UN DIALOGO DA RIGUADAGNARE

Partecipano: David Rosen, International Director of Interreligious Affairs of the American Jewish Committee and Director of AJC’s Heilbrunn Institute for International Interreligious Understanding; Mohammad Sammak, Segretario Generale del Comitato per il Dialogo islamo-cristiano in Libano; S. Ecc. Mons. Silvano Maria Tomasi, Nunzio Apostolico, Membro del Dicastero Servizio per lo Sviluppo Umano Integrale. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.

Un dialogo da riguadagnare

ALBERTO SAVORANA:
“A me piace pensare che il lavoro più importante che noi dobbiamo fare oggi, fra noi, è il lavoro dell’orecchio: ascoltarci. Ascoltarci. Senza fretta di dare la risposta, accogliere la parola del fratello, della sorella e pensare poi di dare la mia. Tutti noi dobbiamo parlare, ascoltarci e cercare insieme la strada. E quando si ascolta e si parla si è già sulla strada”. Sono parole di Papa Francesco che credo dicano, in modo solare, il senso del dialogo che avremo questo pomeriggio con i nostri tre ospiti. La loro stessa presenza e la loro storia personale e comune è la documentazione che questo invito del Papa, per pochi o tanti, non importa, ma per alcuni è già una realtà, è già un’esperienza praticata. E se è possibile tra loro, perché non è possibile anche tra noi e tra tutti nel mondo? Dice sempre Papa Francesco: “Al principio del dialogo c’è un incontro, da esso si genera la prima conoscenza dell’altro; se infatti si parte dal presupposto della comune appartenenza alla natura umana, si possono superare i pregiudizi e le falsità e si può iniziare a comprendere l’altro secondo una prospettiva nuova”. Ecco, anche quest’anno il Meeting è stato ed è in questi ultimi giorni dell’edizione 2017 questo luogo di incontro, questo spazio per un incontro che ha iniziato tanti desideri di conoscersi l’un l’altro per condividere in qualche modo esperienze, attese, desideri, difficoltà, ferite alla ricerca di una strada comune, dentro la strada che ciascuno fa e deve fare. Uno spazio di libertà, questo è stato anche quest’ anno il Meeting, in cui ciascuno si è esposto, si espone, per riconquistare qualche cosa, per riconquistare un’eredità, una tradizione, una storia. Oggi, in questo presente così drammatico e nello stesso tempo entusiasmante per uomini che cercano la verità, cioè che cercano la possibilità di una risposta, di un compimento, di un desiderio che oggi sembra così difficile da sostenere. In un suo recente libro don Juliàn Carrón – che è il sacerdote succeduto a don Giussani nella guida del movimento di CL, che è in qualche modo all’origine del fenomeno del Meeting – parlava della crisi, una crisi che ci riguarda a tutti i livelli: personali, famigliari, sociali, nazionali e internazionali; che attraversa tutte le istituzioni e tutte le appartenenze; eppure parlava di questa crisi senza paura, non come una minaccia, ma come una possibilità. Perché? Perché siamo tutti un po’ più umili, siamo tutti un po’ meno presuntuosi di possedere una verità da imporre ad altri. Questo non significa rinunciare al vero, al bello, al buono e al giusto di cui si è fatto esperienza in qualche modo, qualunque sia la storia, la tradizione, la cultura a cui si appartiene, ma significa che l’altro è prezioso per il cammino che devo fare io: l’altro non è innanzitutto una minaccia, ma è una possibilità di scoprire qualcosa di nuovo. Per questo abbiamo desiderato questo incontro, per mostrare come quel dialogo, che in tanti momenti della nostra vita sociale e internazionale, sembra diventato così arduo è possibile, è qualcosa di reale che si può praticare, se solo ciascuno non rinuncia a quel nucleo incandescente di sé che è il proprio cuore. Il cuore di noi quattro che siamo sul tavolo oggi è lo stesso, in qualche modo desideriamo tutti la stessa cosa: verità, bellezza, giustizia, pace, bene per noi e per i nostri figli; allora noi oggi proveremo a condividere qualcosa di questa esperienza di dialogo riconquistato e offerto a noi e a tutti come esempio che, se qualcuno troverà interessante, potrà replicare, per la strada che deve fare, che è sua e solo sua, ma che non può essere solitaria, soprattutto oggi. Ma il dialogo che cos’è? Si domandava tanti anni fa don Giussani. Il dialogo non è una dialettica, non sono, direbbe Papa Francesco, chiacchiere, “il dialogo” – dice don Giussani – “è una comunicazione che sorge dall’esperienza, tanto più sono carico di esperienza, tanto più sono capace di parlarti, di comunicare con te, tanto più nella tua posizione arida o meno arida, questo non importa, trovo connessione con quello che ho dentro io. Il dialogo instancabile con i compagni nasce dalla certezza di un comune destino. Non esiste motivo per escludere nessuno o qualcosa”.
Allora oggi abbiamo tre personalità che sulla scena internazionale, nello spazio pubblico che è il Meeting e nello spazio pubblico che è il mondo, perché questo è l’orizzonte con cui loro guardano la realtà, ci racconteranno qualcosa di questo dialogo, di questo incontro con l’altro che in tante situazioni invece di innalzare muri, crea ponti, inizia processi, come dice Papa Francesco, piuttosto che occupare spazi per sé e per i propri amici. Accanto a me c’è il rabbino David Rosen, che salutiamo dopo vent’anni esatti dalla sua ultima venuta al Meeting – io non elenco la serie abbastanza sterminata di ruoli, cariche, responsabilità che ha a livello internazionale, proprio su uno dei fronti più avanzati che è il dialogo interreligioso, la promozione di una riconciliazione tra ebrei e cristiani, che lo porta ovunque nel mondo per testimoniare che è possibile questo incontro desideroso dell’altro. Dico solo che è Direttore Internazionale degli Affari Interreligiosi del Comitato Ebraico-Americano, è il Presidente Internazionale della Conferenza Mondiale della Religione per la Pace e nel 2005 è stato proclamato da Benedetto XVI, Cavaliere dell’Ordine di San Gregorio Magno, proprio per il contributo che ha dato alla promozione di una riconciliazione reale tra ebrei e cristiani. Accanto a lui, Sua Eccellenza Monsignor Silvano Maria Tomasi, che è più che un ospite, è parte di questo avvenimento, di questa avventura che è il Meeting di Rimini – anche ieri era protagonista di un altro incontro qui in fiera – è una delle persone più vicine al cuore di Papa Francesco e alla sua passione per l’uomo contemporaneo; è Nunzio Apostolico, è diplomatico e ha servito la Santa Sede per lunghi anni in particolare come osservatore permanente presso la sede Onu di Ginevra, dove si dibattono le grandi questioni umanitarie dell’umanità, per assicurare in qualche modo un qualche futuro a questa umanità che è così confusa alla ricerca di libertà, pace e sicurezza. Per ultimo, il Dottor Mohammad Sammak, libanese, segretario generale del Comitato per il Dialogo Islamo-Cristiano in Libano, membro dell’UNESCO e del Consiglio delle Istituzioni Educative Cristiane e Islamiche; è Consigliere politico del Gran Muftì del Libano, scrittore e analista sui principali quotidiani del Medio-Oriente. Come ho detto all’inizio, noi non siamo qui a celebrare il rito del dialogo interreligioso tra persone estranee che recitano una parte, ma siamo qui a offrire in diretta la testimonianza di un dialogo e per questo abbiamo chiesto loro di raccontarci qualcosa della loro esperienza in cui questo dialogo, oggi apparentemente così difficile, è stato riconquistato da ciascuno di loro e in certe circostanze anche insieme. Direi di iniziare subito dall’intervento del Dottor Sammak.

