Chi siamo
TU SEI UN BENE PER ME
Partecipa Luca Doninelli, Scrittore. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.
TU SEI UN BENE PER ME
EMILIA GUARNIERI:
Buonasera, oggi entriamo ulteriormente dentro il titolo del Meeting di quest’anno. Diamo il benvenuto a Luca Doninelli, grandissimo amico personale di tanti di noi, grandissimo amico del Meeting: se andate sul sito del Meeting, trovate che ha partecipato quarantanove volte. Per quarantanove volte, Luca, hai dato un bel contributo al Meeting. Famoso scrittore, come è noto, ha cominciato a scrivere nel ’78, credo su istigazione di Giovanni Testori. Le sue opere sono note: I due fratelli, Tornavamo dal mare, è stato finalista allo Strega, attualmente è finalista al Campiello 2016 con il romanzo Le cose semplici. Luca è anche Docente alla Cattolica di Milano, ma è stato proprio imbattendoci nelle pagine di questo romanzo che abbiamo trovato suggestioni, consonanze con quello che viviamo oggi, tali che ci hanno in qualche modo indotti a pensare a Luca per trattare il titolo. E’ una cosa nuova per il Meeting, è la prima volta che affidiamo a un poeta, a uno scrittore, quindi anche a un linguaggio diverso, l’introduzione un po’ più sistematica al titolo del Meeting. Dico un po’ più sistematica perché mi pare che, da quando abbiamo cominciato, ogni gesto, ogni incontro, ogni cosa che abbiamo fatto o visto o ascoltato sia stata una introduzione a questo Tu sei un bene per me. Oggi facciamo un tentativo di sistematicità. Anche nel suo romanzo Le cose semplici c’è una civiltà allo sfascio. Uno sfascio che ha anche una visibilità materiale, un mondo distrutto, uomini distrutti, uomini che hanno perso il desiderio di fare, il desiderio di vivere, di lavorare, di costruire. Tutto sta franando, come in un romanzo di fantascienza, tutto si è interrotto: i trasposti, le comunicazioni, qualunque cosa. Le città sono implose e si sono distrutte, i desideri buoni degli uomini, in un contesto dove il vivere è diventato difficile, dove la parte più brutale della creatura umana tende a venir fuori, sembrano venuti meno. Ma c’è qualcuno che anche in queste situazioni più improbabili investe ancora sul desiderio dell’uomo, qualcuno che sa, dice nel romanzo, “che un civiltà coincide con i campi che apre al desiderio umano, qualcuno che sa che nessun delitto è così subdolo come lo sterminio del desiderio, qualcuno che sa che anche nelle condizioni più avverse un ragazzo deve poter continuare a desiderare tante cose”. E questo qualcuno nella storia di Doninelli c’è, questo qualcuno è una creatura femminile, Chantal. Chantal ha il coraggio di guardare a ogni tu che incontra come ad un bene, Chantal ha il coraggio semplice e ingenuo di credere che il desiderio di ogni uomo, di ogni donna, sia la grande molla che può cambiare la storia. Chantal ha questo coraggio, questa semplicità di credere nel desiderio, nell’uomo, nel cuore. Ma questo coraggio di Chantal non è il coraggio prometeico, non è il coraggio che gonfia i muscoli, è un coraggio che non mi pare tanto diverso dal coraggio di cui parla Papa Francesco, lo ricorderete, lo abbiamo letto il primo giorno, il Papa definisce coraggioso il titolo di questo Meeting. Parla del coraggio di chi non si chiude nell’orizzonte ristretto dei propri interessi, parla del coraggio che è capace di superare l’insicurezza esistenziale che ci porta ad avere paura dell’altro. Parla del coraggio che è capace di testimoniare il dialogo e, aggiunge papa Francesco, “di un dialogo che implica la chiarezza della propria identità, ma al tempo stesso la disponibilità a mettersi nei panni dell’altro per cogliere ciò che agita il suo cuore e che cosa cerca veramente”.
Ho sentito come una eco di quel coraggio di Chantal, nel ritrovare questo accento di coraggio del messaggio di Papa Francesco. Che cosa succede? Succede che nel romanzo, attorno a Chantal, si crea un mondo, un contesto in cui si può vivere, con tradizioni, dolori, situazioni improbabili, ma l’amore e il coraggio di Chantal costruiscono come un altro mondo nel mondo. E allora, viene da chiedersi se oggi, che non c’è la catastrofe del romanzo di Doninelli ma ce n’è comunque una simile, ci siano uomini che desiderano amare una nuova costruzione, desiderano che si possa costruire un altro mondo nel mondo. Mi è tornata in mente una citazione di Giussani, quando dice che una nuova civiltà, una cultura nuova, è il “nesso tra tutti i brandelli di bene che si trovano, nella tensione a farli valere e ad attuarli. Si sottolinea il positivo, pur nel suo limite, e si abbandona tutto il resto alla misericordia del Padre”.
Mi veniva da chiedermi: ma oggi ci sono uomini desiderosi di amare un amore così, una nuova costruzione, desiderosi di amare così una cultura nuova, che sia nesso fra tutti questi frammenti di positivo? Pensate a quanti frammenti di positivo ci sono già dentro questo Meeting, li stiamo vedendo, li stiamo incontrando. Credo che sia una bella domanda e mi permetto di aggiungerne un’altra, anch’essa abbastanza inevitabile: ma noi cristiani, crediamo ancora nella capacità della fede che abbiamo ricevuto di esercitare un’attrattiva su coloro che incontriamo? Crediamo ancora nel fascino vincente della sua bellezza disarmata? Perché, se è possibile per Chantal amare e guardare con positività, non possiamo non chiederci se è possibile per noi e se crediamo nella possibilità di questo fascino vincente della bellezza disarmata di ciò che abbiamo incontrato.
