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UN CAFFÈ CON…UN CHIRURGO
Partecipa: Raffaele Pugliese, Primario di Chirurgia Generale 1 e Videolaparoscopica all’Ospedale Niguarda Ca’ Grande di Milano. Introduce Francesco Liuzzi, Docente Scuola di Impresa della Fondazione per la Sussidiarietà.
RAFFAELE PUGLIESE:
(…) Certamente dobbiamo imparare a utilizzare tutto. Ci insegnavano una volta che bisogna “rubare il mestiere”. Rubare il mestiere significa che devi costringere qualcuno a starti davanti come maestro. Cioè bisogna chiedere – “chiedete e vi sarà dato” dice anche il Vangelo – e se non altro rompere le scatole. Questo vuol dire che l’uomo deve essere in azione, non può essere un mortorio, moribondo, addormentato, bisogna essere in azione fino a costringere un altro, e vedrete che questo lo farà. Questo è fondamentale. L’altra cosa del maestro è che bisogna anche, come dire, non accontentarsi mai. Perché noi tutti sappiamo che uno ha bisogno non solo di un maestro, ma di un maestro che fin dall’inizio viva questa realtà. Uno è nello stesso tempo maestro e allievo. Ma non perché sono allievo a un altro livello. Io potrei dire: sono allievo per quanto riguarda il mio spirito perché seguo qualcuno che mi educa come persona. Non è così. Io sono proprio allievo e maestro anche nella concretezza del lavoro, anche all’inizio dell’esperienza. Già in Africa era così: uno imparava una cosa e poi, siccome c’era un altro, doveva insegnargliela, era quasi una necessità. Questo è umano, è davvero umano che uno, man mano che prende una cosa, se è dinamico, se è presente a sé stesso e agli altri, al mondo, lo comunica subito. C’è sempre un altro che ha bisogno.
Però non è che uno arriva e diventa subito un grande chirurgo: tutta la mia storia non è costellata di successi e agevolazioni, non è mai avvenuto così, sono stato anch’io un apprendista. Sono arrivato al Niguarda e volevo andare nel reparto dove c’era il Professor Bellinazzo, invece per due anni mi hanno mandato in Pronto Soccorso dicendomi di star lì, mentre io volevo andare su, al primo posto che si liberava. E invece sono rimasto lì, e che cosa avevo? Il punto è che uno comunica il piacere che ha nel fare una cosa anche se quella cosa è banale, ma in realtà non c’è nulla di banale. Il mio compito era di dare i punti e volevo darli al meglio, facevo un bendaggio e mi piaceva farlo al meglio. In più dovevo farlo ai barboni ed ero l’unico che li faceva, li lavavo e gli facevo il bendaggio meglio di una suora. E ci sono quelli che mi hanno detto che stavo facendo un lavoro del cavolo, ma li ho cacciati fuori dallo studio. Non esiste, perché per quella persona che hai lì davanti, quella cosa che stai facendo è tutto. Fosse un dito a fargli male, l’unico suo orizzonte sarebbe il suo dito che gli fa male. Se tu gli dici che in fondo è una banalità, quello si arrabbia perché la banalità non esiste. Quindi c’è una posizione per cui uno guarda la realtà e la banalità non esiste. Questo è importante secondo me.
