UN ANNO DI INCONTRI. NELLE NUOVE GENERAZIONI UNA SPERANZA PER L’ITALIA

Partecipano: Giovanna Bacciocchi, Insegnante all’Istituto Professionale per il Commercio e il Turismo “Marignoni-Polo” a Milano; Raymond Bahati, Direttore del coro multietnico Elikya, originario della Repubblica Democratica del Congo; Luna El Maataoui, Studentessa universitaria di Scienze Giuridiche a Milano, originaria del Marocco; Dialla Zaia Diarra, Studente all’Istituto “Antonello” a Messina, originario del Mali; Abdoulaye Mbodj, Avvocato, originario del Senegal; Marilena Pelonero, Insegnante Istituto “Pietro Leone” a Caltanissetta; Novella Zavatta, Studentessa del Liceo Classico “Dante Alighieri” a Rimini. Introduce Giorgio Paolucci, Giornalista.

Un anno di incontri. Nelle nuove generazioni una speranza per l’Italia

Un anno d'incontri. Intervista a Giorgio Paolucci

Un anno di incontri. Le voci di due protagonisti al #meeting18

Raymond Bahati (coro Elikya) al Meeting

Ore: 17.00 Sala Neri UnipolSai
UN ANNO DI INCONTRI. NELLE NUOVE GENERAZIONI UNA SPERANZA PER L’ITALIA

Partecipano: Giovanna Bacciocchi, Insegnante all’Istituto Professionale per il Commercio e il Turismo “Marignoni-Polo” a Milano; Raymond Bahati, Direttore del coro multietnico Elikya, originario della Repubblica Democratica del Congo; Luna El Maataoui, Studentessa universitaria di Scienze Giuridiche a Milano, originaria del Marocco; Dialla Zaia Diarra, Studente all’Istituto “Antonello” a Messina, originario del Mali; Abdoulaye Mbodj, Avvocato, originario del Senegal; Marilena Pelonero, Insegnante Istituto “Pietro Leone” a Caltanissetta; Novella Zavatta, Studentessa del Liceo Classico “Dante Alighieri” a Rimini. Introduce Giorgio Paolucci, Giornalista.

GIORGIO PAOLUCCI:
Allora buonasera, benvenuti. Siamo molto contenti di questa opportunità che il Meeting ha dato di poter testimoniare con questo incontro la natura del Meeting, cioè la natura di un avvenimento che non finisce mai, che è basato su un’amicizia, su un desiderio di incontrare tutti e a partire da questo desiderio, di potere costruire cose nuove, come è accaduto per la mostra delle “Nuove generazioni”, presentata al Meeting dell’anno scorso e che dopo il Meeting ha vissuto di una ulteriore vita nuova, andando in tante città, in tanti paesi, in tante scuole, permettendoci di incontrare migliaia di giovani, insegnanti, studenti, centri culturali, università. È stato veramente un grande movimento di vita, cioè una cosa che non ci aspettavamo ma che ha cominciato ad accadere durante i giorni in cui la mostra delle nuove generazioni è stata allestita qua, come vedete adesso in alcune immagini che passano. Un’esperienza di amicizia tra di noi, che è stata visitata da tantissime persone e che ha generato subito una curiosità, un interesse. È stata visitata anche da personaggi importanti, come il presidente del Consiglio, allora Gentiloni, il ministro della Pubblica istruzione, il ministro degli Esteri, tanti vip, diciamo così, il cardinale Segretario di Stato Parolin. Ma la cosa che più ci ha colpito, è la possibilità che questa mostra ha dato di capire cosa sta succedendo in Italia, un’Italia che sta cambiando, in cui ci sono tante persone provenienti da culture, da etnie, da paesi lontani, che sono nati qua da genitori immigrati qua, oppure sono arrivate qua da piccole e sono cresciute in quello che ormai è per loro il loro Paese, la loro terra, la terra in cui vogliono diventare grandi ed essere protagonisti. Al di là di quello che sta scritto sulla loro carta d’identità o sul loro passaporto, si sentono pienamente partecipi di questo mondo e di questa società. Uno dei poster, dei cartelloni, dei pannelli della mostra dell’anno scorso mostrava questa frase, detta da una studentessa di origine egiziana, Omnea Zahid, che credo sia anche tra noi: «Gli immigrati di prima generazione hanno dovuto affrontare il problema di entrare nella società, noi dobbiamo dimostrare che possiamo contribuire a migliorarla». Crediamo che qui stia un po’ il senso anche del messaggio che la mostra ha voluto portare, cioè un messaggio di costruttività, un linguaggio diverso, una narrazione diversa da quella spesso molto sensazionalistica o ansiogena che troviamo in molti telegiornali o nelle televisioni, che legano il tema dell’immigrazione sempre e solo ad aspetti problematici e ad aspetti negativi, che certo ci sono ma che non esauriscono questa tematica ed anzi nascondono un fatto nuovo, cioè nascondono il fatto che l’Italia sta cambiando e sta cambiando secondo noi in meglio anche grazie a queste persone, che vogliono essere parte costruttiva, protagonisti di questa società. Dopo la conclusione del Meeting è iniziato questo grande giro d’Italia, che ci ha portato a visitare tanti istituti, a Milano l’Istituto Marignoni-Polo, vari licei, ad Alzano Lombardo, come vedete qui velocemente, l’Istituto Pietro Leone a Caltanissetta, di cui avremo un intervento oggi, la rete di Intercultura, che unisce decine di scuole nella provincia di Milano, e poi questo grande incontro promosso dalla Consulta provinciale studentesca e dalla Direzione scolastica provinciale di Rimini, che ha portato novecento studenti a dialogare in una mattinata sui temi della convivenza, del dialogo, dell’integrazione. E poi ancora il giro è continuato in molte altre città: qui siamo a Fornovo di Taro, dove il sindaco ha consegnato la Costituzione a molti di questi ragazzi cresciuti in Italia, che si preparano a diventare cittadini italiani anche dal punto di vista giuridico. E poi ancora, come vedete, al liceo Morgagni di Forlì e in molte altre scuole di Forlì, alla facoltà di Comunicazione dell’Università di Macerata, all’Istituto “Bagaglino” di Alcamo e ultimamente a Portofranco, un’associazione che si occupa di aiuto allo studio e di amicizia con studenti italiani e stranieri; l’ultimo incontro è stato proprio pochi giorni fa, il 13 agosto, qui a Rimini. Non solo scuola, perché la mostra è stata allestita per esempio in una delle pance della città di Milano, il passante ferroviario, visitato da tantissime persone e dove è stato anche allestito questo spettacolo teatrale che si chiama Foreign, uno spettacolo che racconta la presenza dell’immigrazione in maniera tragicomica, molto interessante e di cui credo abbiate trovato sulle sedie la possibilità anche di allestirlo, assieme alla mostra che sta ancora girando in tutta Italia, come momento di approfondimento delle tematiche legate all’immigrazione e all’integrazione. Poi ancora, al Consiglio regionale del Piemonte, dove l’assessore aveva convocato molte autorità del posto e molti operatori che si occupano di integrazione nel capoluogo piemontese, poi questo grande incontro a Bologna, con l’Associazione degli incontri esistenziali, con la partecipazione tra gli altri anche dello scrittore Eraldo Affinati, che ha presentato l’esperienza delle scuole “Penny Wirton”, decine di scuole che insegnano l’italiano agli stranieri, con la partecipazione anche dell’arcivescovo di Bologna Zuppi. Poi, sempre a Bologna, un esempio di come la mostra è stata anche generatrice di cose analoghe: gli studenti universitari di Bologna hanno voluto fare una mostra che, prendendo ispirazione da quella del Meeting, proponesse, durante i tre giorni del Campus by night di Bologna, nel mese di maggio, questa mostra su “I volti di Bologna”, raccontando la realtà multietnica che si incontra in università e incontrando decine di ragazzi di origine straniera che hanno raccontato la loro esperienza di giovani che stanno crescendo nel nostro Paese. Ancora, ecco, due iniziative molto interessanti nelle Marche, del Centro educativo alla mondialità di Montecosaro, in provincia di Macerata, e ci sono qui credo una trentina di ragazzi che sono venuti stamattina in pullman dalle 7.30, ragazzi di origine africana che volevano appunto testimoniare la partecipazione a questo grande evento, che li ha raggiunti attraverso la mostra che è stata allestita da loro poche settimane dopo la conclusione del Meeting dell’anno scorso. E poi ancora, Il Centro ambrosiano di studi religiosi di Seveso, che ha allestito la mostra coinvolgendo le comunità ortodosse, la comunità serba, la comunità rumena, la comunità russa, la comunità bulgara, che abitano nella zona di Seveso, in provincia di Milano, facendo un concerto e anche invitando i responsabili delle varie comunità etniche a far parte di questo grande movimento di vita. E poi ancora l’Associazione culturale “Ingenua baldanza” a Piacenza, con la partecipazione del vescovo locale. Oltre a tutti questi grandi eventi, la cosa che ci piace dirvi è che la mostra è stata incubatore di grandi amicizie, amicizie tanto grandi quanto inattese che sono nate per esempio con questa donna, Valeria Khadija Collina. Valeria, dopo il grande dolore per la morte del figlio – uno degli autori dell’attentato al ponte di Londra, dove sono state uccise otto persone, in cui poi lui è rimasto ucciso da parte della polizia londinese – aveva accettato di raccontare la sua esperienza in un video della mostra sulle nuove generazioni, e dopo questo video è iniziato un rapporto, un bellissimo rapporto di amicizia, di dialogo e anche di desiderio suo, che poi racconterà per chi è interessato in un altro incontro che c’è alle 19:00 qui al Meeting, di desiderio di riscatto, di desiderio di lavorare insieme a noi per l’educazione delle giovani generazioni, per l’educazione alla convivenza, per l’educazione alla comprensione che la diversità è qualche cosa che può arricchire la società e non è soltanto una minaccia. Anche con lei appunto è nata questa amicizia che sta continuando anche con iniziative educative nelle scuole, nelle parrocchie, come pure con don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile “Beccaria” a Milano, che è il grande padre di molti giovani di seconda generazione che sono finiti in carcere per vicende varie e che ha incontrato noi in occasione della mostra e ha incontrato anche Valeria Collina e con la quale insieme stanno pensando a dei progetti di educazione nelle scuole. E ancora, l’amicizia con Paolo Cevoli, l’attore che questa sera molti andranno a vedere, che ha messo in scena uno spettacolo sulla Bibbia, rivisitata a modo suo e che dopo averci conosciuto in occasione della mostra dell’anno scorso, ha voluto incontrare alcuni dei giovani protagonisti della mostra per capire da loro che tipo di reazione avevano al suo modo di interpretare la Bibbia, al suo modo dissacrante e nello stesso tempo interessante di guardare ai grande personaggi dell’Antico Testamento, che impressione faceva a loro questo suo modo di raccontare la Bibbia, a persone di culture diverse, anche di religioni diverse, musulmani, ortodossi, e anche agnostici. E infine, e concludo, altri momenti, che sono stati pranzi, cene, gite, momenti di socialità, momenti di amicizia. Amicizia è la parola fondamentale che ci ha legato dopo questa mostra e che continua ancora oggi e che è il desiderio che noi vogliamo comunicare a tutti voi, la possibilità che l’amicizia diventi espressione di una vita in movimento, cioè di una vita che, a partire dagli incontri che abbiamo fatto, possa segnare con una testimonianza piccola ma significativa, quello che è il titolo del Meeting di quest’anno, cioè che dal desiderio di ciascuno di essere felice possa anche nascere un modo nuovo di stare insieme, un modo diverso, un modo positivo, in cui l’altro non è una minaccia, in cui l’altro è una risorsa, soprattutto se io decido di stare con lui, di incontrarlo, di guardarlo e di provare a muovere dei passi insieme. E questo può portare anche al cambiamento della storia, al cambiamento della società. Adesso iniziamo ad ascoltare queste sette brevi testimonianze, di persone molto diverse, come vedrete, come provenienza, come cultura e anche come fede religiosa, ma tutte colpite da questo modo basico, esperienziale con cui la mostra li ha raggiunti, li ha colpiti al cuore, potremmo dire, cioè ha mosso il loro cuore e loro a loro volta sono diventate persone che hanno mosso quelli che hanno incontrato. Il primo che parlerà sarà un giovane di diciotto anni, si chiama Dialla Zaia Diarra, ed essendo il più giovane tra noi gli facciamo un grande applauso. Ha diciotto anni, arriva dal Mali, dopo un’avventura dolorosa che gli ha fatto attraversare molti paesi dell’Africa e poi la Libia e poi il Mediterraneo, e poi è entrato in un centro di accoglienza ed ha intercettato la nostra esperienza andando a visitare la mostra sui migranti che il Meeting aveva ospitato due anni fa, “Migranti: la sfida dell’incontro”, poi è diventato guida di questa mostra, perché ha riconosciuto dentro quelle fotografie, dentro quelle immagini, dentro quelle parole, qualcosa di sé, qualcosa che appartiene alla sua esperienza. E quindi è diventato guida e poi è stato preso in carico, ospitato, preso in affido e poi adottato da una famiglia italiana; oggi è cittadino italiano e adesso ci racconta quello che gli è successo.