Ma, e concludo, se tu non fossi un bene per me, perché dovrei desiderare di costruire con te? Se tu non fossi un bene per me, perché dovrei desiderare di incontrarti? Perché dovrei desiderare di coinvolgerti nella stessa bellezza che ha coinvolto me? La questione che tu sei un bene per me, che è tutt’ altro che scontata, come credo che l’intervento di Doninelli confermerà, diventa veramente una questione seria, perché si può desiderare la costruzione, si può desiderare di mettere insieme pezzi se l’altro è un bene. Se tu non sei un bene, perché? Se non ho il coraggio di guardarti così, perché dovrei desiderare di costruire? La questione diventa veramente una questione seria, e quindi, Luca, adesso ti ascoltiamo.
LUCA DONINELLI:
Quando gli amici del Meeting mi hanno proposto di tenere questo incontro, mi sono venute alla mente decine di persone che avrebbero potuto farlo meglio di me. Ma la vita è essenzialmente la risposta che diamo a un invito, a qualcuno che ci chiama. Il fatto di non avere titoli particolari per dire certe cose (uno scrittore non ha titoli, potrebbe essere anche un criminale) mi ricorda che tutto quello che un uomo può dire di interessante è qualcosa che a sua volta ha imparato. C’è chi esibisce se stesso e chi racconta quello che ha imparato, e queste ultime sono, solitamente, le persone più interessanti. E si impara da chi a sua volta ha imparato e continua a imparare. Perciò vorrei dedicare quello che dirò alla persona che più mi insegna questa verità semplice e al tempo stesso difficile, come tutto ciò che è semplice. E’ uno dei fondatori di Cometa, ma è anche un grande artista, Erasmo Figini: le parole che dirò sono un modo per dirgli grazie con tutto il cuore.
Venendo a noi: nel pentolone dei pensieri che subito mi hanno assalito, non appena Marco Aluigi mi ha comunicato questa proposta così inaspettata, un’immagine si è fatta largo: quella di Maria che accoglie sul suo grembo il corpo del Figlio morto. Per lei Gesù era il figlio che aveva allattato, amato, accudito, fatto crescere, quello che più di chiunque altro le aveva fatto sussultare il cuore. E al tempo stesso era il Figlio dell’Altissimo, Dio lui stesso. Per lei le due cose erano una sola. E adesso era morto, inerte tra le sue braccia. Cosa poteva significare per Maria, in quell’istante, “tu sei un bene per me”? Questo è l’abisso che si apre per chi voglia affrontare questo tema senza retorica: un abisso in cui è facile cadere se una grazia inimmaginabile, impossibile, non fosse accaduta, se io stesso non avessi fatto e non facessi l’esperienza di qualcuno che mi dice – qui, adesso – “tu sei un bene per me”.
1. Aiutiamoci a pensare.
Comincio con tre brevi osservazioni preliminari. Prima osservazione. Il dato culturale più impressionante di questi anni è la pressoché totale incapacità dell’Europa e dell’Occidente in generale a far fronte con un giudizio lucido (noi, figli dell’Illuminismo) a tutte le tragedie che la stanno attraversando, dalle stragi causate dal terrorismo a quella, immensa, che si consuma tutti i giorni nei nostri mari, da un’inaspettata fragilità economica che produce masse sempre più grandi di poveri fino alla persecuzione di cui in molte parti del mondo è fatta oggetto la fede cristiana.
E’ urgente che ci aiutiamo a recuperare una posizione culturalmente adulta sul mondo in cui viviamo, una posizione che comprenda il più possibile tutti i fattori in gioco, dal terrorismo all’immigrazione, dalla crisi agli odi ideologici. Anche tra noi, è molto difficile trovare persone capaci di affrontare il problema nel suo complesso: ma proprio questa è l’urgenza. Dobbiamo aiutarci a costruire uno sguardo sull’uomo che tenga insieme le cose, dobbiamo insomma aiutarci a pensare, perché pensare vuol dire questo: cercare di affrontare tutti i termini di una questione complessa.
Seconda osservazione. L’umanesimo occidentale è al collasso, eppure la nostra domanda sul futuro continua – anche a fronte degli attentati terroristici – a gravitare in un orizzonte asfittico: che ne sarà di noi?, della nostra società?, della nostra bella civiltà?, delle nostre belle vie cittadine?, della nostra ricchezza?, del nostro shopping?
Il primo dato, almeno per me, è che di fronte a un tu di proporzioni mai viste, noi europei continuiamo a rivolgere lo sguardo e il pensiero a noi stessi, cerchiamo cioè di salvare le nostre politiche, i nostri progetti, e fatichiamo a immaginarne di nuovi, anzi, spesso ne rifiutiamo il principio, spesso ci rifiutiamo di immaginare una nuova progettualità. Ma intanto il panico cresce.
Di qui la mia domanda: come possiamo recuperare, qui, adesso, un pensiero sano, non malato, capace di pensare l’altro senza precipitare nel moralismo o nella paranoia?