MOHAMMAD SAMMAK:
Ho l’onore di potervi parlare oggi pomeriggio e mi auguro di poter trasmettere a voi tutti il mio messaggio in maniera chiara, anzitutto parlando di dialogo. Definiamo il termine dialogo: cosa intendiamo per dialogo? Il dialogo è l’arte di ricercare la verità, il vostro punto di vista nell’altro, ecco perché quando siamo impegnati nel dialogo devo dire che io inizio confessando, ammettendo che io non sono il depositario della verità, per cui io cerco la verità dal punto di vista dell’altro, una verità diversa dalla mia, un altro che è diverso da me. Ecco perché rispetto l’altro, perché l’altro è diverso e rispetto il suo punto di vista, perché potrei trovare la verità in lui e non in me stesso: è questo il dialogo come stile di vita. Vorrei parlare però del dialogo tra cristiani e musulmani, un qualcosa che non è possibile avviare se non è possibile, se non riusciamo a comprendere l’altro, per cui cercherò di spiegare l’immagine del Cristianesimo nell’Islam, ciò che l’Islam dice di Gesù Cristo, della Bibbia, di Maria, della Chiesa, delle persone della Chiesa (quindi del clero) e dei credenti, dei cristiani. Questi sei punti, non dal mio punto di vista, ma così come indicati nel Corano stesso; quindi ciò che voi ascolterete da me non è un punto di vista, si tratta di quanto il Corano dice su questi sei principi. Per cui, per poter avviare un dialogo, cominciamo con il primo punto: Gesù Cristo. Il Corano descrive Gesù Cristo come uno spirito di Dio e come la parola di Dio. Questa descrizione è unica nel suo genere, né Maometto, né altri profeti sono stati descritti come uno spirito che deriva da Dio, solo Gesù lo è stato. Secondo punto: il Corano afferma che Gesù è nato da una vergine, una madre che ha ricevuto lo spirito di Dio in sé e poi ha dato vita allo spirito di Dio e cioè a Gesù. Il Corano afferma che Gesù ha parlato a sua madre nel momento stesso in cui è nato. Si tratta di un fatto eccezionale: come è possibile che un bambino appena nato riesca a parlare a sua madre? Sua madre lo ha portato con sé ed è andata poi di fronte alla gente, verso il popolo e mentre era tenuto da sua madre, Gesù ha cominciato a parlare al pubblico, alle persone, ha cominciato a trasmettere il suo messaggio di cristianità. Il Corano dice di Gesù che è stato in grado di guarire gli ammalati e resuscitare i morti. Nessun altro profeta, né Maometto, né altri profeti hanno avuto il privilegio di resuscitare i morti e, sempre secondo il Corano, ci viene raccontata una storia di come Gesù è riuscito ad ottenere degli uccelli dalla sabbia, una sabbia che lui ha soffiato e che si è poi trasformata in uccelli che sono riusciti a volare. Questi miracoli sono miracoli compiuti da Gesù Cristo, da nessun altro. Sempre secondo il Corano, Gesù è salito in cielo, perché lo spirito di Dio non muore e quindi è salito in cielo e sarebbe poi tornato per salvare l’umanità. L’ultima cena è un grosso capitolo del Corano e tutti i miracoli che Gesù ha compiuto sono documentati nel Corano, che noi riteniamo essere una rivelazione di Dio. Non voglio spendere troppo tempo, perché il tempo che mi è stato assegnato è limitato, per cui passo al secondo punto: la Bibbia. Il Corano descrive la Bibbia con questi due aggettivi: c’è luce e orientamento e guida nella Bibbia e il Corano continua poi dicendo che le persone della Bibbia seguono ciò che Dio ha rivelato nella Bibbia. Per i musulmani questo significa che la Bibbia è una rivelazione di Dio e i cristiani devono seguire gli insegnamenti della Bibbia, non del Corano ma della Bibbia. Il Corano ci dice inoltre che non ci sarà futuro per i cristiani se questi non seguiranno gli insegnamenti della Bibbia. E ora passo alla Vergine Maria. Maria viene menzionata nel Corano quarantatré volte in dodici capitoli e c’è un capitolo che porta il suo nome. Il Corano parla di Maria più dei quattro Vangeli messi assieme. Il Corano ci racconta la storia di Maria prima che lei nascesse, quando sua madre era incinta di lei e la madre pregava che la sua figliola fosse al servizio di Dio. E poi il Corano ci racconta la storia di Maria quando Maria ha ricevuto, ha accolto l’Arcangelo che le ha annunciato che lo spirito di Dio le avrebbe regalato un bambino, il figlio di Dio. E poi quando era incinta, isolata, perché non poteva parlare con le persone – una famiglia decente, rispettata con una figlia non sposata e al tempo stesso incinta, ecco perché Maria è stata isolata, lontana dagli occhi delle persone -. E qui il Corano ci racconta una storia davvero insolita: ci dice che Giovanni Battista faceva visita a Maria per portarle del cibo e della frutta e tuttavia Giovanni Battista trovò che Maria aveva della frutta esotica da mangiare, per cui le ha chiesto “da dove hai avuto questa frutta?” e la risposta di Maria è stata “la frutta mi viene da Dio” “perché da Dio?” “perché io sto portando nel mio grembo lo spirito di Dio e lo spirito di Dio verrà alimentato con del cibo che viene dal cielo”. Ecco perché il Corano descrive Maria come la donna preferita di tutti i tempi. E ora vorrei parlare della Chiesa. Il Corano descrive la Chiesa come la casa di Dio. Quando è stata costruita la prima Moschea a Medina, secondo la storia, secondo la tradizione, Maometto stava discutendo con