DIALLA ZAIA DIARRA:
Buonasera. Mi chiamo Dialla e sono qui in Italia da tre anni, vivo con la mia nuova famiglia da circa un anno. Il mio viaggio è stato lungo, difficile e pieno di pericoli. Nei primi due anni in Italia ho avuto momenti di scoraggiamento e di solitudine e nonostante gli aiuti che ho avuto da diverse persone, ogni tanto mi chiedevo per quale motivo Dio mi avesse lasciato vivere, a differenza dei miei fratelli che sono morti nel deserto o nell’acqua del Mediterraneo. Però da un incontro inaspettato e da uno sguardo d’amore, la mia vita è cambiata, è iniziata la piena realizzazione della mia persona. Rispetto alla mostra “Migranti: la sfida dell’incontro”, ho accettato di impegnarmi perché mi aveva invitato un’insegnante della mia scuola, Fatima, per conoscere meglio il fenomeno dell’immigrazione e mi sembrava anche una buona occasione di integrazione. Però non mi aspettavo tutta la ricchezza che sarebbe accaduta in me. Io ed altri quattro studenti abbiamo incontrato, nell’ufficio di Maria Muscherà, la nostra preside, la donna che stava organizzando la mostra a Messina. Si chiamava Annamaria e cercava dei ragazzi che fossero testimoni di quel viaggio, da preparare come guide. È nata subito un’amicizia tra di noi. Dopo, alla fine della mostra, lei, i suoi figli Paolo e Matteo e suo marito Angelo mi hanno accolto subito a casa loro, come se facessi parte da sempre della loro famiglia. Dopo due settimane mi hanno invitato a trascorrere una giornata insieme e alla fine della giornata Annamaria mi ha proposto: «Dialla, ti piacerebbe venire a vivere con noi, non solo nel fine settimana ma per sempre?». All’inizio non ero sicuro che fosse la scelta giusta per me, ma dopo qualche giorno ho detto di sì, perché ho capito di essere voluto bene per quello che ero, dentro tutte le diversità reciproche, che all’inizio mi sembravano molto difficili da superare. Anche la differenza religiosa non era un problema, anzi sono stato invitato a riprendere quotidianamente le mie preghiere dai miei nuovi fratelli, cosa che non facevo da quando ero arrivato qui in Italia, ed anche a frequentare la moschea, dove Annamaria, da cristiana, mi accompagnava volentieri. Questa cosa è nata perché loro, prima di mangiare o di dormire, pregano insieme; così i miei fratelli mi hanno chiesto se anche io avevo delle preghiere nella mia religione, così potevamo pregare tutti insieme; e così è nata questa cosa. Dopo qualche mese ho iniziato ad interessarmi anche della fede cristiana, siccome mi attirava il modo di vivere la fede che era dentro la mia famiglia. Poi, dopo qualche mese, quando andavamo insieme alla messa, mi accorgevo che rimanevo sempre più colpito e affascinato perché mi accorgevo di uscire sempre più ricco dalla chiesa di come entravo e così dopo qualche mese ho deciso liberamente di abbracciare il cristianesimo. Tutta la mia persona viene valorizzata e le mie aspirazioni prese sul serio, così ho deciso, ho avuto il desiderio di studiare pienamente. La comunità di cui la mia famiglia fa parte mi ha accolto pienamente e sono nate anche delle nuove amicizie nei luoghi che frequento. Per la gratitudine di quello che mi è accaduto ho iniziato a fare caritativa aiutando altri giovani migranti con l’alfabetizzazione della lingua italiana, grazie alla mia conoscenza del francese e delle altre lingue africane. Così durante l’affido sono stato adottato e sono diventato cittadino italiano. Adesso posso dire che è valsa la pena affrontare quel viaggio. La mostra diceva che occorre cambiare il proprio sguardo invece di pensare ad una soluzione, per trovare una soluzione per risolvere il problema della immigrazione. E questo cambiamento è avvenuto in diverse persone che si sono coinvolte con la mostra. La vita è cambiata, sia delle persone che sono state accolte, sia delle persone che hanno accolto. Mi colpiva il fatto che durante il percorso della mostra, che abbiamo presentato a Messina, la gente veniva con uno sguardo pieno di pregiudizio o era indifferente ma alla fine usciva con un altro sguardo. E sono nate anche fiducia e speranza in diversi giovani migranti. Anche io, dopo aver fatto vedere un video di testimoni, sono diventato un testimone della possibilità di rinascita. In seguito ad una festa organizzata a conclusione della mostra, è nato il corso di alfabetizzazione ed altri gesti che sono diventati occasione di incontro e un altro giovane viene accolto in una famiglia della comunità. È un’amicizia in cui le persone hanno aperto le loro proprie case e spalancato l’orizzonte ad una vita nuova. Grazie.