Terza osservazione. Qualche anno fa Massimo Cacciari, quando era sindaco di Venezia, in un’intervista molto simpatica disse, tra il serio e il faceto, che il problema principale di ogni sindaco sono i cittadini: con le loro lamentele sciocche, con la loro incapacità di sollevare il naso oltre il piccolo problema che gli ingombra il cervello, i cittadini ostacolano in modo spesso determinante l’azione di un buon amministratore. E concludeva che, senza cittadini, le città sarebbero amministrate molto meglio.
Nel dire queste cose Cacciari citava indirettamente Hannah Arendt che nel suo capolavoro Le origini del totalitarismo, che raccoglie la tragica esperienza di un secolo di orrori, stabiliva una differenza fondamentale tra le tirannidi antiche e i totalitarismi odierni. Nelle prime l’uomo è schiacciato, ridotto a schiavo, umiliato; nelle seconde l’uomo è, semplicemente, inutile. Lo si potrebbe sostituire – è quello che immaginava Giovanni Testori nel suo Post-Hamlet – con un robot, si potrebbe sostituire il suo sangue con una linfa sintetica. La storia militare racconta che, nel corso del tempo, la percentuale delle vittime civili nelle guerre è aumentata esponenzialmente fino a diventare la quasi totalità. L’uomo, inteso come il singolo uomo, come quest’uomo qui, conta ogni giorno di meno.
2. Un incontro personale.
Entriamo ora nel centro delle nostre riflessioni. Recentemente è mancata la madre anziana di un mio carissimo amico. Uno degli ultimi giorni questa donna, rivolgendosi al figlio, disse: “Quando mi troverò davanti al Signore, che cosa gli dirò?”. Il mio amico fu molto colpito da queste parole, perché evidentemente sua mamma, che era una donna di grande fede, aveva la consapevolezza che l’incontro con Dio è un incontro personale: l’incontro con un altro, con uno che mi dice “tu” e al quale dico “tu”. In effetti, l’uomo comincia a contare qualcosa ai propri stessi occhi solo se incontra qualcuno che gli dice “tu”. Ecco un primo passo.
Cercherò come posso di dettagliare tutto questo facendo il mio mestiere. La mia materia non sono le idee o i grandi modelli ma la vita così come mi si presenta.
Il “tu” può anche essere brutto.
Per esempio c’è un modo di dire che detesto, ed è: ma noi non ci davamo del tu? Mi capita spesso di sentirmelo dire da persone con le quali non ho mai scambiato una parola in vita mia. E’ una frase ricattatoria. Se dici no, è impossibile dato che non ci siamo mai parlati fai la figura del maleducato. Però l’alternativa alla figura del maleducato è, oltre che una bugia (ma certo, come no!), l’ingresso in un’area di pseudo-confidenza nella quale io sono completamente in balia dell’altro. E’ l’altro che mi ammette nella sua area di confidenza: io mi posso confidare con lui (mentre lui di solito si guarda bene dal farlo con noi). E’ una specie di esercizio di forza, dal quale usciamo neutralizzati. Il mio interlocutore siede al centro della sua area di confidenza, nella quale la sua posizione non è di parità rispetto a me. Questo squilibrio si chiama potere nel senso negativo della parola. Il potere sottende un mondo di rapporti squilibrati, per questo è difficile da maneggiare: io so, possiedo, conosco tutto di te, posso raggiungerti in qualunque istante, mentre tu non sai nulla di me e non mi puoi raggiungere né toccare.
Il “tu” può avere una funzione di riduzione.
Quando per esempio diciamo “tu” a qualcosa che non funziona, che non va come vorremmo o che stiamo tentando di far andare come vorremmo. Quando non riusciamo a infilare un ago, quando una serratura non funziona, quando la macchina non parte: ma allora, vuoi deciderti a funzionare? Vuoi venire fuori di lì? Se dico a una gallina vieni qui bella è perché sa che voglio tirarle il collo e allora si nasconde.
Viceversa, se le cose funzionano come noi vogliamo non ci sono molte ragioni per dare loro del tu: esse sono puri mezzi, strumenti, un prolungamento del nostro corpo, una funzione del nostro progetto, e non hanno nessun bisogno di ricevere da noi lo statuto di esseri. Non hanno una consistenza al di fuori di noi, del nostro progetto. La loro consistenza siamo noi stessi. Si da del tu alla gallina che scappa, non a quella che sta ferma.
L’esistenza dell’altro sembra manifestarsi insomma (almeno così sembra) come un’opposizione, un’inimicizia, qualcosa di cui sono costretto mio malgrado a tener conto. L’altro è un nemico, passare attraverso questo aspetto è secondo me inevitabile, prima o poi. Anche con Dio è così: da Mosè a Giona, da Sant’Agostino a Michelangelo, fino al mirabile Innominato di Manzoni, che quest’anno è venuto a trovarci qui a Rimini.
Il “tu” è proprio un’altra cosa.
Nello scorso mese di febbraio mia moglie, in seguito a un’operazione al piede, non ha potuto camminare. Io spingevo la sua sedia a rotelle, di quelle da corsia, con tutte e quattro le ruote piccole. Ecco, questo semplice gesto mi ha fatto conoscere aspetti del pavimento di casa mia e del marciapiede sotto casa che non avrei mai immaginato. Ogni minimo dislivello, di cui normalmente non mi accorgo, si trasformava in un ostacolo, in un problema da risolvere: dallo zerbino di casa a un lieve affossamento sul marciapiede. Se non affrontavo il problema, se lo ignoravo, la sedia (con sopra mia moglie) cominciava ad andarsene per conto suo.