L’altro punto che volevo brevemente toccare, prima di accennare all’ultimo passaggio sul fatto che è il talento va trafficato fino all’ultimo, è il contesto. Perché il contesto in cui il talento si esprime, in cui questo rapporto professionale cresce attraverso l’educazione, cioè la sequela di un maestro e l’essere nello stesso tempo maestro, questo contesto è fatto anche di un limite molto umano, quello del preconcetto. E anche questo uno lo scopre in sé, ma lo scopre nella storia. Se guardo la storia infatti, quando Galeno, che ha fatto le ricerche più importanti, il primo che ha fatto delle osservazioni, delle sperimentazioni scrivendo un testo importantissimo, quando Galeno aveva scoperto tante cose, per quei tempi uniche, i suoi discepoli l’hanno preso e l’hanno trasformato in un libro sacro. Anche perché lui diceva: “Riconosco nella natura la perfezione del divino”, e quindi, avendo lui costituito il nesso natura-divino, il suo testo è diventato sacro, e infatti per 1500 anni non è stato toccato. Questa posizione ha bloccato lo sviluppo, capite? Questo è un preconcetto che nella storia della medicina è diffusissimo. Se vi dicessi che nel 1938 Moynihan, un grande chirurgo, tutto contento di sé, avendo fatto una chirurgia importante, ha detto che una tale bellezza non si sarebbe più verificata, saremmo alla fine del capitolo, non ci sarebbe più niente da apprendere. Uno come Burrot, un altro grande chirurgo che ha dato il nome ad alcuni interventi come la Burrot 1 o Burrot 2, grandissimo chirurgo, è stato un innovatore, ha incominciato la chirurgia di grande resezione gastrica. Lui a un certo punto ha saputo di uno che cercava di trafficare per vedere se era possibile cucire il cuore. A quel punto, siccome non l’aveva fatta lui, ha detto che questo non era stimabile e che l’avrebbe sconsigliato a tutti i suoi chirurghi. È una grandissima tentazione dell’uomo tentare di mettere la parola fine alla storia proprio nel punto in cui lui è arrivato. Io ho letto la storia di S. W., che solo perché con l’osservazione aveva rilevato che le persone che morivano di febbre puerperale si riducevano se uno si lavava le mani, e avendolo verificato con i suoi assistenti, ha provato a dirlo, ma lo hanno distrutto. E’ finito in manicomio.
Questo per dirvi che cosa non fa il preconcetto, che pure è una posizione umana. Quello che ho fatto io diventa il mio potere, è di mio possesso, e di lì non ci si deve muovere. Questo è possibile farlo, e non soltanto per i grandi che hanno incidenza nella storia della chirurgia, ma anche in piccolo. Per esempio, un primario nel suo reparto potrebbe dire che dopo con lui si è arrivati al termine, e che quindi non si deve più muovere nulla. Ma questa è una cosa disumana, cioè non adeguata all’umanità mia e di quelli che ho di fronte, cioè alla realtà. Io posso guardare un mio assistente come se fosse un nulla, o posso guardarlo come una realtà che vuole apprendere, che vuole continuare un’originalità, il che è una cosa molto diversa. Allora si parte dalla storia, la tradizione, ma poi ognuno porta un’originalità. Io ho avuto nella mia storia personale un maestro di questo tipo. Dopo che sono stato in Pronto Soccorso sono andato a lavorare in reparto, ma il Pronto Soccorso è stato provvidenziale, perché ho conosciuto il Professor Russo che vedendomi lavorare, mi ha stimato, e quando è diventato primario mi ha detto di andare con lui. Io però ero giovanissimo, ma lui se ne è fregato e mi ha detto: vieni con me e basta. Ho fatto il suo vice e lui mi ha insegnato, ma senza dirlo, perché non era un tipo che parlava molto, solo viveva così. Ho avuto, come dire, la possibilità di apprendere da lui, che era aperto intellettualmente, open mind, onesto, e non voleva frenare le possibilità di nessuno. Tanto che quando è nata la chirurgia meno invasiva, la grande rivoluzione della chirurgia, lui aveva già 65 anni e soffriva perché uno vuole sempre esprimersi fino in fondo. Allora mi ha detto che dovevo cominciarla io questa cosa, perché era una cosa per giovani. Mi ha mandato a Nizza, e ho cominciato a fare anche questa cosa come già tante altre che mi aveva mandato a fare. E io ho cominciato lì, all’inizio, a fare la chirurgia meno invasiva. Ora, la chirurgia meno invasiva è una cosa che ha trovato l’ostracismo di quasi tutta l’Università, e in particolare dei baroni. Il mio primario mi ha detto di andare farla e la maggioranza ha bloccato i suoi reparti. Ora sono indietro di 10 anni proprio perché li hanno frenati, gli hanno impedito di cogliere la novità e di portarla avanti. La novità deve essere criticata, valutata per vedere se è utile. Bisogna