i suoi discepoli su come indire la preghiera e uno dei suoi discepoli ha suggerito: “Facciamo come i cristiani: usiamo una campana”; il profeta ha risposto “magari le persone potrebbero essere confuse su chi stia chiamando alla preghiera, se una chiesa o una moschea, per cui dobbiamo trovare un qualche altro modo”. Questo significa che la chiesa era già lì, a Mecca e a Medina durante il tempo del profeta. Per cui si è scoperta questa pratica dell’adunanza alla preghiera con la voce e non con la campana. Giovanni Battista come sapete è sepolto a Damasco in una chiesa: questa parte della chiesa fa ora parte di una moschea e tuttavia i musulmani all’epoca hanno chiesto al clero, poiché stavano costruendo una moschea, e volevano ampliare la moschea, hanno chiesto al clero di poter incorporare, includere, la tomba di Giovanni Battista. Alla chiesa sono state date quattro chiese a Damasco in compensazione di questo luogo, del luogo della tomba, che è stato visitato sia da papa Giovanni Paolo II che da Benedetto XVI. Giovanni Battista è lì all’interno della moschea, rispettato ed amato esattamente come lo sarebbe se fosse parte di una chiesa. E ora vorrei parlare del clero. Il Corano parla in termini elevati del clero, sostenendo che: “Il Cristianesimo è più prossimo ai credenti, ai musulmani, perché ci sono preti e monaci fra di loro che sono così umili”. Questa descrizione del clero fa parte degli insegnamenti islamici. Quando il profeta Maometto ha ricevuto una delegazione cristiana all’interno della sua moschea a Medina, a capo della delegazione vi era un vescovo e i due hanno trascorso l’intera giornata come ospiti del profeta, hanno pranzato insieme, hanno cenato insieme, e quando hanno desiderato pregare, il profeta ha detto loro “pregate pure qui, all’interno della moschea”. Hanno risposto “no, preferiamo pregare al di fuori, nel cortile”. E questo è ciò che hanno fatto. Quindi un incontro di una giornata che poi è terminato: i cristiani sono rimasti cristiani, il profeta è rimasto il profeta dei suoi credenti ed è stato fatto un accordo fra il profeta e loro: il patto con i cristiani di Najran. Najran è una tribù cristiana nello Yemen e questo patto afferma, sancisce che loro hanno ciò che noi abbiamo, ovvero parità di diritti, gli stessi diritti e se i cristiani vogliono costruire una chiesa e non possono permettersi di sostenere il costo della costruzione, i musulmani hanno l’obbligo di finanziare l’edificazione della chiesa e ciò non costituirà un debito nei confronti dei cristiani, è un debito nei confronti di Dio. È questa la partecipazione dei musulmani alla costruzione della chiesa: la costruzione di una chiesa è un dono a Dio. Si tratta di una lunga storia, potrei andare avanti per ore ma a causa del tempo passo ora ai credenti, persone come voi, credenti, cristiani. Il profeta Maometto prima della rivelazione di Dio lavorava a Mecca con una signora cristiana, una commerciante, lavorava per lei, poi l’ha sposata prima che lui divenisse profeta e dopo la morte di questa donna lui ha sposato un’altra donna, Mary, Maria, una donna cristiana copta egiziana. All’inizio del messaggio dell’Islam il profeta era per così dire sotto pressione, una pressione esercitata dai non credenti, gli arabi della Mecca e c’era un piccolissimo gruppo che lo seguiva, un gruppo abbastanza debole. Ha consigliato a questo gruppo di emigrare in Etiopia perché in Etiopia, così come lui disse loro, vi è un re cristiano, un re giusto perché cristiano. Quindi questo gruppo è emigrato in Etiopia ed è stato ben accolto fino al cambiamento della situazione alla Mecca, solo in quel momento sono ritornati alla Mecca. Quindi la prima migrazione islamica è stata verso un Paese cristiano, ecco perché secondo il Corano il cibo delle persone, nel testo degli ebrei e dei cristiani, è halal per i musulmani e il cibo dei musulmani invece è halal per gli ebrei e per i cristiani. Quando il profeta ha creato il primo mini-stato ha fatto sì che gli ebrei e i cristiani avessero pari cittadinanza, esattamente come i musulmani e quella è stata in realtà la prima società plurale all’interno di un nuovo Stato. Cari fratelli e sorelle, mi spiace molto, ci sono tantissimi altri punti che vorrei trattare con voi, che vorrei illustrarvi, c’è però un fraintendimento dell’Islam da parte di alcuni musulmani in questo momento, una cattiva interpretazione, una falsa interpretazione della religione da parte degli estremisti e dei terroristi. Queste persone che si macchiano di tutti questi crimini contraddicono gli insegnamenti dell’Islam di cui vi ho appena parlato, per cui noi costruiamo la nostra comprensione, costruiamo il nostro dialogo di comprensione sui principi effettivi, reali e non sulla stupidità di questi selvaggi così bruti che non sono fedeli all’Islam e che pretendono di parlare a nome dell’Islam. Vi posso assicurare, per concludere il mio discorso, che il mondo musulmano si è reso conto del pericolo rappresentato da questi estremisti e si è inoltre anche reso conto del fatto che l’Islam e il Cristianesimo convivono da secoli nel Medio Oriente. I cristiani, gli ebrei erano in Medio Oriente ben prima dell’Islam e rimarranno lì insieme ai musulmani nonostante questi terroristi. Il nostro futuro è insieme. Grazie.

