Chi siamo
UN IMPIEGO PER CIASCUNO. OGNUNO AL SUO LAVORO. L’ITALIA E LA CRISI
In collaborazione con Unioncamere. Partecipano: Cesare Geronzi, Presidente Generali; Maurizio Lupi, Vice Presidente della Camera dei Deputati; Emma Marcegaglia, Presidente Confindustria. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.
GIORGIO VITTADINI:
Allora, come sapete, parte importante di questo Meeting è un giudizio sulla crisi che ci ha toccato tutti e che abbiamo visto nella mostra che abbiamo fatto, Dentro la crisi, oltre la crisi. C’è gente che per questa crisi ha perso il lavoro, gente che ha messo a repentaglio l’azienda, tutti abbiamo dovuto cambiare e non sappiamo ancora come andrà a finire. Allora noi, che al Meeting abbiamo sempre uno scopo positivo, con la mostra e con una serie di incontri, di cui questo è il più importante, vogliamo primo capire cosa è successo, secondo, capire cosa ci insegna la crisi. Non vogliamo essere semplicemente parte di un coro negativo di analisi che poi, in certi casi, rischiano di dire che non è successo niente o che non c’è niente da cambiare. Abbiamo pensato di non rispondere direttamente a queste domande, ma di invitare dei protagonisti assoluti della scena economica italiana e internazionale. In collaborazione con Unioncamere, abbiamo costruito questo incontro in cui, come vedete, il parterre è di altissimo livello. Abbiamo Cesare Geronzi, Presidente delle Generali, Maurizio Lupi, Vicepresidente della Camera, ed Emma Marcegaglia, Presidente di Confindustria: capite che, evidentemente, possono dare risposta a queste domande.
Introduco ponendo due domande a cui i nostri interlocutori risponderanno con un intervento unico. Due domande che sono in realtà delle provocazioni. La prima è la descrizione di cosa è successo. La ragione per cui la crisi dei mutui subprime si trasforma in una recessione mondiale è legata al sistema di trasmissione del mercato finanziario: le insolvenze indeboliscono la posizione delle banche comportando una diminuzione della quantità e un aumento del costo del credito a imprese e privati. Questo attiva una forte recessione dovuta a un calo dei consumi e degli investimenti e quindi della domanda di beni prodotti dalle imprese, le quali a loro volta licenziano i lavoratori per tagliare i costi. Il calo del Pil, cioè la ricchezza prodotta da un Paese, è stato significativo in tutto il mondo occidentale. Netta la frenata della produzione industriale, decine di migliaia i posti di lavoro persi. L’aumento della disoccupazione indebolisce ulteriormente i consumi e accentua la recessione. Tutti i principali indicatori nel 2009 sono rimasti in rosso. Cosa ci insegna questa crisi nel rapporto tra finanza ed economia reale? Che cosa c’era di distorto? Quali gli errori da non ripetere? Quali i modi per uscire da questa crisi, in funzione della ripresa della produzione industriale, dei consumi, dell’occupazione?
La seconda domanda, invece, riguarda l’Italia, secondo quella scansione che dicevamo anche alla mostra. In Italia le diverse concezioni culturali, religiose, politiche, partendo da posizioni realiste, hanno dato vita in economia, pur con molti limiti, a risposte equilibrate ai problemi dell’uomo: è nato il movimento cattolico ed operaio; si è sviluppato il sistema industriale italiano con i suoi diversi miracoli (la ricostruzione postbellica, il secondo miracolo economico dei distretti, l’entrata nello SME); è cresciuta una rigogliosa welfare society. In Italia il cambiamento provocato dalle crisi è quasi sempre stato provocato dall’esterno, tollerato dall’alto e realizzato dal basso. Questa anomalia italiana sembra aver preservato dagli effetti peggiori della crisi: le banche hanno tenuto, la disoccupazione non è andata alle stelle, non c’è stato un crollo generalizzato del mondo della piccola e media impresa. Questa diversità italiana è ancora una risorsa in questo momento di passaggio? Quali sono le caratteristiche da preservare e quali gli inevitabili cambiamenti per rimanere competitivi? Comincerà il Presidente Geronzi, poi la Presidentessa Marcegaglia e concluderà Lupi, quindi la parola a Geronzi. Grazie.
CESARE GERONZI:
Grazie, dottor Vittadini, per un invito che per me non è abituale ricevere né accettare. E’ un esordio, per me, sia pure in tarda età. Ma come ho detto prima all’amico Lupi, sono stato sollecitato a partecipare a questo impegno dal ricordo di un breve momento di vita vissuto nei primi anni ’80 insieme a don Giussani, il quale mi fece l’onore più di una volta di essere a casa mia, in campagna ai Castelli Romani. In una di queste visite a casa mia, egli ebbe la opportunità di manifestare il suo pensiero ad un interlocutore occasionale, Guido Carli, che per me è stato un maestro. Ricordando queste cose, mi sono detto che era giunto il momento di rendergli omaggio, sia pure a tanta distanza di tempo. È questo il motivi per cui sono qui: avremo modo, a partire da questa circostanza, di rivederci e di riparlare un pochino di più tra noi. Oggi ho vissuto una mattinata straordinaria e ho capito come, alle domande che tu oggi hai posto a noi, in realtà i tuoi giovani abbiano già dato una loro risposta. Addirittura facendomi fare un percorso nel quale io ero costretto a domandare a me stesso: perché chiedono a noi, se hanno già capito quello che è successo? Questo testimonia della vivacità, del modo veramente straordinario con cui i vostri giovani vivono questa esperienza.
Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce, dice Pascal. Sarebbe banale ripetere una di quelle frasi comuni secondo la quale hanno un cuore – nel senso dei sentimenti, della simpatia, secondo il significato etimologico riscoperto da Adam Smith o dell’amicizia operativa, di cui parla don Giussani – anche categorie e persone che si ritengono, a volte a torto, legate a una visione economicistica della vita. Eppure, la crisi finanziaria globale ha messo in evidenza come del cuore, cioè di una spinta che vada oltre la mera valutazione economico-finanziaria, che integri la pura ragione economica, noi non potremmo fare a meno. E una spinta del genere significa, in particolare, valutazione degli interessi collettivi della comunità in cui operano la banca, l’intermediario finanziario, l’impresa assicurativa. Considerazione attenta, dunque, dell’operare anche con una prospettiva di redditività differita, perseguendo, cioè, risultati non necessariamente nel breve periodo; attenzione alle ricadute generali dell’agire del banchiere o, comunque, di un imprenditore finanziario; cura della reputazione, a forgiare la quale sono necessarie eticità, correttezza e trasparenza nei rapporti con la clientela, puntuale osservanza delle disposizioni che, appunto, regolano tali relazioni.
Il banchiere, secondo la visione di Schumpeter, è eforo (giudice) dell’attività economica. Passa al suo vaglio, dunque, una parte fondamentale delle transazioni economiche che si svolgono in un Paese. Occorre slancio, non certo azzardo morale, nel valutare la possibile evoluzione di quei progetti che, come una volta ebbe a dire Emma Marcegaglia, “stanno in piedi”, anche se non sono assistiti da garanzie che potrebbero essere opportune e, tanto meno, da garanzie immobiliari. Non ci sarebbe bisogno – se ci si convincesse che occorre scrutinare solo le domande di credito assistite da garanzie solide – dell’esperienza, della professionalità, della capacità che deve avere la professione bancaria. Basterebbero un computer e un calcolatore. Verrebbe meno l’esigenza di un’attitudine ragionata ad antivedere, a programmare, unita a quel sentimento che spinge a realizzare “imprese” durature per il futuro, per le generazioni che verranno, investendo in esse e così contrastando quella che è stata definita la società dell’incertezza e del rischio. Parlo da persona che ha compiuto una lunga esperienza nel campo del credito e ora si cimenta con i problemi e le potenzialità eccezionali di un grande gruppo assicurativo. In questi settori è dominante la tutela del risparmio, messa in discussione, non in Italia, ma in molte parti del mondo, dalla crisi finanziaria.
Ho avuto la fortuna di poter fare un’esperienza non comune, partendo da un ventennio di lavoro in Banca d’Italia per approdare brevissimamente alla Vicedirezione Generale di un istituto di credito di diritto pubblico – il Banco di Napoli – secondo la classificazione prevista dalla legge bancaria del 1936 allora vigente, per poi passare alla Direzione Generale di una Cassa di risparmio – quella di Roma – che ha costituito la base per una serie di successive aggregazioni bancarie e finanziarie culminate nella costituzione di un grande gruppo, Capitalia. L’esperienza nella Banca centrale, sotto la guida – non solo professionale, ma di vita – di un personaggio che è stato per molti un maestro, Guido Carli, ha impresso in me caratteri incancellabili: la cura costante della professionalità, la capacità di decidere dopo aver approfonditamente analizzato il thema decidendum, il rigore dell’istruttoria, avendo sempre come stella polare, prima di predisporre la scelta conclusiva, quello che veniva definito il “superiore interesse dell’Istituto”, coincidente con gli interessi generali, l’immancabile assunzione delle responsabilità dell’agire. Sono caratteri rigorosamente osservati da tutti i successori di Guido Carli.
