Chi siamo
UN ABBRACCIO CHE CAMBIA LA STORIA
Partecipano: Vladimir Legoyda, Presidente del Dipartimento per i Rapporti tra Chiesa e Società e Mass Media del Patriarcato di Mosca; S. Ecc. Mons. Paolo Pezzi, Arcivescovo di Mosca. Introduce Alberto Savorana, Portavoce di Comunione e Liberazione.
Un abbraccio che cambia la storia
ALBERTO SAVORANA:
Buongiorno a tutti. Io sono abbastanza emozionato ad essere in mezzo a questi due ospiti, perché oggi ci parleranno di qualche cosa che fino a poco tempo fa pareva un sogno ancora impossibile. Ma è accaduto qualcosa e di questo accaduto oggi parleremo. Un abbraccio che cambia la storia: il sottotitolo di questo incontro potrebbe essere un’espressione di Benedetto XVI che tanti tra noi conoscono: “Il metodo sommesso di Dio”. Vedete, da tanti anni si parlava, si discuteva di un possibile incontro tra il Papa di Roma e il Patriarca di Mosca. Era il sogno di Giovanni Paolo II e non lo vide realizzato, era il desiderio di Benedetto XVI e anche per lui fu impossibile questo incontro. Papa Francesco ce l’ha fatta. Ne aveva parlato appena eletto pontefice, nel 2013: “Chiediamo al Padre misericordioso di vivere in pienezza quella fede che abbiamo ricevuto il giorno del nostro battesimo e di poterne dare testimonianza libera, gioiosa e coraggiosa. Sarà questo il nostro migliore servizio alla causa dell’unità tra i cristiani. Un servizio di speranza per un mondo ancora segnato da divisioni, da contrasti e da rivalità. Più saremo fedeli alla sua volontà nei pensieri nelle parole e nelle opere, e più cammineremo realmente e sostanzialmente verso l’unità”. E dove è accaduto questo? In un posto – potremmo dire sempre con Benedetto – sommesso, discreto. C’è voluta proprio la fantasia del buon Dio! Nessuno avrebbe potuto immaginare, come luogo in cui accadeva un incontro – attenzione alla storia – che da mille anni non accadeva, da quello scisma che aveva allontanato, sembrava irrimediabilmente, la Chiesa d’Oriente dalla Chiesa di Roma: la saletta d’attesa dell’aeroporto dell’Avana a Cuba.
Un incontro così a lungo desiderato si è realizzato non sul grande schermo di un luogo famoso ma nella spoglia, anonima, discreta saletta di un aeroporto. A Cuba, anche questo impensabile. E allora pensate, quel primo sguardo, quel primo abbraccio e un Papa che grida: “Finalmente! Siamo fratelli”. E il Patriarca di rimando: “Ora tutto sarà più facile”.
Uno sguardo, un abbraccio in una sala di aeroporto, che si carica improvvisamente di una portata storica: mille anni bruciati come inizio di qualcosa di nuovo. Ed è significativo che questo incontro, questo abbraccio, questi sguardi si siano realizzati nell’Anno Santo della Misericordia, dove più di mille parole, più di mille discorsi, più di mille interpretazioni, quello di cui c’è bisogno è di essere davanti a fatti, gesti come quello che hanno posto Papa Francesco e Kirill, in cui si veda che è possibile, che quello che per don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e Liberazione che è all’origine di un evento come il Meeting di Rimini, era il sogno della giovinezza, coltivato fin dalla fine degli anni ’30 come speranza che si potesse risanare, che si potesse colmare la ferita, la distanza che separava una Chiesa dall’altra, una Chiesa nata unita, da Pietro e Andrea.
E io, prima di dare la parola ai nostri due ospiti, mi permetto di leggervi, per darvi il contesto di quello che è accaduto, tre piccolissimi brani della Dichiarazione congiunta che Papa Francesco e Kirill hanno sottoscritto all’aeroporto di Cuba mentre il Papa era in transito per andare in visita pastorale nel Messico. Il primo dato che mi ha sorpreso è la percezione comune del contesto, della situazione in cui avveniva questo incontro: “La nostra coscienza cristiana e la nostra responsabilità pastorale” scrivono, “non ci autorizzano a restare inerti di fronte alle sfide che richiedono una risposta comune, in un mondo in cui scompaiono progressivamente i pilastri spirituali dell’esistenza umana”. Un mondo, cioè, in cui crollano le sicurezze, in cui crolla ciò che sembrava evidente. Il Papa e il Patriarca hanno la percezione che questo è il punto più avanzato della sfida che come cristiani hanno davanti. Lo ricordava proprio ieri, in un’intervista al quotidiano italiano Il Corriere della sera, don Julián Carrón, che è il successore di don Giussani. Diceva: “Le migrazioni e persino gli attentati possono rappresentare uno stimolo per riproporre la nostra originalità di cristiani. È una sfida a noi stessi, prima che agli altri”.
Il secondo dato che emerge dalla Dichiarazione congiunta, lo sentiremo, sono parole di una portata eccezionale: “Condividiamo la comune tradizione spirituale del primo millennio del cristianesimo”. Per questo, aggiungono, questa condivisione è un bene così prezioso che consente anche di riconoscere gli errori, il male fatto. “Deploriamo la perdita dell’unità, conseguenza della debolezza umana e del peccato”. Terzo, proprio per questa percezione dei segni dei tempi, proprio per questa tradizione comune, allora abbiamo una missione da portare avanti in comune. Attenzione: “Non siamo concorrenti ma fratelli”, “chiamati a collaborare fraternamente nell’annuncio della Buona Novella della salvezza, consapevoli che dalla nostra capacità di dare insieme testimonianza, in questi tempi difficili, dipende in gran parte il futuro dell’umanità”. Non dalle strategie politiche, non dalle coalizioni internazionali, militari, economiche o di altra natura, ma da una comune testimonianza. Ecco ancora il metodo sommesso di Dio che si affida a due uomini per mostrare che è possibile l’esperienza dell’altro come un bene, e quindi di una unità praticata.