ALBERTO SAVORANA:
Avevo letto all’inizio questa frase del papa: “Il lavoro più importante che dobbiamo fare oggi è ascoltarci”. Vi rendete conto che un leader di tradizione, cultura, un intellettuale, un consigliere politico, uno scrittore, un giornalista islamico ci ha fatto una lezione di Cristianesimo? Non credo per accattivarsi il pubblico del Meeting ma perché il Cristianesimo da un esponente musulmano è riconosciuto come qualcosa di bene, per sé e allora si mette a studiare il Corano per far emergere qualche cosa che forse prima di oggi tanti di noi neanche immaginavano. Senza negare la realtà, perché le sue ultime parole sono molto impegnative, eppure questa curiosità, questo interesse per la verità che c’è nell’altro… La parola a monsignor Tomasi.

S. ECC. MONS. SILVANO MARIA TOMASI:
Oggi il dialogo non è più un’opzione ma è una necessità per vivere in pace nelle nostre società pluralistiche. La globalizzazione di carattere economico, commerciale, ha creato una tale interdipendenza tra i vari Paesi che non possiamo più isolarci e vivere come se l’altro non esistesse. Dobbiamo quindi affrontare il pluralismo di oggi nelle nostre società con una strategia nuova e la strategia nuova è quella non della guerra o del conflitto, ma del dialogo. A volte mescolando insieme le aspirazioni e gli interessi della gente si arriva a momenti di esplosione violenta che distruggono, che creano milioni di rifugiati, che forzano milioni di persone a cercare una soluzione alla loro sopravvivenza in un Paese diverso dal proprio e questa situazione di tensione non è soltanto nella grande società internazionale ma è anche nelle piccole comunità. Guardando un po’ indietro vedo che ci sono varie modalità di dialogo. Ricordo che quando ero un giovane prete a New York dovevamo lavorare assieme con la comunità ebraica e i rappresentanti della comunità etniche irlandese e portoricana per cercare di trattenere i giovani dal lottare tra di loro e formare le loro piccole gang. Quello era un tipo di dialogo della strada. Il dialogo della strada però non era il solo. Quando cominciai ad insegnare nell’Università della città di New York, dove ho insegnato per qualche tempo, lì mi trovai di fronte un mondo secolarizzato, una cultura diversa dalla mia e un sistema di valori diverso. Certo, lì ci voleva un dialogo nuovo, il dialogo della cultura, che ha le sue radici profonde nella filosofia greca, nei dialoghi del grande genio di Platone. La ricerca di una coesistenza pacifica nel nostro mondo globalizzato ha fatto riflettere molto anche la tradizione cattolica e se noi guardiamo gli ultimi sessant’anni di sviluppo del pensiero della Chiesa, vediamo che c’è stato un grande cammino. Paolo VI, ancora durante il Concilio Ecumenico Vaticano II, scrisse la sua prima enciclica intitolandola Ecclesiam suam, che di fatto, seguendo l’ispirazione del suo predecessore Giovanni XXIII che nella enciclica Pacem in terris aveva proposto il dialogo invece della violenza per cercare la pace, Paolo VI sviluppò come un piccolo trattato sul dialogo, che influì sui padri del Concilio Vaticano II e trovò la sua espressione più concreta nel grande documento sulla Chiesa nel mondo moderno dove viene “canonizzato”, per così dire, il metodo del dialogo. Seguendo Paolo VI, Papa Giovanni Paolo II e poi Papa Benedetto, parlando alle Nazioni Unite, parlando in varie circostanze al corpo diplomatico, sempre hanno messo l’accento sulla necessità del dialogo come strategia, non una strategia politica ma una strategia umana che apre il cuore all’incontro con l’altro. E soprattutto Papa Benedetto ha messo l’accento sul rapporto tra fede e ragione in modo da mostrare la ragionevolezza del dialogo come via per incontrare le altre persone ed evitare conflitti. E finalmente Papa Francesco, nella sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium, la gioia del Vangelo, scrive anche lui in maniera molto estesa sulla necessità del dialogo e parla di tre aree di dialogo sulle quali dobbiamo riflettere: il dialogo con gli Stati, il dialogo con la società, incluso il dialogo con le culture e le scienze, e il dialogo con i non cristiani e i non credenti. “In ciascun caso la Chiesa – dice Papa Francesco – parla offrendo la luce della fede a illuminare la ragione e facilitare quindi il contatto tra le persone”. Questo breve cammino storico, che porta a un’accettazione universale ormai nella Chiesa del dialogo come metodo di rapporto tra gruppi, ha dato un esempio concreto di come ciascun Papa si è riappropriato delle intuizioni ed esperienze del proprio predecessore e forse dobbiamo copiare da questa esperienza anche noi e portare la strategia del dialogo a livello operativo della famiglia e del Paese, della comunità in cui viviamo. Ho accennato a tipi di dialogo: il dialogo della strada e il dialogo della cultura, ma nei documenti e nell’esperienza dei Papi di questi ultimi sessanta-settant’anni, vediamo una varietà di forme di dialogo. Quando sono arrivato nel Corno d’Africa come Nunzio in Etiopia e in Eritrea e in Gibuti e come osservatore presso l’Unione Africana, lì ho trovato già i primi giorni conflitti all’interno della comunità cattolica e all’interno delle altre comunità. Conflitti etnici, tribali che portavano a lotte che lasciavano sul campo varie decine di morti. Ci vuole quindi la capacità di adottare e adattare il dialogo a queste situazioni – e qui in questo caso un dialogo interetnico – e ho visto che è la strada che porta frutto. Incontrando i rappresentanti della comunità ortodossa, della comunità islamica, siamo riusciti a bloccare varie situazioni diventate di rischio di violenza, quindi dal dialogo interetnico siamo passati al dialogo interreligioso, che ha aperto strade nuove e ha reso anche la popolazione locale più cosciente che la via da seguire non è la via emotiva di una risposta eclatante immediata che dà più soddisfazione, ma che poi semina rancore e odio che dura e genera violenza anche in futuro. Nel contesto della comunità internazionale e delle organizzazioni internazionali di Ginevra ho trovato che lì bisogna cambiare stile di dialogo; li si deve dialogare con gli Stati cercando di fare in modo che la base comune su cui costruire il futuro sia accettabile a tutti: buddisti, musulmani, cristiani, agnostici. Ci sono rappresentanti di tutte le correnti, però c’è la volontà di cercare risposte ai problemi di oggi, ai diritti umani, che sta diventando un linguaggio internazionale, applicabile a qualsiasi categoria di persone. In questa varia esperienza il metodo del dialogo è stato utile, è utile nella varietà delle situazioni in cui ci si trova e fa nascere una domanda: perché il dialogo riesce ad avere un certo appeal, una attrazione nel cuore delle varie persone? A me sembra che nel cuore di ogni persona ci sia una spinta verso l’altro. Sant’Agostino direbbe esse ad, essere per qualcuno e che questo è una spinta interna che ogni persona ha, non è una staticità che afferra la persona, ma c’è dentro di noi una spinta dinamica che ci apre verso l’altro, comincia un cammino che viene poi da alcuni filosofi e da alcuni scrittori anche ecclesiastici chiamato, l’itinerarium mentis in Deum, (San Bonaventura). Attraverso l’ascolto di questa spinta che c’è all’interno di ognuno di noi, noi vediamo che il dialogo non è una imposizione esterna, non è una strategia politica ma è una risposta umana naturale che ci apre verso l’altra persona e porta all’incontro. Quindi l’incontro genera dialogo ma il dialogo genera incontro e stabilisce quindi una capacità di costruire comunità e questo ci porta a delle conclusioni operative: la prima è che si stratta di una scelta che ogni persona deve fare; dentro ciascuno di noi c’è un atteggiamento che apre il cuore verso l’altro e alla creatività e alla capacità di meravigliarsi, di accettare, di essere insieme con l’altro, di costruire qualcosa di comune; la seconda alternativa invece è di colui che per proteggere se stesso e la sua identità si chiude, ma chiudendosi appassisce come un fiore che non ha acqua e che è bruciato dal sole. Quindi in contesti sociali diversi, contesti religiosi e politici e culturali diversi, io ho sempre visto che la difesa propria dell’identità personale o dell’identità del gruppo religioso viene protetta meglio quando ci si apre e si accetta l’altro nella sua diversità. Si tratta di avere coraggio, di ascoltare la voce dell’interno di ognuno di noi, nell’interiore nostro più profondo, in modo che questo dialogo riacquistato da ciascuno di noi nel suo cammino diventi non un momento occasionale della nostra storia o della storia del gruppo a cui apparteniamo, ma diventi un processo di scelta tra l’atteggiamento favorevole all’incontro e l’atteggiamento favorevole alla chiusura. E la scelta è di ciascuno di noi. Grazie.