Dunque, imprenditorialità – essendo gli istituti di credito imprese -, ma anche valutazione degli impatti generali delle decisioni del banchiere. Mi sono sforzato – e probabilmente non sempre con successo, considerate le difficoltà che si incontrano nel diuturno operare – di fare ciò che oggi le Autorità monetarie interne e internazionali chiedono ai vertici delle aziende di credito: cioè compiere, fino a quando sono stato investito di tali responsabilità, uno scrutinio del merito di credito che tenesse conto non solo delle garanzie apprestate, ma anche – e soprattutto – della validità delle iniziative da finanziare, del progetto, delle sue ricadute anche se non a breve termine. Gli effetti della crisi hanno messo in evidenza come sia importante che il banchiere sostenga le operazioni meritevoli anche quando i dati non sono a favore dell’impresa da affidare, come autorevolmente è stato detto. La Banca d’Italia si è formata, agli inizi del secolo scorso, anche attraverso interventi in situazioni di dissesto e proprio con l’obiettivo di attenuarne le conseguenze. È nel suo DNA il recupero di soggetti economici e finanziari in condizioni di acute difficoltà. Da questo punto di vista, l’osservatorio privilegiato di Via Nazionale – mentre mi ha impegnato in un altro versante, quello dei rapporti con l’estero e dei cambi, allora in regime di regolamentazione dei movimenti di capitale – è stato, comunque, una grande scuola per me.
Di quegli insegnamenti mi sono giovato quando – anche per rispondere a logiche di sistema che mai tuttavia passavano sopra alle logiche d’azienda ma con queste ultime si combinavano – ho promosso, con i miei collaboratori, una nutrita serie di concentrazioni che avevano lo scopo di conseguire sinergie e, quindi, condizioni più avanzate sotto il profilo patrimoniale, reddituale e dell’efficienza operativa, ma spesso rispondevano anche all’esigenza di impedire l’aggravamento delle condizioni della banca aggreganda e di conservare e sviluppare un radicamento territoriale. Si conferivano, così, stabilità e migliori prospettive alle aziende di credito interessate, alla loro clientela, ai dipendenti, alle relazioni con altre banche, al contesto economico-territoriale, e così via. A volte, si è trattato di veri e propri salvataggi. E tuttavia, anche in questo caso, non sono mai state pretermesse le ragioni di economicità della banca aggregante, viste in una logica di medio lungo termine.
Realizzata una delle migliori operazioni di concentrazione, nell’ambito della quale il Gruppo da me presieduto – Capitalia – si è aggregato con una banca di livello internazionale come l’Unicredit, ho compiuto per circa un triennio una nuova esperienza in un intermediario assolutamente originale, qual è Mediobanca, la cui storia – fatta di alta professionalità e di straordinaria dedizione di chi vi lavora – attraversa l’intero periodo successivo alla seconda guerra mondiale fino ai giorni nostri. Ora sono al vertice delle Generali, la prima multinazionale italiana. I dati, anche recenti, dei risultati del Gruppo parlano da soli e testimoniano della qualità e della dedizione del personale di ogni ordine e grado. L’impegno mio determinato è di fare ulteriormente sviluppare la Compagnia, di accrescere efficienza e redditività, di migliorare la sua organizzazione, di fare ancora avanzare i rapporti con la clientela, di rafforzare la competitività. Muovono in questa direzione i passi compiuti nel miglioramento degli assetti della governance e delle strutture della comunicazione, nell’ampia revisione organizzativa di recente promossa, nella cura delle risorse umane, nella stessa attenzione alla ricerca e ai profili culturali da sostenere con il progettato rilancio della Fondazione della Società, nell’attenzione agli interessi generali.
Gli effetti della crisi finanziaria globale e della successiva tempesta innescata dalla Grecia non sono ancora superati. E’ stato un triennio di fuoco. In Europa, la ripresa, che può dirsi avviata, e appare migliore delle previsioni, è tuttavia ancora discontinua e incerta. Dagli USA, che pure hanno varato la riforma finanziaria, non vengono segnali rassicuranti, considerati i problemi della crescita e dell’occupazione. Si presenta con forza sulla scena internazionale la Cina. Ciò che è avvenuto in questi ultimi tre anni, non è valutabile solo in base ai pur fondamentali dati macroeconomici, ma si avvicina ad un passaggio d’epoca. Una tempesta perfetta che trova un precedente solo nella crisi degli anni ’30 del secolo scorso. La globalizzazione commerciale, finanziaria e degli uomini ha fatto progredire complessivamente le condizioni dei popoli; ma il modo in cui essa si è sviluppata ha aggravato, per l’assenza di istituzioni di governo della trasformazione, e per aver fatto perno sul debito, le distanze tra le aree del mondo ed ha reso possibile la trasmissione immediata del contagio delle crisi economiche.
Dai mutui americani subprime, il contagio, nella finanza, si è facilmente propagato, attraverso la via dell’impacchettamento dei titoli emessi dagli intermediari finanziari, che passano di mano in mano dei diversi sottoscrittori, fino alla costruzione di derivati diffusi in tutto il mondo. E’ stato il modo per trasferire i rischi. La banca ha trasformato la sua natura. Non più intermediario che raccoglie risparmio e si assume il rischio del suo impiego, ma soggetto che innanzitutto trasferisce i rischi dell’impiego del risparmio ad altri soggetti. I trasferimenti, dunque, si moltiplicano in un mondo finanziario globalizzato. E’ nato, così, un sistema bancario-ombra. Hanno reso possibile ciò una politica monetaria negli USA, lungamente espansiva e carenze nella regolamentazione bancaria e finanziaria, nonché nell’azione di vigilanza. Sono, queste, le spiegazioni della crisi largamente condivise, insieme con il ruolo che hanno avuto gli squilibri internazionali.
Su di esse è bene concentrarsi, anche in ossequio all’insegnamento di Guido Carli, che diffidava delle spiegazioni metaeconomiche. E tuttavia non può trascurarsi che, alla base delle cause della tempesta finanziaria ed economica, che vanno autonomamente analizzate nel modo in cui si è detto e come tali contrastate, sia una distorsione profonda dei valori ai quali guardano parti delle società in varie aree del globo, finendo con il porre in primo piano l’arricchimento facile e la prevalenza dell’avere sull’essere; ma concorre anche l’isterilirsi della visione dei fini della vita, la riflessione su di essi essendo ritenuta quasi come una perdita di tempo. A volte, sembra prevalere la figura dell’uomo-funzione, come è stato detto. Non l’economia al servizio dell’uomo ma, viceversa, l’uomo che attraverso l’economia persegue l’egoistica soddisfazione dei propri esclusivi interessi particolari, in maniera avulsa da ogni sentimento di coesione e di solidarietà. Non è neppure l’esaltazione dello homo oeconomicus – che, del resto, lo stesso Pareto contestava perché asseriva che, accanto a questa figura, occorre aggiungere quella dello homo politicus e dello homo religiosus – ma dell’uomo egoista, per certi aspetti “homini lupus”. E’ la glorificazione dello “enrichez-vous”.
Dunque, c’è una esigenza del ritorno ai valori veri, della riaffermazione della coesione sociale, del ruolo del volontariato, del dono, della capacità di agire in una logica di sussidiarietà e di ricostituire le relazioni nelle comunità, nel territorio. Vanno valorizzati i corpi intermedi. Ci guidano in questa linea le encicliche Mater et Magistra, Pacem in terris, Centesimus annus. È nella prospettiva un’opera di lunga lena; forse una vera riforma intellettuale e morale. Una metanoia per la finanza. L’etica, di cui frequentemente si parla nei convegni, non è un quid che sopravviene dopo che nel mercato si sono sviluppate le transazioni, ma è, deve essere, intrinseca allo scambio. È avvertita la esigenza di giustizia commutativa e di quella distributiva. Il capitale sociale si rafforza con le scelte solidaristiche, comunitarie. Il mercato non è un locus naturalis, bensì è un locus artificialis, una costruzione dell’uomo che funziona adeguatamente se altrettanto adeguatamente è regolata. Il tema della definizione delle nuove regole e delle attività economiche e finanziarie dopo la fase più virulenta della crisi è ancora all’ordine del giorno. Occorre accelerare il percorso soprattutto in Europa, avendo gli Usa approvato, come accennato, una assai importante riforma, anche con il ricorso a sostanziali mediazioni. Tarda la definizione di una efficace nuova architettura della vigilanza nell’Unione. Non si può, a lungo, stare fermi in mezzo al guado.
Ci si era incamminati con lo studio per l’adozione di nuovi principi e del cosiddetto global legal standard per le attività economiche e finanziarie. Si era pensato, sulle prime, a una Bretton Woods da realizzare in progress per un nuovo ordine monetario internazionale. Ora si constata quanto sia difficile il percorso per introdurre nuove regole e principi nella finanza globale. Nonostante le elaborazioni del Financial Stability Board, i progressi finora segnati a livello internazionale non sono rilevanti. Del tutto abbandonata sembra l’ipotesi di una riforma del Fondo Monetario internazionale e della Banca Mondiale. Una rivisitazione cruciale, dal momento che è essenziale, per un nuovo ordine monetario, un organo che sovraintenda alla liquidità internazionale: una sorta di banca centrale globale.
A volte sembra che la crisi, mentre in questa fase sono sotto attacco i debiti sovrani sui quali si scarica l’onere dei salvataggi degli intermediari finanziari, non abbia insegnato granché, se il passo è lento nel necessario percorso riformatore. Non si vuole indulgere a prospettive palingenetiche, ma l’adozione di nuove regole in materie come la supervisione degli organi di controllo, gli effetti di contagio ed i rischi sistemici, i derivati, gli hedge fund e le agenzie di rating – insomma, l’adozione di norme innovative per i profili prudenziali e strutturali dell’ordinamento finanziario – non è più procrastinabile. Dovrebbe rappresentare il terreno di convergenza minima di tutte le posizioni al di là delle, pur possibili, differenti concezioni e finalità. E’ legittimo attendersi scelte efficaci, nella regolamentazione e nelle politiche, dal Vertice del G20 di Seoul del prossimo novembre.