GIORGIO PAOLUCCI:
Grazie Dialla. La parola adesso a Raymond Bahati, che abbiamo incontrato due anni fa, sempre in occasione della mostra sui migranti, che ci ha permesso di conoscere la straordinaria esperienza sua, personale e del coro Elikya, un coro fatto da più di cinquanta giovani provenienti da 14-15 Paesi, che attraverso la musica testimonia che è possibile che la diversità diventi un elemento di ricchezza, un elemento di arricchimento attraverso la bellezza delle persone che cantano e suonano insieme. Poi è stato molte volte testimonial sia della mostra sui migranti sia della mostra sulle nuove generazioni e direi che il suo coro, il coro Elikya è proprio un laboratorio di convivenza, nel senso che ci sono dentro giovani italiani, giovani di origine africana, latinoamericana, asiatica, che insieme testimoniano questa possibilità della positività dell’incontro tra culture diverse. Vai Raymond.

RAYMOND BAHATI:
È una gioia immensa essere qui a condividere con voi questo incontro tra i popoli. Proprio questo scaturisce dalla bellezza delle diversità che ognuno di noi ha dentro di sé e se le mie parole potessero avere un po’ di forza e di energia mi piacerebbe che facessero onore a tutta questa comunità e a voi che avete voluto che noi fossimo qui a condividere con questa bellezza dei popoli ciò che siamo e ciò che vogliamo veicolare. È bello, ammiravo con profondità il mio fratello Diarra quando parlava. Mi son chiesto tra me e me: «Tre anni e riesce già ad esprimersi così?». Quindi è un complimento e un incoraggiamento per tutti quelli che provengono da realtà linguistiche diverse, che cercano di includersi tramite la lingua, la lingua italiana in questo caso, proprio un mondo nuovo e bello, nelle sue diversità. Che cosa è scaturito in noi otto anni fa? Otto anni fa scaturì l’intento di coniugare religioni diverse, nazionalità diverse, generi diversi… generi diversi mica tanto, perché quando il 95 per cento del gruppo è composto da donne, son guai, quindi, con tutto il bene che gli vogliamo, devi gestire con cautela proprio ogni cosa che esce dalla tua bocca, saper sempre dire di sì. Io sono un valsasnat, della Valsassina, sopra a Lecco, di Pasturo. Noi montanari – strano per un africano dire montanari, comunque – noi montanari abbiamo un approccio di interazione un po’ particolare. Due anni fa mi recai proprio a Santa Caterina Valfurva, in Valtellina, a sciare, e incontrai un signore di ottant’anni, con cinquant’anni di matrimonio dietro le spalle. Ammiravo il loro amore, erano sempre vicini vicini, si sbaciucchiavano ancora e io dicevo «wow, wow, wow». E chiesi proprio all’uomo, «ma, signor Franco, qual è il segreto del vostro amore?». Avvicinandosi a me, bisbigliando, un occhio ovviamente alla moglie, disse: «Devi sempre dire di sì». Quindi, col sì mi ha aiutato a capire anche una dinamica culturale. Perché questa introduzione? Per far capire che l’osservazione è l’elemento primordiale per accogliere l’altro, e conoscere l’altro. In questa realtà abbiamo ragazzi musulmani, cristiani cattolici, evangelici, non credenti; abbiamo 14 Paesi diversi da tutto il mondo, ma si riesce a coniugare quelle diversità – con tanta fatica, sarei ipocrita se dicessi che tutto va liscio, assolutamente no – con fatica, pazienza e capacità di osservazione. Questo ha fatto sì, anche per me, di mettere in pratica tutto il mio cursus universitario – sono laureato in psicologia alla Cattolica – e mi son chiesto sempre, tra me e me, «a cosa serve questa psicologia?». Mia mamma mi dava del matto quando scelsi proprio la facoltà di psicologia: «A cosa ti servirà?», mi chiese. «Mamma non lo so, boh, vedremo». E mi sono accorto che proprio questo laboratorio, non soltanto canoro, ma soprattutto sociale, ha fatto sì che si riuscisse a coniugare queste diversità, e da due anni si sono aggiunti i nostri fratelli e sorelle di seconda generazione. E lì si è completato un sogno: perché è una conseguenza logica della percezione dell’altro. Quando l’altro viene accettato con amore, quando l’altro viene biasimato, rimproverato con amore, lo capisce, e accetta di far parte di quella comunità, di quella realtà sociale. Se tutti noi vivessimo, interagissimo in una stessa realtà culturale, saremmo piccoli così. Noi ci arricchiamo soltanto quando interagiamo con chi è diverso da noi. La nostra ricchezza si attinge proprio nel diverso: chi pensa diversamente da me, chi mangia diversamente da me, chi prega diversamente; è questo che ci arricchisce, se no effimeri siamo nel nostro piccolo, nel nostro orticello, pensiamo che il mondo sia così, piccolissimo così. Ecco perché io ringrazio questa proposta del Meeting, con una attenzione mirata proprio a questa realtà. La Chiesa parigina, francese, quando scoppiò il problema delle banlieues, a Parigi, a Lione, eccetera, fece un mea culpa. Disse tra sé e sé: come mai non siamo riusciti a recepire, a percepire questo cambiamento di terza, quarta generazione? Come mai non siamo riusciti a scrutare in profondità qualcosa che sotto sotto bolliva? E mi son chiesto tra me e me: l’Italia ha questa fortuna di imparare dagli errori degli altri, il quid è proprio questo. Noi concentriamo la nostra mente a questo fattore o vogliamo continuare a fomentare confusione nella mente di un popolo? Ecco perché ci tenevo a concludere leggendovi qualcosa. Tre mesi fa, una casa editrice italiana mi contattò per scrivere un libro sulla mia esperienza di seconda generazione, di inclusione interculturale eccetera. Mi sono messo a scrivere da tre mesi, e stamattina, pensando a ciò che avrei dovuto dire, mi son messo a scrivere, e mi son chiesto: io, congolese, ormai da 17 anni in Italia, che cosa ho recepito, che cosa ho accolto e che cosa ho dato e posso dare? E mi è venuta questa parte, che tengo a condividere con voi. «Io mi chiedo, io mi domando come fa un colore a suscitare una tale avversità, un tale disprezzo, un annichilimento da parte dei comuni mortali. Esseri fatti di carne e di sangue, di ossa e di cervello, perché, o fratelli, disgustate il buio? Perché, o sorelle, rigettate la luce nera? Perché, o amici miei, rinnegate il potere dell’universo? Ciò che fa brillare le stelle è l’oscurità dell’universo. Ciò che fa risaltare i colori sgargianti è proprio il nero assoluto. Non c’è luce senza buio, non c’è bianco senza nero, perché su di essi vi accanite? Perché su di essi vi arricchite? Perché questo odio per il diverso, perché questa paura, perché su di esso voi avete la vista? Non ho scelto io di vestire la mia carne di nero, non ho scelto io di nascere nel continente più bello del mondo, non ho scelto io di crescere nel continente più impoverito del mondo, non ho scelto io la terra in cui è nata l’umanità e nella quale l’umanità troverà la sua salvezza. Dicono che il nero sia l’impressione visiva che viene sperimentata quando nessuna luce visibile raggiunge l’occhio. Vuol dire che la gente guarda, e cerca nel posto sbagliato. Se le persone osservassero e scrutassero bene, vedrebbero il cumulo di tutta quella luce che esiste nell’universo, tutto rinchiuso dentro un solo posto: il cuore, il cuore di ogni uomo. Io non sono nero. Sono i vostri pigmenti che assorbono la luce invece di rifletterla, di riflettere il bene. Danno luogo alla visione del nero, probabilmente i bambini – i bambini piccoli – non fanno caso a queste differenze, perché non sono stati ancora contagiati e corrotti dal processo naturale e sociale del pregiudizio, e riescono ancora a riflettere quella luce; oppure perché non si sono ancora ribellati alla purezza, ovvero alla luce. O ancora perché hanno capito che è solo con l’incontro e la conoscenza dell’altro che si riesce a vedere il riflesso della luce che c’è nel prossimo. Io sono nero e se guardaste bene vedreste quella luce nera che riflette il nero della mia pelle, e io sono nero perché la mia perfetta pelle mi protegge contro quei raggi solari che qualcuno nonostante il deficit di melanina ne va a caccia, distruggendo così l’equilibrio di difesa del proprio corpo contro i raggi ultravioletti, per poi essere costretto a ricorrere alla tossina botulinica, per rimanere giovane. Nero ero, nero sono, nero sarò. Dalla terra sono stato creato, dalle trincee di quella terra morirò e dalla terra rinascerò. Oggi questo humus è stato depredato, a causa dell’avarizia dell’umano, a causa dell’egoismo dell’uomo. Oggi quella terra è stata strappata ai suoi figli: hanno tolto il nero alla nera, per accaparrarsi il potere. Chi sono io, o figli di mia zia (che siete voi)? Perché su di me gettate fango, siamo sangue dello stesso sangue, carne della stessa carne, figli di Lucy – quella Lucy, la bisnonna vissuta tre milioni di anni fa nella terra di Adar. Mi avete cacciato via, ed io vi ho accolto a casa mia. Senza il mio permesso. Mi avete rifiutato il cibo ma io ho nutrito il vostro palato col dolce cioccolato senza essere libero di discuterne il prezzo. Mi avete privato dello sviluppo ed io vi ho lasciato estirpare dalla terra tutti i minerali che portano avanti la vostra economia. Non abbiamo mai voluto tenerli per noi stessi. Non perché siamo incapaci di sfruttarli ma perché i nostri antenati ci hanno insegnato, prima che arrivasse la colonizzazione, di condividere tutto ciò che l’humus ci ha donato, per il benessere di tutta la comunità – che fa rima con umanità.
L’augurio è proprio questo: che ognuno di noi riesca a vedere nell’altro la luce di Dio, che è la bellezza». Grazie.

