Chi siamo
Tutela e valorizzazione dei beni culturali di interesse religioso
Hanno partecipato: Francesco Margiotta Broglio, giurista; Giancarlo Santi, sacerdote della diocesi di Milano; Francesco Sisinni, Direttore generale del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Moderatore: Sandro Benedetti.
Benedetti: Questo incontro si inscrive nella scena di Antigone in cui il vecchio immigrato dice al funzionario: “Mio padre mi diceva…” “Che c’entra chi diceva…?” “Mio padre c’entra sempre”. Il tema, quindi, è quello della tradizione attiva, del valore, cioè, dell’insegnamento storico, della validità del suo riconoscimento nell’oggi; non documento morto, ma insegnamento che crea il presente. Nell’accordo di revisione del Concordato, l’art. 12 istruisce la reciproca responsabilità della Chiesa e dello Stato italiano nella tutela e valorizzazione di questi beni e dà mandato per tutta una serie di procedure e di strutture adeguate allo scopo. Nella Costituzione Italiana si riconosce il valore della cultura religiosa; in particolare all’art. 9 si afferma che “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e tutto il patrimonio storico artistico della nazione”. L’accordo di revisione del Concordato, all’art. 9, punto 2, recita: “la Repubblica italiana riconosce il valore della cultura religiosa e tiene conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio del popolo italiano”. Lo Stato in prima persona assume questa funzione di particolare attenzione al patrimonio storico artistico ecclesiastico, ma, in particolare, riconosce che proprio la dimensione del patrimonio culturale è importante, in quanto elemento fondativo dell’identità nazionale. Giovanni Paolo II continuamente in questi ultimi tempi richiama la necessità di considerare la dimensione dell’esperienza religiosa come fondativa della identità dell’Europa: un tema che, dopo gli eventi ultimi e le grandi trasformazioni dell’Est europeo, egli richiama quale matrice unitaria per l’Occidente e per l’Oriente, nel quadro di ricostituzione dell’Europa stessa. Un artista di levatura internazionale, quale Ingmar Bergman, il grande regista svedese, dice, in ordine al rapporto tra creatività artistica e fede: “A parte le mie credenze e i miei dubbi personali, è mia opinione che l’arte ha perso il suo impulso creativo fondamentale nel momento in cui fu separata dalla fede”.
Il ruolo dei beni ecclesiastici è notevolissimo. Da un’inchiesta svolta dalla Conferenza Episcopale Italiana, i beni ecclesiastici appaiono in una dimensione enorme: circa 95.000 chiese, 3.000 biblioteche, circa 28.000 archivi parrocchiali, diocesani… Ciò si inscrive nel grande problema della tutela e conservazione del patrimonio artistico e culturale italiano. L’Italia, secondo stime dell’Unesco, possiede circa il 50% dei beni culturali di tutto il mondo, di cui i beni ecclesiastici sono una percentuale intorno al 70, all’80%, sezione – dunque – particolarmente impegnativa e importante.
I beni culturali ecclesiastici non sono oggetti da museo; il loro uso è di particolare importanza, non solo perché la teoria del restauro dice che il primo modo per conservare i beni è quello di usarli, ma in quanto questo uso è finalizzato allo sviluppo della esperienza religiosa. La dimensione artistica dei beni culturali ecclesiastici si lega e si salda strettamente alla qualità artistica e dipende in maniera strettissima dal ruolo religioso di questa qualità. Guardini, il filosofo pensatore che ha caratterizzato il pensiero religioso di questo secolo, dice: “La liturgia non desume le sue forme dall’arte ma è il culto che sta al principio da cui poi l’arte costruisce le sue forme”. La creazione artistica nasce da un’interrogazione profonda, ontologica. Solo se questa avviene l’opera, l’arte, l’architettura, diventa significativa. Valorizzare significa, perciò, riprendere contatto con questa scintilla originaria in cui un’esperienza umana, l’esperienza religiosa in questo caso, si è fatta forma. Compito della lettura storico-critica, compito di chi vuole interpretare le opere artistiche e i beni ecclesiastici, è ricogliere di nuovo questo momento germinale e verificare quale ricchezza di esperienza umana, quindi quale ricchezza di esperienza religiosa, sia contenuta nell’opera, abbandonando le concezioni puramente visibilistiche o formalistiche. Reimpossessarsi dell’origine dell’opera d’arte significa riscoprire l’evento iniziale che ne ha creato la significatività.