Vi sono, dunque, più stadi di interventi. Da quelli alti, perché si possano diffondere comportamenti ispirati a valori non effimeri o, peggio, a disvalori; ai compiti delle istituzioni della politica, a livello globale, per costruire una governance internazionale e per dettare le nuove regole della finanza, fino agli impegni dei governi dei singoli Paesi. Il sistema finanziario deve essere, nel contesto economico, un fattore di efficienza e di sostegno dello sviluppo. Dovrà avere più capitale, meno debiti, minore esposizione di rischi, per potere svolgere la sua elettiva funzione ed essere capace di una sintesi nuova tra interessi aziendali e interessi generali.
La crisi insegna che altre forze devono scendere in campo, come quelle del cosiddetto terzo settore. Oggi, in Italia, da un lato, bisogna riequilibrare la finanza pubblica, dall’altro, è fondamentale attivare una crescita maggiore di quella prevista, pur comparativamente da non sottovalutare, dell’1% nel 2010 e nel 2011. Soprattutto perché, come sostengono molti analisti, il maggiore apporto viene dalla domanda estera. I dati del prodotto relativi al secondo trimestre di quest’anno sono, però, di qualche incoraggiamento. Muove in una corretta direzione la manovra finanziaria approvata dal Governo a fine luglio. L’attuazione del federalismo fiscale – in una logica di cooperazione e solidarietà nazionale – accentua l’esigenza di un protagonismo delle forze sociali ed economiche del territorio. Occorre anche una maggiore capacità, da parte delle banche, di scrutinare il merito di credito, di selezionare le iniziative valide.
Come ha detto di recente il Presidente della Repubblica, dobbiamo guardare avanti, al futuro. Dobbiamo essere in grado di costruire una società migliore per le generazioni che verranno. E a tal fine è necessario, oltre all’intelletto, ovviamente, anche il cuore al quale voi vi riferite. Sarà fondamentale affrontare le riforme di struttura, reagire al calo demografico – considerato anche l’anticipo, di recente rilevato, della “gobba” pensionistica -, contrastare quel vero e proprio bradisismo economico che ci caratterizza da un quindicennio, per il quale avanziamo sempre della metà rispetto ai nostri concorrenti nei versanti della competitività, della produttività, della quota di commercio internazionale, ecc.
Non possiamo continuare a vivere a spese delle generazioni future. Non ce lo consentirebbero più neppure i nostri legami europei e internazionali.
Tutti, allora, debbono fare la propria parte, l’Europa, il Governo, le istituzioni della politica in genere, le imprese – ivi comprese, ovviamente, le banche e le assicurazioni -, i sindacati, le altre organizzazioni sociali. Nel versante dell’Unione Europea, è fondamentale dare avvio alla costruzione di un governo economico, per la quale non è sufficiente la pur importante revisione della struttura e dei contenuti del Patto di stabilità e di crescita. Nel frattempo, occorrono, in ogni caso, scelte concrete, che facciano avvertire effettivamente l’essenzialità del ruolo dell’Unione, quale potrebbe essere un programma di emissione di titoli europei per finanziare un piano comunitario di sviluppo nelle infrastrutture e nella ricerca.
All’interno, e in coerenza con gli indirizzi europei, come accennato, è cruciale rialimentare la crescita. Dobbiamo, così, contrastare i dati non esaltanti (anche se comparativamente, a livello europeo, non peggiori) sul lato del tasso di disoccupazione, della partecipazione delle forze di lavoro, dei cosiddetti scoraggiati, degli inattivi. Bisognerà fare di più. L’impegno del Governo è valso a evitare impatti straordinari della crisi finanziaria globale. Gli ammortizzatori hanno svolto un ruolo importante. Ma occorre ora guardare alla prospettiva, in maggiore lontananza. Una nuova regolamentazione dei rapporti di lavoro, un nuovo statuto, non dei lavoratori ma dei lavori, che privilegi, secondo le linee che stanno emergendo, il momento della partecipazione di chi lavora al processo produttivo aziendale prevedendo un più efficace aggancio dei salari alla produttività senza, tuttavia, superare alcune garanzie di carattere nazionale, potrebbe essere la via da seguire secondo un modello di nuova, diversa, concertazione. Finita la centralità della fabbrica, superata la centralità della classe operaia, ma non il valore del lavoro nella fabbrica grande o piccola che sia, è il tempo di allargare la visione dei partecipanti alla produzione e al lavoro in genere. Un modello di contrattazione e di rapporti di lavoro che dia maggiore stabilità di prospettive all’impiego ma, nel contempo, ne renda più flessibile lo svolgimento in relazione alle sorti della produzione potrebbe essere la via da seguire.
Una riorganizzazione del mercato del lavoro lungo le linee prospettate dal Governo, deve consentire una riforma organica e di lunga durata degli ammortizzatori sociali; ci si deve, insomma, dare carico del mondo esterno all’impresa, dei giovani che aspirano a un lavoro. Esistono in materia interessanti proposte di legge parlamentari. Un piano per il lavoro fatto di nuovi strumenti e di nuove impostazioni potrebbe essere la risposta che valorizzi il merito, assicuri parità dei punti di partenza, dia una prospettiva ai giovani e alle famiglie, naturalmente nel presupposto che sia possibile attivare una crescita maggiore. E a tal fine si pone l’urgenza di sostenere la ricerca e l’innovazione con un maggiore concorso pubblico-privato. Vanno sperimentate forme articolate di partecipazione ai risultati aziendali. Il lavoro e la conoscenza tecnica sono un bisogno universale, come Benedetto XVI afferma nell’enciclica Caritas in veritate. E si deve trattare di un lavoro decente, che sia espressione della dignità e della libertà dell’uomo. Preparare il futuro significa farsi carico, hic et nunc, delle conseguenze dell’allungamento della vita media con tutto ciò che ne consegue sul piano dello sviluppo demografico, delle immigrazioni, dell’assistenza, insomma di un nuovo welfare. Crescono, in particolare, i bisogni della cura degli anziani, dell’assistenza ai non autosufficienti. Forme di specifica previdenza e di assicurazioni private debbono fare i conti con l’onerosità delle prestazioni. E’ tuttora irrisolta, nonostante tanti sforzi, la questione meridionale. Un riconcepito ruolo dello Stato, nel sostegno, è ineludibile.
Non possiamo accettare l’indirizzo – che, qua e là, in campo internazionale, sembra prendere piede – del new normal. Dobbiamo impegnarci ancora di più. La cruciale questione lavoro passa per la necessaria apertura di una stagione di riforme di cui il Paese ha grande bisogno. Dobbiamo lavorare per una crescita maggiore. Questa è decisiva per conseguire una maggiore occupazione, in una con la rivisitazione dell’ordinamento lavoro. Fondamentali sono la produttività e la competitività. Esigono innovazioni a livello aziendale e di sistema. Diversamente, ogni sostegno pubblico sarebbe vano.
Occorrono certezze per chi intraprende e per chi lavora. Condotta positivamente dal Governo l’azione di contrasto della crisi, ora siamo chiamati tutti – esecutivo, Parlamento, istituzioni, in genere parti sociali – a una fase di impegno e di costruzione del futuro. Spetta alla politica, nelle sue espressioni rappresentative, individuare, con le sue scelte istituzionali, la via più idonea per corrispondere a queste esigenze, per rafforzare l’incerta ripresa, in un momento assai delicato, nel quale ritornano segnali di difficoltà in campo internazionale fino a far parlare di ipotesi di deflazione, comunque di stagnazione e, all’interno, il Tesoro si appresta a ricorrere al mercato per una cospicua raccolta di fondi in questa parte finale dell’anno.
Un ruolo rilevante spetta al mondo del credito e della finanza. Dobbiamo operare con decisione per migliorare l’immagine e, in generale, il rapporto con la clientela, imprese e famiglie. Prima ancora di insistere su posizioni rivendicazioniste nei confronti delle istituzioni della politica. Quelle posizioni saranno più forti se si sarà data prova di essersi autonomamente mossi per darsi carico delle esigenze dell’utenza e anche degli interessi del Paese. Il settore del non profit è chiamato, anch’esso, a fare la sua parte. Si parla, oggi, di nuova filantropia. E’ un orizzonte che, di pari passo con il necessario riequilibrio della finanza pubblica e con l’evoluzione di settori come quello dell’istruzione e della ricerca, dovrebbe mobilitare le intelligenze e la capacità di antivedere del legislatore, del Governo, dell’iniziativa privata. In un momento nel quale si manifestano anche correnti di pensiero relativistiche e scettiche, desiderare, con Camus, l’impossibile forse può apparire fuori dai tempi. E tuttavia, dobbiamo proporci obiettivi più ambiziosi, capaci di una nuova sintesi tra la vita e gli interessi dei singoli e la vita della comunità di cui si è parte, per una vita, insomma, degna di essere vissuta, nella quale non vengano meno gli ideali. Nella crisi c’è un kairòs, un’opportunità che dobbiamo saper cogliere. Grazie.
EMMA MARCEGAGLIA:
Buona sera a tutti, intanto lasciatemi dire che sono molto felice di essere qui, è la prima volta che partecipo al Meeting in qualità di Presidente di Confindustria, quindi ringrazio Vittadini, Lupi e tutti coloro che mi hanno invitato. Sono venuta qui, credo nel ’97, da Presidente dei Giovani Industriali, e facemmo un dialogo io e te: torno davvero con grande piacere. Lasciatemi dire, prima di cercare di dare le risposte alle domande che ci poneva Vittadini che, in questi anni, io vi ho guardato con grande rispetto. Ho cercato di capire le proposte del vostro movimento e devo dirvi che quasi sempre coincidono con quanto io cerco di portare avanti come Presidente di Confindustria. Ho cercato di capire che cosa poi vi spinge a questa straordinaria manifestazione, a questa partecipazione così importante, anche in termini di volontariato. Ed anche qui mi fa piacere dirvi che – ne abbiamo parlato anche prima in conferenza stampa – in un’epoca dove si parla solo di diritti, e certamente i diritti sono assolutamente sacrosanti, vedere gente come voi che parla anche di doveri e di impegno e di responsabilità, insomma, credo sia un grande esempio che date a tutto il Paese. Quindi, vi ringrazio per questo. E voglio dirvi un’altra cosa: per formazione e per cultura, io sono laica. Veramente per me la fede è importante, è una sfera intangibile della libertà di coscienza, però, l’attenzione, la fiducia che voi date all’uomo, alla sua capacità di incidere, di partecipare, di aiutare le persone che hanno bisogno, di manifestare quello che si sente, i propri sentimenti, l’intelligenza, la capacità di impegnarsi a favore dei più deboli, della società civile, dell’economia, dell’industria, nel migliorare la persona e la famiglia, sono valori importanti anche per chi, come me, è laica. Allora, voglio dirvi grazie perché questo momento è importante ed è proprio da dibattiti come quelli che facciamo oggi che credo debbano venire due istanze che per me sono assolutamente fondamentali in un momento come questo.