GIORGIO PAOLUCCI:
La parola a Novella Zavatta, un’altra diciottenne tra noi, che abbiamo incontrato l’anno scorso in occasione della mostra delle nuove generazioni. Lei ha fatto la guida, ha conosciuto tante persone, è rimasta affascinata da questa amicizia che stava nascendo proprio nei giorni del Meeting, e poi è diventata insieme ad altri protagonista di una cosa bella, significativa, importante che è accaduta a Rimini.

NOVELLA ZAVATTA:
Ciao a tutti. Io ho diciott’anni e frequento il liceo classico a Rimini. L’anno scorso ho fatto la guida alla mostra delle nuove generazioni, perché mi ha sempre affascinato tantissimo la possibilità di incontrare persone diverse da me, in particolare di religioni diverse. Avevo tantissime paure prima di spiegare questa mostra, perché mi sento sempre abbastanza inadeguata, però la cosa bella è stata che queste paure sono state subito mandate via dal fatto che ci fossero veramente persone interessate a me, cioè veramente persone che mi volevano bene e che non guardavano quello che facevo. Per cui mi sono sentita stimata e amata semplicemente perché c’ero. E questo ha cambiato completamente il modo che io ho sempre avuto di guardarmi, che è sempre stato pieno di misure. Nella trama di questi rapporti ho ricevuto una ricchezza impressionante e in particolare dal dialogo con questi ragazzi musulmani, anche con dei ragazzi universitari cattolici, e in particolare anche nell’amicizia con Luna. Stando con loro, la cosa che veniva fuori era proprio chi io fossi veramente, perché ero sempre obbligata a dare le ragioni di chi fossi, ed ero sempre provocata in tutte le mie domande e nelle cose che mi circondavano. Per cui, ciò che è successo dopo è stato semplicemente un seguire quello che accadeva, nel senso che non potevo smettere di dire di sì alle frequentissime occasioni che abbiamo avuto di vederci. Infatti ero ogni mese a chiedere ai miei genitori di poter andare a Bologna, a Milano, a Forlì a incontrare queste amicizie che mi avevano rubato il cuore. È stato bellissimo perché questo mondo che io avevo visto in loro non potevo più scordarmelo e mi ha rilanciato tantissimo anche nel rapporto coi miei amici, con cui facevo fatica, e nel rapporto con i miei professori, e nello studio. Nonostante questo, sentivo comunque una fatica, perché quella bellezza non ce l’avevo, per cui ero proprio desiderosa di portare quello che avevo incontrato e grazie all’aiuto di tantissimi adulti abbiamo proposto di fare un incontro in consulta provinciale, e dopo sei mesi – perché ci è voluto veramente tanto per organizzarlo – abbiamo portato questo incontro in consulta con novecento studenti, ed è stato un incontro impressionante, perché è stato veramente evidente come quello che aveva cambiato me potesse cambiare tutti. C’erano novecento ragazzi in silenzio per tre ore e mezza, e alla fine dell’incontro tutti chiedevano che andasse avanti, e dopo tre ore e mezza di incontro c’era un fiume di persone che si erano fermate a fare tantissime domande ai relatori. È stato veramente bello, però questa è stata una delle tante occasioni che abbiamo avuto, perché, come diceva prima Giorgio, ci sono stati tantissimi momenti in cui rivederci e approfondire queste amicizie.
Quello che rimane a me è proprio questa esplosione di vita, che continua a essere ridestata da questa semplicità di un’amicizia che mi ha cambiato e continua a cambiarmi ogni giorno. Grazie.

GIORGIO PAOLUCCI:
Grazie, Novella. Abbiamo tra noi anche due insegnanti che ci raccontano che cosa è accaduto nella loro scuola quando la mostra è arrivata, ma soprattutto cosa è accaduto dopo, che impatto la mostra ha generato, che novità ha portato. La prima è la prof.ssa Giovanna Bacciocchi, che insegna all’Istituto Marignoni-Polo di Milano. Dico solo una cosa: quando siamo entrati, la mattina, per fare l’assemblea con 250 studenti, io ho chiesto al preside «ma qui sono molti gli studenti stranieri?» e lui mi ha detto «beh, veramente gli italiani sono il 48 per cento, e il 52 per cento sono stranieri», e quindi è stato impressionante anche in questo confronto che c’è stato vedere la misura di che cosa sta succedendo in Italia, che cosa sta succedendo in una città certamente avanti in questo processo di multietnicità come Milano, ma che piano piano sta contaminando tutto il nostro Paese. È interessante ascoltare da Giovanna la dinamica che è accaduta dopo aver visitato la mostra al Meeting.