E allora abbiamo invitato, e siamo gratissimi che abbiano accettato, Sua Ecc. Mons. Paolo Pezzi, che al Meeting tanti ben conoscono: che dal 2007 è Arcivescovo Metropolita della Madre di Dio a Mosca e dal 2011 è Presidente della Conferenza Episcopale della Chiesa Cattolica in Russia. Alla mia sinistra è Vladimir Legoyda, Presidente del Dipartimento per i Rapporti tra Chiesa e Società e Mass Media del patriarcato di Mosca. E’ un giornalista, pedagogista, docente di letteratura e cultura mondiale a Mosca, ed è un testimone privilegiato dell’esperienza che è stato questo storico incontro a Cuba. E allora io inizierei subito dando la parola a Mons. Pezzi, chiedendogli quali sono i passi che hanno preparato questo storico incontro del Papa con il Patriarca di Mosca e quali passi si aprono davanti, quale percorso ancora deve essere fatto perché quel sogno dell’unità proceda per il bene di tutti.
S. ECC. MONS. PAOLO PEZZI:
Quell’incontro, come è stato detto, è l’evento, l’abbraccio che cambia la storia. Ora l’avvenimento è sempre e solo opera di Dio, è solo Gesù Cristo, morto, risorto e presente qui ed ora che cambia l’uomo singolo e tutta la storia, trasfigurandoli (cfr. Giovanni Paolo II, Intervento a CL per il trentennale, settembre 1984).
Infatti, la Dichiarazione si apre con questa consapevolezza stupita: “Per volontà di Dio Padre dal quale viene ogni dono, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, e con l’aiuto dello Spirito Santo Consolatore, noi, Papa Francesco e Kirill, Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, ci siamo incontrati oggi a L’Avana” (1).
Ora, non è che l’incontro tra il Papa e il Patriarca abbia magicamente risolto tutti i problemi, ma penso che sia importante percepirne la portata, è il primo punto della Dichiarazione: “Rendiamo grazie a Dio, glorificato nella Trinità, per questo incontro, il primo nella storia. Con gioia ci siamo ritrovati come fratelli nella fede cristiana che si incontrano per «parlare a viva voce» (2 Gv 12), da cuore a cuore, e discutere dei rapporti reciproci tra le Chiese, dei problemi essenziali dei nostri fedeli e delle prospettive di sviluppo della civiltà umana (1)”.
Questo, scusatemi, ma è un abbraccio che ha già cambiato la storia.
1. Incontro. Dunque, innanzitutto un incontro. Un incontro significa l’entrata nell’orizzonte della mia persona di un altra persona che entra così positivamente nella definizione stessa del mio io. Il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, nel 1997, in un libro-intervista con il grande teologo Olivier Clément scriveva: “La Trinità è allo stesso tempo sorgente di ogni unità e di ogni distinzione. La nostra comprensione dell’umanità, così come della Chiesa, derivano dal mistero della Trinità. In Cristo noi siamo tutti un solo corpo, tutti membra l’uno dell’altro. E Cristo sostiene e accoglie ciascuno come un unico “tu”. Lo Spirito garantisce la nostra comunione ma, nello stesso tempo, le fiamme di Pentecoste separano e una lingua di fuoco discende su ciascuna persona, come per consacrare il suo unico carattere e per dispiegare l’infinita portata della sua libertà liberata. Per essere me stesso, ho bisogno di te. Se non ci guardiamo gli uni gli altri negli occhi, non siamo veramente umani”.
Parafrasando un po’ provocatoriamente il titolo del Meeting di quest’anno, potremmo dire: “Tu, ortodosso, sei un bene per me cattolico e Tu, cattolico, sei un bene per me ortodosso”. Ma questo non può restare solo una dichiarazione di intenti. Per questo ho detto fin da subito, dopo aver visto questo evento, che il fatto più significativo è stato proprio l’incontro. Incontrandosi, guardandosi negli occhi, parlando cuore a cuore, cor ad cor loquitur, hanno scoperto per se stessi e per le Chiese che guidano di essere un bene l’uno per l’altro.
La parola incontro ricorre molte volte, soprattutto nei primi articoli della Dichiarazione che danno il peso, il battito del cuore dell’evento. L’incontro è ciò che permette di accorgersi della diversità dell’altro come di un bene. Quando ci si incontra, quando non ci si scontra, quindi, si sorprende che la diversità dell’altro è portatrice di un bene, di un positivo alla mia vita.
In questo senso mi permetto dire che quell’incontro era necessario, o perlomeno utile, innanzitutto alle stesse persone del Patriarca e del Papa, perché scoprissero quale contributo alla vita delle loro persone e delle Chiese può dare l’altro come testimone di Cristo.
Oggi è molto diffuso nella mentalità dominante, ed è più forte di quello che si possa pensare, considerare il Cristianesimo come non pertinente alla vita dell’uomo, non necessario al reale incremento della persona umana; e men che meno, che il Cristianesimo possa essere il centro affettivo della persona. L’incontro dei due “anziani” in Cristo ha mostrato a tutto il mondo che, al contrario, proprio la fede in Cristo non solo non è separata dalla vita reale di milioni di persone nel nostro pianeta, ma è il giudizio che vince il mondo, come dice san Giovanni.
Se è vero, come è vero, che il Cristianesimo è il lieto annunzio che il Mistero di Dio si è rivestito di carne umana, dunque in ogni momento della storia esso si ripropone come incontro che ha la sua linfa vitale in un giudizio sul momento presente della storia in cui riaccade quell’incontro. L’incontro di Cuba è stato l’incontro di due testimoni del Cristianesimo, di Cristo, che, a partire dall’appartenenza a Lui, hanno formulato un giudizio sul presente, sulle circostanze che attualmente viviamo.
Per me, in questo senso, che l’incontro sia avvenuto durante l’Anno giubilare della misericordia, dice di una storia e di una grazia.
Quell’incontro tra Francesco e Kirill è stato preceduto – forse si potrebbe dire “preparato” – da moltissimi altri incontri nella storia dei rapporti tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa russa: tra questi a me piace ricordare un incontro di presentazione del libro di don Luigi Giussani, Perché la Chiesa? a Novosibirsk, cui intervenimmo assieme, come questa mattina, Vladimir Romanovich Legoyda ed io. A me allora colpì la genialità di Vladimir Romanovich nel leggere l’evento Chiesa così come lo vedeva Giussani, cioè nella sua essenzialità di permanenza di Cristo nel presente della storia. Non sto dicendo che Legoyda fosse d’accordo con tutto il contenuto di quel libro, certamente erano e sono chiari quegli elementi che sono tipici per un cattolico, e che non sono reperibili nella Chiesa come è intesa nell’ortodossia. Ma il punto è cogliere il fattore essenziale, e il fattore essenziale è ritrovarsi fratelli in Cristo presente qui ed ora, cioè dentro una stessa storia.