La prima istanza, la prima cosa che credo vada chiesta alla politica, a tutti noi, anche a noi stessi è la concretezza. Ecco, in un momento come questo, così complesso – Cesare Geronzi ha ben descritto la situazione economica in cui siamo – voglio sottolineare che probabilmente il peggio lo abbiamo alle spalle, però siamo in una fase di assoluta incertezza, non sappiamo quello che abbiamo davanti. Pensavamo che gli Stati Uniti fossero in ripresa forte, i dati ultimi parlano di un possibile ritorno alla recessione. Pensavamo che l’Europa fosse più indietro, ma in realtà c’è una parte dell’Europa, la Germania, che va avanti. La Cina ci sembrava imbattibile, oggi – come dire – flette. Siamo in una situazione di totale incertezza, e soprattutto siamo in una grande discontinuità strategica. Qui non si tratta solo di uscire dalla crisi, si tratta, per chi fa impresa come noi, di capire come ripensare alle proprie imprese, come riuscire a conquistare mercati nuovi, come ripensare completamente se stessi.
Allora, in una fase come questa, la prima richiesta che noi facciamo alla politica in particolare è la concretezza: stare sui temi veri del lavoro, della crescita, della disoccupazione. Non ci interessano, come ha detto bene Vittadini qualche giorno fa, le contesi leaderistiche, personali, i cognati, gli appartamenti, le amanti. A noi non interessa nulla di questo, a noi interessa la crescita, il lavoro, l’occupazione, i giovani. Prima di tutto, ognuno di noi deve fare il proprio mestiere: i banchieri, gli imprenditori, tutti, ma in particolare i politici, perché noi crediamo nella politica che è servizio, nella politica alta, che sa capire e dare una strada. Noi chiediamo alla politica, come prima cosa, proprio la concretezza: stare sui temi veri, che interessano la gente come noi. E la seconda cosa che noi chiediamo – e questa sì, la chiediamo soprattutto alla politica – compostezza negli argomenti, nello stile e nel linguaggio. Io penso che per un imprenditore di Rimini, di Mantova, di Bergamo, di Palermo, per un lavoratore che magari non sa bene quale sia il suo futuro, sia inaccettabile vedere il degrado di toni a cui stiamo assistendo in questi giorni: grandi leader, politici importanti, che si appellano gli uni agli altri, non voglio neanche ripetere i toni. Noi chiediamo compostezza, concretezza: queste cose che credo condividiamo totalmente sono le premesse fondamentali per poi riuscire a tracciare una strada in un momento così difficile.
E su questo, lasciatemi dire una cosa su quello che è il pensiero di Confindustria, mio personale, sulla situazione politica. L’ho detto recentemente in un’intervista al Sole 24Ore, l’ho ripetuto prima in conferenza stampa. Per noi la situazione è molto chiara, questo Governo ha ricevuto la fiducia della maggioranza dei votanti, dei cittadini, per tre volte. Nelle elezione politiche del 2008, nelle elezioni europee del 2009, nelle regionali del 2010 si è presentato con un certo schieramento, con un programma in alcune parti riformista, e noi pensiamo sia quello che serve. Allora, adesso il Governo deve smettere di litigare al proprio interno, deve portare avanti queste riforme, questo programma, non ci interessa il resto. Il Governo ha il dovere di governare e di andare avanti, andare alle elezioni in un momento come questo, con la situazione difficile che c’è, con i conflitti che ci sono, è inaccettabile. Pensate a quale campagna elettorale avremmo davanti! Il Governo vada avanti, faccia quello che deve fare, abbiamo commentato qualche minuto fa con Vittadini un’agenzia che è arrivata: pare che dal vertice fra Bossi e Berlusconi sia uscita questa volontà di andare avanti, di lasciar perdere le elezioni. Quindi, speriamo che questa sia la volontà.
Quello che non possiamo accettare è semplicemente un vivacchiare: questi non sono tempi in cui si può vivacchiare, sono tempi in cui bisogna fare delle scelte, poi né parlerò brevemente, quindi andare avanti è importante, non crediamo, ripeto, nell’andare a elezioni, in Governi che varino riforme elettorali, magari tornando al proporzionale. Personalmente, non sento nessuna nostalgia del proporzionale, penso che l’alternanza, il maggioritario, siano stati una conquista, che è ancora da mettere a posto. Però questo non deve voler dire stare fermi, vivacchiare, tirare avanti, perché non sono tempi in cui si può tirare avanti, sono tempi in cui bisogna fare le riforme, bisogna fare cose concrete: se non le facciamo adesso, veramente rischiamo di non cogliere quei piccoli segnali di ripresa che ci sono, quelle opportunità che, comunque, in un mondo così vasto dove ci sono aree che crescono ed aree che crescono meno, ci danno la possibilità di inserirci e tornare a crescere. Per questo, credo sia molto importante andare avanti.
Cerco di rispondere brevemente sulla crisi ma, siccome ha già detto molto bene Cesare Geronzi, cercherò di concentrarmi su quello che dal nostro punto di vista va fatto. Sulla crisi condivido tutto quello che ha detto Cesare, l’unica cosa che non condivido è che non ci sia più la centralità della fabbrica. Lo sai, io sono una che è nata dalla fabbrica, sto scherzando ma lo dico per riportare il fatto che la fabbrica in Italia è ancora importante. Ci sono dati che dicono che in Italia l’industria manifatturiera è ancora una cosa molto seria, che regge nonostante la crisi. Noi non abbiamo perso quote di mercato: sui mercati internazionali, nonostante la crisi, se guardiamo la produzione industriale pro capite, noi siamo il secondo Paese industriale più grande nel mondo, dopo la Germania. Siamo leader nelle esportazioni, non solo nei settori Made in Italy – il tessile, l’abbigliamento, i mobili – ma soprattutto leader nei settori della tecnologia: questo forse è un dato che non si conosce.
Noi siamo molto forti nell’esportazione di motori elettrici, di macchine utensili, di macchine molto specializzate, di elettronica, abbiamo una capacità di produrre, di fare manifatturiero: su questo certamente dobbiamo andare avanti, dobbiamo rafforzare, perché serve la qualità nei servizi, serve che ripartano i consumi, serve che ripartano gli investimenti. Però abbiamo una forza nell’industria, nella fabbrica, quindi, teniamocela da conto. Tornerò molto brevemente su questo, quando farò alcuni accenti sul tema Fiat. Sulla crisi, ripeto, credo che abbia detto molto bene Cesare Geronzi. Capire cosa sia successo, credo sia difficile, probabilmente lo si capirà tra 20 o 30 anni. Certamente, quello che possiamo osservare è molto chiaro: ci sono stati anni con un eccesso di liquidità, tassi d’interessi molto bassi, una serie di sistemi bancari – non il nostro, che ha altri difetti – che, per guadagnare di più in presenza di tassi bassi di interesse, si sono inventati castelli di carta, gli uni sugli altri, come diceva prima Cesare, poi scaricati sui risparmiatori, che hanno provocato quello che hanno provocato. C’è stata una situazione in cui le remunerazioni dei manager erano sempre legate a risultati di breve termine e non di medio termine, ci sono stati regolatori che non hanno regolato, ci sono state Società di Rating che sono diventate campioni dei conflitti di interessi, invece di dare giudizi corretti a supporto delle scelte degli investitori, ci sono state una serie di situazioni che si sono legate a squilibri molto forti nelle bilance commerciali internazionali.
Ci sono Paesi come la Cina e la Germania che risparmiano troppo, in un certo senso, e ci sono invece Paesi come gli Stati Uniti che non risparmiano niente e comprano tutto a debito. L’insieme di questi fatti ha portato a una degenerazione e ha provocato quello che ha provocato. Ma il tema vero, secondo me, è cercare di capire cosa fare per evitare nuove crisi. La prima cosa da fare, molto semplice, è che le banche tornino a fare il loro mestiere. Non devono mettere insieme vari asset più o meno tossici, ma devono fare il mestiere per cui sono chiamati, raccogliere risparmio ed impiegarlo a favore di chi crea stabilimenti, risparmio, posti di lavoro. Questa credo sia la prima regola. Le banche italiane possono avere difetti, di cui poi brevemente parlerò, ma certamente non hanno partecipato, come altri sistemi bancari, a questo enorme banchetto degli asset tossici. La seconda cosa, come diceva Cesare, sono alcune regole chiare che facciano sì che le banche possano utilizzare meno leva finanziaria e abbiano più capitale, in modo che ci sia più tutela dei risparmiatori. Abbiamo assistito a situazioni in cui alcune attività bancarie erano forse sovra regolamentate, poi c’era tutta una serie di operazioni che non avevano nessuna regolamentazione: noi siamo dell’idea che non serva un eccesso di regolamentazione ma una buona regolamentazione, che non lasci buchi, che sia il più possibile coordinata a livello globale, in modo che non ci possano essere arbitraggi tra operazioni che sono possibili negli Stati Uniti e non in Europa, o in Cina e non negli Stati Uniti.