GIOVANNA BACCIOCCHI:
Buongiorno. Ecco, come dice Giorgio, quello che vi racconto è cominciato l’anno scorso, qui al Meeting. Io ho visitato la mostra “Nuove generazioni” e alla fine della mostra ho detto: questi sono i miei alunni. La mostra mi ha aiutato a capire, a comprendere, ha aperto uno squarcio nella realtà che io frequentavo – io da qualche anno insegno al Marignoni, per cui mi ha illuminato. E in più mi è rimasto impresso la positività con cui i protagonisti della mostra raccontavano le loro vicende, le loro storie, anche dense, di contraddizioni, anche drammatiche, ma alla fine l’ultima parola era una positività, una speranza. E quindi ho desiderato che i miei colleghi potessero fare quella stessa esperienza, e ho desiderato quella positività per i miei alunni. Così ho pensato di portare la mostra a scuola dove insegno. Ho chiesto al preside, il preside apertissimo, “sì”, in più ha rilanciato la sfida: «Questa mostra la porteremo in altre scuole della città di Milano», perché la nostra scuola partecipa a un coordinamento di scuole per la legalità e la cittadinanza – le scuole si incontrano, fanno incontrare i loro alunni in convegni, etc. Così abbiamo allestito la mostra nella nostra aula magna, e abbiamo scelto di far visitare la mostra a tutte le classi della nostra scuola con delle guide specialissime: le guide sarebbero stati gli alunni di due nostre classi del corso regionale – noi abbiamo l’Istituto tecnico per il turismo che è la punta di diamante, poi abbiamo il Corso professionale per il commercio, e poi abbiamo il Corso regionale di tre anni, che forma gli operatori per l’accoglienza turistica, ed è il livello più basso della scolarizzazione italiana. Sono ragazzi con grandissime difficoltà personali, familiari, e anche con gravi insuccessi scolastici alle spalle, insomma: la scuola e i libri li vorrebbero bruciare. Allora noi abbiamo deciso che due delle nostre classi sarebbero state le guide; ma non un lavoro di fianco alla scuola, un lavoro di scuola, perché non si fanno solo i programmi scolastici in questo tipo di percorso, soprattutto si fanno dei lavori multidisciplinari, e tutte le discipline contribuiscono allo sviluppo di una problematica, e poi vengono date valutazioni intermedie e una valutazione finale a un lavoro originale di ogni ragazzo. La valutazione finale sarebbe stata la valutazione delle guide a questa mostra. Allora abbiamo cominciato a prepararli durante le mie ore – io insegno scienze, ma ho dato volentierissimo le mie ore – e abbiamo cominciato a studiare la mostra, e i ragazzi hanno cominciato a familiarizzare coi protagonisti della mostra. Se all’inizio il disinteresse – solite lezioni, disinteressate, cellulare, ognuno si faceva un po’… – pian piano hanno come alzato lo sguardo: io ho visto questi ragazzi intercettare qualcosa che li colpiva, e hanno cominciato a familiarizzare con i protagonisti della mostra. Noi stessi insegnanti abbiamo utilizzato il metodo della mostra: per esempio abbiamo chiesto ai ragazzi di domandare a casa, ai loro familiari, il motivo per cui erano arrivati in Italia e perché li avessero portati in Italia, e di raccontarlo in classe. Abbiamo visto un passo in questi ragazzi, hanno cominciato a raccontare di sé, uno a uno, oralmente, in classe, e sono stati ascoltati dagli altri. Non è banale: i nostri alunni arrivano alla fine dell’anno senza conoscere il nome dei loro compagni di classe, spesso accade. In più, chi raccontava ha cominciato a dare valore alla propria esperienza, perché si è visto ascoltato, e quindi ha dato valore a sé. E, ultima cosa, ha cominciato a percepire che la propria condizione di nuovo italiano, con doppia identità, nuova generazione, non era motivo di isolamento, non era un presupposto di isolamento, ma poteva essere motivo di condivisione. Poi abbiamo aiutato i ragazzi a presentare la loro personale presentazione alla mostra – un po’ come le guide fanno qui al Meeting – e abbiamo chiesto che facessero una presentazione sommaria, e poi scegliessero un protagonista della mostra che avrebbero dovuto consigliare ai visitatori. E allora lì abbiamo visto che i nostri ragazzi hanno trovato gli strumenti per conoscere sé e per raccontare di sé, perché sceglievano e hanno scelto le parole di quella ragazza all’inizio del filmato: «Noi dobbiamo dimostrare che possiamo contribuire a migliorare la società». I nostri ragazzi faticano a capire se stessi, faticano a capire la condizione in cui si trovano, faticano a capire quello che desiderano, quello che confusamente percepiscono: hanno trovato gli strumenti. Hanno scelto Abdul, che poi sentirete parlare. Ma non ripetevano le parole così, meccanicamente: facevano parlare, avevano finalmente trovato qualcosa. E hanno anche cominciato a credere possibile, osare di sperare di poter diventare protagonisti della propria vita, proprio come hanno fatto – grande o piccola che sia la propria vita – i protagonisti della mostra. Poi, sempre nella preparazione alle guide hanno incontrato Giorgio, che gli ha fatto incontrare anche Luna e Maruel, un altro ragazzo protagonista della mostra. Lì è stato un altro passo ancora, l’asticella si è alzata. Perché loro, quello che avevano visto nei video, l’hanno visto in carne ed ossa. Hanno voluto, alla fine dell’incontro, conoscere Luna, conoscere Maruel – i nostri ragazzi incontrano tantissima gente che passa nelle nostre scuole a fare tanti tipi di discorsi, ma raramente si fermano a volerli conoscere. Addirittura, hanno voluto raccontare le proprie vicende. In più, alcune parti della mostra sono state studiate dai ragazzi insieme ai docenti delle varie discipline, per cui la sezione della cittadinanza è stata studiata in diritto; con l’insegnante di matematica hanno fatto l’analisi statistica delle presenze, delle provenienze nella nostra scuola; poi con l’insegnante di informatica hanno fatto i grafici, e noi abbiamo fatto una sezione della mostra che poi Paolucci ci ha approvato – abbiamo aggiunto un pezzettino: le nuove generazioni. Al Marignoni, ci siamo montati un po’ la testa! Questi ragazzi hanno capito che le materie scolastiche parlano della vita, che aiutano a comprendere sé e il mondo, si sono appassionati al diritto e alla matematica – ragazzi che normalmente vengono a scuola perché obbligati. In più i nostri ragazzi hanno fatto le guide per tutte le nostre classi, e quello che avevano intuito l’hanno portato davanti ai loro compagni di scuola più grandi, anche sostenendo domande provocatorie. Poi il passo successivo: abbiamo partecipato a un convegno con altre scuole e abbiamo portato la mostra al liceo Severi-Correnti – cioè, il top della scolarizzazione italiana! E i nostri alunni hanno fatto da guide. E io ho visto un clima di incontro: i giovani si incontrano, ho visto i liceali tempestarli di domande, e i nostri alunni non ritrarsi di fronte a questo. Voglio dire: non è che sia stata una marcia trionfale questo che vi racconto, però queste cose le abbiamo viste noi insegnanti. Ho visto un clima di reciproca curiosità, di reciproco incontro, un clima sereno. In più, tre nostre alunne hanno partecipato a questo convegno raccontando la loro storia con quella positività, con quella speranza, che io avevo visto nei protagonisti del Meeting.

GIORGIO PAOLUCCI:
Allora, essendo stata evocata più volte, diamo la parola a Luna El Maataoui, che è arrivata piccolissima dal Marocco in Italia, è cresciuta qua nella provincia di Parma, l’abbiamo incontrata in occasione della costruzione della mostra sulle nuove generazioni girando un video nella sua scuola a Fornovo di Taro, e poi è nata questa grande avventura: lei è venuta al Meeting, ha conosciuto la mostra e soprattutto il Meeting, ed è diventata poi in questi mesi una delle testimonial di questa grande esperienza di amicizia che sta girando un po’ nel nostro Paese.