Questo permetto un cammino che porti, a Dio piacendo, alla piena comunione, e questo è il motivo di grazia misericordiosa di cui parlavo prima: l’unità in cammino è già una grazia, non è che dobbiamo aspettare la piena comunione per vivere, per testimoniare, per soffrire per la fede. Francesco e Kirill conoscevano e conoscono bene le barriere teologiche e pastorali e storiche che si frappongono fra le Chiese, tuttavia hanno dimostrato che l’incontro è possibile e il cammino unico desiderabile, anche se possiamo per ora percorrerlo assieme ma non nella piena comunione.
Devo dire, da parte mia, che la “conversione” prima ed immediata che l’incontro dell’Avana ha prodotto in me è stato proprio questo sguardo nuovo ogni volta che ho incontrato in seguito un ortodosso: la domanda che sorgeva in me, piena di stupore, non era “cosa ci porterà questo nuovo incontro?”, ma “cosa di positivo, di nuovo, sorprendi in questo tuo fratello?”. E questo è avvenuto dall’incontro col Patriarca fino all’ultimo giovane, uno studente ortodosso che si apprestava ad approfondire le sue conoscenze del cattolicesimo. In questo senso, mi ha molto colpito l’incontro avvenuto a Vilnius in primavera, di cattolici e ortodossi che si riferiscono all’esperienza di Comunione e Liberazione, ma non solo: vedere la bellezza di un cammino fatto assieme, senza umiliare le differenze ma guardandole come un possibile arricchimento, come una provocazione a cambiare, come una ferita che provochi a domandare.
L’incontro è sempre fonte di speranza perché da ogni incontro si esce più vicini, ci si conosce di più, perdonatemi l’azzardo, ci si ama di più, viene voglia di condividere la vita l’uno dell’altro di più, altrimenti non è un incontro nel senso vero e profondo del termine!
L’incontro getta le fondamenta dei pilastri dei ponti che siamo chiamati a costruire tra le nostre comunità: questa è per me una delle priorità oggi per la comunità cattolica in Russia: creare ponti. Creare occasioni di incontro e di comune testimonianza. L’incontro non accresce la divisione ma aiuta a colmare la distanza.
Per questo, Francesco e Kirill hanno potuto dire: “Consapevoli della permanenza di numerosi ostacoli, ci auguriamo che il nostro incontro possa contribuire al ristabilimento di questa unità voluta da Dio, per la quale Cristo ha pregato. Possa il nostro incontro ispirare i cristiani di tutto il mondo a pregare il Signore con rinnovato fervore per la piena unità di tutti i suoi discepoli. In un mondo che attende da noi non solo parole ma gesti concreti, possa questo incontro essere un segno di speranza per tutti gli uomini di buona volontà! (6)”.
2. Fratelli. Quando ci si incontra ci si scopre fratelli. Otto anni fa, durante il Sinodo sulla Parola di Dio, alla celebrazione dei Vespri in Cappella Sistina alla presenza del Patriarca Bartolomeo, assieme ad una delegazione del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, Papa Benedetto XVI aveva allora detto a braccio: “Ecco, abbiamo gli stessi padri, perché non possiamo dirci fratelli?”. A Cuba abbiamo assistito a un abbraccio fraterno: ci può piacere o no ma quello era un abbraccio tra due fratelli. E poi leggiamo nella Dichiarazione la sorpresa commossa di questa fratellanza: “Con gioia ci siamo ritrovati come fratelli nella fede cristiana(1)”.
I fratelli non sono per forza uguali, non lo sono nemmeno i gemelli! Ciò che caratterizza la fratellanza è l’origine: la fede in Gesù Cristo, questa è proprio, per così dire, la paternità, cioè il punto essenziale di cui parlavo all’inizio.
Qual è la sorgente dunque di questa fratellanza, in cosa consiste storicamente questa paternità? Dice la Dichiarazione: “Rendiamo grazie a Dio per i doni ricevuti dalla venuta nel mondo del suo unico Figlio. Condividiamo la comune Tradizione spirituale del primo millennio del cristianesimo. I testimoni di questa Tradizione sono la Santissima Madre di Dio, la Vergine Maria, e i Santi che veneriamo. Tra loro ci sono innumerevoli martiri che hanno testimoniato la loro fedeltà a Cristo e sono diventati “seme di cristiani (4)”.
È la tradizione condivisa e il martirio, cioè la testimonianza, come vedremo dopo. La Tradizione come ipotesi positiva per l’incontro, che potrà così rinnovarla, rimanendo in tutto fedeli ad essa, renderla un giudizio positivo di speranza per l’uomo d’oggi.
A me ha colpito recentemente riprendere la figura del santo dottore di Mosca, il dottor Frederich Joseph Haass o, come lo chiamiamo in Russia, Fjodor Petrovich Gaaz, un medico di origine tedesca, che ha operato a Mosca e nell’Impero Russo nella prima metà del 1800, perché stiamo portando avanti il suo processo di beatificazione. Ebbene, in alcune testimonianze che ho riletto e ascoltato da parte di ortodossi, si parla di lui come se si parlasse di un fratello, di un “santo”, anche se ancora non elevato agli altari, perché costruttore della Chiesa, perché vive la comune Tradizione, perché spinge ad “affrettarsi a fare il bene” al fratello che si incontra nello spirito della fede in Gesù Cristo. Il suo era un andare incontro all’altro, proprio perché fratello: carcerato, malato, bambino, in ogni caso per lui ci si doveva fare prossimi, vicini, amici. Pensate che studiò persino una forma di catene ai piedi che permettessero ai deportati in Siberia almeno di camminare senza fracassarseli!
Beninteso, non voglio descrivere un quadro idilliaco, voglio dire che quanto affermo con stupore viene detto nella piena consapevolezza che ci sono ancora tanti ostacoli, ma stiamo camminando, e camminando si cercano i modi di superare questi ostacoli. La Dichiarazione non nasconde che ci siano divisioni e ferite, come possono esserci in ogni famiglia, “causate da conflitti di un passato lontano o recente, da divergenze, ereditate dai nostri antenati, nella comprensione e l’esplicitazione della nostra fede in Dio, uno in tre Persone – Padre, Figlio e Spirito Santo (5)”, ma abbiamo un punto di origine che ci accomuna e dal quale possiamo sempre ripartire anche dopo ogni bisticcio, dopo ogni litigata, dopo ogni scazzottata. Ecco cosa ci fa riconoscere fratelli. Del resto, Gesù lo ha detto chiaramente: “Da come vi rapporterete tra voi si capirà che siete miei discepoli”. Non dall’assenza di divisioni, dispetti, bisticci, ma dalla umile volontà di ricominciare dalla carità di Cristo che sospinge, si dimostra la nostra fratellanza.
