avete sentito parlare qui di opportunità. Non mi interessa tanto l’obbligo, il vincolo, il divieto, la sanzione, ma un’opportunità ed anche il titolo del nostro incontro che parla di vulnerabilità, di disabilità, di diverse abilità, trasmette un senso a mio parere molto buono, perché pone semplicemente il tema del lavoro degno, non di una categoria, come quella dei normali o dei non normali. In realtà il problema del lavoro degno, dignitoso e della vita buona è di tutti e questa piccola norma che sta nella legge Biagi e che viene chiamata articolo 14 della legge Biagi, ma che in realtà è il decreto attuativo del 2003, quindi l’anno prossimo sono vent’anni di questa legge, è interessante non tanto perché è stata riscoperta recentemente. Durante la pandemia i responsabili degli uffici del collocamento mirato hanno constatato che si era fermato tutto. Tra l’altro la legge esonerava dall’assunzione le persone con disabilità se in cassa integrazione, in sospensione o altro, eppure abbiamo visto crescere i numeri non delle collocazioni ordinarie con il collocamento mirato, ma proprio dell’articolo 14. Questo mi ha molto sorpreso, poi in realtà se prendiamo in considerazione i numeri, vediamo che sono molto modesti, sono esattamente l’opposto della violenza del dibattito che ha accompagnato questa parte della legge Biagi, tutta contestata in sé, ma proprio l’articolo 14 fu oggetto di una contrapposizione violenta. Qualcuno obiettava che si volesse ghettizzare, dando l’idea che la cooperativa non fosse un vero datore di lavoro. Il disabile ha diritto, si diceva, di andare da un datore di lavoro vero, non da un’impresa di serie B o C. Quindi c’era già un disvalore nel ruolo della cooperazione. Dall’altro lato invece c’era chi invitava a guardare la realtà. Non so se fu un’intuizione geniale quella di Biagi, non sta a me dirlo come suo allievo, ma l’articolo 14 è proprio quella tensione all’operatività di cui parlava prima Enrico. Sappiamo che il 30% delle quote è scoperto, le aziende dovrebbero adempiere, ma nessuno adempie. Chi si occupa di queste persone che non hanno l’opportunità, che sono lasciate non solo indietro, ma anche sole? Allora perché non si possono valorizzare delle esperienze? Questa è la cosa interessante: guardare la realtà per quello che è. Ci piace parlare di diritti che sono retoricamente richiamati, ma poi nessuno li rispetta. Occorre qualcuno che abbia voglia con passione e determinazione di renderli effettivi. Perché allora non dare un’opportunità? Questo per me è il primo tema: i numeri sono modesti, anche perché questa legge fu contestata, molte regioni non l’attuarono, quindi passò nel dimenticatoio. Fu abrogata e poi ripristinata, qualche regione o provincia la applica, qualche altra no. Abbiamo fatto un bel dibattito nel novembre del 2021 a Milano, che ha 290 convenzioni, immagino per 300-400 persone, Varese è passata da 20 a 40 convenzioni attraverso le quali un’impresa affida una commessa ad una cooperativa sociale che si fa carico di assumere appositamente con dei contratti regolari e di una certa stabilità delle persone disabili, anche gravemente disabili, per realizzare quella commessa. Io ho i dati della regione Veneto, dove c’è una normativa abbastanza recente che ha voluto uniformare le prassi del territorio, cosa che per esempio in Lombardia non c’è, così come anche in altre regioni. La legge Biagi è del 2003, è stata attuata nel 2005. Erano 5 convenzioni ex articolo 14, perché non nasce dalla legge l’articolo 14, ma dall’esperienza di Treviso, cioè dal territorio, poi la legge cerca di estenderla a tutti, di renderla agibile. 5 convenzioni per 6 lavoratori inseriti per 6 aziende coinvolte e 5 cooperative: pochissimo. Se andiamo a vedere i dati del 2021 siamo a poco più di 150 convenzioni per meno di 400 lavoratori inseriti per 150 aziende, 120 cooperative. C’è veramente poco, eppure è uno strumento importante, in sé perché permette l’operatività, ma credo sia anche importante per provare a dare il senso a questa tensione che abbiamo, che le persone qui presenti hanno, verso l’idea di un lavoro dignitoso, idea non astratta, ma che nasce rispetto ad un contesto reale, ad un luogo reale, come diceva Eleonora. Allora qual è il punto? Mi pare di percepire, anche quando intervengo in questi dibattiti, che ne possiamo parlare bene o male, ma è sempre qualcosa di diverso dal lavoro normale, ordinario, dall’impresa ordinaria, tanto è vero che le persone con disabilità sono prese in carico da un collocamento mirato, speciale, diverso, un po’ come avviene per la pedagogia: per problemi di apprendimento ci vuole una pedagogia speciale. In realtà l’ha detto benissimo Alejandro: sono persone speciali, con le loro abilità e le loro diverse abilità. È