LUNA EL MAATAOUI:
Innanzitutto: siete bellissimi. Perché tra di voi vedo molti dei volti che ho incontrato in quest’anno ed è bellissimo. Io sarò molto breve perché che dire di più di questo? Io un anno fa, forse per incoscienza, ho detto di sì ad una voce al telefono che mi chiedeva di venire al Meeting e non sapevo cosa fosse il Meeting. Qualche mese dopo ho detto di sì, questa volta a Giorgio Paolucci, che mi chiamava per chiedermi di andare a fare un incontro in una scuola ed è stata una decisione, non era più per incoscienza, non era più per curiosità ma era una decisione. Cioè io ho deciso che volevo andare insieme a Paolucci nelle scuole. Perché dico una decisione? Dico una decisione perché una decisione vuol dire riflettere, vuol dire domandarsi il perché voler fare una cosa. E io volevo andare a parlare nelle scuole, anche se ancora non sapevo come dirlo, esattamente per quel motivo là, cioè «le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice». Ora io non è che la dicevo così bene nella mia testa, però la motivazione per cui io volevo andare nelle scuole era per una mia ricchezza, io non volevo salvare nessuno, volevo scoprirmi e riscoprirmi attraverso domande dei ragazzi. Questo perché? Perché era accaduto al Meeting, perché un anno fa io ero entrata dalla porta del Meeting con la certezza, con la convinzione di conoscermi, di sapere già chi ero, di sapere già le mie tradizioni, le mie radici. Io già sapevo tutto di me. Però attraverso le domande di chi avevo di fronte, mi stavo rendendo sempre più conto che tante cose mi erano passate sotto gli occhi senza vederle e questa cosa per me era formidabile. Cioè immaginate, rendersi conto all’improvviso che l’unico modo per conoscersi veramente è stare di fronte ad un’altra persona, è stare di fronte alle domanda di un’altra persona. Bellissimo! Ma anche nella banalità. Mi ricordo di una signora al Meeting l’anno scorso che mi chiese: «Ma il cous cous come si fa?». Una banalità. Eppure mi ero resa conto che mi mancavano due o tre passaggi, infatti dissi: «Chiamo mia mamma e le faccio immediatamente sapere!». Questo per me è stata una grandissima ricchezza, capire che l’altro è un bene, e questa era la motivazione principale per cui io dissi a Giorgio Paolucci: «Sì, io vengo a parlare nelle scuole». E vi assicuro che non è facile, perché ci si mette a nudo, ci si mette di fronte alle persone nell’interezza della propria identità, nell’interezza della propria storia, drammatica, difficile, bella. Ma quale storia non lo è? Ma è difficile, difficile perché tu guardi il viso di uno sconosciuto e hai paura. Hai paura di parlare di te con uno sconosciuto, hai paura che quella persona ti giudichi. Invece non accade e io mi sono chiesta perché questa cosa non accade, perché tutte le volte che sono andata a parlare in una scuola, non mi sentivo giudicata, ma mi sentivo accolta e mi sentivo voluta bene, mi sentivo stimata. Perché? Perché l’incontro che avveniva era un incontro libero, di due identità, e io non avevo, io tutti i protagonisti della mostra, Giorgio e le persone che avete di fronte, non avevano il desiderio di rispondere a delle domande, ma di suscitare delle domande. Perché io andavo nelle scuole e dicevo: «Bene, io vi ho raccontato chi sono, ma voi chi siete?». Questa è una domanda molto importante, che molto spesso ci dimentichiamo di fare alle persone, cioè tu chi sei? Qual è la tua storia? Quando si parla a questo livello avviene un reale incontro. È l’incontro di due esperienze, e dovete assolutamente provarlo, perché è qualcosa di straordinario, difficile perché lo è, non lo nego, perché si è di fronte alle parti più profonde e intime di sé, ma necessario e io in questo anno l’ho capito, dopo di che io mi auguro di poter parlare con ciascuno di voi, anche se mi rendo conto che è un casino, nei prossimi giorni, magari qui al Meeting o in altre occasioni e lascio lo spazio agli altri, perché penso che ci sia ancora tantissimo da raccontare. Grazie.

GIORGIO PAOLUCCI:
Marilena Pelonero insegna allo studio comprensivo Pietro Leoni di Caltanissetta ed è stata protagonista anche lei di una esperienza molto bella, non solo dal punto di vista didattico ma soprattutto umano, essendo arrivati ad un certo punto nella sua scuola dei ragazzi profughi, minori non accompagnati, che hanno posto delle grandi domande nella scuola e nella città e la mostra è stato un aiuto per rispondere a queste domande, per coinvolgere il sindaco, la cittadinanza, la scuola in questo grande processo di tentativo di incontro tra identità. Adesso ce lo racconta.

MARILENA PELONERO:
Buongiorno, ringrazio Giorgio Paolucci per avermi invitato, la cosa più bella è l’amicizia nata con lui, fatta di condivisione quotidiana di tutta la vita. Ecco allora perché ho accettato di raccontare quello che di bello ci è accaduto. Io insegno in una scuola secondaria a Caltanissetta, la realtà nella quale vivo è multietnica e multiculturale, in quanto la nostra città è un crocevia di arrivi di persone che scappano dai loro Paesi e vedono nella nostra realtà quasi una speranza, un barlume di salvezza. Molte di queste persone sono minori non accompagnati e frequentano la nostra scuola: di fronte a questa realtà avevamo solo due scelte, o la paura e semplice assistenzialismo o accettare questo come una vera e propria sfida per noi, come occasione di crescita umana e professionale. Abbiamo avviato un progetto dal titolo “scuola e persona” che ha lo scopo di valorizzare ogni persona a prescindere dal contesto culturale, economico di provenienza. L’origine del mio impegno è stata la provocazione umana e professionale che hanno rappresentato questi volti, che in realtà per me erano sconosciuti, per cui ho voluto cogliere la sfida di provare qualcosa di nuovo che non fosse l’indifferenza o la paura o il semplice cinismo. Partendo da una preoccupazione educativa, perché effettivamente questi ragazzi dovevamo inserirli a scuola, insegnargli la lingua, cercare di fare qualcosa per loro, siamo stati disponibili a guardare il bisogno intero di queste persone, che in realtà ci guardavano negli occhi e ci chiedevano soltanto di essere amati e voluti bene. Ma soprattutto il nostro desiderio è stato quello di vincere quelle paure e quei pregiudizi che erano intorno a noi, di metterci in gioco totalmente con una posizione umana e anche continua nel tempo perché in realtà questo progetto non si è chiuso all’interno della scuola, ma ha coinvolto le nostre famiglie ed è andato al di fuori delle mura scolastiche. Oggi si parla spesso di muri ma spesso questo succede perché non abbiamo il coraggio di vedere questa realtà e di giudicarla, di scontrarci anche dentro queste difficoltà. Questo è stato per me il punto di svolta decisivo nella mia vita, lanciarmi in questa che posso veramente definire avventura, perché all’inizio mi guardavano come un extraterrestre, sono arrivata lì con questi minori altissimi e dicevano «ma cosa sta accadendo», telefonate, difficoltà, però ci siamo stati dentro. In questo contesto la preparazione della mostra “Nuove generazioni” insieme alla mia collega di religione, ai miei alunni stranieri, è stata per me la possibilità di scoprire nella mia vita, come oggi sia possibile incontrarsi con persone di altre culture senza paura e di uscirne arricchiti umanamente e culturalmente. All’inizio dello scorso anno abbiamo accolto dodici minori non accompagnati facendo i conti con un ambiente popolato di paure, ma anche di tanta tanta disponibilità. Sin dai primi giorni abbiamo preparato l’accoglienza. Gli alunni avevano già fatto un percorso dal titolo “Cibo che unisce”, che consisteva in realtà nello stare insieme con persone provenienti da altre culture, scambiarsi le ricette, semplicemente parlare del proprio quotidiano. Alcuni hanno preparato delle torte, altri hanno realizzato delle bandiere dei Paesi di provenienza dei nuovi arrivati e dei cartelloni con le principali funzioni comunicative per farli sentire a casa.
Quando è iniziata la scuola, i genitori, forse suggestionati dai media, temevano per la sicurezza dei loro figli ma poi, conoscendo i ragazzi stranieri da vicino, hanno cambiato lo sguardo ed è diventato naturale invitarli a pranzo, al compleanno. Ancora vedo queste cose e mi commuovo, perché per i ragazzi i compleanni oggi sono le cose più importanti, è uno dei modi per stare insieme, quindi che un genitore li accolga a casa anche a dormire, è una grazia.
Alcuni di essi si presentavano spontaneamente da noi perché volevano fare da tutor, senza che nessuno di noi glielo chiedesse: «Prof. li vogliamo aiutare, sono nostri amici, devono imparare la lingua». Grazie al lavoro dei miei colleghi, degli altri docenti, paziente, difficile, il tutoraggio degli altri compagni, i ragazzi stranieri da un livello zero sono arrivati ad un livello A2, sono riusciti a fare un esame spettacolare in terza media, ricevendo i complimenti anche degli altri genitori che assistevano, e sono riusciti ad avere anche un nove, veramente meritato. Gli scritti di italiano erano bellissimi, la grande voglia di farcela ha superato le difficoltà oggettive e sono riusciti anche a fare le guide alla mostra “Nuove generazioni”. Tutte le attività sono state caratterizzate da un arricchimento reciproco delle culture che ha condotto alla scoperta per tutti di una identità arricchita senza la pretesa nostra e loro di cancellare le origini, come ci viene ampliamente sottolineato dalla mostra. L’amicizia con questi ragazzi continua oggi anche al di fuori delle mura scolastiche, spesso organizziamo delle partite multietniche, festeggiamo il compleanno, la Pasqua, vivendo dei momenti di bellezza e di armonia che non posso proprio descrivere. I ragazzi stranieri insieme ai compagni hanno voluto ringraziare per come sono stati guardati, anche facendo i volontari alla colletta alimentare: è stato bellissimo fare la colletta insieme, genitori, insegnanti e alunni italiani e stranieri. Adesso dirò soltanto cosa ha portato nell’ambiente in cui mi sono trovata: questo clima di apertura e amicizia ha contagiato tutti quelli che abbiamo incontrato, i ragazzi italiani e stranieri sono diventati protagonisti della mostra. Inizialmente con qualche difficoltà linguistica, ma ce l’hanno fatta: hanno voluto comunicare una identità arricchita nell’incontro e scambio con l’altro che è un bene per me. L’occasione si è presentata a fine maggio, quando abbiamo ospitato la mostra e abbiamo organizzato un convegno testimonianza dal titolo Inclusione e valorizzazione della persona: una sfida possibile, dove tutti coloro che operano per l’accoglienza e le grandi istituzioni, i genitori, la preside hanno voluto testimoniare che questa sfida non solo è possibile ma arricchisce la persona. Yussuf, mussulmano e protagonista del video della mostra, ha voluto ringraziare pubblicamente perché si è sentito amato e ha sentito nella scuola la famiglia con cui condividere non solo l’impegno scolastico ma le gioie e i dolori senza cancellare la propria umanità ma arricchendola di nuovi valori. Il risultato è stato sorprendente, perché è nata un’amicizia, una simpatia, una vera inclusione nel nostro contesto scolastico, sociale e umano. In questo mettersi in gioco, tanti problemi rimangono perché la realtà non possiamo dire che è facile, però siamo molto felici di questo. Abbiamo raccontato questa esperienza a papa Francesco che ci ha ricevuto in udienza privata come premio del nostro impegno. Con il suo sguardo paterno e il suo abbraccio ci ha invitato a continuare: io ho visto un padre per me che mi ha tenuta stretta per le mani e mi ha detto vai avanti.
Concludo con le parole che quel giorno ci ha detto ma il mio sguardo rimane scalfito soprattutto dal suo sguardo: «L’esperienza del dono educativo fa crescere umanamente e spiritualmente, aprendo la mente e il cuore. Così si costruisce la civiltà dell’amore». Grazie.