Poche regole chiare, ben fatte, regolatori seri, senza conflitti di interesse: questa è la strada che va portata avanti. Ma soprattutto, ripeto, bisogna tornare all’origine, bisogna tornare ai valori, all’etica, alla responsabilità, bisogna tornare ad una situazione in cui ognuno deve fare il suo mestiere. Non dobbiamo avere un’ottica solo di brevissimo termine, dobbiamo avere un’ottica di medio termine, di crescita vera, un’attenzione in cui ognuno di noi, ovviamente, porta avanti il proprio interesse, ma, come diceva Cesare, con un’ottica di interesse generale, perché questa è la situazione da portare avanti. Però volevo soffermarmi anche sulla seconda domanda che ci poneva Vittadini, cioè su cosa fare, in particolare in Italia, per uscire da questa situazione. Vittadini ha detto bene, io credo che il nostro Paese, da alcuni punti di vista, abbia dei punti di forza: il sistema industriale, le famiglie che risparmiano, una situazione bancaria più sana di quella di altri Paesi, una capacità di stare sul territorio migliore rispetto agli altri Paesi. Però non dimentichiamo – lo ha detto Vittadini, io lo voglio ripetere – che questo Paese ha un problema molto serio, una capacità di crescita troppo bassa.
Non solo durante la crescita abbiamo perso 6 punti percentuali di PIL, il 25% di produzione industriale, il 15% di investimenti, 700mila posti di lavoro, quindi, in realtà il nostro Paese è stato colpito dalla crisi; ma soprattutto, come diceva Vittadini, noi, da circa dieci anni, cresciamo di un punto percentuale di PIL in meno rispetto alla media europea. Allora è vero che, probabilmente, alcuni Paesi hanno una crescita drogata dalle bolle immobiliari, dalle bolle finanziarie, però ci sono altri Paesi che sono cresciuti di più. Abbiamo un problema molto serio che è un problema di crescita: se non torniamo a crescere almeno al 2% l’anno, non riusciamo a risolvere il problema della disoccupazione, continueremo ad avere un reddito medio delle famiglie che cala, un potere di acquisto che cala, una minore fiducia delle persone. Allora, il vero tema è tornare a crescere ad una percentuale più alta rispetto a quella che abbiamo avuto negli ultimi anni.
Anche nel 2010, come avete visto, all’interno dell’Europa si sta definendo una situazione diversificata. La Germania tornerà a crescere, probabilmente al 3%. Noi come Confindustria siamo tra i più ottimisti, stimiamo un 1,2%, altri stimano 0,8/1%, però stiamo ancora una volta uscendo dalla crisi con una capacità di crescita inferiore al benchmark. E’ chiaro che non dobbiamo guardare alla Grecia, all’Irlanda, al Portogallo, dobbiamo guardare ai migliori, e stiamo uscendo dalla crisi con una capacità di crescita inferiore. Allora, che cosa fare? Ecco, noi abbiamo idee abbastanza chiare sulle cose che ci sono da fare, cercherò di dirvele in modo molto veloce.
Il primo tema che ci riguarda da vicino come aziende, come Confindustria, come sindacato, è il tema della produttività. Da quando c’è l’euro, rispetto alla Germania abbiamo perso 32 punti percentuali di produttività, il nostro costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto più del 20%, il loro è calato. Allora, il tema della produttività è un tema serissimo: se non recuperiamo questa produttività, non avremo la capacità di crescere, non avremo la capacità di competere. C’è chi pensa che competizione sia una parola brutta, c’è chi guarda al passato: noi guardiamo al futuro, vogliamo competere nel mondo, avere la capacità di vincere questa competizione. E per farlo, il tema della produttività è centrale. E allora, come si fa a recuperare competitività? Ecco, io credo che il grande tema sia proprio cambiare le relazioni sindacali in questo Paese: noi ci stiamo impegnando su questo.
Io personalmente, anche contro il parere di molti, ho voluto varare con i miei collaboratori, con la mia Presidenza, all’interno di Confindustria, una riforma degli assetti contrattuali che permettesse di avere maggiore produttività e, per i lavoratori, maggiore salario legato ad una maggiore produttività. Questo è un primo passo, però adesso dobbiamo andare avanti, dobbiamo concretizzare il modo per avere più produttività, che vuole dire lavorare di più. Sembra una brutta parola, in Italia, ma lavorare di più è una cosa importante, è una cosa seria. Lavorare meglio, con più formazione, con più ricerca, con più tecnologia, vuole dire anche, quando è necessario, fare più straordinari, cambiare i turni, avere una possibilità di lavorare meglio all’interno delle imprese, e in questo modo pagare di più i propri lavoratori. Questo è il primo tema, e lasciatemi dire, sul caso Fiat, poche parole che per me sono molto importanti. Il tema Pomigliano, ormai, è storia, ma lo voglio ricordare. Qualcuno ha detto che la Fiat attentava ai diritti dei lavoratori: ma questo vuole dire proteggere i falsi invalidi, gli assenteisti cronici, quelli che non lavorano? No, non credo sia questo.
Sappiamo cosa vuole dire tutelare i lavoratori, perché qua ci sono tanti imprenditori, tanti lavoratori, e la maggioranza dei lavoratori italiani è gente serissima. Io ho aziende in Italia, negli Stati Uniti, in Brasile, un po’ in tutto il mondo: la cultura del lavoro che c’è nel nostro Paese è una cultura del lavoro seria, la stragrande maggioranza dei nostri lavoratori è gente molto seria e il successo delle nostre imprese, lo dobbiamo a quei lavoratori. Però non è più accettabile che, quando c’è un impresa come la Fiat, ma non solo, che decide di investire 20 miliardi di euro in Italia, facendo una delocalizzazione al contrario, e riporta una produzione dalla Polonia, dove si lavora benissimo, in Italia, e non la riporta a Rimini o a Mantova ma la riporta a Pomigliano d’Arco, che non è un posto carinissimo, è un posto difficilissimo dove lavorare, quando c’è unì’impresa che la riporta lì, cosa chiede in cambio? Chiede un contratto con i sindacati per cui dobbiamo lavorare 21 turni, dobbiamo raggiungere una certa produzione, dobbiamo ricevere un certo livello di produttività: chiede semplicemente che in cambio di un certo salario, di alcune condizioni, i lavoratori rispettino questo accordo. Questo è attentare ai diritti? Questo è sacrosanto! Allora, io penso che il tema Pomigliano, il tema Melfi, di cui parlo tra un minuto, sia fondamentale perché, se questo Paese vuole continuare ad avere un industria competitiva, dobbiamo avere relazioni sindacali non cinesi, dobbiamo avere relazioni sindacali come in tutti gli altri Paesi occidentali, come in Germania, come negli Stati Uniti.
O noi, tutti insieme, facciamo un salto in avanti, oppure questo Paese andrà in declino, lo voglio dire molto chiaramente. O noi facciamo un cambiamento forte o non ci sarà più nessuno che investirà in questo Paese. Ed anche sul tema di Melfi, non mi sottraggo. C’è stata una sentenza che ha detto a Fiat di riprendere i tre lavoratori sospesi, la Fiat li ha ripresi, li sta pagando – tra l’altro, il problema che è stato sollevato è l’atteggiamento antisindacale -, li ha riammessi in azienda ma non li fa lavorare perché pensa che questi signori abbiano bloccato un carrello e non abbiano permesso la produzione all’interno della Fiat. Saràun giudice a decidere se è vero. Ma c’è stato un grande dibattito: dal nostro punto di vista, la Fiat sta seguendo la legge, sta seguendo una prassi normale, ma il problema non è questo. Il problema è certamente tutelare i diritti di quei tre lavoratori, ma è anche tutelare i diritti degli altri lavoratori che invece vogliono lavorare e, permettetemi di dirlo, é anche di tutelare i diritti dell’impresa.
Perché, se un’impresa investe, se fa un accordo per un certo livello di produttività, un certo livello di produzione, quell’impresa ha il diritto, come succede in tutte le altri parti del mondo, di vedere questo contratto eseguito fino in fondo. Allora, o noi facciamo questo passaggio culturale, oppure veramente credo che avremo problemi. Quindi, Confindustria su questo tema intende andare avanti, senza rotture, senza conflittualità, se possibile, perché la conflittualità fa male a tutti. Io penso che questi siano momenti in cui il conflitto di classe proprio dobbiamo dimenticarlo, questo è un momento in cui, ancora più che nel passato, le sorti dell’imprenditore e dell’impresa e le sorti dei lavoratori sono unite. O noi riusciamo a vincere la competizione, e allora ci sarà lavoro e più salario per i nostri collaboratori, o noi perdiamo la sfida e non siamo in grado di stare sul mercato internazionale: e allora perdiamo tutti. Il tema vero è lavorare insieme, superare le difficoltà, riuscire a vincere la competizione. Abbiamo la possibilità di farlo, abbiamo la capacità di farlo, ma dobbiamo fare dei cambiamenti. La mia Confindustria vuole andare avanti su questa strada con decisione, con determinazione, cercando di avere tutti al tavolo: però questi non sono i momenti dei bla bla bla, non possiamo aspettare anni, dobbiamo prendere delle decisioni. Cercheremo di farlo tutti insieme, però, se ci sarà qualcuno che continuerà a guardare indietro, ad un mondo che non c’è più, noi andiamo avanti, non ci facciamo bloccare da chi vuole guardare al passato e non vuole vedere il progresso.