Esperienze semplicissime, come questa, ci insegnano una cosa molto più sconvolgente di quanto pensiamo: che, cioè, la realtà intorno a noi, o meglio ogni parte di realtà intorno a noi, obbedisce a un progetto che non ci appartiene: il marciapiede non è fatto per la mia sedia a rotelle, e il dislivello che incontro appartiene a quella piccola parte del marciapiede che mi riguarda in questo istante. Ma ciò che incontro non è solo quella piccola parte: grazie a quella piccola parte, a quel piccolo dislivello, io imparo che l’altro – come tale – obbedisce a una regola non mia.
L’esistenza del mondo è una presenza inesorabile, una specie di incombenza, che gli artisti rappresentano spesso come un precipizio, un gorgo, un urlo, una minaccia, come nell’Urlo di Munch, o negli ultimi angosciosi quadri di Van Gogh o di Francis Bacon, oppure come una bellezza luminosa altrettanto misteriosa e a suo modo inquietante, come in certi dipinti di Henri Matisse, o di Piero della Francesca, o di David Hockney: il “tu” non ci lascia al nostro posto, ci obbliga a muoverci: anche per questo la sua presenza è qualcosa che, il più delle volte, noi ammettiamo a denti stretti.
Ma sentirci dire “tu” è la fonte della gioia, del godimento.
Ma ecco una cosa strana: quell’accoglienza dell’altro, che ci mobilita contro la nostra voglia, ci riempie di gioia e di stupore ogni volta che un altro la rivolge a noi. Se io fossi il pavimento, il marciapiede dove spingo la sedia a rotelle, come sarei contento sentendo te che dici non maledetto marciapiede, bensì il terreno è fatto così, perciò noi dobbiamo fare cosà! Che contentezza ogni volta che qualcuno, anziché considerarci come un ostacolo da rimuovere o come qualcosa da ridurre al proprio disegno, ci riconosce per quello che siamo! Che contentezza ogni volta che ci sentiamo chiamati per nome magari da qualcuno che credevamo non si ricordasse nemmeno di noi. Allora sì, ci sentiamo abbracciati.
Al di là dei suoi risvolti politici (tematica del Bene Comune, ecc.) Tu sei un bene per me è la formula dell’abbraccio, è la traduzione in parole di un abbraccio.
Chissà se si ricorda di me, diciamo tra noi, e invece quello ci viene incontro a braccia spalancate e dice il nostro nome.
Non pretende di risolvere i nostri problemi, non ci estorce un “tu” di puro dominio, ma accoglie e riconosce che noi siamo qualcosa di originale, qualcosa di bello perché irriducibile a qualunque altra cosa. Chi si comporta così, ci aiuta ad amarci, ad accettarci, a conoscerci.
Lo scrittore David Foster Wallace, noto a molti giovani anche qui presenti, e forse anche a qualcuno meno giovane, pone in questa tenerezza verso di sé il compito supremo della vita umana.
3. “Per me”.
Cerco ora di fare un altro piccolo passo.
Nell’Amleto di Shakespeare un attore ospite a Elsinor scoppia in lacrime mentre recita il lamento di Ecuba sulla morte di Priamo. Non regge, è un testo troppo doloroso. E Amleto, che sta ascoltando, rimane basito vedendolo piangere, e si domanda: chi è Ecuba per lui o lui per Ecuba?
Ecco. Cosa significa per me? Nella scuola a cui collaboro, la Oliver Twist di Como, è prevista un’ora dal titolo bellissimo: “tutto è per me”. Durante quell’ora, i ragazzi e gli insegnanti sono invitati a tener puliti i locali, a riparare ciò che è stato o si è rotto per incuria o distrazione o per agenti esterni, e così via. C’è però un rischio, che è quello di limitare “tutto è per me” a un’idea utilitaristica: un’aula pulita è meglio di un’aula sporca, un tavolo di lavoro ordinato è meglio di un tavolo disordinato, e così via.
Se è così, “per me” e “nel mio interesse” restano sinonimi.
Invece “tutto è per me”, se lo vogliamo tradurre con un’altra frase, è piuttosto sinonimo di “niente mi appartiene”. Prima abbiamo detto che la realtà obbedisce a leggi che non ho stabilito io, fino all’inimicizia, fino all’odio. Adesso dobbiamo aggiungere che questo essere non-mio è per me. Io aggiusto il banco, pulisco il pavimento perché il banco e il pavimento mi sono dati, così come mi è data la lezione di matematica, così come mi è dato il compagno, così come mi è data – donata – tutta la realtà, compresa la mia stessa vita (non mi soffermo sulle conseguenze anche civili di quello che sto dicendo).
Il pavimento da pulire, il banco da riparare sono segni di un certo rapporto con la realtà, che la ragione riconosce per natura, anche se poi deve fare la fatica di superare la pura istintività, che non coincide con la natura. Vi ricordate Gesù? «Quando vedete una nuvola venire su da ponente, voi dite subito: “Viene la pioggia”; e così avviene. Quando sentite soffiare lo scirocco, dite: “Farà caldo”; e così è. Ipocriti, l’aspetto della terra e del cielo sapete riconoscerlo; come mai non sapete riconoscere questo tempo?». Come dire: riconoscere i segni è naturale, però voi conoscete i segni solo se questo vi reca un tornaconto.