GIORGIO PAOLUCCI:
Abdoulaye Mbodj, gigante africano, l’ abbiamo conosciuto perché uno degli scopi della mostra era, dicevamo, cambiare la narrazione. Con i media impegnati a dire chi ha ragione sulla questione dell’immigrazione e con giornali, televisioni impegnati sempre a mettere in luce gli aspetti problematici che certamente ci sono, e che noi non abbiamo la pretesa di risolvere, spesso si dimentica quello che succede quotidianamente, cioè quello che è stato documentato oggi, cioè che ci sono giovani desiderosi di arrampicarsi e di arrivare esattamente come giovani nati in Italia. Questa è la storia di Abdoulaye Mbodj che è arrivato nel ‘91 nel nostro Paese, il padre vendeva accendini nella galleria Vittorio Emanuele di Milano, il cuore nobile della città, e poi dopo la prima delle sanatorie, la sanatoria Martelli, ha fatto arrivare qua la moglie e due bambini piccoli, e Abdoulaye cinque, sei anni si è trovato catapultato in una scuola della profonda provincia bergamasca, unico bambino straniero, unico bambino nero, in questo luogo e quello che lo ha salvato, ci raccontava, è stato l’incontro, l’amore con la maestra Zolmira, una maestra elementare che gli ha voluto bene, che ha puntato su di lui, che ha detto «tu vali», e avendo puntato su di lui lo ha aiutato a iniziare questa lunga ascesa nella società italiana che poi l’ha portato a frequentare il liceo, a scegliere la facoltà di Giurisprudenza all’Università Cattolica di Milano, a diventare poi primo avvocato di origine africana che opera nel tribunale, nel foro di Milano. E lo abbiamo incontrato per girare un video, perché volevamo con questa storia, come con altreche abbiamo documentato nella mostra, dimostrare che si può, che è possibile, e che si può soprattutto quando si incontrano persone che credono in te e che ti valorizzano. E poi è diventato uno dei testimonial della mostra e sta partecipando anche lui a questo piccolo giro d’Italia che è iniziato nel settembre dell’anno scorso e che continuerà.