Molto velocemente, altri temi per noi molto importanti, le infrastrutture. So che ne ha parlato a lungo Corrado Passera, noi condividiamo l’idea che questo Paese abbia bisogno di investire in infrastrutture. Ha detto Cesare Geronzi, che il Governo ha fatto una politica di attenzione, di rigore, alla finanza pubblica, e noi l’abbiamo condivisa. Però adesso è venuto il momento di fare alcune scelte. Abbiamo bisogno di investire in infrastrutture, energetiche, autostradali, ferroviarie. Questo Paese è rimasto indietro, molta della nostra competitività dipende anche da quello, non si fanno le infrastrutture solo sui soldi pubblici, si fanno anche con i soldi privati, però servono regole chiare, determinate, non ci possono volere quindici anni per fare un’opera, quando negli altri Paesi ci vuole un anno. Terzo tema, lo ha ricordato prima Geronzi, le tasse. Questo è un Paese in cui chi paga le tasse onestamente, se parliamo di impresa, attraverso l’IRAP, può arrivare a tasse del 70, 80% del reddito. E’ inaccettabile, i lavoratori arrivano a pagare il 40, 50%: se sommiamo tutte le tasse, anche quelle locali di vario tipo, non è più possibile. Allora, noi siamo d’accordissimo su una lotta all’evasione fiscale, però gli introiti non devono andare a coprire ancora buchi pubblici, devono servire per abbassare le tasse per chi le tasse le paga. Su questo, il Ministro Tremonti, che sarà qui tra poco, ha intenzione di aprire un tavolo per una Riforma Fiscale complessiva. Noi siamo assolutamente interessati a collaborare, lo faremo tutti insieme, però è un tema che va affrontato.
Ci vorrà una certa gradualità, lo comprendiamo, siamo gente responsabile: in un momento di rigore dei conti pubblici, in un momento in cui già oggi lo spread Btp-Bund è a 160 basis point, se noi sbraghiamo sui conti pubblici, ci vuole niente a salire. Sappiamo bene che con il debito che abbiamo, 100 basis point in più di tasso che ci viene richiesto vuole dire 16 miliardi di euro di interessi in più da pagare: quindi, ci vorrà gradualità, però è un tema che va affrontato seriamente e concretamente. Quarto tema, e vado a chiudere, è per noi un tema fondamentale e so che sta molto a cuore anche a voi. E’ il tema di un ridisegno nel nostro Paese del confine tra Stato e mercato. So che il Ministro Sacconi è stato qui qualche giorno fa, ha parlato di meno Stato, più società. Giustissimo, io lo condivido, però credo che dobbiamo anche aggiungere, meno Stato e più mercato. Noi abbiamo bisogno di più mercato, abbiamo bisogno di uno spazio maggiore per le imprese, abbiamo bisogno di meno concorrenza sleale da parte delle innumerevoli imprese pubbliche, abbiamo bisogno di meno sprechi, di meno enti inutili, tutte cose che voi sapete. Però, anche qui è venuto il momento in cui tutti insieme – è un lavoro complesso, difficilissimo – cerchiamo di ridisegnare il confine dello Stato.
In questo Paese, lo Stato intermedia più del 50% del PIL, spesso lo fa male, ci sono tante cose che possono essere lasciate, attraverso un serio principio di sussidiarietà, al privato, con regole molto chiare, con controlli chiari. Però è venuto il momento in cui tutti insieme dobbiamo ridefinire il confine tra Stato e mercato. Noi ci crediamo moltissimo. Il federalismo fiscale, dal nostro punto di vista, va visto così: o serve per avere meno spesa pubblica improduttiva, meno sprechi, meno situazioni di clientela, o non serve a niente. Se serve in questa direzione, noi ci stiamo, lo condividiamo, lo porteremo avanti con serietà, ma deve diventare una logica che premia il territorio, che avvicina chi governa a chi è governato e permette proprio, attraverso il voto, di esprimere se quel governante abbia fatto bene o male. Ecco, certe situazioni dove la Sanità, soprattutto nel Mezzogiorno, è uno scandalo pubblico, non le vogliamo più vedere. Questo è un tema sul quale dobbiamo lavorare seriamente.
Ultimo tema, e chiudo, per noi importantissimo, è il tema del capitale umano e della ricerca. Se vogliamo continuare ad essere un Paese manifatturiero, ma soprattutto se vogliamo dare un futuro ai nostri giovani, in questa competizione dei cervelli che diventerà sempre più forte, dobbiamo investire di più nella scuola, nell’Università, nella ricerca. Noi abbiamo supportato la Riforma del Ministro Gelmini perché pensiamo che, seppure dal nostro punto di vista si debba fare ancora di più, per la prima volta però si introducono elementi sacrosanti di merito, di attenzione a chi è più bravo, a chi merita di più: e questo è fondamentale. Noi dobbiamo tutelare i più deboli, è sacrosanto, dobbiamo avere attenzione a chi ha bisogno. Nello stesso tempo, però, dobbiamo permettere a chi può correre di correre, premiando il merito, pagando di più i professori bravi, facendo fare strada agli studenti più meritevoli, attraendo cervelli invece che perdendoli. Quindi dobbiamo continuare ad investire seriamente sulla ricerca, come diceva Cesare Geronzi. L’abbiamo fatto troppo poco, lo dobbiamo fare con forza e con determinazione, perché è solo lì che riusciremo a vincere la competizione e a dare un futuro al nostro Paese.
Chiudo dicendovi che noi, come Confindustria, un’agenda riformista l’abbiamo e la possiamo condividere al 99,9%. C’è tanta gente che la condivide, un pezzo importante dei sindacati, iniziative molto importanti di Sacconi, della Gelmini, di tanti altri Ministri. C’è un pezzo di società che vuole le riforme, vuole un cambiamento vero in questo Paese, allora andiamo avanti, non rassegniamoci, non stiamo fermi. Se questo Governo deciderà di andare avanti sulle riforme, noi ci saremo. Però, se questo Governo starà li a vivacchiare, noi denunceremo questa situazione, la considereremo un tradimento della gente seria e perbene che c’è in questo Paese, che finalmente vuole vedere le cose cambiare. Se invece, e chiudo, questo Governo deciderà di andare avanti, credo che ci saremo tutti, pronti a lavorare e a collaborare con le nostre capacità, con la nostra passione e con il nostro cuore, come voi ci insegnate molto bene. Grazie.
MAURIZIO LUPI:
Io raccolgo l’invito fatto da Giorgio Vittadini a reagire, per quanto riguarda la mia responsabilità: faccio politica e quindi sono un interlocutore delle osservazioni fatte da Emma Marcegaglia e da Cesare Geronzi, anche perché ci è stata data la responsabilità di governare. Sono d’accordo con Emma, in particolare sul fatto che la cosa incomprensibile di questi mesi sia che in Italia, contrariamente ad altri Paesi, il popolo, i cittadini abbiano dato conferma a questo Governo per ben tre volte e parallelamente ci sembri di vivere in un altro mondo, in un assurdo. Negli ultimi cinque mesi, non si è parlato delle cose di cui stiamo parlando oggi, non ci si è criticati sulle cose che abbiamo fatto come Governo, ma si è continuato a discutere di alchimie, di finiani, di non finiani, di che cosa accade, di elezioni o non elezioni. Due provvedimenti sono accaduti tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, due provvedimenti importantissimi.
Il primo è il V Decreto Attuativo del Federalismo Fiscale. E’ una sfida vera: non sappiamo dove porterà, ma è una sfida ad assumersi la responsabilità di costruire il Paese da fondamenta nuove. Non perché le vecchie non andassero bene: sono andate bene ma si sono dimostrate, rispetto alla sfida di questa realtà, poco solide. E allora è responsabilità di chi governa e di chi fa politica accettare questa sfida, non tirare a sopravvivere. Nel V Decreto, addirittura, si è introdotto un tema fondamentale che da anni, da decenni si sta discutendo in questo Paese, il tema degli affitti e dell’abitazione – penso al sindaco Moratti, al tema del mercato della casa in proprietà, a quello dell’affitto, di coloro che non possono comprarsi la casa -, si è pensato di introdurre, delegandola ai Comuni che sono il soggetto protagonista nella politica attuativa della casa, in termini di Riforma Fiscale, un’aliquota unica sull’affitto della casa. Vuole dire che chi affitta la propria casa, non veda le nuove entrate cumulate col reddito, a sommarsi con la tassazione già alta che abbiamo, ma si definisce un’aliquota del 20% per chiunque affitta. E questo può fare emergere il tanto nero e la tanta evasione fiscale che c’è.
Parallelamente, arriverà il Decreto in cui finalmente c’è il passaggio storico nella concezione della spesa pubblica, tra una definizione della spesa pubblica che è sempre andata per costi storici – per cui, quello che spendevi, spendevi, e il pubblico, cioè i cittadini, perché sono i cittadini che con le loro tasse pagano le prestazioni di tutti, doveva risanare -, ad un passaggio, un pilastro fondamentale, in cui si spende in base ad una media standard: se una prestazione medica costa 100 in Lombardia, non può costare 800 in Calabria. Può costare 120. E allora, è giusto che continui a costare 800? No, è giusto che gli Amministratori, che servono il bene comune, siano stimolati ad andare in quella direzione.
Come ha già detto Emma Marcegaglia, al Senato è stato approvata, ovviamente in un ramo del Parlamento, la Riforma Universitaria. Giusta, sbagliata, migliorabile certamente, un confronto assoluto. Stiamo discutendo di queste cose, in questi giorni? Qui sì, qui ci stiamo confrontando su questo, ma nei dibattiti televisivi, nelle notizie del telegiornale, ci stiamo confrontando su questo? Anche duramente, cioè anche positivamente, nel dire che non va bene, nel dire che deve migliorarsi, eccetera? Ecco: viviamo in una sorta di paradosso, per cui si parla delle elezioni e non si parla invece di governare. Chi vuole fare un’altra cosa, se ne deve assumere la responsabilità. Allora, non voglio evitare le domande. Molto sinteticamente, voglio entrare nel merito delle domande che mi sono state fatte e dare le risposte.