Ma io non riparo il banco per poterlo rompere di nuovo, lo riparo perché mi è dato, e se mi è dato non posso riparare il banco e, al tempo stesso, trattare il mio compagno come se fosse un cane: questo è essere ipocriti, non è questione di incoerenza (che ci sta sempre, ci mancherebbe) ma di concezione di sé. Pietro, dopo aver rinnegato Gesù, piange amaramente, mentre Giuda, dopo averlo venduto, si impicca. Non è che un peccato sia più grave dell’altro, è diverso il rapporto con la realtà. Io sono persuaso che anche Giuda amava Gesù. Il problema è chi è costui? Chi è costui che amo? Posso amare un profeta, un maestro, posso amare un fratello che improvvisamente impazzisce…
Tu sei un bene per me. Tutta la civiltà dipende dalla stima che abbiamo, istante dopo istante, di quel “tu”.
4. Una posizione drammatica.
Questo è il senso della civiltà cristiana e laica che abbiamo costruito nei secoli, da Abramo e dalla fondazione della polis greca fino a oggi: una civiltà che non solo ha prodotto Giotto e Leonardo ma che ci fa cedere il posto sull’autobus a una persona anziana o a una donna incinta, che ci induce a non considerare un nemico il prof di nostro figlio solo perché gli ha dato un brutto voto, e così via.
Tutto questo comporta però un dramma che non si può evitare. Tra me e te c’è uno spazio drammatico, talvolta tragico, dove la libertà si mette in gioco ogni volta da capo. Tra me e te c’è qualcosa che non sono io e non sei tu, una sorta di Terzo, un’altra cosa nel senso materiale del termine, perché la libertà non si esercita sul nulla, e non è nemmeno un esercizio di possesso (sempre giustificato) sull’altro.
E’ il punto dove mi premeva arrivare. Il lieto fine, se c’è, non va mai affrettato. C’è uno spazio di silenzio tra me e te, uno spazio dove la solitudine propria di ogni creatura è conservata, a dispetto della retorica che si fa talvolta sul tema della comunicazione: ed è conservata come rapporto con qualcosa che è di più del semplice corpo che ho davanti a me, e che potrei anche negare, dire: non esiste. Anche i social media spesso non sono altro che i testimoni muti della nostra solitudine. Non sono diversi, voglio dire, dal resto della realtà. Allora la questione è: come “tu” diventi davvero un “tu” irriducibile? Questo non va da sé, non è scontato.
Una delle esperienze più dure ma anche più illuminanti della mia vita è stata la compagnia che io e altri abbiamo fatto al nostro più caro amico, durante la lunga malattia che lo ha condotto a morire, nel 2011. Nel tempo che passò all’hospice, noi andavamo a trovarlo tutti i giorni e stavamo con lui gran parte della giornata. Si parlava ma non di tutto, e anche le cose di cui parlavamo, o i testi che leggevamo insieme, apparivano nella loro verità: un aiuto, un suggerimento, ma non qualcosa che potesse rispondere davvero al grido silenzioso di quegli occhi. Non perché quelle cose non fossero vere, ma perché la verità esige sempre un salto dell’io (ciò che va da sé è la banalità del male, è il diavolo) e lui si trovava davanti al salto più grande che ci sia – e il salto toccava a lui e soltanto a lui, non a noi o alle parole che leggevamo. In quei momenti era chiaro che la risposta a quel grido silenzioso non stava nelle nostre parole, e nemmeno nelle nostre povere persone, ma in un incontro con qualcuno che non eravamo noi. Il nostro compito era dire di sì a quell’incontro, dire sì insieme con lui, che diceva sì, e l’ha detto fino all’ultimo istante.
Tra me e te c’è un silenzio, un silenzio denso e duro, duro da accettare e duro da imparare, ma in questo silenzio c’è la radice del bene: io non sono la risposta alle tue domande, tu non sei la risposta alle mie. Niente ci può bastare, diceva Foster Wallace. Perciò io non posso esercitare un potere su di te, né tu su di me. Questa è la prima cosa che impariamo guardando negli occhi qualcuno che sta per morire.
5. Amate i vostri nemici.
Ecco perché poco fa parlavo della realtà, del “tu” come qualcosa che può assumere il volto di un nemico.
Ci sono espressioni di Gesù che i preti commentano malvolentieri, come Porgi l’altra guancia e Amate i vostri nemici. Quasi nessuno, anche tra i battezzati, crede a queste frasi. La prima viene trattata come una specie di boutade: in 60 anni di vita l’ho sentita citare solo in frasi come “io non sono mica uno di quelli che porgono l’altra guancia” (come se ne avessero mai visto uno), oppure “ma tu che sei cristiano non dovresti porgere l’altra guancia?”.
Il destino dell’altra frase è anche peggiore, perché non la si può trattare come una battuta. Amare i nostri nemici? Figuriamoci: dai nemici mi guardi Iddio, ché dagli amici mi guardo io, come dire: “Dio – se proprio vuole – si occupi degli straordinari, che all’ordinario ci penso da solo, senza nessun bisogno di Dio”.