verificare. Anch’io ho fatto così: prima dovevo vedere se era utile e poi, convinto della bontà e dell’utilità di questa cosa, ho capito che anche se era una bella fatica, bisognava farla. Nessuno può dire niente. Io sono contento perché ora facciamo l’80% della patologia colica e meno invasiva. In Lombardia credo che possiamo dirci, senza ombra di essere smentiti, di essere sicuramente tra i primi. Ci sono dei miei amici qui, chirurghi importanti e bravi che possono confermarlo. Ma questo non è stato gratis, niente è mai gratis, l’abbiamo ottenuto con fatica, una fatica nata dal giudizio che era una cosa utile. E la stessa cosa è successa quando c’era il robot, che tutti pensavano fosse un’idiozia, perché questo è quello che la maggior parte delle persone pensa davanti alle novità. Invece prima va verificato e poi si può dire che è un’idiozia, ma prima bisogna andare a vedere. E anche se c’è qualcosa che oggi è sperimentale come complessità, ma si intuisce che ha un futuro e che migliorerà la chirurgia, bisogna investirci, anche per non rischiare di essere fuori da questa innovazione. Così ho cercato per primo, in chirurgia generale, di portare in Lombardia la possibilità di avere la sperimentazione del robot. E adesso facciamo anche cose importanti utilizzando questo strumento. È proprio vero che la storia non finisce mai. E infatti non finisce mai perché non può finire. E anche se ho la coscienza che il mondo lo salvo io, ma un altro, se io non ci mettessi tutto il mio impegno, sarebbe sicuramente un meno, nel senso che intendevano i monaci benedettini quando dicevano “con le nostre mani ma con la tua forza”. Quello che salva il mondo è “la Tua forza”, ma le mie mani devono trafficare. Per che cosa? Per dimostrare che sono affezionato a quello che ci hai dato, mica per altro. Noi tanto al massimo rinviamo la morte, ragazzi, non è che io salvo nessuno. Ne ho operati anche tanti che sono qui, ma io al massimo rinvio la loro morte se le cose vanno bene. E comunque può anche non andar bene, perché la coscienza che ultimamente siamo sotto il cappello di un Mistero entrambi, per me è una cosa vivente. Vivente, perché quando le cose vanno male io perdo la notte, ma oltre alla notte perderei la pace se non fosse così, capite? Invece è così.
L’ultima cosa che vi dico è quella che mi stimola e mi turba oggi. Il talento non si ferma, quindi va trafficato. Questo mi è venuto in mente a un certo punto e bisogna fare i conti con le cose che ci vengono in mente. Sono andato da Jacques Maresco a Strasburgo, dove lui ha creato un centro di formazione perché già tredici anni fa aveva percepito l’esigenza di formare la gente alle nuove tecnologie, per non mandarli allo sbaraglio e far pagare ai pazienti un prezzo elevato. Quindi lui ha fatto un centro, una costruzione in cui c’è il training sui maialini, il training virtuale, il training sul laboratorio di attitudine per sviluppare le capacità e poi la ricerca sui buoni modelli. Voi sapete come si impara a guidare l’aereo? Con un modello virtuale, praticamente parti da una pista e atterri col computer su un’altra pista come se fosse reale. Allora a lui è venuto in mente di fare la stessa cosa e quando l’ho visto ho pensato che era il futuro e che bisognava lavorarci su questa cosa e cercare di sviluppare anche nel nostro campo un maggior strumento di formazione. Ma come si fa a sviluppare questo strumento di formazione? Ho incominciato a rompere le scatole ai politici per farlo in Italia dove non abbiamo niente, e sono sei anni che ho fatto un progetto, poi ne ho fatto un altro. Intanto gli anni sono passati, sono invecchiato e ho cominciato a fare fatica, e solo adesso il sistema si muove e si convince anche il mio direttore generale. Mi hanno invitato ad andare all’inaugurazione del Centro di Michael Bailey. a Londra, io ho portato con me Jacques Maresco, anche lui si è entusiasmato, e ho invitato gli assessori. Alla fine sono riuscito a trovare i soldi, perché ci vogliono 10-11 milioni di euro. E quindi mi tocca andare avanti, a questo punto non posso mica fermarmi, per qualcosa che, insomma, per l’età che ho, io posso solo innescare, ma è una storia che andrà avanti, che permetterà ad altri di andare avanti su queste nuove ricerche. Soprattutto si potranno mettere insieme non soltanto i modelli formativi, ma lo sviluppo dei modelli formativi e, quello che mi piace di più, il lavoro sul cosiddetto clone virtuale, cioè fare dei cloni virtuali di malattie e di malati, in modo tale che si possa costruire su questo delle piattaforme di training, oltre a piattaforme di guida super precisa per gli interventi chirurgici. Vi ringrazio.