ABDOULAYE MBODJ:
Grazie Giorgio, poi ho visto che come in udienza hai dato la parola finale all’avvocato della difesa, quindi grazie doppiamente, vedo che è come tornare in tribunale. Allora, a parte le battute, io ringrazio veramente il Meeting, tutti gli amici. Vedo anche qua facce note, la mia prof.ssa di Diritto civile prof.ssa Sciarrone Alessandra, in terza fila. È bello parlare davanti a volti amici, come tutti i presenti e soprattutto i colleghi della mostra che ci seguono e sono stati compagni di viaggio in questi dodici mesi. Allora io voglio dirvi una cosa. Giorgio ha già raccontato la mia storia, l’avete già vista nei video, nei filmati, quindi non ha senso per me farvi un doppione, non sarebbe neanche utile. Quello che voglio fare oggi in questi setti minuti, è raccontarvi cosa mi ha dato aver partecipato all’esperienza del Meeting in prima battura, ma poi al viaggio itinerante, al giro d’Italia, come diceva Paolucci e cosa secondo me ha lasciato alle persone, che secondo me è la cosa più importante. La prima cosa che volevo dire è che questa mostra che è stata organizzata da Paolucci e portata avanti al Meeting, è importante perché aumenta la nostra conoscenza della realtà. La realtà comunque, signori, o la governiamo o ci travolge, quindi quando tocchiamo questi temi o abbiamo voglia e sete di conoscere, oppure non usciremo dai nostri pregiudizi. Io l’ho visto girando l’Italia, da Arezzo, a Milano, a Piazza Repubblica: ho visto tanta sete di conoscenza, e questo è stato utile, perché secondo me con questa mostra, nel nostro piccolo, abbiamo dato alle persone delle coordinate anche antropologiche per capire. Questo è un fenomeno che non si può risolvere con le partite da bar sport che purtroppo abbondano. È un fenomeno che bisogna analizzare e studiare e le gente perché viene in queste “Sale Neri”? Forse perché è stufa di vedere quello che vediamo alla televisione. La gente vuole storie vere, accadute. Quello che ha detto Giorgio Paolucci è successo nella Milano del ‘91, cioè la storia dell’eroe, mio padre, e come mio padre Alì ce ne sono tantissimi, infatti io dico sempre che dobbiamo dire una preghiera per tutti quegli Alì che non ce l’hanno fatta e ce ne sono stati tanti. Ecco perché diciamo una preghiera per chi ce l’ha fatta ma anche per chi non ce l’ha fatta. Quindi la storia di mio padre è accaduta e la gente, quando ha paura, vuole vedere se la realtà riesce confutare quello che ha come pregiudizio, perché è un pregiudizio alla fine. Ecco, questa mostra ha avuto il merito di spezzare i pregiudizi, muri.
Io quando ho girato le scuole ero molto contento, perché la fascia di età delicatissima è quella dei sedici anni, è lì che cominciano a esplodere tutto quello che c’è nell’humus della società, è lì che cominciano le prime valvole di sfogo. Per questo sono stato molto contento. A Prato sono andato due volte, uno nelle scuole e una ad una giornata che è stata fatta in un oratorio con tantissime persone, perché secondo me è lì che dobbiamo cominciare a lavorare, perché signori fra trent’anni anni al Viminale ci sarà qualcun altro che adesso magari è alle scuole superiori, quindi cominciamo a gestire il terreno e a costruire le coordinate adesso, per capire quale sarà la società, l’Italia del 2030. E quindi la cosa che mi è piaciuta è che questo Meeting ribalta già il titolo. Quando Giorgio Paolucci mi ha chiamato in studio a corso Venezia, ho avuto il tipico atteggiamento, mi sono subito chiuso, ho pensato: «Cosa vorrà, perché mi chiama?». Quando è venuto e gli ho detto: «Giorgio, io voglio che mi spieghi cosa hai in testa, perché io non voglio venire a fare la storia strappalacrime di pietismo buono, io non svendo la storia di mio padre così. Se posso venire a fare una cosa utile la faccio». Vedete, quindi ho voluto capire, ci ho voluto mettere la testa. Quando lui mi ha spiegato «no, Abdou», già il titolo mi ha conquistato perché si dice “Nuove generazioni”, non seconde generazioni, perché sono nuove generazioni, è qualcosa di nuovo su cui questa Italia del 2018 deve cominciare a ragionare.
L’altra cosa che mi è piaciuta è che comunque erano tutte storie belle da narrare, la mia d’avvocato, quella del pizzaiolo che diceva io sono in Italia pizza e kebab, cioè storie molto belle, la storia di Luna, auguro anche a lei di diventare una collega del foro di Milano fra qualche anno. Erano storie belle, raccontate, che la gente non poteva rifiutare. E così mi sono messo a disposizione ad andare a Velletri, ad andare in tutta Italia, compatibilmente con il lavoro, per raccontarlo. E vi dico un’altra cosa: mi è piaciuto parlare nelle scuole e io credo che noi dobbiamo fare un grande ringraziamento ai docenti perché, signori, coniugare l’accoglienza con la didattica non è facile, e loro sono sempre al fronte e noi ce lo dimentichiamo spesso. Quindi grande applauso a loro. Poi comunque da mussulmano mi consentirete di citare il Santo Padre Francesco, visto che parla universalmente, lo cito perché se ci pensate il pontificato del santo Padre è stato caratterizzato da una parola chiave, “ponti”, ponti, verità, misericordia, periferie, questo è il magico poker se ci pensiamo, giusto? A me mi affascina molto la parola “ponti”, mi affascina perché quando lui parla di ponti, vuol dire che bisogna collegare due cose, e io dico sempre che quando si costruiscono ponti, è importante anche l’attività di progettazione ed è quello che stiamo facendo. Oggi è come se noi stessimo progettando un ponte della speranza, perché bisogna conoscerle le cose prima di metterle in atto e quindi questa mostra, secondo me, ha colto in pieno questo messaggio del Santo Padre che ci sprona sempre, mi sembra anche nell’ultimo angelus. Un’altra cosa volevo dire e poi chiudo: quando sono andato a parlare nelle mostre, c’erano spesso anche dei miei colleghi, dico colleghi immigrati, che magari sono stati meno fortunati di me, ce ne saranno anche in aula. Sapete cos’è che dicevo? «Ragazzi, dobbiamo fare anche noi la nostra parte, anche noi immigrati. Cominciamo a osare, cominciamo a scegliere, cominciamo a crederci!». Io potevo accontentarmi, come dicevano gli amici di mio padre di Zingonia: «Ma no, digli ad Abdul di fare solo Ragioneria e poi di guidare il muletto, così porta 1500 euro e uno stipendio». Ma mio padre ha detto: «No, io mi spacco la schiena a fare il camionista e Abdul vuole fare l’avvocato perché gli piace “Un giorno in Pretura”, che lo faccia!». E io ce l’ho fatta. Vedete? E questo, signori, serve anche a smontare gli stereotipi perché tanti quando mi dicono: «Ah, tu fai l’avvocato? Ti occuperai delle cause dei rifugiati, dei permessi di soggiorno…» Dico: «No, mi occupo della responsabilità medica nelle case di riposo e negli ospedali». Vedete che l’Italia è ancora immatura? Pensa che un immigrato, che già è un miracolo che sia diventato avvocato, poi si occuperà di immigrazione. Siamo arretrati su questi temi, signori, ecco perché prima si diceva «impariamo un po’ da altre realtà che hanno già vissuto l’immigrazione». In Francia, nel 1980, c’erano già immigrati che a Marsiglia avevano già la cittadinanza. In Italia, il problema è arrivato concretamente quando è arrivato il barcone a Brindisi – vi ricordate? – negli anni Novanta. Quello è stato, il momento in cui l’Italia ha detto: questo fenomeno ci sta travolgendo. Ecco perché, vi dicevo, la realtà o si governa o ci travolge. E gli stereotipi son la prima cosa contro cui mi batto, perché quando ci dicono che non c’è lavoro per noi italiani, è falso. Vi faccio l’esempio: quando facciamo i bandi nelle case di riposo per le OS e le OSA, sapete chi partecipa al bando? Non il ragazzo italiano di Cantù, ma la ragazza o la signora filippina! Quindi vedete, questi stereotipi si possono fulminare all’istante? Però fanno comodo, sono quelle che chiamo le battute da bar Sport e sono quelle contro le quali io mi batterò sempre, le battute da bar Sport, perché se vogliamo ragionare, ok, se invece vogliamo fare le battute da bar Sport non scendo neanche in campo. E chiudo, veramente, dicendovi: dopo papa Francesco, pur essendo musulmano, faccio questa premessa di ordine generale, ma forse è anche superfluo visto che io sono cresciuto all’Oratorio, alla Casa del giovane, però ve la dico, c’è un altro che stra-ammiro, essendo del Foro Ambrosiano, il cardinal Martini. È stato un grande e lui ci ha lasciato un messaggio di una grande lungimiranza. Diceva, il Cardinal Martini, con una lungimiranza pazzesca in una omelia degli anni Ottanta: «Signori, chi è orfano nella casa dei diritti, difficilmente sarà figlio nella casa dei doveri». Se non riusciamo a coniugare questi due aspetti, non ce la caveremo. Grazie di cuore e avanti così.

GIORGIO PAOLUCCI:
Allora, grazie a tutti, io ovviamente non faccio nessuna sintesi perché è già stato molto eloquente quello che è stato detto. Vi chiedo soltanto un attimo di pazienza anche perché abbiamo preparato una sorpresa finale che metteremo in scena dopo questi brevi avvisi che devo dare. Sembra che il messaggio del Presidente della Repubblica Mattarella, inviato al Meeting domenica, parli proprio delle cose che abbiamo appena ascoltato, perché un passaggio del messaggio del Presidente dice: «Sostenere le proprie idee e affermare la propria identità, non consiste nell’innalzare le barriere del pregiudizio e della contrapposizione irriducibile. Al contrario, è dal confronto, dalla consapevolezza che ciascuno, con il suo credo e con le sue convinzioni arricchisce il nostro essere persona, che nasce la possibilità di rendere davvero umano il mondo». Ecco, noi vogliamo essere costruttori di questa umanità ed è il lavoro che abbiamo cominciato a fare ed è il lavoro a cui invitiamo tutti, che attende tutti noi, quindi buon lavoro a tutti voi. Volevo anche ricordare che noi abbiamo inaugurato l’anno scorso una pagina Facebook “Nuove generazioni”, in cui potete trovare molte delle cose che avete ascoltato, molti materiali e anche la possibilità di allestire la mostra nelle vostre scuole, centri culturali, parrocchie. Abbiamo già delle prenotazioni importanti, per esempio nella città di Roma, di Matera, di Catania e di Milano nei prossimi mesi. Infine, non possiamo lasciarvi se non offrendovi una piccola sorpresa che ci ha regalato Raymond Bahati e che è una sorpresa di cui lui è autore, come fondatore del coro Elikya, ma che chiederà la partecipazione, il coinvolgimento di tutti voi. Prego Raymond.
(Insegna un canto swahili e lo fa cantare e ballare ai presenti)

(trascrizione non rivista dai relatori)