qui che c’è la grande rivoluzione. Un po’ la pandemia, il lavoro agile e le esperienze che stanno maturando hanno messo in evidenza che il lavoro nuovo, oltre a non essere un posto di lavoro, è un fare qualcosa sulla base di competenze e abilità. Supera un po’ quella standardizzazione per cui c’è una normalità, c’è un orario di lavoro per adempiere, per cui vado sul mercato del lavoro e prendo persone che hanno forza fisica e capacità mentale per resistere ad otto ore di lavoro svolgendo mansioni e direttive. Oggi ci sono le condizioni per ripensare il lavoro per tutte le persone, e mi piace il titolo, il rapporto che abbiamo con il lavoro, perché tutte le persone, diceva Enrico, hanno le loro vulnerabilità e difficoltà. Pensiamo solo al tema, che è una disabilità, delle persone con malattie croniche: con l’estensione dell’età lavorativa le malattie croniche riguardano la stragrande maggioranza della popolazione lavorativa. Una persona su due ha una malattia cronica, non sto parlando solo di malattie gravi, ma di tutte quelle malattie che per un ciclo dell’esistenza o per tutta la vita rendono inferiore la propria abilità o comunque diversa e se allora questi imprenditori, oltre a saper fare gli imprenditori, sanno anche capire quello che una persona può dare e non impongono un obbligo, ma chiedono al lavoratore che cosa vuol fare, mettono in pratica quel lavorare insieme e questo vale per tutto il lavoro, senza differenziare normali e disabili. La modernità del lavoro deve portare a relazioni di lavoro e questo è il lavoro degno dove ogni persona è messa nelle condizioni di dare quello che può dare e di essere misurata sugli obiettivi che raggiunge. Pensate con le tecnologie abilitanti quante cose possono essere fatte anche da remoto, quindi questo è un aspetto molto importante. Penso che in sé il tema del collocamento mirato vada superato, come fanno ad esempio i paesi nordici che hanno abbandonato da tempo le quote e tutti quegli obblighi che noi abbiamo. Come diceva Stefano, abbiamo un contesto culturale su cui occorre lavorare ancora moltissimo, però Stefano ha raccontato di esperienze di successo, quindi una cosa che secondo me è importante attuare con alcuni dei protagonisti di questo tavolo e anche con molti di voi presenti, è l’idea di creare un contenitore, e Stefano ci sta aiutando a farlo, non per fare la classica ricerca, ma innanzi tutto per condividere le vostre esperienze di successo e di difficoltà, per vedere che cosa si può migliorare. Questo è un patrimonio importante che va messo a fattore comune. È qui che tu costruisci quelle logiche di territori di cui si parlava prima. C’è un problema, c’è una voglia che non sempre l’istituzione pubblica coglie, anche se abbiamo incontrato dei responsabili dei centri per l’impiego che invece questa tensione morale e ideale ce l’hanno, per cominciare a mettere in gioco esperienze pratiche. Noi abbiamo visto che i responsabili dell’ufficio di collocamento mirato di Varese non sanno quello che succede a Mantova, dove invece ci sono esperienze molto positive che sono nate attraverso cooperative sociali che hanno saputo dialogare con la regione e con le istituzioni locali. Noi dobbiamo condividere queste buone prassi. Dunque non si tratta di fare la classica ricerca accademica, anche se fondazione Cariplo ne ha fatta una abbastanza recentemente che è un buon punto di partenza, ma di ascoltare i territori, i cooperatori, vedere chi conosce questa legge e chi non la conosce, capire se nelle regioni e nelle provincie in cui si va a parlare questa norma è operativa. Si tratta di riuscire a declinarla e magari a fare poi delle proposte per migliorarla o correggerla. Qui tutto procede attraverso convenzioni fra parti sociali e territori, quindi è abbastanza facile rendere operativa e far agire questa previsione, quindi da un lato c’è bisogno di mettere a fattore comune queste esperienze, perché veramente, come diceva Alejandro, non solo la persona che ha delle vulnerabilità, delle difficoltà è importante che non si senta isolata, ma questo deve valere anche per l’imprenditore sociale, che non può spendere una vita e poi arrivare al termine con più rimorsi e rammarichi per gli insuccessi che soddisfazione per i successi. Occorre condividere queste esperienze, la ricchezza, la bellezza, la forza di queste esperienze, perché conta lo sforzo che è stato fatto, contano i risultati anche piccoli che sono stati raggiunti, perché significa dare opportunità a persone che altrimenti non le avrebbero avute. Questo è un primo appunto importante. Per il secondo penso che i responsabili delle relazioni industriali, sindacali, le imprese e i lavoratori debbano mettere in gioco e in discussione l’impianto tradizionale delle