MODERATORE:
Visto la vivacità con cui ci è stata trasmessa questa esperienza, credo che sia un invito per tutti a domandare, a chiedere un ulteriore approfondimento. Spazio alle domande.
INTERVENTO:
Io sono un vecchio oculista, e voglio ringraziare l’amico Raffaele per la chiarezza con cui ha parlato del protagonismo e della paternità. Io ho iniziato a fare il medico nel ’63-’64, il mio primario non è stato come Pugliese e perciò ho sofferto molto di questa mancanza di paternità. Questo desiderio di insegnare quel poco o quel tanto che uno ha imparato mi è mancato tanto che poi a un certo punto, dopo parecchi anni, ho lasciato il mio ospedale dedicandomi solo alla libera professione. Io sono stato ad esempio mandato in Spagna – allora la parte chirurgica oculistica si faceva a Barcellona – ed ero andato a vedere i distacchi di retina e come si facevano i primi cerchiaggi. Ho visto i cerchiaggi e mi sono fermato col professor Buignos. Quando sono tornato, l’ho detto al mio professore che mi assicurò che a settembre avremmo cominciato: sono passati 10 anni e non ne ho fatto uno.
Ringrazio Pugliese a nome di tutti i giovani chirurghi, perché avranno la possibilità di valutare le proprie capacità veramente sul campo con un insegnamento serio.
INTERVENTO:
Volevo far notare che il protagonista non è determinato da un ruolo. Uno può fare lo spazzino ed essere protagonista o fare il chirurgo ed essere protagonista. Si può anche fare il chirurgo e non essere protagonista di niente, per essere chiari. Questo è importante, perché se uno è determinato da un ruolo vuol dire che è già arruolato, o addirittura rischia di andare fuori ruolo, come ci capita spesso. Volevo anche far notare che il maestro, secondo me, è quello che ti insegna il mestiere del vivere, non il mestiere di quello che fai. Perché io ne ho avuti di maestri, eppure sul vivere mi hanno insegnato ben poco. E ho cercato di rubare il mestiere, per me ci vuole poco: se tu ti metti lì ad assistere uno, l’intervento dopo lo sai fare, te lo dico io, e io gliel’ho rubato, per come assisto io gli rubo il mestiere. Questo è il mio mestiere, ve lo posso garantire. E ho modificato molte volte la mia modalità di approccio clinico sulle pazienti che vedo. E avrei anche alcune cose da dire sull’approccio di come entrare in cavità peritoneale della donna, perché c’è una strada semplicissima, una via vaginale dove si lascia in pace la pancia, ed è un modo di accesso nei visceri peritoneali secondo me notevolissimo. Ma la cosa che voglio dire è sul maestro, cioè il maestro ti insegna il vivere. Cosa vuol dire che ti insegna il mestiere del vivere? È questa la domanda che ti volevo fare, perché sul tuo lavoro, tra l’etica e l’estetica, io ho avuto maestri che eticamente mi han fatto delle cose che non stanno né in cielo né in terra. Diagnostica prenatale, tesa ad individuare embrioni tarati e malformati da sopprimere con l’aborto selettivo, ad esempio. Questo è razzismo bello e buono, applicato in medicina, ma erano bravissimi come chirurghi, ve lo posso assicurare, bravissimi. Io la cosa che ho notato è che, man mano che la loro etica scendeva, anche chirurgicamente e clinicamente non erano più adeguati, cioè non insegnavano più niente. E’ questo che intendo dire: il maestro per essere protagonista deve portare a braccetto, anche dal punto di vista clinico, l’estetica e l’etica. E’ questo che volevo chiedere a lui.