E poi la Tradizione è, per così dire, un principio “materno” della nostra fratellanza. Infatti, non potendo essere madre la Chiesa nel senso della piena comunione – dice infatti realisticamente la Dichiarazione: “Nonostante questa Tradizione comune dei primi dieci secoli, cattolici e ortodossi, da quasi mille anni, sono privati della comunione nell’Eucaristia (5)” -, tuttavia la Tradizione è un principio comune condiviso: “Condividiamo la comune Tradizione spirituale del primo millennio del cristianesimo (4)”, e abbiamo a sostegno di questa condivisione testimoni di tutto riguardo: “I testimoni di questa Tradizione sono la Santissima Madre di Dio, la Vergine Maria, e i Santi che veneriamo (4)”. La Tradizione condivisa è dunque la nostra comune madre.
In una mia recente visita in Libano e in Siria, mi ha colpito non solo vedere alcuni luoghi di questa Tradizione ma il poterli condividere con i cristiani del luogo: è stato molto toccante andare assieme nei luoghi dove, secondo la tradizione, Paolo ha incontrato Gesù risorto, dove ha ricevuto il battesimo, dove ha iniziato la sua prima testimonianza del Vangelo, compimento dell’antica tradizione, dove ha iniziato a sentire sulla sua pelle il prezzo del martirio per quella testimonianza resa a Cristo. E Paolo ha vissuto la lacerazione delle proprie viscere causata dalle divisioni del corpo di Cristo nella storia, ma non ha mai smesso di guardare a coloro che avevano lo stesso Battesimo, la stessa fede in Gesù Cristo, come a dei fratelli.
E meno di un mese fa, alla GMG a Cracovia, con la benedizione del patriarca Kirill, all’evento ha partecipato anche una delegazione della Chiesa ortodossa russa guidata dal metropolita Isidor di Smolensk, che il 28 luglio, dopo la liturgia a Częstochowa, ha incontrato Papa Francesco e gli ha donato un’icona della Madre di Dio di Smolensk. “Quello che abbiamo visto e sentito – ha detto il metropolita Isidor – testimonia la sincera aspirazione della Chiesa cattolica al dialogo, la sincera aspirazione a far sì che noi cristiani possiamo sempre di più prendere coscienza del fatto che siamo fratelli”.
3. Testimonianza. Ma una fede autentica in Cristo, non distaccata dalla vita, può solo tradursi in carità in atto. Allora, come avviene il mostrarsi, l’incrementarsi di questa fratellanza il cui segno è la misericordia, volto del Padre, riflesso del Figlio e opera dello Spirito? Attraverso gesti concreti di testimonianza. Ecco, “testimonianza” è la terza grande parola dell’incontro di Cuba e di questa Dichiarazione. “Nella nostra determinazione a compiere tutto ciò che è necessario per superare le divergenze storiche che abbiamo ereditato, vogliamo unire i nostri sforzi per testimoniare il Vangelo di Cristo e il patrimonio comune della Chiesa del primo millennio, rispondendo insieme alle sfide del mondo contemporaneo (7)”.
Quando penso alla testimonianza, mi vengono in mente innanzitutto cose molto semplici. C’è per esempio una nostra babushka, una parrocchiana che già qualche volta è stata lì lì per morire e tornarsene, come dice lei, a casa dal Padre. Qualche settimana fa l’ho rivista in curia – perché lei con una umiltà e un amore commoventi fa le pulizie della curia tutti i lunedì – e le ho chiesto come stava. Pana Jósefa, così si chiama, tutta sorridente mi ha raccontato di come anche questa volta è uscita dall’ospedale e non ci pensava più, e poi mi ha raccontato di quelli che lei chiama giustamente i miracoli che Gesù le concede perché lei è proprio come una bambina con Dio: e la vicina di letto che ha smesso di gridare, e un’infermiera che si è messa a dare da mangiare a una poveretta che non poteva muoversi e non aveva nessuno che l’aiutasse, e un povero figlio che è venuto a dirle della morte della mamma, che stava nella sua stessa stanza d’ospedale, e non era disperato… Ci sono tante testimonianze come questa che letteralmente reggono il mondo e muovono misteriosamente gli uomini, anche se noi magari non lo notiamo.
Un po’ come i fiori delle Ande di cui parla Saint-Exupéry, l’autore de Il piccolo principe. Egli era un pilota di aerei e racconta che durante un viaggio di attraversamento delle Ande, che durava decine e decine di minuti, rimase colpito dalla smisurata bellezza, dagli innumerevoli fiori e aveva pensato che tutto ciò rende testimonianza solo a Dio stesso, eppure questa testimonianza che nessuno vede contribuisce alla salvezza degli uomini.
Recentemente è morta mia madre, aveva 93 anni, l’ultima volta che l’ho vista, qualche settimana prima che morisse, ormai non parlava più, non mangiava più da sola, aveva bisogno di tutto, era in tutto dipendente dalla carità di mia sorella, di mio padre, di mio fratello e di tutte le persone che gli erano attorno: la badante, l’infermiera, ecc. Ma in lei sempre all’attacco in tutta la sua vita (un mio amico prete mi ha scritto: “Ecco, ora ha chiarito tutto con Gesù e va all’incontro con Lui”), il volto aveva preso i lineamenti di una bambina: “Come un bimbo svezzato in braccio a sua madre” dice il salmo. E in quei giorni del funerale mi ha colpito il racconto di diverse persone che mi hanno raccontato di atti di carità gratuita che aveva fatto loro mia madre: un giovane, che aveva lasciato la scuola perché si era messo su una brutta strada, e mia madre lo ha aiutato a dare l’esame di maturità, una coppia di giovani che aveva trovato in due parole di mia madre un conforto…
Ecco, i testimoni fanno quello che fanno solo per pura gratuità, senza tornaconto, perché il loro sguardo intercetta la presenza Cristo nel reale, e guardando a Lui divengono capaci di gratuità e di vedere ciò che altri non vedono.
Insomma, voglio dire che la testimonianza non è aria fritta! Anche se invisibile agli occhi di molti, viene notata da chi ha occhi per vedere, cioè la testimonianza è sperimentata da chi ha bisogno della salvezza. E poi la testimonianza cristiana avviene sempre dentro circostanze concrete ma dilatandosi a tutto il mondo. La Dichiarazione parla di sfide, una parola cara sia al Papa che al Patriarca: “La civiltà umana è entrata in un periodo di cambiamento epocale. La nostra coscienza cristiana e la nostra responsabilità pastorale non ci autorizzano a restare inerti di fronte alle sfide che richiedono una risposta comune”. “Io e lei dobbiamo incontrarci, perché abbiamo una responsabilità comune, abbiamo un gregge comune” mi disse il vecchio patriarca Aleksij II alla Liturgia della Pasqua Ortodossa, pochi mesi prima di morire.