Chi è il nemico: per riprendere quanto detto, il nemico è uno che segue regole diverse dalle mie, così diverse che può anche volermi morto senza che io sappia nemmeno il perché, così come io posso voler morto lui. Il nemico è la realtà che si ostina a essere diversa, talvolta incompatibile con le idee più belle che ci vengono in testa. Nemico è, certo, chi semina morte nelle nostre città, o nelle sue. Ma nemico è anche chi ti boccia un bellissimo progetto a cui avevi lavorato per settimane solo perché non lo capisce. Nemico è quello che dichiara brutto un mio libro senza nemmeno averlo aperto. Nemico è chi ci sbarra la carriera per favorire un suo amico che sappiamo del tutto incapace.
Nemico è, infine, uno di cui noi, a nostra volta, siamo nemici.
Il nemico, come la routine, non si può eliminare dalla vita: provateci, non ci riuscirete, o se ci riuscirete vi sentirete alla fine vuoti e sciocchi, oppure sarete troppo cattivi per accorgervi di questo vuoto.
Perciò amate i vostri nemici significa secondo me a) “amate la vostra vita anche al cospetto di chi ve la vuole togliere”, b) “amate la vita anche dei vostri nemici, amate ciò che in loro è vita”, c) “non smettete di amare ciò che di più bello avete ricevuto, difendendolo anche da quella parte di voi stessi che non lo comprende”: una richiesta di affrontare una posizione di inimicizia che è innanzitutto nostra.
6. Una bellezza immeritata.
Il “tu”, lo abbiamo detto, è un dramma, dire “tu” è l’esperienza drammatica più elementare che ci sia. Per dire “tu” bisogna vincere qualcosa, abbattere un muro. Anche il nostro amico più caro può assumere il volto del nemico. La questione non si può risolvere, e la ragione è semplice: perché “tu” siamo prima di tutto noi stessi.
Noi siamo molto spesso i peggiori nemici di noi stessi, perciò David Foster Wallace dice che bisognerebbe “trattare noi stessi come tratteremmo un buon amico, un amico prezioso. O un nostro bambino che amiamo più della vita stessa”.
Una volta, nel 1979, io e quello che sarebbe diventato il mio più grande amico (ho avuto almeno quattro più grandi amici) facemmo un viaggio: due settimane a Parigi. Io studiavo in Cattolica, lui in Statale. Ci conoscevamo da poco, ma ci stavamo simpatici. Ma la sera del secondo giorno bum!, scoppia tra noi una lite furiosa come solo due universitari possono fare: parlando di filosofia. Lui col suo esistenzialismo da Università Statale e io col mio neotomismo da Università Cattolica per poco non venimmo alle mani. E il biglietto di ritorno era prenotato di lì a dodici giorni. Dodici giorni d’inferno, penso tra me – cosa che deve aver pensato anche lui. Per due giorni non ci siamo parlati. Ecco che cos’era il nemico per me, in quel momento: non Hitler, non i comunisti o i fascisti, ma il mio amico.
Il pensiero che mi aiutò allora è lo stesso di oggi: dovevo combattere la mia inimicizia, sperando che anche lui facesse altrettanto. Io sono il nemico, mi sono detto.
Cosa mi aiutò? Una su tutte: il ricordo di quello che avevo ricevuto, del privilegio che mi era stato accordato, o meglio: regalato. Ero a Parigi con un amico, a passare una vacanza inaspettata. Andavo a messa in St. Germain-des-Prés, passeggiavo lungo la Senna tra i bouquinistes, salivo le scale verso Montmartre. La bellezza mi sovrastava. Avevo conosciuto una promessa di felicità che mi era stata donata senza che ne avessi alcun merito. Me ne resi conto allora per la prima volta, perché a ventitré anni non era facile pensare che un Altro aveva avuto pietà del mio niente, e che questa e non un’altra era la fonte della gioia. Ero giovane, simpatico, brillante, suonavo la chitarra, non mi consideravo certo un niente, anzi, mi consideravo un “figo”. Ma quel giorno qualcosa cambiò. Chi mi aveva donato tutto questo? Gesù Cristo era il suo nome. Gesù Cristo mi aveva insegnato che noi veniamo al mondo per essere felici. Questa era la vita. Una bellezza immeritata.
Intendiamoci. E’ giusto che ci sia un tempo della spensieratezza, ed è terribilmente ingiusto quando non c’è (rinvio alla mostra sui migranti: quanti di loro hanno tredici, quindici, diciotto anni!). Ma chi ha ricevuto un dono deve, prima o poi, chiedersi chi gliel’ha mandato, altrimenti si rimane bambini, mentre l’Italia, l’Europa e il mondo hanno un gran bisogno di persone adulte.
Poi vennero gli anni della fatica, poi quelli del dolore, qualcuno di noi si ammalò, ci fu chiesto di distaccarci dalle persone più importanti per la nostra vita, e fu come perdere una mano, o un braccio. Fu come vedere il mio sangue scorrere per finire in un tombino. Mi chiesi più volte se il mio destino non si riducesse a niente. Ci fu più di un addio, non solo di quelli pietosi ma anche di quelli cattivi, violenti. Eppure la coscienza del dono, che ci aveva sorpreso negli anni della felicità e della spensieratezza, non se ne andò più: acquistò anzi una consapevolezza che prima non c’era. C’è sempre stato qualcuno che ci ha aiutato a non dimenticare, perché un grande dono è anche come un marchio a fuoco: non te lo togli più né dall’anima né dal corpo. Lo puoi rinnegare, certo, ma a costo della più spudorata delle menzogne, e di un dolore come ce lo raccontano le lacrime amare di Pietro dopo il canto del gallo.