RAFFAELE PUGLIESE:
Beh, io per etica non intendo soltanto una posizione morale, intendo molto di più. Per etica intendo tutto: le ragioni per cui un uomo si mette in azione. L’estetica è sempre, come dire, una partenza. Faccio un esempio che possono capire tutti, anche i non medici. Se uno si innamora di una persona, è il momento estetico, ma dopo c’è da costruire e costruire vuol dire cambiare. Allora uno scopre che per cambiare non c’è la fa da solo, perché se non ti affidi a qualcuno che ti cambia, e lo dico perché sono convinto, si finisce come si finisce oggi. L’estetica svanisce e siccome l’etica non c’è, non si può fare altro che separarsi. Non c’è nulla di stabile, capite, nulla di duraturo. Allora l’etica sono le ragioni che fanno durare la vita fino al dopo. L’etica è quello per cui riconosci che l’esistenza, quello che noi facciamo, arriva a un limite, ma che oltre il limite c’è qualcosa che si chiama in un altro modo. E la libertà si impegna con questo livello. Questa è l’etica. Ma l’etica non possiamo mettergliela dentro con la siringa, con l’endovena, non si può fare. L’etica è una cosa che uno con stupore la riconosce perché è uomo, capite, e allora la può riconoscere nella testimonianza di un altro uomo. Ma potrebbe accadere che l’umanità è talmente incrostata che non la si riconosce più. Così il lavoro viene ridotto, diventando potere, a quello che si fa e se lo si fa bene. Io se incontro uno così, non gli dico di andare a quel paese, ma valorizzo quello che ha, perché quel che lui ha e sta facendo è umano, se lo fa bene è umano, e allora gli dico di andare in fondo a questa umanità, perché altrimenti la perde. E’ come tu dicevi: la si perde, perché quando arrivi a sessant’anni non si ha più voglia di rompersi le scatole. Per mantenere la passione, quello che fai deve essere legato al tuo destino, al tuo compimento, altrimenti non dura.
INTERVENTO:
Prima ha detto che mentre lavora lei ha una certa attenzione al particolare. Faceva l’esempio della luce. Nel mio lavoro, che è la scuola e lo studio, non è che curo molto il particolare, spesso tiro via. Da dove nasce questa cura del particolare? E’ una sua caratteristica o altro? Volevo capire bene.
RAFFAELE PUGLIESE:
Uno potrebbe avere la cura del particolare perché è maniaco e ha una malattia, oppure uno scopre nel particolare una ragione. Come si fa a scoprire una ragione nel particolare? Bisogna imparare a porsi delle domande, perché se uno non si pone domande non avrà risposte. I miei educatori, che si chiamano padri spirituali, mi hanno insegnato che non c’è risposta a domanda non posta. Questo vale in tutto, anche nel fare la diagnosi. Se viene un malato e tu lo guardi senza porti alcuna domanda, allora è chiaro che non avrai risposta. Ma la realtà, che è l’ammalato, urge una risposta e tu non puoi arrivare alla risposta se non ti poni domande, e ponendoti domande pieghi tutto quel che c’è alla risposta: vai dal radiologo e guardi la TAC con lui, se è fuori dalla tua specialità coinvolgi le professionalità, costruisci. Io lo faccio. Tant’è vero che tutti i giovedì ci troviamo con l’oncologo, con il radiologo e con altri. Io dico che da noi l’ambulatorio dei tumori del retto lo fa un chirurgo, un radioterapsta e un oncologo, assieme. I pazienti endocrinologici li visita un chirurgo e un endocrinologo assieme e mi hanno chiesto dove andasse il DRG? A me non importa niente del DRG, mi interessa la risposta che do. E dico che i pazienti oncologici, malati di fegato, li vedono insieme l’oncologo e il radiologo, e io rompo le scatole ai miei perché prendano la TAC e vadano dal radiologo a porre domande, perché se non poni domande non avrai risposte. Perché faccio così? Perché mi arrivavano le risposte. Ai miei ragazzi dico di imparare a porre domande, ma la prima cosa è che imparino loro a porsele, altrimenti che domande puoi porre agli altri? E se tu, non avendo la capacità di lettura, chiedi ad un altro, lui capisce perché gliela poni e dove vuoi arrivare. Questo è un modo: la risposta che oggi chiede una malattia qualsiasi è complessa, ed è tanto complessa che nessuno ci arriva da solo. Per questo c’è bisogno di costruire una squadra, e una squadra è un’associazione solidale. Come credi che io riesca a mantenere un livello nel mio mestiere, nel mio reparto di eccellenza nella chirurgia? Potresti dire che sfrutto i miei collaboratori, ma io non li sfrutto: io ho costruito un soggetto che è composto da me e dai miei collaboratori, dove ognuno si occupa di una cosa e su quella cosa mantiene un alto livello culturale. Anche io, in questo senso, sono discepolo del lavoro che ognuno fa. Ma se non ci fossi io, che garantisco la sintesi, ognuno se ne andrebbe per gli affari suoi e farebbe lo specialista di quel pezzettino, guardando l’ammalato solo per quel pezzettino.