ALBERTO SAVORANA:
“La difesa della propria identità non è quando ci si chiude, ma quando ci si apre e si accetta l’altro nella sua diversità”. Che la persona che per quasi quindici anni sulla frontiera più avanzata degli armamenti, della povertà, dello sviluppo umano, dei nuovi diritti a Ginevra, all’ONU, abbia usato questo come metodo, ci fa capire che forse i detrattori del dialogo e dell’incontro di Papa Francesco non hanno una certa pratica di rapporti coi problemi del mondo e con le sfide dell’umanità, perché quello che ha descritto Monsignor Tomasi non è il metodo per delle anime pie che in un qualche oratorio parrocchiale discettano del bene del mondo, ma di una persona che ha portato questa modalità di dialogo, questa modalità di rapporto come modalità di rapporto politico con gli stati. Perché? Perché c’è un appeal del dialogo nel cuore, nel riconoscere di essere fatti per qualcuno, per qualcun altro, che proprio nella sua diversità è un bene, che mi arricchisce, nella pazienza di un rapporto. La parola all’ultimo relatore, David Rosen.

DAVID ROSEN:
Buon pomeriggio. Mi dispiace di non fare il mio discorso nella lingua più bella del mondo dopo l’Ebraico.
Il titolo di questa sessione, “Un dialogo da riconquistare”, sembrerebbe indirizzare il nostro sguardo di nuovo all’età aurea dell’Andalusia, del Medio Oriente quando gli ebrei, i cristiani e i musulmani collaboravano nel fiorire delle arti, della scienza e della filosofia. Per coloro che volessero saperne di più di questo periodo, vi rimanderei ad un bellissimo libro di Maria Rosa Menocal dal titolo L’Ornamento del Mondo: come i musulmani, gli ebrei e i cristiani sono stati in grado di creare una cultura di tolleranza nella Spagna medievale. Noi, le religioni abramitiche, abbiamo una fantastica tradizione basata sulla cooperazione non sufficientemente conosciuta, e non soltanto una storia tragica di persecuzione e di delegittimazione reciproca. Tuttavia anche l’esperienza andalusa è stata abbastanza varia: una delle sue star principali è stato un poeta ebraico spagnolo, Yehudah Halevi, che ha scritto una apologia dell’ebraismo basata sulla storia della conversione dell’Ottavo secolo del re dei Kazari e del suo popolo che vivevano tra il Mar Nero e il Mar Caspio. Questo libro pertanto è un dialogo tra il re e un rabbino. In una circostanza, il rabbino cerca di favorire, parlare della superiorità dell’ebraismo dicendo appunto che mentre i cristiani hanno parlato di amore in realtà hanno creato distruzione e mentre i musulmani parlavano di pace combattevano versando il sangue di coloro che non condividevano il loro pensiero. “Noi ebrei, disse il rabbino, non facciamo queste cose”. Il re replicò ovviamente “non le fate perché non avete il poter per farle”.
Yehudah Halevi non sta criticando l’Islam e il Cristianesimo in questo passaggio, più che altro sta mettendo in guardia rispetto ai pericoli della religione, laddove questa religione è legata al potere politico e difatti dice: “Siamo più o meno tutti nella stessa barca, nella grazia di Dio”. Quindi, mentre il secolarismo moderno si è macchiato di peccato, la separazione tra religione e potere politico ha consentito a gran parte della religione di purificarsi da tali abusi. Di fatto gran parte di questi abusi della religione, che ancora esistono, derivano da contesti o da una mentalità in cui la religione è inesorabilmente e inestricabilmente collegata al potere. La purificazione della religione ha fatto si che ci fosse una crescita inarrestabile, consistente della collaborazione interreligiosa, soprattutto per via del fatto che ci si è resi conto in maniera conscia o meno che in un mondo secolare tutte le religioni sono delle minoranze, che quindi è necessario che noi tutti uniamo le nostre forze affinché la somma, ciò che realizziamo, sia maggiore della somma delle singole parti. Mi è stato chiesto dagli organizzatori di questo Meeting di parlare del mio percorso personale nell’ambito del dialogo interreligioso, per questo vorrei parlare dell’ambiente in cui sono cresciuto. Attenendomi al titolo del Meeting, farò riferimento a mio padre. Io sono il successore di un padre importantissimo, un Rabbino famoso in Inghilterra, colui che ha favorito un sistema d’istruzione universale fondando una scuola pubblica, chiamata Carmel College, che si occupava dell’istruzione di ebrei e i cui studenti si sono sentiti eredi della loro cultura religiosa ma anche della cultura umana nel suo complesso. Queste due culture non dovevano essere viste come conflittuali, bensì come due elementi che potevano arricchirsi vicendevolmente. Quindi io sono stato istruito con un forte senso di particolarismo religioso e tuttavia anche con una profonda convinzione di quanto fosse importante la solidarietà umana. Da giovane, da molto giovane, sono divenuto Rabbino capo di una grande congregazione di ebrei ortodossi a Città del Capo in Sud Africa, probabilmente la congregazione di ebrei ortodossi più grande al mondo, circa diecimila e cinquecento membri e questo all’apice per così dire dell’era dell’Apartheid in sud Africa e per me da ebreo e da essere umano era stato chiaro sin da subito che dovessi essere coinvolto in questa lotta contro un sistema razzista così negativo. E dopo tanti tentativi in cui si è cercato di espellermi, ho avuto comunque l’occasione di fare del bene e sono riuscito in qualche maniera a riunire le persone al di là delle possibili divisioni senza essere stato espulso dal Paese o essere mandato in prigione. Le relazioni interreligiose sono state da me favorite come impegno nei confronti della giustizia sociale. Infatti ho deciso che i vari leader cristiani, musulmani di Città del Capo dovessero costituire un Consiglio che potesse coinvolgere le loro comunità. Quindi ovviamente ho cercato di trasmettergli il mio pensiero dicendo “padre, reverendo, sceicco, le cose che ci uniscono sono molto di più di quelle che ci dividono” e molti hanno acconsentito a far parte di questa iniziativa. Tuttavia sapevo che in sud africa all’epoca l’elemento più importante cristiano era la Chiesa riformata olandese. Avevo sentito parlare di un Ministro della Chiesa riformata olandese e mi sono rivolto a lui e gli ho chiesto un appuntamento. Mi ha ricevuto e quindi