In altre parole: tu sei un bene per me perché sei gratis, perché sei un dono.
7. Ciò che di più bello abbiamo ricevuto.
I cambiamenti, che stanno avvenendo sotto i nostri occhi sotto forma di carneficine spesso incomprensibili e per la spinta di una migrazione umana di proporzioni mai viste in tutta la storia, hanno bisogno di noi, della nostra decisione, hanno bisogno di una posizione culturalmente interessante e assolutamente personale.
E’ spaventoso che, a fronte di eventi come questi, la nostra risposta alla domanda su cosa sia un uomo – una domanda che nella storia si sono posti tutti, e che adesso quasi nessuno si pone più – risulti incerta e spaventata, e che molte soluzioni considerate all’avanguardia non siano altro che una riedizione soft di principi enunciati già al tempo di Hitler e di Goebbels, vale a dire la distinzione tra l’uomo considerato come “fine” e l’uomo considerato come “mezzo”: una cosa orribile, che il mercato globale ha trasformato da orrore in ovvietà, come testimoniano molte pratiche oggi largamente approvate come la fecondazione eterologa o la cosiddetta maternità surrogata, detta anche utero in affitto. (Questo non toglie che un figlio nato in questo modo non possa diventare un santo, e che non possano diventarlo due genitori gay che hanno adottato questa soluzione. Qui si sta parlando del peccato, non del peccatore – se no, chi si salverebbe?).
Uno scrittore sa che i principi e le leggi che valgono per le piccole cose varranno anche per le grandi, e viceversa. Lo scrittore non cura i particolari dopo aver fatto il disegno generale: parte dai particolari per fare quel disegno, forse perché è nell’imprevedibilità dei particolari, più che nei grandi progetti, che il disegno comincia a svelarsi.
Non molti giorni fa un carissimo amico, giornalista ben sistemato, con un ottimo posto di lavoro che gli piace e gli dà soddisfazione, mi annuncia che cambierà completamente vita. Alcuni fatti accaduti, dei quali sono stati causa alcuni suoi articoli, lo hanno indotto a partire per un paese lontano e molto diverso dall’Italia, in una situazione e a svolgere un lavoro che non sa se gli piacerà. Io stavo per dargli del matto quando all’improvviso sono stato colto dallo stupore: quel suo modo di dire “sì” a circostanze imprevedibili era un “sì” alla legge che regola l’universo, alla natura profonda delle cose create, che non è il nostro progetto, la nostra sistemazione, il nostro dirci più o meno soddisfatti. E ho capito che quel modo di fare era il più umano, il più ordinato anche per me, che io dovevo imparare che anche per me è sempre vera, in ogni istante, la ragione per cui il mio amico (e non sapete quanto, da un certo punto di vista, mi dispiaccia) se ne andrà da Milano. Niente è scontato, tutto è dato, questa è la legge, questo è l’ordine, non un sentimento: e a me spetta trarne le conseguenze. Così ho capito meglio qual è la cosa più bella che un uomo possa ricevere in dono: la comunione: non “essere amici”, non “andare sempre d’accordo” ma testimoniarci gli uni gli altri, nella fragilità estrema della nostra vita, la presenza di una trama più grande, più profonda, più gratuita delle cose, alla quale ci è richiesto solo di dire di sì. Come diceva il mio amico: in quel lontano paese ha cominciato a esistere qualcosa che né io né nessun altro poteva immaginare, nessuno di noi l’ha prodotto, né poteva produrlo.
Il bello di questa posizione è che essa vale in ogni caso, non solo se devo partire per il Burundi o per il Venezuela, ma anche (come nel mio caso) se devo scrivere un romanzo, per decidere quale storia raccontare e come raccontarla.
Più imparo una posizione come questa, e meno patisco scandalo da tutto ciò che è diverso, compreso l’orrore che ci ha accompagnato – si può dire quotidianamente – in questi mesi. Se un amico ti testimonia cosa significa aderire a un dono, alla realtà come dono, tu impari a leggere il dono perfino al cospetto del nemico: amate i vostri nemici.
8. Per finire.
La risposta culturale di fronte a mutamenti come quello che, ci piaccia o no, sta avvenendo – e fonti certe dicono che ci troviamo ancora all’inizio – e che cambierà definitivamente il nostro modo di vivere, e l’aspetto delle nostre città, e le biografie dei nostri figli, deve appoggiarsi (non potrebbe fare altro) al modo in cui io guardo mia moglie, la casa, il compagno di lavoro. Deve recuperare l’idea di uomo sulla quale si è fondata la nostra storia, quando nella polis un uomo ha cominciato a contare non perché figlio o nipote di Tizio o di Caio o perché la pensava in un certo modo ma semplicemente perché era un uomo: tutte le limitazioni delle diverse mentalità nelle quali sono avvenuti questi fatti non hanno potuto cancellarne la portata. La vita, la nostra vita, la mia vita. Abbiamo impiegato secoli, millenni, per costruire una forma di vita buona, e buona per tutti. Alzarsi la mattina, aprire la finestra, prepararsi il caffè, andare al lavoro, incontrare altre facce come la nostra, occhi dentro i quali ci sono speranze, preoccupazioni, stanchezza, affetti, dolori, aspettative, e poi decidere cosa prepareremo per cena, farci una camminata in un parco, andare a trovare un amico che sta morendo, affrontare un figlio che non vuole più andare a scuola, sentire il rumore dei nostri passi sulla ghiaia, respirare l’aria fredda e limpida di gennaio, partire per una terra lontana e sconosciuta, decidere la disposizione delle piante in salotto, appendere un quadro, visitare una mostra, guardare la partita con qualche amico, accettare in modo umano la notizia che presto moriremo.