Sto cercando di costruire qualcosa che prefiguri possibilmente un futuro nella mia specialità. Perché oggi la specialità di chirurgia generale è così generalista che sta decadendo. E’ una cosa talmente ampia e vasta che non è più considerata specialità. In America non si iscrivono più, in Italia sarà così tra poco e allora bisognerà inventarci qualcosa. Questo qualcosa è una concezione del reparto di chirurgia come dipartimento, in cui un responsabile fa una sintesi e ci sono dei soggetti che maturano e mantengono un elevato livello culturale. Questo è molto raro da trovare per quello che dicevamo prima, perché non si ottiene senza sforzo, è fatica, e se non ha una ragione, perché dovrebbe farla? Se io non avessi una ragione per farla andrei a far soldi, che è molto più facile per me, e sarebbe anche possibile.
INTERVENTO:
Non è facile trovare maestri del tuo genere, Raffaele, in ambito lavorativo. Prima qualcuno parlava di maestri per la vita e maestri per la professione. Io sarei ben felice di trovarne uno per la professione perché di maestri per la vita ho già don Giussani. In realtà la mia esperienza, che condivido con la maggior parte dei miei amici, è che sul lavoro non ci sono maestri, anzi, c’è una resistenza all’innovazione. La personalità che cerca di rubare il mestiere, come tu hai detto, viene vista con fastidio, come quella che rompe la calma delle acque. E io, di fronte a questa cosa, non mi sono mai arreso, ho sempre cercato di stare con gli occhi spalancati e col cuore aperto. Però non è facile, perché viene lo scoraggiamento, la rabbia e anche l’orgoglio di una posizione – la mia è più giusta, la tua è sbagliata. Allora volevo chiederti se ti è mai capitato, nella tua storia, di avere un periodo in cui non hai avuto maestri e come ti sei posto.
RAFFAELE PUGLIESE:
Certo che mi è capitato, nel senso che, come ho detto prima, a parte l’Uganda che è stato un momento felice, dove eravamo in quattro amici a lavorare assieme e ci aiutavamo. Non ho mai studiato tanto come in quel periodo. In Italia, quando sono arrivato a Milano, mi hanno mandato in Pronto Soccorso e io ne ho fatto un trampolino. Ho pensato che quello era il mio punto di partenza e che io c’ero. Io c’ero come tipo, rompevo molto le scatole e siccome c’è sempre uno spazio, anche ai miei non dico che cosa devono fare, ma lascio fare a loro. Noi abbiamo moltissimi malati, 60 letti, e io mi dovrei mettere a dire a tutti cosa devono fare? Solo una cosa, i turni di guardia, questo è il minimo, ma se uno ha un interesse, una passione, deve esprimerla e rompermi le scatole, nel senso che paradossalmente è chi si mette all’opera che deve venire da me perché io riconosca la sua passione. Questo è importante. E c’è sempre uno spazio in un contesto. Ad esempio, non c’era nessuno che si occupasse di nutrizione parenterale. Non è una roba chirurgica in quanto tale, ma di cura dell’ammalato. Dopo grossi interventi c’era bisogno di imparare a nutrire i pazienti e allora sono andato io, mi sono interessato e mi sono messo a fare la nutrizione parenterale. Poi nessuno faceva la vascolare e io mi sono infilato. Il primario, che era una persona onesta, mi ha detto che potevo occuparmi io dei pazienti vascolari, mi ha detto di pensarci io. Però, quando uno si occupa di una cosa, deve essere responsabile e io l’ho imparato in Africa. Responsabile vuol dire che ti assumi la responsabilità a tal punto che arrivi a dire come si dovrebbe agire. Però bisogna avere, fin da piccoli, autorevolezza, cioè certezza di quello che stai facendo e studiare bene. Una volta facevo un intervento e ho detto al mio professore che l’intervento, nel modo in cui lo stavamo facendo, avrebbe fatto solo male, che era sbagliato. Era un intervento nel campo della vascolare e bisognava fare un’altra cosa. Era stato lui a mettermi a operare, a fare l’intervento, e io ero giovanissimo, avevo 28 anni. Mi sono rifiutato di farlo, perché gli avrebbe fatto venire la cancrena al dito e per questo l’intervento è stato eseguito da un altro chirurgo vascolare. Dopo tre giorni ha avuto la cancrena al dito. Questo per dire che se fosse stato un altro primario probabilmente mi avrebbe ucciso o mandato a quel paese. Lui comunque è stato zitto, ci ha messo un altro e ha visto il risultato. Dopo quattro giorni è venuto da me e ha detto: “Allora, Pugliese, che facciamo?” Questo per dire che uno si può occupare di una cosa e può farlo con dignità, con autorevolezza. Anche quando mi occupavo di nutrizione, non mi lamentavo perché non era un lavoro chirurgico e io dovevo fare invece il grande chirurgo, ma lo facevo fino in fondo. Credo di aver fatto il chirurgo anche di chirurgia impegnativa.