ho iniziato con la mia mossa iniziale, quella che avevo usato con gli altri: “le cose che ci uniscono sono molto più importanti rispetto alle cose che ci separano”. E con mia grossa sorpresa lui mi ha risposto: “Rabbino, non sono affatto d accordo con lei perché la cosa più importante per me nella vita è quella che ci divide: il mio credo in Dio come Salvatore, come mio Salvatore. In realtà voi non condividete questa convinzione, per cui, Rabbino, le devo dire la verità: voi brucerete all’inferno e posso incontrarla da buon cristiano solamente se riuscirò a salvarla”. Fortunatamente non sono rimasto esterrefatto, non ho perso il sangue freddo e quindi ho replicato: “Grazie per essere stato così onesto, credo però che sia ancora molto importante che lei si unisca a noi in questo nostro sforzo. Vorrei conoscerla meglio, vorrei che lei mi conoscesse meglio. Dopo che lei mi ha detto queste parole deve assolutamente venire ai nostri incontri, perché così le offro la possibilità di convertirmi”. E di fatto lui ha acconsentito a partecipare ai nostri incontri e quindi è diventato, grazie a questa partecipazione, meno dottrinale, molto più aperto ad altre prospettive, molto più coinvolto, e ha coinvolto anche altri colleghi. Questo fatto ha chiarito in me il potenziale e il potere di un impegno umano e mi ha insegnato anche altre cose. Tanto per cominciare, io sono rimasto esterrefatto di quanto il clero, sia i cristiano che i musulmano, fosse ignorante su di noi, di quante fossero le opinioni distorte, di quanti stereotipi ci fossero su di me e sugli ebrei. Volevo essere compreso correttamente e mi sono reso conto che per poterlo essere dovevo coinvolgerli. Però, per dirvi la verità, man mano che conoscevo i miei colleghi cristiani e musulmani mi sono anche reso conto che anche io ero stato estremamente ignorante nei loro confronti, per cui se volevo essere realmente conosciuto e compreso io, in prima persona, dovevo comprenderli correttamente. E poi ho sperimentato un’altra cosa che ha rappresentato un episodio molto importante in questo processo. Io avevo dato sempre per scontato la validità assoluta della mia religione, non mi era mai passato per la testa, anche da Rabbino di una Congregazione, di considerare il valore di altre religioni nel mondo. E nell’incontrare persone fantastiche la cui comprensione di Dio era però diversa dalla mia, persone che adoravano Dio in modi diversi dal mio, mi sono man mano reso conto che ovviamente se Dio ci ha creati nella nostra magnifica diversità, allora ci dovevano essere dei modi diversi di relazionarsi con Dio. Questo è divenuto ovvio: è stato ovvio per me che nessuna religione può incorporare la completezza del divino, perché Dio è molto più di una singola religione, Dio è più della totalità dell’esperienza umana. E se, come ci insegna la Bibbia ebraica, ogni essere umano è creato a immagine di Dio e quindi nell’incontro con l‘umano noi incontriamo il divino, allora questo deve essere ancora più vero quando noi incontriamo l’altro che ha consapevolezza del divino nella propria vita, nella nostra vita, e nell’esperienza all’interno della comunità. Per cui mi sono reso conto che l’impegno interreligioso ci offre la possibilità di incontrare il divino al di là di quella che è la nostra tradizione religiosa, e questa è stata una scoperta più grande della scoperta di Dio nel mondo. L’incontro interreligioso è l’opportunità di scoprire Dio oltre i confini della propria tradizione. In questo percorso ho scoperto tante cose, comprese le tre regole dell’impegno interreligioso del Vescovo svedese Krister Stendahl. Due di queste regole sono ovvie: innanzitutto cercare sempre di capire l’altro nel modo in cui l’altro vede se stesso, in secondo luogo vedere l’altra comunità andando ad individuare il meglio e non giudicare questa comunità prendendo solo gli elementi negativi. La terza regola però, è forse quella che mi ha colpito di più: usando le parole di Stendhal “far spazio all’invidia sacra”. È molto importante andare a vedere gli elementi in comune tra le nostre religioni, ma ovviamente non è mancanza di fedeltà alla nostra fede se noi andiamo ad apprezzare qualcosa di bello delle altre fedi, qualcosa che è diverso dalla nostra fede. Questo lui intendeva con “sacra invidia”. Ho sperimentato questa “sacra invidia”, la “sacra invidia” della gioia di questo fantastico Meeting quando sono sto qui per la prima volta vent’anni fa, e i ricordi di questa esperienza non mi hanno mai abbandonato. E ho sperimentato la stessa cosa anche con altre comunità religiose così appassionate in altri luoghi e in altri momenti. Ed è proprio questa “sacra invidia” che mi rende così felice di essere tornato qui da voi oggi. Noi siamo in grado di godere di questa “sacra invidia” quando vediamo le altre fedi, le altre religioni e soprattutto le nostre fedi abramitiche non come delle fedi concorrenti, la cui presenza va a mettere in discussione o a ridurre la nostra fede ma al contrario, come delle tradizioni religiose che sono complementari, che sono vie complementari al divino. Di fatto io sono qui e sto usando il linguaggio di Papa Francesco che ha scritto esattamente questo in merito all’importanza di questa complementarietà. E siamo in grado di godere oggi di questa complementarietà come mai abbiamo fatto in passato. Nonostante tutti i problemi del mondo, noi viviamo nell’epoca più benedetta del nostro tempo, nonostante le cose terribili che vengono ancora fatte in nome della religione nel mondo. Non c’è mai stata un’epoca nella storia in cui vi sono state cosi tante organizzazioni, cosi tante iniziative che coinvolgono diverse religioni e non c’è mai stata un’ epoca di così tanta collaborazione interreligiosa come quella odierna. Ovviamente i media secolari non trasmettono questa sensazione, danno una immagine parziale, anche distorta del mondo e tuttavia il fatto è che oggi viviamo in un’epoca di cooperazione interreligiosa, un’era fantastica di collaborazione interreligiosa ed è un enorme privilegio per me poter collaborare in questo contesto e godere dell’arricchimento e dell’ampliamento del mio punto di vista religioso, che mi deriva soprattutto dal mio incontro con i miei fratelli e le mie sorelle musulmani e cristiani. Grazie.