Potranno portarci via tutte queste cose, ma perché questo accada dovremo averle ancora con noi, non averle già buttate via. Spesso penso al fatto che siamo noi i primi a gettare alle ortiche questa vita buona, in nome di qualcosa che ci pare istintivamente più appagante, mentre stiamo solo rifiutando la fatica e la responsabilità che una vita buona comporta.
Certo, come dice Eliot, il sangue scorrerà nuovamente sui gradini del Tempio, ma perché questo accada bisogna prima costruire il Tempio.
La faccia del nostro mondo è destinata a cambiare profondamente. Ma chiunque venga al nostro posto, dovremmo potergli dire: chi ci ha preceduto ha lavorato secoli e secoli per farmi comprendere che il valore della tua vita non è nelle mie mani, perché nemmeno il mio è nelle mie mani. Anche se adesso mi uccidi, non lo dimenticare. Tutto è gratis, ognuno di noi è un dono: per questo tu sei un bene per me. Spero che anche tu un giorno lo possa ripetere, o se non tu almeno i tuoi figli, o i figli dei tuoi figli.
EMILIA GUARNIERI:
Grazie, Luca, credo che quello che tu ci hai detto, quello che tu ci hai evocato perché è più che detto, sia il racconto di un’esperienza vissuta anche se la forma non era in tutto quella dell’esperienza; ma quello che tu ci hai detto è la storia di te e per questo che è fino in fondo vera. Tutte le cose vere, cioè tutte le cose che hanno la forza dell’esperienza e non dell’ideologia e non dei sistemi, come tu li chiamavi prima, entrano in rapporto con me ed entrano nel rapporto con tutti quelli che le hanno sentite come un’ipotesi di sguardo e di lettura sulla vita, sulle cose che abbiamo intorno. Una cosa vera, un’esperienza vera che mi viene comunicata, in me, per me, diventa un’ipotesi di sguardo sulla mia vita e sulle cose che mi trovo intorno. Io invito me e mi permetto di invitare anche voi, a tenere nel cuore quello che abbiamo ascoltato e di usarlo, consentimi questa parola brutta…
LUCA DONINELLI:
…non è brutta…
EMILIA GUARNIERI:
…non è brutta perché descrive l’umano, e ad usarlo come ipotesi di lettura anche su tutte le questioni, le tematiche, le cose di cui parleremo e di cui si parlerà in questi giorni. Perché l’esperienza dell’altro diventa per me un’ipotesi di sguardo, questa è la grande sfida, ma questo sguardo, questo guardare al tu come qualcosa che mi è dato, come qualcosa che è gratis, come diceva Luca, regge di fronte alle sfide della vita? Perché siamo in un tempo in cui regge solo quello che è vero e che passa attraverso la carne di ognuno di noi. E troppo drammatico il tempo nel quale viviamo per pensare che possano bastare delle convinzioni, oggi abbiamo bisogno di qualcosa che passi attraverso la vita, qualcosa che convinca perché prende dentro la vita. E se qualcosa convince perché prende dentro ed entra nella mia vita, nessuno me lo può più togliere. Ma il percorso della convinzione non è un percorso ideologico, il percorso della convinzione è un percorso di esperienza: di fronte alla realtà che il tu sia quello che oggi noi abbiamo ascoltato, diventa un’ipotesi di sguardo. E se io man mano verifico nella vita che questa ipotesi tiene, questa esperienza, questa convinzione non me la toglie di dosso più nessuno. Oggi c’è bisogno di gente a cui nulla possa togliere di dosso la certezza. E credo che anche un luogo come il Meeting, che è una cosa piccola di fronte ai drammi del mondo, possa contribuire a che questa certezza proprio perché si verifica nell’esperienza di un dialogo, nell’esperienza dell’affronto delle questioni, nell’esperienza del rapporto con altri. Anche il Meeting è uno strumento, è un’occasione perché questa certezza, proprio perché si verifica nell’esperienza, possa crescere. Perché altrimenti non faremmo neanche il Meeting, non sono tempi da tirar su baracconi che non servono. Io dico questo con profonda convinzione: se continuiamo a fare una cosa come il Meeting è perché crediamo che possa essere utile e poiché ci crediamo e vediamo che c’è tanta gente che continua a crederci, abbiamo incrementato il lancio della campagna di fundraising, proprio incoraggiati dall’esperienza positiva, in particolare dello scorso anno. Quindi la rilanciamo. Nei padiglioni, ovunque, quasi ossessivamente, ma abbiamo voluto che fosse così, troverete numerose postazioni dove donare. Le donazioni devono avvenire unicamente in questi punti, che sono riconoscibili dal logo della campagna, credo che si capisca anche il valore di questa ultima annotazione, cioè le donazioni vanno fatte in quei luoghi e non in altro modo. Grazie e buona serata e buona continuazione del Meeting.