MODERATORE:
Temo ci sia spazio solo per una domanda. E’ una domanda di gruppo. Facciamo in questo modo: fate tutte le domande.
INTERVENTO:
Io sono chirurgo, sono in Francia da 20 anni, partito dal profondo Sud, e ho vissuto l’esperienza che ha vissuto lei: ho incontrato dei maestri, poi si può discutere se maestro di vita o di professione. Sono contento di sentirla perché vedo che anche in Italia almeno c’è un’eccezione, perché normalmente la situazione italiana non è questa. La situazione italiana purtroppo, bisogna dirlo, è una catastrofe ecologica immane, una situazione irrecuperabile. Il chirurgo che deve operare, normalmente, è scelto su altri criteri. Io vorrei un po’ allargare il discorso perché il problema è politico, della società di chirurgia, è molto più vasto perché oggi normalmente il maestro sceglie l’allievo su dei criteri che non sono quelli della sensibilità chirurgica, della bravura o della volontà del giovane. Vorrei avere il suo parere.
INTERVENTO:
Alla fine del suo intervento lei ha parlato di clone terapeutico: il clone virtuale in vista di una terapia sicura. In medicina si dice che il medico migliore è quello che sbaglia meno, poi la medicina non è una scienza: si serve delle scienze ma resta anche un’arte. E poi il problema del medico è quello di dare risposte certe in una situazione spesso incerta o probabilistica. Questo clone virtuale, mi sembrava che lei dicesse, potrebbe portare a fare degli interventi chirurgici sicuri standard. Come vede il problema della standardizzazione? Grazie.
INTERVENTO:
All’ultimo progetto, quello che ha ottenuto i finanziamenti, chi accede, chi può entrarci?
RAFFAELE PUGLIESE:
Parto dall’ultimo. Jacques Maresco l’anno scorso ha fatto corsi di formazione e sono passati da lui 3.500 chirurghi da tutto il mondo. Col suo sito di telemedicina, disponibile in 5 lingue, ha trovato dei finanziamenti, 700.000 persone all’anno. Ora, io non penso di poter avere 3.500 chirurghi, stiamo facendo una struttura con 7 postazioni, però 1.000 chirurghi all’anno magari sì. Già adesso 250-300 chirurghi all’anno vengono da me. Facciamo corsi di tanti tipi, non solo di chirurgia, ma anche di urologia, di ginecologia, di ortopedia. Stiamo organizzando questo. Come si accede? Il problema è che sarà una Fondazione, senza fini di lucro ma che dovrà vivere, e quindi i corsi saranno a pagamento, poi che li paghino aziende o sponsor non ce ne frega niente. Comunque questa cosa è nata con dei partner aziendali, con delle fondazioni che ci finanziano, con delle donazioni e con una parte ministeriale. Poi dovrà anche vivere. Io ho cercato di copiare l’idea che ha avuto Jacques Maresco a Strasburgo oppure Michael Bailey a Londra. Abbiamo anche cercato di costruire una sorta di rete europea. L’ultimo ragazzo che ho scelto, che mi son preso, è un italiano che era in Francia e lavorava da Jacques Maresco. Li prendo pensando bene allo scopo, nel senso che mi serve gente che si può integrare nell’obbiettivo che abbiamo. Poi ci sono anche altre persone. Per esempio: il colon laparoscopico, in un’Italia in cui sono pochissimi che lo fanno, appena cinque centri, ci sono cinque persone che lo fanno perché la formazione dipende nello stesso tempo dall’organizzazione e dai volumi. Sapete che in Italia non è possibile organizzarsi per volumi. Se ci sono 4.000 pancreas in Italia, vengono distribuiti e se ne fa anche uno o due all’anno, ma non li concentrano. Purtroppo sono dei limiti italiani tipici, mentre in Germania lo fanno, in America lo fanno e in Francia in parte. Per formare una persona devi avere nello stesso tempo organizzazione, intenzione, cioè scuola, e volume di patologie. Poi è ovvio, dipende dalle persone e dai criteri che uno applica: uno può applicare criteri di contorno, di facciata, e sono spesso la maggioranza, specialmente in università. Invece, come criterio, si può anche riconoscere il mio: la passione all’opera. Certo se uno dorme, io dico, lo lascio dormire, ma se uno si mette in azione, con me è sufficiente.