E poi la testimonianza è sempre un annuncio, l’annuncio in atto del Vangelo: “Vogliamo unire i nostri sforzi per testimoniare il Vangelo di Cristo”. “Ortodossi e cattolici devono imparare a dare una concorde testimonianza alla verità in ambiti in cui questo è possibile e necessario (7)” dice ancora la Dichiarazione. E più avanti, al n. 24: “Ortodossi e cattolici sono uniti non solo dalla comune Tradizione della Chiesa del primo millennio, ma anche dalla missione di predicare il Vangelo di Cristo nel mondo di oggi”. Non è solo il passato che ci unisce, ma anche il futuro, e il futuro è la missione, l’annuncio di Cristo presente qui ed ora, che salva l’umano, lo rende vero, lo esalta.
La mia visita in Libano e Siria, di cui ho parlato sopra, muoveva proprio da questa consapevolezza. Lì abbiamo fatto due o tre proposte di gesti concreti: per prima cosa, la raccolta di testimonianze dei cristiani da far conoscere ai nostri cristiani, come avveniva agli inizi del cristianesimo, quando le gesta eroiche dei cristiani in Alessandria o in Antiochia venivano lette a Roma; secondo, il monitoraggio dei luoghi di culto che più di tutti necessitano di essere ristrutturati per il bene delle comunità locali (un vescovo, mi pare greco-cattolico, ci ha raccontato di come i fedeli cristiani, e non solo i suoi, gli hanno detto: “Padre, dobbiamo prima di tutto ricostruire la chiesa, la sua casa, poi le nostre case, perché la chiesa, la casa del vescovo, è la casa di tutti noi. Poi penseremo alle nostre abitazioni); e, terzo, la possibilità di un ponte di solidarietà tra famiglie, dettata dalla consapevolezza non tanto di mostrare che facciamo qualcosa, come per giustificarci, quanto per mostrare umilmente la gratitudine per l’incontro fatto, per il dono della fede, per coloro che la testimoniano nella loro vita quotidiana fino al martirio.
L’associazione “Aiuto alla Chiesa che soffre”, che desidero ringraziare perché ha permesso e organizzato questo viaggio e gli incontri che abbiamo avuto, facendo diventare questo viaggio – permettetemi di chiamarlo “pellegrinaggio” – che abbiamo fatto assieme, un cattolico e un ortodosso da Mosca, proprio come prima attuazione concreta di quella testimonianza di vicinanza ai cristiani perseguitati di cui si parla nella Dichiarazione, come prima conseguenza concreta dell’incontro di Cuba, ecco “Aiuto alla chiesa che soffre” ha proprio favorito questo clima di testimonianza del Vangelo come testimonianza di una fratellanza in atto.
La Dichiarazione individua nella condivisione dell’esperienza di persecuzione dei cristiani, il primo e più importante ambito di testimonianza: “Il nostro sguardo si rivolge in primo luogo verso le regioni del mondo dove i cristiani sono vittime di persecuzione. In molti Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa i nostri fratelli e sorelle in Cristo vengono sterminati per famiglie, villaggi e città intere. Le loro chiese sono devastate e saccheggiate barbaramente, i loro oggetti sacri profanati, i loro monumenti distrutti (8)”.
Per questo, nonostante le difficoltà, è stata importante questa visita che abbiamo fatto assieme al mio fratello igumeno Stefan del Patriarcato di Mosca. L’essere lì assieme ci ha fatto commuovere di fronte al martirio, di cui abbiamo visto le tracce lasciate nel cuore dei fedeli. Anche noi, come dice la Dichiarazione, ci siamo inchinati “davanti al martirio di coloro che, a costo della propria vita, testimoniano la verità del Vangelo, preferendo la morte all’apostasia di Cristo. Crediamo che questi martiri del nostro tempo, appartenenti a varie Chiese, ma uniti da una comune sofferenza, sono un pegno dell’unità dei cristiani. È a voi, che soffrite per Cristo, che si rivolge la parola dell’apostolo: «Carissimi, … nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della Sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare» (1 Pt 4, 12-13) (12)”. Essere testimoni significa lavorare, pregare, soffrire per l’unità.
La Dichiarazione parla giustamente di “ardita testimonianza (29)” perché rischiare su questa fratellanza fa venire i brividi. Siamo consapevoli delle critiche, delle difficoltà, a volte un po’ costruite a tavolino o di fantasia, che questa prospettiva di una comune testimonianza può produrre, ma d’altra parte sappiamo che ne va della nostra stessa dignità, del nostro non conformarci alla mentalità di questo mondo, ma di trasformarci, secondo il comandamento di Gesù: “Nel mondo contemporaneo, multiforme eppure unito da un comune destino, cattolici e ortodossi sono chiamati a collaborare fraternamente nell’annuncio della Buona Novella della salvezza, a testimoniare insieme la dignità morale e la libertà autentica della persona, «perché il mondo creda» (Gv 17, 21). Questo mondo, in cui scompaiono progressivamente i pilastri spirituali dell’esistenza umana, aspetta da noi una forte testimonianza cristiana in tutti gli ambiti della vita personale e sociale. Dalla nostra capacità di dare insieme testimonianza dello Spirito di verità in questi tempi difficili dipende in gran parte il futuro dell’umanità (28)”.
Il Papa e il Patriarca, in questo senso per me, in quell’abbraccio, in quel coraggio, con tremore ma con quel coraggio di chiamarsi fratelli, sono stati veramente testimoni della Misericordia di Dio.
Noi possiamo inserirci in questo flusso di testimonianza, andando incontro all’altro, riconoscendo che in lui è presente la verità, fosse anche solo un frammento, perché quell’altro lì che ho davanti, che incontro, è partecipe della verità e della misericordia che ha toccato anche me. Noi possiamo inserirci in questo flusso di testimonianza, creando “oasi di amore disinteressato in un mondo in cui tanto spesso sembrano contare solo il potere ed il denaro” (Benedetto XVI). Grazie!
ALBERTO SAVORANA:
Come vedete, qui non stiamo commemorando un fatto accaduto ne febbraio scorso a Cuba, qui stiamo facendo un passo sul solco di quell’abbraccio, ed è per questo che io sono curiosissimo di ascoltare Vladimir Legoyda.