ALBERTO SAVORANA:
E’ veramente segno di un cambiamento d’epoca che un fratello maggiore, davanti a una platea, diciamo abbastanza cattolica, dica che ebrei e cristiani non sono competitori, non sono concorrenti, non si contendono il primato in esclusiva del divino, ma sono complementari, perché nessuna religione può incapsulare il Mistero. C’è qualcosa che eccede ogni forma umana di rapporto col Mistero e questo apre all’incontro. E anche la Chiesa, lo ha accennato Mons. Tomasi ha fatto un lungo cammino nella sua storia, soprattutto negli ultimi sessant’anni, per riconoscere questo come la verità della sua natura, questo cammino infaticabile dell’uomo nel suo rapporto con il Mistero che si apre all’incontro con l’altro. Allora io avrei tante domande, ma il tempo è tiranno, però faccio una domanda ai nostri tre ospiti: di fronte a queste sfide epocali che stanno cambiando letteralmente la faccia della terra e possono cambiarla in un futuro di speranza o in un futuro di paura, di terrore, di morte, quale contributo sentono di poter dare a partire dall’appartenenza religiosa che ciascuno oggi ci ha testimoniato, per avviare un processo, come dice Papa Francesco, che aggredisca in qualche modo quella paura che fa erigere muri, in vista di quella simpatia, di quella posizione positiva, diceva poco fa David Rosen, che fa costruire ponti? Qual è il punto che sentite più urgente della sfida oggi per voi, uomini religiosi dentro lo spazio pubblico? Inizierei dal dottor Sammak.

MOHAMMAD SAMMAK:
Grazie, credo che la cosa più importante sia conoscersi. Partiamo da noi, dai mussulmani. Dopo il secondo concilio vaticano la Nostra aetate ha aperto le porte al riconoscimento dei mussulmani come credenti e alla possibilità di far parte della famiglia dei credenti. Sia Papa Giovanni Paolo II e prima di lui, Papa Paolo VI e ora Papa Francesco, si sono riferiti ai mussulmani come fratelli. Il problema sta nel fatto che questo nuovo approccio del Cristianesimo nei confronti dell’Islam non fa parte ancora della cultura islamica, non ne è ancora entrato a far parte. Ecco perché gli estremisti possono costruire le loro ideologie sull’ignoranza. Non solo queste persone rifiutano ciò che la Chiesa dice loro, ma non lo comprendono neanche, non lo sanno, non lo predicano, per cui è compito nostro costruire ponti di comprensione reciproca e la Chiesa lo sta facendo. Nel ’95 è stato fatto un Sinodo sul Libano e nel 2010 sul Medio Oriente. Io ho avuto l’onore di partecipare a entrambi questi Sinodi con il rabbino David Rosen. Partecipazione significa che si fa parte, si entra a far parte dell’incontro del Sinodo e quindi che si può discutere su quanto emerge da questo sinodo. Ecco perché secondo me ciò che è estremamente necessario è un ponte di conoscenza. Qualunque fraintendimento porterà al conflitto e alla disputa, noi dobbiamo comprendere ciò che gli altri dicono di se stessi e noi stessi dobbiamo farci conoscere da loro così come ho cercato di fare con la mia presentazione oggi, semplicemente per fargli vedere che l’Islam non è ciò che stanno facendo questi terroristi, questi estremisti: questi sono i testi coranici, e questo è l’Islam. Per cui se ci comprendiamo, potremo costruire un futuro comune e una vera e propria fratellanza nel nome di Dio. Grazie.