Ultima cosa. La standardizzazione è una necessità. Si prova a standardizzare, ma uno non ce la fa da solo, solo in un paragone è possibile farlo. Io guardo sempre, e per questo continuo a imparare, quello che nel mondo viene pubblicato e fatto. Sono abituato a relazionarmi a livello nazionale e internazionale, come molti altri, anche perché ormai ci sono molte possibilità di vedere e di leggere le presentazioni. Si cerca sempre di standardizzare, ma bisogna comunque capire che la chirurgia non è assoluta. Ci sono casi che non sono bianco o nero, ci sono delle cose che permangono e che non hanno una cosiddetta evidence, evidenza assoluta. L’uso della tecnologia può venire in soccorso, ma dobbiamo imparare che è solo uno strumento e non Dio in terra. Il male, come dice il Vangelo, nasce da dentro, viene prima della tecnologia. Se uno non è cattivo dentro sa solo che non sta raggiungendo la perfezione, ma l’approssimazione che, comunque, può essere buona. Cerco il bene, poi viene una cosa non perfetta e allora la correggo. L’approssimazione buona è sempre passibile di correzione. Questo clone di cui stiamo parlando è un’ipotesi, una possibilità per venire incontro a certe necessità, per permetterci di vedere meglio. Abbiamo strumenti che ci permettono di vedere e di ricostruire tridimensionalmente, di fare la navigazione endovascolare in virtuale. Io ho lì il clone virtuale di uno che ha il tumore del pancreas, per esempio, e vedo tutti i suoi rapporti: mi appaiono le vene colorate in blu, le arterie in rosso, i linfatici in verde, il tumore in un altro colore così che posso vederlo e posso guidare non solo la formazione, ma anche l’intervento chirurgico. Questa è una tecnologia che c’è già, che va migliorata e raffinata ma c’è. Ci vogliono solo i finanziamenti. Con gli aerei sono riusciti, anche per motivi economici, a costruire le piste di partenza e le piste di arrivo. In sanità non sono ancora state costruite queste cose perché ci sono motivi economici di vario tipo, ma questo è un obiettivo che bisognerebbe realizzare. Ci vuole l’idea, ci vogliono i finanziamenti, ci vuole un’azienda, magari piccola, che inizi a lavorare – per questo lancio la cosa – su questo. Così si può scoprire un particolare, si può riuscire a fare un passettino e, se il passettino è buono, le grandi aziende ci investiranno i soldi e compreranno il progetto. Bisogna anche avere in mente queste cose qua.
MODERATORE:
Ringraziamo moltissimo Raffaele Pugliese per l’imponente vivacità della testimonianza che ci ha dato. Senz’altro ci ha aiutato a capire un po’ di più cosa vuol dire essere protagonisti nel nostro lavoro. In questo caso, anche nel senso etimologico di colui che si muove per primo, in forza di una consapevolezza chiara dell’origine della propria passione e della realtà che si ha davanti, così si diventa capaci di questo protagonismo. Ringraziamo ancora Raffaele Pugliese mentre ci diamo appuntamento per domani alla stessa ora per il quinto e ultimo Caffè con …, che avrà come ospite un imprenditore. Grazie mille e buon Meeting.