Francesco Margiotta Broglio, giurista, è da vent’anni professore ordinario di Relazioni tra Stato e Chiesa alla facoltà di Scienze Politiche di Firenze. Dal ‘73 al ‘76 è stato direttore del Comitato per le Scienze Giuridiche e Politiche del CNR. Collaboratore di vari quotidiani e riviste, dal ‘74 dirige la collana “Religione e società” dell’editrice Il Mulino. È stato componente e consulente in qualità di esperto di diritto, di diverse commissioni governative tra cui quella per la riforma carceraria, e di commissioni di organismi internazionali per i diritti dell’uomo, quali l’ONU e l’UNESCO.
Broglio: “La Santa Sede e la Repubblica Italiana, nel rispettivo ordine, collaborano nella tutela del patrimonio storico ed artistico, al fine di armonizzare l’applicazione della legge italiana, con le esigenze di carattere religioso; gli organi competenti delle due parti concorderanno opportune disposizioni per la salvaguardia, la valorizzazione e il godimento dei beni culturali di interesse religioso, appartenenti ad Enti ed Istituzioni ecclesiastiche. La conservazione e la consultazione degli archivi di interesse storico e delle biblioteche dei medesimi enti ed istituzioni saranno favorite ed agevolate sulla base di intese tra i competenti organi delle due parti” (Art. 12 dell’accordo dell’’84). È questa la prima volta che si trova nella legislazione italiana questa terminologia: “beni culturali di interesse religioso”. L’interesse religioso è dato da due elementi: dalla destinazione del bene e da interessi culturali e religiosi in esso incorporati. Il concetto di beni culturali viene nel nostro ordinamento dopo che il nostro ordinamento da convenzioni internazionali cui si deve fare riferimento. Mentre è molto citata la Convenzione dell’Aja del ‘54, relativa alla protezione dei beni culturali in tempo di guerra, non viene quasi mai citata la Convenzione Unesco del ‘70, molto più importante, diretta a vietare l’importazione, l’esportazione, il trasferimento di proprietà illecita di beni culturali. La convenzione Unesco si applica a tutte le situazioni, sia di pace sia di guerra, ed è importante per la definizione unificata di beni culturali che ne emerge, definizione necessaria per consentire una protezione internazionale appropriata.
I tre criteri a cui in genere si fa riferimento nelle convenzioni internazionali per la definizione di beni culturali sono l’enumerazione, la classificazione e la categorizzazione. La convenzione Unesco del ‘70 opta per la categorizzazione e io credo che si possa prendere come base anche ai fini dell’interpretazione dell’art. 12. Gli art. 1 e 4, lunghissimi, prevedono una serie di categorie tra cui i beni concernenti la storia, compresa la storia della scienza, della tecnica, militare e sociale; la vita dei leaders, pensatori, studiosi, artisti; avvenimenti d’importanza nazionale, tutti i prodotti di scavi archeologici, il materiale etnologico, i manoscritti, i francobolli, gli archivi. Nel protocollo, art. 53, della Convenzione dell’Aja del ‘54 si prevede che venga vietato ogni atto di ostilità contro i monumenti storici e le opere d’arte, divieto esteso ai luoghi di culto. Quando si vanno ad utilizzare le Convenzioni internazionali che tutelano i beni culturali, fra cui le identità culturali di un popolo, non ci si rende conto che dell’identità culturale di un popolo fa parte la religione e che, quindi, si possono utilizzare le Convenzioni internazionali a protezione delle identità culturali, anche come protezione della religione, al di là dei Concordati e di tante altre cose tradizionali. C’è veramente tutto un campo enorme di lavoro e di sviluppo che in generale viene trascurato anche a livello politico.
Al di là delle convenzioni internazionali che ho ricordato, il termine “beni culturali” viene utilizzato dalla cosiddetta Commissione Franceschini, introdotta ed istituita con la legge 26 aprile del ‘64, in cui si dice: “Il patrimonio storico e culturale è formato da tutti i beni aventi riferimento alla storia della civiltà, quindi è bene culturale ogni bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà”.