ALBERTO SAVORANA:
David.

DAVID ROSEN:
Grazie Alberto, questa domanda mi dà l’opportunità di aggiungere qualcosa rispetto a quanto ho già esposto, riguardo al tema di questo Meeting. Ci sono ovviamente tanti temi che dovremmo affrontare insieme. Vivendo a Gerusalemme, vivendo in Terra Santa, ovviamente per me si tratta di risolvere il conflitto israelo-palestinese come priorità. Poi ci sono tanti alti temi critici: proteggere la libertà religiosa, combattere il terrorismo, proteggere le comunità delle minoranze. In verità, siamo tutti sul Titanic e il Titanic sta in qualche maniera dirigendosi verso un iceberg e quell’iceberg è rappresentato dal degrado ambientale, dai cambiamenti climatici. Ecco perché la Laudato Si’, l’Enciclica di Papa Francesco, rappresenta un best seller mondiale, perché non c’è nessun altra questione più urgente nei nostri tempi del fatto di garantire che i nostri figli, i nostri nipoti abbiamo un luogo in cui vivere. Se non lo faremo, nessun altra cosa avrà importanza. Credo che l’aspetto più importante su cui dovremo lavorare come comunità religiosa sia combattere i pericoli posti alla nostra casa comune, globale.

ALBERTO SAVORANA:
Eccellenza, l’ultima parola a lei.

S. ECC. MONS. SILVANO MARIA TOMASI:
Penso che nelle tre religioni abramitiche ci sia un senso comune, soprattutto nel fatto della creazione. L’uomo è creato da Dio a sua immagine, se noi riconosciamo l’immagine di Dio nella persona che mi sta di fronte, cambia il tipo di rapporto che io ho con questa persona. Perciò ricordarci, partendo dal fatto che siamo creature di Dio, che abbiamo l’immagine di Dio in ciascuno di noi, ci lega alla stessa sorgente. E vorrei chiudere con una piccola storia che mi pare venga dal Talmud. C’è stato un momento di crisi e di fame in Palestina e non c’era possibilità per una famiglia di mantenere tutti i suoi figli. Il più vecchio dei due fratelli decide di lasciare la casa e il villaggio per dare spazio e possibilità agli altri di vivere e lui va via, emigra lontano. Dopo molti anni il fratello più giovane, per ringraziare il gesto del fratello più vecchio, vuole andarlo a trovare e si mette in viaggio. Prende il suo bastone da viaggio, si prepara e cammina, mentre cammina vede da lontano un movimento e dice: “Sono bestie feroci che vengono a sbranarmi”, afferra il suo bastone e dice: “Mi preparo a difendermi”. Ma dopo un po’ si accorge che erano delle persone e dice: “Ma questi sono dei banditi che vogliono derubarmi e forse uccidermi, devo difendermi” e afferra ancora più stretto il suo bastone come strumento di difesa. Ma quando si avvicina a una di queste persone che stava venendo verso di lui, si accorge che è suo fratello e lo abbraccia”. Se noi facciamo lo sforzo veramente di conoscerci, di scoprire l’immagine di Dio nell’altro, ci accorgeremo che non c’è nemico, che il dialogo porta a una fraternità che è reale e che può essere la base per costruire un futuro comune.

ALBERTO SAVORANA:
E’ curioso perché oggi è successa una cosa per la quale, ma nei giorni passati, il Meeting ha ricevuto qualche critica da qualche commentatore dei mass media che aveva questo tono: “Siccome quelli del Meeting non si schierano da una parte e dall’altra, non hanno un’identità e quindi non contano più niente”. Ma i nostri detrattori non capiscono che ci stanno facendo il più grande complimento, perché la natura del Meeting è proprio di essere questo spazio aperto, fatto da persone che sono così certe di quello che portano, che sono così consapevoli della loro identità, che sono curiose, che non hanno paura di incontrare. Proprio perché, come diceva un istante fa Monsignor Tomasi, riconoscono in ciascuno l’immagine di Dio, in un momento in cui, diceva David, siamo tutti sul Titanic e mi stupisce che nel messaggio che ha mandato al Meeting il Papa inviti ad andare incontro all’uomo che cerca una ragione per vivere. Perché l’uomo sul Titanic cerca una ragione per vivere, perché la morte non sia l’ultima parola sul suo destino e allora, sempre il Papa, e io credo che oggi gli abbiamo dato un piccolo esempio – chissà se lo verrà a sapere – di quello a cui ci ha invitato, invitando gli organizzatori e i volontari del Meeting ad “aguzzare la vista, per scorgere i tanti segni più o meno espliciti del bisogno di Dio”, cioè di un significato per vivere, come senso ultimo dell’esistenza. Perché? Per compiacersi? Per dire guarda come siamo bravi? No! Per “poter offrire alle persone che cercano una risposta viva alle grandi domande del cuore umano”. Noi esistiamo per questo, non vogliamo tenere per noi quello che abbiamo scoperto, lo vogliamo condividere non con dei concorrenti ma con dei collaboratori, essendo noi per primi desiderosi di collaborare al cammino di ciascuno. Per questo stiamo facendo una fatica enorme per tenere in vita il Meeting di Rimini, e per questo vi ricordo quello che ormai ricordiamo a ogni incontro, a ogni angolo di Meeting, che tutto questo senza di noi non esisterebbe, e allora l’avviso del “Dona ora”, capite che non è per pagare un obolo ad un’organizzazione che stancamente deve sopravvivere, ma per essere più partecipi fino alla tasca – non importa se uno da 1 centesimo o 100.000 euro – di una costruzione che senza ciascuno di noi sarebbe meno significativa, perché mancherebbe di quel cuore comune che abbiamo. E allora vi ricordo che fino a sabato si possono fare donazioni nei desk dedicati che trovate, ormai li conoscete in tanti, e vi raccomandiamo di non dare offerte se non in questi punti e alle persone che hanno la maglietta verde con la scritta “dona ora” per un ordine e una consapevolezza che anche ogni centesimo dato collabora a mantenere vivo questo spazio di libertà, così che ciascuno possa tornare a casa con qualcosa di più dell’esperienza dell’altro. Grazie ai nostri ospiti e buona serata.

Data

24 Agosto 2017

Ora

17:00

Edizione

2017
Categoria
Incontri