VLADIMIR LEGOYDA:
Grazie molte, per me è una grande gioia, un grande onore trovarmi qui con voi, cari amici. Ma devo cominciare con una ammissione, inizialmente non mi era piaciuto il tema del Meeting, ho pensato: i nostri fratelli cattolici hanno voluto inventarsi qualcosa di strano, di originale a tutti i costi. Che cosa c’entra questo titolo con la nostra vita, che rapporto ha con i nostri problemi, con i problemi con cui viviamo oggi? Ma quando mi hanno chiesto di intervenire proprio sull’incontro tra il Papa e il Patriarca, ho cominciato a pensare che cosa avrei potuto dirvi, qualcosa di importante, in modo che non buttiate proprio via il tempo. E poi, quando mi sono trovato qui al Meeting qualche giorno fa, e ho potuto ascoltare vari interventi, tra cui in particolare l’incontro con Luca Doninelli sul titolo del Meeting, allora ho avuto un’impressione molto forte e la mia posizione è cambiata totalmente. Quello che vorrei cercare di spiegarvi è come mai è successo.
Volevo innanzitutto condividere con voi alcuni pensieri sull’incontro tra il Papa e il Patriarca, è già stato detto molto e molto ancora se ne parlerà, perché è un avvenimento non soltanto nella storia del mondo cristiano ma è un avvenimento nella storia dell’umanità. E io vorrei cercare di non ripetere qualcosa ma cercare di dire cosa è stato proprio per me, personalmente. Il mio padre spirituale ama ripetere che il Signore può trasformare ogni male in bene, e proprio il fatto dell’incontro tra il Papa e il Patriarca è una testimonianza viva del fatto che perfino il male che avviene oggi nel mondo contemporaneo può essere l’occasione di un bene, è stato cioè l’occasione di questo incontro. Infatti l’incontro non è avvenuto perché tutto va bene, non perché il mondo è talmente bello che il Papa e il Patriarca si sono incontrati per dire: “guardate quanto è bello il mondo di oggi”, no. Questo mondo non è bellissimo, è un mondo in crisi, una crisi in cui il secolo XXI°, così intelligente, così tollerante, è un secolo che perseguita i cristiani. Monsignor Paolo ha parlato adesso dell’Aiuto alla chiesa che soffre, noi abbiamo visto la mostra organizzata da loro qui al Meeting, abbiamo visto cosa succede ai cristiani in Africa e nel Medio Oriente. E’ una mostra che non si può guardare senza piangere, quando entri in questo corridoio e vedi i ritratti di persone, i loro nomi e una sola frase: “E’ stato ucciso perché era cristiano”. Questa è la realtà del XXI° secolo. Ma la crisi esiste non soltanto in Medio Oriente o in Africa, è una crisi che esiste anche nei Paesi dove c’è il benessere. Qui, è vero, non uccidono i cristiani ma possono impedirci per esempio di portare la croce al collo: e noi stessi cristiani spesso ci comportiamo come se non esistessimo, mentre Cristo ci dice: “Tutti vi conosceranno, tutti sapranno che siete miei discepoli perché voi avrete amore gli uni per gli altri”. Ma dov’è oggi questo amore? C’è almeno dell’amore nelle nostre famiglie cristiane?
Ebbene, tutta questa difficoltà, tutta questa crisi, il Signore la può trasformare in bene, un bene come lo è stato l’incontro tra il Papa e il Patriarca. Il patriarca Kirill una volta ha così parlato ad un incontro: “Si tratta di un tentativo di elaborare una comprensione comune, di capire insieme dove ci troviamo e dove stiamo andando, innanzitutto come famiglia cristiana e poi, in secondo luogo, come civiltà umana nel suo insieme”. Ha detto anche altre cose importanti, il Patriarca: “Un po’ di tempo fa ho avuto la sensazione che se noi non faremo un passo così radicale, un passo forte, potremo trovarci in una situazione di estrema crisi, perché la prosperità, il benessere del genere umano non è una cosa programmabile meccanicamente, la pace non si può programmare, così come la giustizia. Dio ci ha dato la libertà e noi possiamo scegliere la via della vita o la via della morte”. “Ciascuno lo sa bene” dice il Patriarca, “partendo dalla sua esperienza personale. L’uomo può creare buone alleanze, può creare un’unione di cuore con l’altra persona, oppure può distruggere questi rapporti, può educare dei figli ed essere felice della vita, oppure può essere egoista e così distruggere anche la vita dei suoi figli, il loro mondo interiore. E questo bivio, questa scelta è di fronte a ciascuno di noi, e tutto il genere umano sta di fronte a questa scelta”. “Ecco” dice il Patriarca “ho sentito che siamo sempre più vicini a questo bivio fatale. Proprio per questo è avvenuto il mio incontro con Papa Francesco, perché in lui ho visto un uomo che per molti aspetti condivide il nostro cuore, il nostro pensiero, un uomo che è capace di parlare in modo aperto e non in termini diplomatici, capace di condividere con sincerità i suoi pensieri, le sue idee, un uomo che sente come noi il pericolo dell’avvicinarci a un qualche punto critico”.
La seconda cosa di cui vorrei parlarvi rispetto all’incontro tra il Papa e il Patriarca è il tema delle persecuzioni dei cristiani nel Medio Oriente e anche in Africa del Nord. Io lavoro molto con i mass media, e nei mass media mondiali, sulle grandi agende, questo tema della persecuzione dei cristiani non è presente: ne hanno parlato molto la chiesa cattolica, la chiesa ortodossa, la chiesa russa, in particolare, ma nell’agenda internazionale dei media non c’era questo tema. Tante volte, quando abbiamo parlato nelle organizzazioni internazionali del fatto che uccidono i cristiani, che perseguitano i cristiani proprio perché sono cristiani, ci hanno risposto: “No, non è così, ci sono azioni militari, belliche, e quindi ammazzano la gente, tra cui anche i cristiani”. L’incontro tra il Papa e il Patriarca ha reso impossibile negare che questo avviene. Io credo che un concreto risultato pratico dell’incontro sia questo: ormai non si può più parlare del fatto che non esistano persecuzioni dei cristiani, perché i mass media di tutto il mondo che hanno visto questo incontro hanno dovuto parlare di questo tema.