La legislazione precedente era molto frammentaria; adesso siamo di fronte ad una amplissima latitudine del concetto di beni culturali di interesse religioso. Ci possono essere beni privi di carattere sacro, di proprietà di Enti ed Istituzioni ecclesiastiche, beni di proprietà della Santa Sede, beni soggetti a vincolo di destinazione al culto, beni di interesse religioso di proprietà di Enti ed Istituzioni ecclesiastiche, beni di interesse religioso di proprietà dello Stato.
Fra i beni culturali di interesse religioso certamente sono compresi archivi e biblioteche.
La norma afferma che dovranno essere stabilite delle intese fra le due parti per la conservazione e la consultazione; ciò significa che, ovviamente, la consultazione dipende dalla sola autorità ecclesiastica, la conservazione dipende sia da quella ecclesiastica sia da quella statale e che l’autorità statale interverrà in ragione della consultabilità. Ci sono delle enormi difficoltà a mettere in ordine questi archivi, ad avere del personale adeguato che li metta in ordine e li faccia consultare. C’è un problema di intervento. Occorre collaborare con lo Stato per la formazione di archivisti ecclesiastici; cioè creare nelle regioni dei corsi di formazione anche per laici, designati dall’autorità ecclesiastica, in modo che si possa creare un personale un po’ parallelo.
Il problema più complicato è quello degli archivi: oltre a quelli parrocchiali o diocesani ve ne sono tanti altri: sono archivi delle confraternite, di Enti gelosissimi delle loro carte, archivi di enti assistenziali-educativi, archivi di associazioni di più recente costituzione, archivi dei capitoli locali, archivi dei seminari, delle curie vescovili, archivi diocesani. Si aggiungano poi archivi degli ordini religiosi e degli ordini monastici.
La norma dice: “le autorità competenti concorderanno opportuni provvedimenti, opportune disposizioni”. Chi sono le autorità competenti?
La norma è molto generica. Il problema allora è a due livelli: a livello centrale e a livello periferico; vanno, quindi, definite le rispettive autorità.
Giancarlo Santi è sacerdote della diocesi di Milano. Architetto, responsabile dell’Ufficio beni culturali e presidente della Commissione Arte Sacra, fa parte della Consulta per i beni culturali della C.E.I. ed è membro della Commissione Paritetica per l’attuazione dell’articolo 12 degli Accordi Concordatari del 18 febbraio 1984, per parte vaticana.
È consultore della Pontificia Commissione per la conservazione del patrimonio storico e artistico. Collabora a riviste su temi relativi all’arte sacra e ai beni culturali.
Santi: I beni culturali ecclesiastici d’Italia sono una quantità enorme. I dati, frutto di un’indagine recente promossa dalla Conferenza episcopale, parlano di circa 85.000 Chiese tra parrocchiali e assimilate. Sono indicazioni di carattere approssimativo ancora, però significative. Questo significa che la responsabilità delle parrocchie italiane, dei parroci, della gente comune, della gente di parrocchia è enorme. Questo patrimonio è frutto del popolo cristiano ma pesa su di esso. Quando si parla di beni culturali ecclesiastici d’Italia non ci si riferisce soltanto ai grandi monumenti, alle grandi cattedrali, ma soprattutto ad un patrimonio capillarmente esteso e diffuso su tutto il territorio nazionale a tutti i livelli e in tutte le località.
Alcuni altri dati sono significativi e complementari: la nostra indagine ci parla di circa duemila biblioteche legate alla realtà delle parrocchie e almeno cinquecento importanti biblioteche legate alle diocesi, le biblioteche degli archivi capitolari, dei seminari, le biblioteche diocesane. Per quanto riguarda gli archivi, le parrocchie sono tutte sede di un archivio di interesse storico. Esistono poi gli archivi ecclesiastici di tipo diocesano, dei seminari, delle diocesi, dei capitoli, anche più preziosi e importanti (siamo a circa 1600). Infine gli archivi di istituti religiosi che sono stati sostanzialmente trasferiti e che costituiscono i fondi più importanti degli archivi statali. Nonostante queste vicende, gli archivi degli istituti religiosi si sono ricostituiti, sono forse meno recenti, meno ricchi, tuttavia sono piuttosto numerosi. E infine, la voce dei musei. In Italia, nonostante l’inventario dei musei non sia stato completato, esistono almeno cinquecento musei di proprietà ecclesiastica, dei quali un’ottantina sono musei diocesani, a cui va aggiunto il numero dei musei ecclesiastici. Nei dati che sono in mio possesso, negli ultimi vent’anni, a seguito del Concilio Vaticano II e dell’attivazione dell’ordinamento regionale, in Italia, probabilmente, il numero dei musei si è più che raddoppiato. E pensiamo che in futuro i musei ecclesiastici cresceranno ancora di numero: importanti diocesi italiane, infatti, stanno dando vita ad un loro museo.