Una premessa, però, voglio dirla con chiarezza: ne abbiamo discusso con gli amici che Parlamentari, in particolare con Raffaello Vignali, che sta facendo un ottimo lavoro nella Commissione Attività Produttive della Camera dei Deputati, portando anche l’esperienza che ha avuto come Presidente della Compagnia delle Opere. La mostra ha colpito tutti noi, Cesare, è interessante, incredibile. Però, il rischio che non dobbiamo correre è che sia una mostra e una premessa, che non c’entri nulla con la nostra responsabilità di governare questo Paese, di pensare a una modalità diversa di fare impresa o di stabilire regole nuove. Se releghiamo a una premessa la terza parte, da dove ripartire, che come al solito non c’entra niente con i problemi concreti, ripetiamo esattamente lo stesso errore. Perché a me ha colpito una cosa, dell’enciclica di Benedetto XVI, Caritas in Veritate: è già dimenticata. Un anno fa, tutti – vedo l’amico Scaroni – abbiamo discusso di questo, ci siamo confrontati, osannavamo il Papa che aveva avuto il coraggio, rispetto alla crisi economica, di non parlare di PIL, di numeri, ma di riportare la questione alla sua radice, al suo fondo, al tema dell’uomo, della persona, della dinamica della sua libertà, della carità nella verità. E c’era un giudizio che emergeva, dimenticato. Benedetto XVI, riprendendo Paolo VI, si faceva questa domanda: qual è il problema più urgente del mondo di oggi, più drammatico, nella crisi che viviamo? E’ innanzitutto un problema quantitativo, economico? No, diceva Benedetto XVI in quell’enciclica: il problema è la mancanza di pensiero, il problema è che si è persa la capacità di giudizio su quello che accade nella realtà, imparando così non da noi stessi. Il dramma della politica è che continua ad essere autoreferenziale, per cui ti interessa di più il leader o il rapporto personale che hai, pensare che puoi sostituirlo piuttosto che al compito cui sei stato chiamato. Dovevi pensarci prima, se non volevi questo compito: noi siamo stati chiamati a un compito e dobbiamo accettare questa sfida: governare il Paese e, dopo cinque anni, essere giudicati. Se abbiamo governato bene, evviva, continuiamo, se abbiamo governato male, a casa, ci manderanno a casa, come giustamente avviene in tutti i regimi democratici.
La mancanza di pensiero, cioè la mancanza di giudizio, è il punto ed è il tema, tanto è vero che la terza parte della mostra – io sono rimasto colpitissimo da quella, Da dove ripartire, si introduce proprio partendo dal metodo, l’osservazione della realtà, citando gli errori di acuti economisti che, nel corso degli anni – Alesina, Giavazzi e altri -, facevano previsioni che poi si sono rivelate sbagliate. Ho capito – ed è questo che mi ha colpito – che non era polemica, l’elenco di citazioni e frasi, ma era a dimostrazione di come tutti noi possiamo fare un grande errore: dimenticarci che il metodo è sempre imposto dall’oggetto. Quando invece riteniamo che il metodo sia imposto da noi stessi, facciamo ideologia e quindi dimentichiamo quella realtà. Mi ha colpito che tutto il percorso propositivo della mostra riparta esattamente da questa constatazione.
Allora, io voglio seguire questo metodo. Se il metodo è imposto dall’oggetto, l’hanno già detto sia Geronzi che Marcegaglia, qual è il punto della crisi? Primo, la confusione che si è fatta riducendo l’economia a un puro problema di numeri, lo ha detto egregiamente Cesare Geronzi. L’economia vede sempre come protagonista l’uomo, la persona. Non esiste l’uomo economico, esiste – diceva un grande pensatore che poi ha fondato la Dottrina Sociale di Mercato, l’uomo religioso, non nel senso di quello fideista – ha ragione Emma Marcegaglia -, ma nel senso dell’uomo che, appassionato alla propria vita, al rapporto con la realtà, mette in gioco la propria libertà, la propria responsabilità, i propri errori, tutto quello che ha per costruire. C’è stato un acuto editoriale sul Corriere della Sera che, parlando del cattolici, parlava del disagio. Ecco, queste sono le due facce della stessa medaglia. Si può vivere nel rapporto con la realtà con disagio, oppure essere provocati dal rapporto con la realtà a una responsabilità, a voler continuare ad essere protagonisti, perché nel rapporto con la realtà e nella sfida con la realtà io trovo sempre il positivo che nella realtà c’è. Ce lo insegna chi fa impresa, ce lo insegna chi drammaticamente perde il lavoro e comunque vuole continuare a essere protagonista della propria vita, creando una rete sociale, accettando la sfida che gli è posta davanti.
Ho partecipato a una trasmissione televisiva, i soliti talk show, e mi ha colpito che siccome si doveva dimostrare che andava tutto male, ad un certo punto hanno mandato due filmati molto brevi. Il primo, di un ragazzo laureato che non trovava lavoro e che si è messo a fare il barista: lui ha accettato quella sfida ma ovviamente era descritto come un negativo. Il secondo, la rete di solidarietà. Avevano fatto vedere due o tre immagini dei Banchi di Solidarietà in Italia. Cioè: non aspetto che qualcuno risolva il mio problema ma, se affronto il bisogno che ho davanti, accetto questa sfida e inizio io, nel piccolo, a rimboccarmi le maniche, che è poi il titolo del Meeting.
Però, entro rapidamente nelle cose: cos’è il nostro mercato. Lo ha già detto la Marcegaglia, lo ha già detto Geronzi, voglio essere molto veloce. Innanzitutto, le nostre aziende hanno una caratteristica che altre aziende non hanno, proprio perché sono italiane. Hanno saputo coniugare e declinare il rapporto fra la persona e la famiglia, cioè il tessuto sociale e umano ha sempre generato un’attività, e l’ha fondata, e questa non è una negatività ma è la positività. Certo, può dare delle negatività, nel senso che poi hai il grande problema degli investimenti, eccetera, ma è il punto di partenza. Il secondo: nel nostro Paese abbiamo – proprio per questa concezione dettata dal metodo e dalla cultura cattolica, perché inutile prenderci in giro, questo è un Paese che è vissuto ed è impregnato del cattolicesimo e della sua storia, per questo si è fatta rete – i distretti industriali, la caratteristica di questa rete, di questa solidarietà. Terzo: c’è anche una modalità di fare impresa diversa, che è una caratteristica dell’Italia che non troviamo negli altri Paesi, l’impresa cooperativa, le imprese sociali, le banche che sono differenti e che lavorano in maniera diversa sul territorio.
In questi due anni noi abbiamo riscoperto banche che erano additate come le peggiori e che non potevano più sopravvivere: i Crediti Cooperativi, le Banche Popolari, che sono le banche del territorio e che, quando vedono l’imprenditore, non lo guardano come un numero e applicano Basilea 2, schiacciando il bottone sì/no, ma iniziano a guardare alla storia dell’imprenditore che hanno davanti, alla sua capacità, alla sua credibilità. C’è una domanda che mi faceva Raffaello Vignali: domandati se nel dopoguerra le banche avessero dato fiducia alle imprese, solamente guardando ai numeri e ai bilanci. Avremmo avuto questo tipo di rinascita, questo tipo di rilancio? O guardavano alla storia di quell’imprenditore, alla sua voglia di fare, alla credibilità, e davano fiducia?
Io credo che tutti questi elementi siano il punto di partenza su cui abbiamo cercato, bene o male, di lavorare in questi due anni. Ma adesso abbiamo la grande sfida, perché in questi due anni dovevamo salvare la casa. Se siamo attenti alla persona, la prima cosa è buttare le risorse, tutte quelle che hai, per evitare che il conflitto sociale drammaticamente esploda in questo Paese: il grande tema degli ammortizzatori sociali. Abbiamo lavorato su questo, tutti insieme. Il grande tema di fondo, per la piccola e media impresa. E fu anche una battaglia di Confindustria, ricordo la discussione. Avevano e hanno questa logica, se il metodo è imposto dall’oggetto. Allora, adesso c’è da vincere, in questi tre anni, la grande sfida della Riforma, della costruzione. Qui dobbiamo essere – i 5 punti della piattaforma del Governo – ancora più implementati, perché questa è la sfida, perché adesso dobbiamo lavorare per crescere, lavorare per accettare la sfida di una responsabilità maggiore.
Allora, che cosa può servire? Innanzitutto – anche qui, non è una premessa ma è la cosa fondamentale, troppo spesso in Parlamento vedo questo pregiudizio -, la prima cosa che serve, se l’economia non è una somma di numeri ma è la persona protagonista, è stima per l’impresa. Serve stima per l’impresa. L’impresa non è il nemico, l’imprenditore non è il nemico, l’evasore tout court. L’imprenditore è colui che accetta la sfida nei confronti della realtà. Winston Churchill diceva una cosa simpaticissima ma che rende l’idea. Molte persone vedono l’impresa privata come una tigre feroce, da uccidere subito. Altri come una mucca da mungere. Pochissimi le vedono, le imprese, come una realtà, un robusto cavallo che in silenzio traina un pesante carro. Ecco, credo ci sia questo passo nuovo: e allora, le leggi che facciamo, che abbiamo fatto, non sono per premiare chissà chi ma per avere una stima positiva nei confronti di chi è la spina dorsale di questo Paese.