Un altro tema importante è il tema della famiglia che risuona nella Dichiarazione congiunta, dove si dice che “la famiglia è fondata sul matrimonio come un atto di libero e vero amore tra uomo e donna. L’amore è qualcosa che congiunge, che cementa la loro unione e insegna loro ad accogliersi vicendevolmente, e il matrimonio è una scuola di amore e di fedeltà”. Nella tradizione ortodossa, la famiglia viene chiamata piccola chiesa: è una definizione molto importante, molto impegnativa, che ci fa vedere che la famiglia non è semplicemente l’unione di due persone che si mettono insieme per vivere nella vita pratica, ma è innanzitutto, come si dice nella Dichiarazione, una scuola di amore. Lo stesso amore che il nostro Salvatore ci ha dato come precetto. Per questo, la famiglia è possibile soltanto nella misura in cui “tu sei un bene per me”. Soltanto allora è possibile che esista la famiglia.
Qui al Meeting diciamo che “tu sei un bene per me”, parliamo del nostro prossimo, delle persone lontane, e spesso dimentichiamo che si parla innanzitutto di noi: per questo mi sembra che sia molto importante quella testimonianza sulla famiglia e mi sembra che il fatto che nella Dichiarazione sia risuonato il tema della famiglia come unione tra uomo e donna sia una forte testimonianza per il mondo di oggi. Un altro aspetto importante di cui si parla molto, di cui già monsignor Paolo ha parlato, è il fatto che questo incontro è stato l’esempio di una comunione fraterna, di cui noi vediamo pochi esempi nel mondo contemporaneo, tra politici, tra popoli e addirittura tra persone che sono vicine l’una all’altra. E’ importante che noi colmiamo questo deficit di fratellanza, perché il deficit di fratellanza porta all’odio. E permettetemi un’altra citazione del Patriarca Kirill: “La cosa per me più importante di quell’incontro è stata che non c’è stato niente di artificioso, qualcosa che volesse innanzitutto fare impressione a quelli che ci circondavano. È stato un discorso sincero, tra due persone preoccupate da quello che sta succedendo oggi, così come avviene in una famiglia cristiana, così come avviene nei rapporti tra cristiani e musulmani, e in qualche modo anche nel mondo intero. Per misericordia di Dio, posso dire che noi abbiamo un grande consenso, un grande accordo. Abbiamo trovato un accordo fondamentale su quello che sta succedendo oggi nel mondo, nel mondo della politica. C’è una comune concezione di che cosa dev’essere la posizione di un cristiano di fronte a tutte queste sfide”.
Ed ecco altre parole molto importanti del Patriarca: “Noi diciamo che il mondo è diviso, noi rimproveriamo i politici: come mai non trovate un linguaggio comune? Ma dobbiamo anche guardarci in maniera critica e chiederci: e noi, perché non riusciamo a trovare un linguaggio comune e un modo di parlare allo stesso modo sui problemi che oggi ci preoccupano?”. Io credo che queste parole siano molto importanti: se non riusciamo a trovare un linguaggio comune gli uni con gli altri, come possiamo rivolgerci alla gente comune e parlare del fatto che loro debbono trovare un linguaggio comune? Il cristiano non ha altro modo di cambiare il mondo se non innanzitutto cambiando se stesso. A noi piace molto citare una frase del Vangelo sul fatto che vediamo spesso la pagliuzza nell’occhio del fratello e non la trave nei nostri occhi, ma di solito ci fermiamo qui, a questa citazione. Nel Vangelo, invece, si continua parlando di fare in modo che questo non avvenga. Il Signore dice: “Ipocriti! Voi innanzitutto toglietevi la trave che avete nell’occhio e poi riuscirete a capire come togliere la pagliuzza che sta nell’occhio del vostro fratello”. A me sembra che questo incontro ci abbia aiutato ancora di più a capire il significato di queste parole del Vangelo.
Permettetemi ancora alcune riflessioni suscitate in me dopo quest’incontro. Nella Dichiarazione comune, c’è un appello ai giovani. Noi spesso ci scontriamo col fatto che i giovani non vanno volentieri in chiesa, perché hanno paura, perché ritengono che in chiesa semplicemente gli diranno: “Non fare questo, non vestirti così, non ascoltare questa musica …”, un insieme di divieti. E chiederanno loro di riconoscersi peccatori. Ma il significato dell’annuncio del Vangelo non è innanzitutto quello di far sì che l’uomo si riconosca peccatore, perché il riconoscimento del proprio peccato non può essere il fine del cristiano: questo annuncio non sarebbe un buon annuncio, una buona novella, non sarebbe la parola gioiosa del Vangelo. Perché riconoscere il proprio peccato non ha ancora niente di gioioso: sì, io riconosco che ho peccato, e poi? E poi, invece, viene la cosa più importante, di cui noi dovremmo parlare ai giovani: il Cristianesimo, il Vangelo, non è innanzitutto la dimostrazione di cos’era l’uomo prima o di che cos’è l’uomo adesso. Tutto il Vangelo ci parla di che cosa l’uomo può diventare insieme a Cristo e in Cristo: lo sguardo del Vangelo è rivolto al futuro, non al passato. E la gente, i giovani che vengono alla chiesa e a cui noi ci rivolgiamo quando li invitiamo, devono capire molto bene questo: è il futuro, il cambiamento della persona. Certamente tutto questo cambiamento chiede il riconoscimento del proprio peccato, richiede un grande sforzo, un grande lavoro: ma tutto questo è soltanto il mezzo per raggiungere il fine reale, il fine gioioso della vita in Cristo. Un grande santo russo, Serafino di Sarov, accoglieva ogni persona che incontrava con quest’unica frase: “Gioia mia! Cristo è risorto!”. E in questa espressione c’è proprio la quintessenza del Cristianesimo. Lo scrittore inglese Lewis, un grandissimo apologeta del XX° secolo, intitola la sua autobiografia spirituale Sorpreso dalla gioia, appunto, dalla gioia! Non dagli orrori, non dalla paura, non dal rimorso ma dalla gioia! Oppure il grande Blaise Pascal, che dopo aver avuto la rivelazione della fede, scrive nei suoi diari: “Gioia, gioia, gioia! Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe e non il dio dei filosofi o degli studiosi”. E dunque il Cristianesimo parla non del passato ma del futuro. Ma di quale futuro? Della vita tra 5, 10 anni? Sì e no: è il futuro del cuore dell’uomo. Che cosa può diventare il cuore dell’uomo se in questo cuore prenderà la sua dimora Cristo, comincerà a vivere Cristo? E non è semplicemente il futuro come categoria di tempo, un futuro che verrà un giorno, ma il futuro come eternità. In uno dei suoi ultimi discorsi, don Julián Carrón, ripetendo un pensiero di Giussani, dice che l’uomo è desiderio di infinito. E il filosofo russo Aleksej Losev ha definito la fede come un affermarsi della persona nell’eternità. Quando questo è possibile? E a che condizioni questo può avvenire? Come si può avvertire questa eternità quando siamo in un mondo in crisi? C’è una condizione obbligatoria: “tu sei un bene per me”. Questo ci apre la strada dell’eternità.