Parlando di beni culturali ecclesiastici abbiamo di fronte una realtà non statica, ma dinamica. Peraltro voglio ricordare che la Chiesa non considera i beni culturali come una realtà definita e conclusa, ma come una realtà da costruire, per la quale impegnarsi. In Italia la Chiesa è impegnata a costruire continuamente chiese nuove e l’intenzione, al di là dei risultati, è di costituire opere che, per il loro significato, testimonino ai posteri questa nostra cultura architettonica. Negli ultimi trent’anni, in Italia, abbiamo costruito almeno tremila chiese. Chi si occupa, chi si prende carico di questo patrimonio immenso dal punto di vista ecclesiale? Chi se ne preoccupa sono le singole comunità e, in particolare, nelle singole comunità, i parroci, meno i laici.
Ci si sta rendendo conto, almeno in questi anni, che questo settore deve vedere impegnati laici preparati e competenti, le associazioni, i movimenti. Tuttavia, siamo ancora ai primordi, non esiste una sufficiente mobilitazione da parte di tutto il popolo cristiano; ciò richiede iniziative di carattere formativo, occorre attivare una collaborazione che ancora non è sufficientemente vivace nella chiesa. Esiste anche un impegno diretto da parte delle diocesi, da parte delle conferenze episcopali, regionali e nazionali, tuttavia la situazione richiede una ulteriore qualificazione ed educazione di personale. Le Conferenze episcopali hanno mosso in questi anni qualche passo, dotandosi di consulte regionali, di gruppi di esperti che consigliano le direttive da assumere. A livello nazionale, recentemente, la CEI ha istituito una propria consulta che sta già lavorando alla nuova stesura delle norme riguardanti i beni culturali. Da parte della Santa Sede c’è stata una ripresa di interesse, più che su un problema specificatamente italiano, sul problema dei beni culturali in senso universale, con la costituzione della Pontificia Commissione per la conservazione del patrimonio storico e artistico e l’istituzione di un corso specifico per la formazione di esperti presso l’Università Gregoriana.
La chiesa, specialmente a livello di base, è seriamente impegnata, anche da un punto di vista economico. Esiste poi la presenza costante e fattiva degli organi periferici dello Stato, ministero dei Beni Culturali, Sovrintendenze, presenti in chiave scientifica, come corpo di esperti di altissimo livello che collaborano anche con le comunità ecclesiali e con le diocesi. La gran parte dei contributi che lo Stato dà per restauri viene destinata al patrimonio ecclesiastico, parte principale del patrimonio culturale d’Italia. Il limite radicale sta nel fatto che le possibilità di erogazione da parte del Ministero sono limitate. I rapporti tra la Chiesa e lo Stato, in questa materia, sono rapporti di sostanziale intesa e collaborazione. Se il nostro patrimonio gode ancora sostanzialmente di buona salute, questo presuppone un rapporto di collaborazione non strutturato molto spesso dal punto di vista giuridico, tra Chiesa e Stato.
Francesco Sisinni è l’ideatore e, dal 1977 anche Direttore generale, del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, nonché Consigliere della Commissione Internazionale per i Beni Culturali della Chiesa.
Nato a Maratea nel 1934, ha insegnato a lungo sia in alcune Università italiane che all’Università Nazionale di Buenos Aires, Filosofia e Diritto italiano.
Stimato autore di numerosissime opere sia filosofiche che storico-artistiche, è da parecchi anni Consigliere scientifico dell’Istituto della Enciclopedia italiana e socio di svariate accademie ed Istituzioni culturali nazionali ed internazionali. Conosciuto anche come insigne dantista, è Consigliere centrale della “Dante Alighieri” e della “Casa di Dante” di Roma e fa parte del gruppo di esperti della “Lectura Dantis” scaligera, classense, fiorentina e romana.