regole del lavoro, del diritto al lavoro, ma non nell’ottica di precarietà e flessibilità, perché il tema appunto è la felicità. Il lavoro è buono e degno non solo in base alla tipologia contrattuale, ma se consente alla persona di esprimere sé stessa, di sentirsi appagata, di poter condividere con qualcuno la ricchezza del lavoro e della sua esperienza, quindi credo che vada superata l’idea del lavoro del Novecento che separa pubblico e privato, stato e mercato. La stessa idea di terzo settore deve essere ripensata, l’hanno detto anche sociologi, studiosi ben più accreditati di me che studiano il tema da tempo e parlano di superamento del paradigma. Le dinamiche della nuova economia sono proprio queste, per questo è importante quello che dicevano prima Stefano ed Enrico: creare sui territori delle filiere, delle logiche di relazione. La grande impresa dove va da sola se non ha qualcuno che cura il territorio, che tiene quelle persone nel territorio, non le fa scappare dalle valli o dalle pianure, da cui fuggono perché non ci sono opportunità sociali, come asili, protezione, welfare? Ormai è una logica economica di sistema, di territorio, l’economia moderna è una competizione di territori, di sistemi, di reti di sistemi. Questa credo sia la forza, la ricchezza che può dare la cooperazione. Non solo mi faccio carico della quota di riserva obbligatoria, ma mi faccio carico di concorrere con te a costruire delle opportunità. Se guardo alcune esperienze che conosco, per esempio nella provincia di Varese queste convenzioni dell’articolo 14 non le hanno attivate per mettere i disabili alla cassa o alla produzione, ma per ripristinare il verde del territorio, le piste ciclabili, per rendere il territorio una vera comunità che crea valore e ricchezza per il territorio intero.
Credo che, non solo perché sono venti anni dalla legge Biagi, sia giusto fare un bilancio, cosa che non appartiene al nostro paese. Pochi mesi fa ha compiuto venticinque anni la legge Treu, ma non se ne è parlato, non c’è stato un bilancio di questa legge che pure è stata discussa, criticata osannata quando è stata approvata. Lo stesso immagino avverrà per la legge Biagi. Nel nostro paese, che litiga molto specie in campagna elettorale per grandi promesse e proposte, quando c’è una legge questa non cammina, perché non è una legge pensata per le persone, costruita per le persone, soprattutto affidata ai protagonisti e agli attori del mondo del lavoro, imprese e lavoratori, che devono sapere cooperare, lavorare insieme perché quella del lavoro è una ricchezza che deve essere condivisa.
Stefano Gheno: Grazie tante a Michele Tiraboschi. Io avrei tanto voluto fare un secondo giro, ma ovviamente come potete capire non è possibile. Consentitemi però due piccole osservazioni. Parto da una delle ultime due cose che ha detto Michele: a noi hanno insegnato che innanzi tutto è sempre un problema di conoscenza, quindi il tema della ricerca non ci interessa per un’astrazione accademica. Il fatto è che per conoscere bisogna guardare la realtà, perché altrimenti ci costruiamo la nostra realtà soggettiva. La seconda cosa che vorrei riprendere e che è riecheggiata in tutti gli interventi è che l’impresa è un fatto dell’io. Questo vale per gli imprenditori, ma vale anche per i lavoratori, perché il lavoro è un’impresa. Quei due ragazzi che hanno parlato nel video iniziale raccontavano la loro impresa, era evidente. La terza questione che pongo è che il lavoro è un fatto sociale, non è soltanto una questione individuale, ma è sociale ed essendo sociale va giocato nella relazione, nei rapporti, nell’ambiente. C’è una parola che a me piace molto ed è la parola alleanza, secondo me è questa che ci permette di superare le dicotomie molto spesso del tutto artificiali tra profit o non profit. Io ringrazio tantissimo i nostri ospiti, i nostri amici. Per quanto ci sarà possibile noi proveremo a portare avanti questo inizio. Compagnia delle Opere-Opere sociali sicuramente per il prossimo anno svilupperà un proseguimento di questi temi e spero davvero che saremo compagni di strada in questo.
L’ultima cosa che dico: prima Eleonora mi ha fatto un po’ sorridere perché ha detto: “Queste cose ci interessano non solo per la cultura, ma per la loro concretezza”. Ecco, noi secondo me siamo in un luogo, il Meeting di Rimini, che dimostra che la vera cultura e la concretezza vanno assolutamente insieme, quindi vorrei ricordare a tutti che il Meeting, che da quest’anno fa parte del terzo settore, ha bisogno di risorse, molte delle quali sono legate agli sponsor, molte, direi la gran parte, sono legate al lavoro dei volontari, cosa che colpisce tutti, ma ciascuno di noi può essere un volontario del Meeting anche con una piccolissima donazione.