E l’ultima cosa che vorrei dirvi: ho cominciato parlando del fatto che il mondo contemporaneo è in crisi. Ma ogni epoca, se guardiamo alla storia, è un’epoca di crisi e i cristiani si sono sempre imbattuti in questa sfida. E allora, in che cosa consiste questa sfida per noi oggi? L’altro ieri mia moglie e io siamo stati a Ravenna e abbiamo guardato gli splendidi mosaici che ci sono lì. Mia moglie mi ha detto che nessuno oggi sarebbe in grado di fare mosaici simili. Si è persa la tecnica, la tradizione. Noi ci affrettiamo sempre, tutto il tempo, viviamo in un’altra epoca, non possiamo ripetere questi mosaici. Ed è vero. Ma io ho pensato anche un’altra cosa: che questi mosaici noi li abbiamo già, esistono. È un contributo che il Cristianesimo ha già offerto al mondo: i mosaici di Ravenna già ci sono; sono già state scritte Le Confessioni di Agostino; è già stata costruita la Basilica di San Pietro a Roma e la Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca; i Padri della chiesa hanno già scritto il corpus della dottrina cristiana.
Sono cose che già esistono, già fatte: questa sfida ha già trovato la sua risposta e noi possiamo attingervi ispirazione, forza. Ma allora, qual è il mosaico che siamo chiamati a fare? Il mosaico che noi, seduti qui in questa sala, dobbiamo comporre? In questo mondo, diventato ormai un mondo molto piccolo, in cui vivono cristiani, musulmani, atei, terroristi, viviamo tutti insieme. Abbiamo inventato armi che sono in grado di distruggere in fretta il mondo, viviamo dove ci sono persone che hanno talmente tanti soldi che non saranno mai in grado di spenderli. E vicino, ci sono persone che non sanno che cosa mangeranno oggi. E allora, quale può essere il nostro mosaico, il mosaico del XXI° secolo? Come imparare a vivere per rispettare la dignità del nostro prossimo che può non appartenere alla nostra comunità, che può odiarci? Come imparare a vivere con questa persona senza tradire la nostra fede ma anche, grazie alla nostra fede e al vangelo, imparare a vivere in lui, così com’è, l’immagine di Dio? Come vedere in lui ciò per cui Cristo è andato in croce? Che cosa può diventare la base, il fondamento di questo mosaico? Io credo che conosciamo la risposta, e sono veramente grato al Meeting che mi ha aiutato per molti aspetti a ritrovarla. Questa risposta è molto breve: “tu sei un bene per me”. Cari amici, cari amici! Voglio dedicare i vostri applausi innanzitutto all’arte della fantastica Giovanna Parravicini che traduce, perché sono sicuro che se anche io avessi detto qualche stupidaggine, voi non l’avreste sentita.
ALBERTO SAVORANA:
Prima di concludere, voglio fare una domanda a cui chiedo di essere molto telegrafici nel rispondere. Capite cosa significa la portata storica di un incontro? Una persona può venire a Rimini e domandarsi: ma che titolo hanno inventato? Ma cosa c’entra con i problemi della vita, del mondo, della fede? E finire dicendo che la sintesi di tutto il suo intervento è “tu sei un bene per me”. Cos’è successo tra la prima percezione e la conclusione di questo intervento? Quello che è successo a Papa Francesco e a Kirill: un incontro. Questa è la potenza che cambia la storia. Diceva prima Mons. Pezzi: uno sguardo, innanzitutto, diverso sulla realtà. Allora vorrei chiedervi brevemente, perché sono curioso: come l’incontro di Cuba in questi mesi ha cambiato il vostro modo di lavorare, di relazionarvi, di portare la vostra responsabilità di fratelli, ma dentro una diversità che ha ancora la ferita di un cammino che deve continuare?
MONS. PAOLO PEZZI:
Io sono telegrafico perché è un po’ quello che ho già detto: per me è stato proprio questo cambiamento di sguardo. Incontrando un altro, un tu diverso, non il domandarmi che cosa potrò portarmi a casa ma: tu chi sei e quale bene sei per me, fratello?
VLADIMIR LEGOYDA:
A me sembra che ci siano stati cambiamenti per molte persone, ma forse la cosa principale è quella che ha detto adesso Mons. Pezzi: il cambiamento di sguardo e di comprensione. Quello che sembrava impossibile in realtà è possibile ed è possibile nella verità.
ALBERTO SAVORANA:
Quello che sembrava impossibile è possibile, cioè è reale, nella verità. Diceva Legoyda, alla fine del suo intervento: “Non c’è altro modo per cambiare il mondo che cambiare se stessi”. Noi in questi giorni siamo letteralmente travolti da gesti, incontri che fino a qualche tempo fa sembravano impossibili: la famigliare di una vittima del terrorismo che abbraccia la terrorista, nella pace, come un bene per sé; un ebreo che abbraccia un cristiano e dialoga con lui, rileggendo una storia di dolore, di sofferenza e di ingiustizia e termina dicendo: “Voi siete nostri partner nella redenzione del mondo”. Un Gran Mufti che si commuove per la sterminata misericordia di un Papa. E oggi, un cattolico e un ortodosso, dopo mille anni in cui questo non era stato possibile, che per il gesto, tanto semplice quanto gigantesco, di un abbraccio, di uno sguardo tra un Papa e un Patriarca, possono stimarsi come fratelli. Addirittura, diceva Mons. Pezzi, “riconoscendo che l’altro, che tu entri nella definizione di me. Io ho bisogno di te, proprio nella tua diversità, per poter dire io”. Sarebbe stato utile, aldilà delle previsioni, fare il Meeting quest’anno per offrire questa testimonianza disarmata: don Carròn, nel suo ultimo libro, parla di una “bellezza disarmata”. Sembra niente, ad alcuni può sembrare troppo poco. E invece è il segreto con cui Dio, con il suo metodo dimesso, apparentemente inincidente sulla storia, guida le sorti del mondo. Grazie a Mons. Pezzi, a Vladimir Legoyda e a tutti voi.