Ha ricevuto importanti riconoscimenti per il suo operato teso alla salvaguardia del patrimonio culturale e alla stesura di piani programmatici in tal senso.
Sisinni: I numerosi interventi di carattere istituzionale volti alla salvaguardia dei beni culturali sono l’esito della riflessione sul bene culturale in sé. Bene è tutto ciò che soddisfa un bisogno umano. Il bene di cui noi parliamo è culturale, ha in sé dei valori che sono la testimonianza della storia, della creatività dell’uomo nel tempo. Sono valori e, come tali, immateriali. Se ci troviamo di fronte a un bene culturale di interesse religioso il discorso della immaterialità si fa ancora più evidente, perché è un bene immaginato, creato, voluto, inserito in un contesto a fini religiosi, non riducibili alla materialità della cosa. Ma vi è di più. In questi anni abbiamo riflettuto sulla funzione del bene culturale. Il bene è culturale perché ha in sé recepito la cultura che testimonia, in quanto è espressione della cultura che documenta nel tempo; non qualcosa di statico, di immobile, ma provocazione continua di cultura nella misura in cui noi riusciamo a leggere appunto i valori e la immaterialità che trascende la realtà della cosa.
Se poniamo questo bene in condizioni di colloquiare con noi, se creiamo un sistema di interpretazione, di lettura, cioè se rendiamo possibile la comunicazione, la partecipazione del messaggio, allora la funzione del bene è funzione educativa. Questo secondo aspetto sottolinea ancora di più il valore e il significato dei beni culturali di interesse religioso. L’arte, diceva Manzoni, ha il fine di educare, ma in questo caso il fine è insito in sé, cioè è un fine affidato, è un fine commissionato, perché l’opera nata per servire a fine di culto, è un opera che è stata immaginata per essere educativa. Tutti i beni culturali sono educativi, hanno questa funzione promozionale, che è recepita dalla Costituzione.
Oggi ci troviamo di fronte ad una nuova concezione che distingue la tutela, come conservazione, dalla valorizzazione. Si tratta, ovviamente, di aspetti complementari. Un bene culturale, proprio perché documento della storia, testimonianza della creatività e fattore di educazione permanente, non può non essere valorizzato, è lume che va posto in alto perché irradi la sua luce, è il seme che deve essere posto nel terreno a macerare e a fruttare, è il sale che deve insaporire la pasta, l’alimento. Perché questo possa avvenire è necessario che la tutela, correttamente intesa, non sia fine a se stessa, ma sfoci naturalmente nella valorizzazione. Valorizzare un bene di interesse religioso comporta ovviamente e conseguenzialmente l’uso del bene stesso e cioè la pratica liturgica, il culto. È qui appunto che il bene culturale diventa testimonianza e promotore di culto e di cultura.
Con questa visione noi accediamo al patrimonio culturale di interesse religioso, tutelandolo e valorizzandolo. Qui sorgono i primi gravi problemi, andando al di là del Concordato che, naturalmente, doveva tener conto di quella distinzione degli ordini dei beni culturali di interesse religioso, appartenenti agli Enti e Istituzioni ecclesiastiche. Noi, il ministero dei Beni Culturali, prescindiamo dalla appartenenza e, quindi, non limitiamo la nostra azione di tutela e valorizzazione ai beni che sono nelle mani della Chiesa o degli enti che alla chiesa fanno capo, ma guardiamo il bene culturale di interesse religioso senza alcuna riserva e limitazione. Istituzionalmente noi riteniamo che tutti i beni culturali siano pubblici, non perché di proprietà pubblica o perché il pubblico debba promuovere cultura, ma perché dev’essere fattore di educazione. Noi riteniamo che il bene culturale abbia una funzione squisitamente pubblica, che il suo destinatario sia il pubblico.
Il nostro problema diventa molto più ampio e complesso quando passiamo alla fase ultima della tutela: la valorizzazione. La tutela nasce dalla conoscenza, quindi occorre la catalogazione; è ovvio che non possiamo e non dobbiamo far distinzione; cataloghiamo tutto perché tutto dobbiamo conoscere, a chiunque questo appartenga, purché presente sul territorio, poi procediamo alla prevenzione, alla conservazione; quindi al restauro e infine al riuso, cioè alla valorizzazione.