Secondo, serve semplificazione. Apro una parentesi. La scia che si è fatta e che si è introdotta e che si è voluta nell’ultima manovra economica, va in quella direzione. Lo Statuto delle Imprese, proposto da Raffaello Vignali e fatto in collaborazione con tutte le associazioni, va in quella direzione: dobbiamo fare ancora di più. Mi ha colpito un dato che non conoscevo, perché non sono uno specialista di questa materia. E’ un dato di Unioncamere che dice che ogni anno, per burocrazia, l’impresa spende un punto di PIL: 16 miliardi di euro. La manovra che abbiamo fatto, la manovra economica che abbiamo fatto, è di 23, 24 miliardi di euro. Dobbiamo parlare di questo, perché 16 miliardi di euro vuole dire che ridurre tutti gli iter burocratici, semplificare per l’impresa, evitare tutti questi passaggi, fa immediatamente rimettere in circolazione, non soldi del pubblico, che non ci sono, ma soldi del privato, perché l’imprenditore sposterà quei costi e li investirà nella sua azienda.
E’ un’utopia, stiamo andando in questa direzione? Io sono convinto che questa sia la strada che stiamo percorrendo, ma la politica non può sedersi o rifiutare sempre le critiche che vengono. Le critiche servono, a una condizione: che si abbia a cuore la passione al bene comune. Perché se tu sei un settimanale che ti chiami cattolico, e l’unica cosa che ti interessa è di scrivere che c’è il male assoluto in questo Paese, che tutto dipende dal diavolo Berlusconi, non mi fai una critica, vuoi affermare un’idea qualunquista e ideologica di politica. Perché per me la politica, e vado a testa alta, ha un unico elemento, e cioè l’idea di servire il bene comune: è il più grande gesto di gratuità che possiamo compiere. Sbagliamo? Certo, ma io mi voglio misurare con questo, e vado a testa alta, e non mi sento nella gabbia ideologica, anche se si chiama cattolica, di chi ogni settimana fa il megafono del fatto dell’Unità. No, non lo accetto, non lo condivido.
Concludo: serve certezza del diritto, della giustizia. Della Riforma del diritto civile, parleremo domani con Angelino Alfano: su questo dobbiamo fare molto, come sul diritto penale. Della Riforma Fiscale abbiamo detto, servono tantissime altre cose. Pensate solo – ne abbiamo discusso qui al Meeting in un altro momento affollatissimo – al tema della politica energetica, come drammaticamente l’ideologia porti poi a non guardare al bene comune, cioè al bene di un Paese. Sviluppo e rispetto dell’ambiente possono andare di pari passo? Devono andare di pari passo, perché dobbiamo metterli sempre in competizione? Allora io dico – e ringrazio – che la strada da fare è molta. Sono convinto che abbiamo il tempo per percorrere questa strada e per misurarci sui risultati. C’è un’unica condizione, anche per la politica. E concludo citando una frase di un nostro amico che per la prima volta, l’anno scorso, partecipò al Meeting di Rimini, il Governatore della Banca d’Italia. Me l’ha ricordata un ragazzo che ci ha spiegato la mostra.
Prima di terminare, diceva Draghi, voglio raccontarvi una storia personale. Mio padre, tra le due guerre, vide un’iscrizione su un monumento in Germania: se hai perso il denaro non hai perso niente, perché con un buon affare lo puoi recuperare. Se hai perso l’onore, hai perso molto, ma con un atto eroico lo puoi riavere. Ma se hai perso il coraggio, hai perso tutto. Ecco, quel coraggio che laicamente il Governatore della Banca d’Italia descriveva, citando appunto questa scritta, è esattamente quella posizione umana che mi affascina ogni giorno e a cui sono richiamato; che, certo, mi fa guardare agli errori e alle difficoltà, ma mi fa anche essere orgoglioso e voglioso di essere protagonista nella responsabilità che mi è stata data. Mi fa guardare alla realtà – mia mamma la semplificava molto – non come al bicchiere mezzo vuoto ma al bicchiere mezzo pieno. Perché, se parto dal positivo che c’è nella realtà, magari anche quel bicchiere un po’ si riempirà.
GIORGIO VITTADINI:
Traggo tre conclusioni da questo incontro: la prima, siccome sia Emma Marcegaglia che Cesare Geronzi hanno parlato del rapporto con noi, voglio dire perché mi sento vicino a Cesare Geronzi e ad Emma Marcegaglia. Cesare Geronzi è un uomo di banca e di finanza: non ha ascoltato le mosche cocchiere che, da qualche editoriale dei giornali di cinque anni fa, dicevano che la banca doveva diventare internazionale, finanziaria. Dicevano anche che il sistema americano dei mutui subprime era la cosa che mancava all’Italia. Grazie a lui, abbiamo ancora il sistema finanziario e bancario che non avremmo avuto se avessimo ascoltato quelli che, dopo cinque anni, dicono che non è successo niente ed è colpa della politica: perché, dopo un po’, continuano a scrivere sugli stessi giornali come se non fosse successo niente. Avete capito di chi sto parlando. Emma Marcegaglia è una che è venuta qua nel ’97 e che, in questi tredici anni, ha continuato a costruire un’impresa in termini reali, cioè non ha ascoltato chi diceva che chi faceva l’impresa reale sbagliava. Come ha ricordato con orgoglio parlando della fabbrica, ha continuato a fare fabbriche in giro per il mondo, ha continuato a credere alla manifattura: doveva essere una donna di Neanderthal, secondo certe persone, perché l’Italia doveva diventare solo servizi, chi faceva queste cose era fatto fuori, ecc. Grazie a lei, abbiamo ancora una sistema industriale italiano.
Capite perché noi siamo vicini – adesso parlo a nome della nostra realtà – a loro? Vogliamo essere partecipi dello sviluppo e del cambiamento di questo Paese e del mondo. Perché chi ha un desiderio di cose grandi, vuole essere con altri partecipe di questo, vogliamo solamente questo. Io non sono nato nella Costituzione, non ho fatto la Resistenza, sono nato nel ’56: ma vorrei spendere gli anni che mi mancano, come quelli passati, con le forze vive, italiane e straniere, per il miglioramento del mondo. Perché questo è il desiderio e la fede, non è la chiusura. E sono molto d’accordo sulla questione del laico, perché, come ci ha detto Giussani, “laico cioè cristiano”. Laico vuole dire che la posizione cristiana mi apre alla collaborazione, al desiderio di cose, con chiunque voglia costruire per il bene.
E qui è il secondo punto: la descrizione della crisi economica. Diciamo così: è la fine dell’ideologia, come ha detto Passera. L’ideologia è la visione del mondo che fa fuori certe cose, che chiama razionalità economica qualcosa che non è razionale. Se l’unica cosa è l’ottimizzazione e il profitto individuale, senza guardare a tutto il resto, in termini egoistici, perché degli imprenditori come lei e come altri non dovrebbero vendere tutto e mettere il denaro in fondi che non li freghino – e questo è già importante -, perché non dovrebbero vivere di rendita, perché uno deve fare la fatica di creare prodotto, occupazione, perché amare la propria fabbrica? Ma perché la razionalità che ha dentro il profitto è più larga. Ci vuole buon senso, e l’ideologia uccide il buon senso, anche l’ideologia della finanziaria, che continuano a insegnare in certe Università. La razionalità è qualcosa di più largo, ha a che fare, come diceva don Giussani, con l’apertura al reale.
E allora qui si capisce che il nuovo sistema economico è un sistema razionale che tiene conto di più fattori di prima, mentre quello di prima ha fatto fuori certe cose: finanza, sì, reale, no, piccola impresa, sì, grande, no, o grande, sì e piccola, no. Il mondo è più complesso, è più largo, chiede un cambiamento come quello che hanno descritto loro, che ci metta in atto. E, terzo aspetto, l’Italia: io non descrivo – perché li ho detti all’inizio e li hanno detti loro – i beni. Dico che, paradossalmente, quello apre una posizione del genere è il desiderio del cambiamento. Proprio perché abbiamo un valore positivo e non lo buttiamo via, come diceva Maurizio anche adesso, noi vogliamo il cambiamento. Io cito sempre, un po’ ridendo, un film non particolarmente intellettuale, che è Rocky 3, quello di “occhi di tigre”, perché quando lui perde il titolo, il suo ex competitor gli dice: “tu non hai più gli occhi di tigre”, cioè, tu sei appagato perché hai vinto. Gran parte del problema che abbiamo è che parte di noi stessi sia appagata: non hai più le pezze sui calzoni, sei in un Paese ricco, puoi fare la vacanza, hai il telefonino, hai l’impresa che andava bene fino a ieri.
Bene, il valore è il cambiamento. Quello che diceva Emma è: noi dobbiamo cambiare, dobbiamo avere il desiderio di cambiare. Facciamo la fabbrica in un modo? La facciamo in un altro. Stavamo qui in Brianza, a Monza, e vendevamo il mobile a Lissone? Bene, è arrivata l’Ikea e bisogna andare a venderlo in Nuova Zelanda. Si faceva la produzione in un modo e c’era la lotta di classe per ottenere diritti? No, adesso arrivano, come diceva lei, Marchionne o altri, e dicono: facciamo un progetto insieme, alla fine ci guadagniamo tutti. Capite che il valore è il cambiamento? Il Paese Italia ha bisogno di gente che desidera cambiare, anche mettendo in discussione la forma, non la sostanza, perché la sostanza è l’ideale, la sostanza è il desiderio, che è cattolico, socialista, liberale, pluralista. E’ il desiderio di gente – questa è la forza dell’Italia – che ha sempre saputo cambiare. Ha cambiato quando l’Italia era distrutta, ha fatto il boom economico, ha fatto il secondo boom, ha rifatto la cosa dopo l’euro, adesso dobbiamo avere il coraggio di cambiare. Ed è per questo che noi parliamo tanto di economia nel Meeting, non perché siamo impazziti o, come direbbe qualcuno, “anvedi che parlano di economia, così poi…”. No, perché questo è il fattore del benessere del popolo e noi vogliamo, con questo Meeting, contribuire anche a questo.
(Trascrizione non rivista dai relatori)