Il problema vero nasce in quest’ultimo momento, quando cioè noi ci troviamo ad adibire ad un nuovo uso un bene che è caduto in disuso. C’è infatti l’esigenza di tutelare anche le edicole, le piccole chiese rurali che sono testimonianza della cultura del popolo, riflesso e documenti dell’anima popolare, ma le condizioni per cui il bene fu immaginato e realizzato non sono più attuali. Si pensi alle chiese, ma anche alle abbazie senza più monaci, conventi senza più i naturali abitatori, tante perle disseminate senza più fedeli: che facciamo di questa ricchezza enorme? Un volume di recente pubblicato parla di 100.000 chiese, ma di queste 100.000 quante sono aperte al culto? e quelle aperte al culto, per quante ore lo sono?
Il Ministero svolge un’azione continua nell’insistere sulla qualificazione culturale, cioè se non sia più possibile dare le abbazie ai benedettini, i conventi ai francescani, ai domenicani e così via. Da laico, affermo che dobbiamo avere grande rispetto della storia; come Direttore generale io insisto perché il riuso sia squisitamente culturale e cioè rispettoso della storia che è stata scritta su quelle pareti e che soltanto i ciechi e i sordi non vogliono vedere o sentire. Un soggetto di cultura, entrando in una abbazia, non può non risentire e rivivere la temperie culturale monastica.
Sta qui il senso della collaborazione sancita solennemente nell’art. 12.
Abbiamo nella chiesa tutta la vasta gamma di beni culturali: ci sono i beni archeologici; la chiesa è un monumento, quindi, bene architettonico; tutte le chiese conservano beni storico-artistici, i cosiddetti beni mobili (statue, arredi, ornamenti, paramenti); è un patrimonio immenso, diffuso, difficile da conoscere e che va alla deriva. Occorre grande cura, amore, insistenza. L’aver estromesso il latino e il canto gregoriano ha portato anche alla chiusura, al non uso e al degrado degli organi. Solo adesso si ricomincia difficilmente a riprenderli in considerazione. Ho creato una commissione nazionale e stiamo risalendo la china.
Come non accetto monaci che si presentano senza alcun segno religioso, così faccio opera continua di convinzione, affinché nelle chiese si aboliscano le chitarre e ci si intrometta di nuovo l’organo, perché questo è la voce della chiesa, nata con essa.
I musei diocesani nascono soprattutto per ragioni di tutela, perché molte chiese si chiudono. Noi aiutiamo le diocesi a creare musei diocesani o, comunque, di arte di interesse religioso per ragioni di tutela, ma con l’avvertimento che facciamo un’azione certamente non culturale. Sarebbe, invece, azione culturale il mantenimento di quei beni nel contesto naturale; sradicarli dal loro contesto è privare il territorio delle testimonianze che essi recano e documentano. Quei beni dovrebbero rimanere dove sono stati creati, perché in quel contesto solo si possono leggere chiaramente; fuori la lettura risulta sempre monca, difettosa per quanto noi sviluppiamo la didattica e ne facilitiamo l’interpretazione.
I religiosi dovrebbero avere a monte una formazione tale da far capire che non è un capriccio del Sovrintendente il voler mantenere l’altare a quel posto o lasciare il documento nella sua realtà ereditata. Questo si pone e si impone anche per i beni librari, per i beni archivistici. Io provengo dall’esperienza di Direttore generale dei beni librari e di studi culturali. Ho potuto constatare come, non per colpa certamente dei poveri parroci, vi fossero prima della tanto vituperata legge 285 (che ci ha permesso l’assunzione di ben 27.000 giovani, destinati prevalentemente al recupero di biblioteche e archivi ecclesiastici), molti beni destinati alla distruzione. Io stesso sono andato in parrocchie e canoniche a constatare lo stato di libri e archivi, ammucchiati e abbandonati per mancanza di spazio e di mezzi. Creammo l’Associazione bibliotecari ecclesiastici, avviammo l’Associazione archivisti ecclesiastici, abbiamo promosso dei convegni per i musei di arte religiosa, di interesse religioso, ma bisogna creare, istituzionalizzare dei corsi. Dichiaro la mia disponibilità e quella del Ministero per una collaborazione sempre più stretta: la formazione, la sensibilizzazione sono il presupposto necessario ad un’opera di tutela e valorizzazione, scientificamente e correttamente intesa.