Chi siamo
“Tu” (o dell’amicizia)
Di Luigi Giussani (Edizioni BUR – Biblioteca Universale Rizzoli). Hanno partecipato: Stefano Alberto, Docente di Introduzione alla Teologia presso l’Università Cattolica “Sacro Cuore” di Milano; Raffaella Zardoni, Disegnatrice di fumetti per ragazzi; Mario Molteni, Docente di Economia all’Università di Trento. Moderatore: Giancarlo Cesana.
Cesana: Provvidenzialmente da qualche anno a questa parte in occasione del Meeting escono dei nuovi testi di don Giussani che hanno non solo un valore didattico, cioè sono degli strumenti di insegnamento, di scuola, ma, almeno per quello che percepisco io, sono soprattutto dotati di una genialità espressiva. Il genio è quello che dice ciò che tutti si aspettano, ma non ci arrivano, per cui quanto si è di fronte ad un espressione geniale, si ha una comprensione immediata. L’espressione di don Giussani è per me così. Io mi sento molto laico, come impostazione, come educazione e formazione, con tutte le caratteristiche di questa educazione laica che ho avuto da giovane; per me don Giussani è veramente persuasivo, geniale appunto. E, a mio avviso, questo nuovo libro che esce, è uno di questi libri, cioè ha una espressività che coglie il nocciolo della questione e vi invito a prestare attenzione a questo incontro che metterà in evidenza questo: che aiuta la gente a capire di che cosa si tratta, cosa è il cristianesimo.
Alberto: Con questo volume, inizia una nuova serie all’interno della collana “I libri dello spirito cristiano”. Il titolo di questa nuova serie colpisce, innanzitutto perché è fatto di due parole “quasi”, e “Tischreden”, parola tedesca che letteralmente significa “discorsi a tavola”. Perché “quasi Tischreden”? Perché le “Tischreden” che sono passate alla storia sono quelle che raccolgono i dialoghi a tavola che Martin Lutero ha avuto con i suoi discepoli più stretti su temi svariatissimi. Il “quasi” è per una forma di pudore rispetto al significato storico che le “Tischreden” hanno.
Perché “Tischreden”? Perché si tratta di dialoghi veri e propri, dialoghi svolti il più delle volte a tavola, in una convivenza. Questa nuova serie vuole pubblicare, e dunque rendere noti questi incontri. Si tratta di 203 incontri finora iniziati l’8 novembre del ‘90, in una casa del Gruppo adulto. Casa è la forma di convivenza stabile – normalmente va dalle tre alle dodici persone – dei Memores Domini, o Gruppo adulto, che sono le persone che nell’esperienza di Comunione e Liberazione si consacrano nella forma della verginità per una testimonianza nel mondo, nella società, nella fabbrica, nel lavoro, a scuola, in università, dove le circostanze li portano. L’incontro è l’incontro settimanale della casa: è un momento di paragone, di giudizio della vita, dell’esperienza della convivenza, dell’esperienza nel cammino della vocazione. Viene utilizzato come paragone un testo stabilito, normalmente il testo di Scuola di Comunità, il testo di catechesi di tutti gli aderenti al movimento di Comunione e Liberazione, o testi dei ritiri, della vita del Gruppo adulto. Questi incontri sono proseguiti e proseguono fino ad oggi.
Che cosa è cambiato oggi rispetto ai primi incontri? Innanzitutto che non si tratta più di una casa, nel tempo questa amicizia si è dilatata, le case sono diventate tre, e non si tratta più delle nove persone iniziali, sono diventate nel frattempo una cinquantina, ma la caratteristica è che si ritrovano insieme per questo incontro settimanale. A un certo punto, nel maggio 1991, una delle ragazze di questa casa è partita per esigenze di ricerca universitaria negli Stati Uniti: da questa circostanza banale, si è cominciato a registrare questi incontri. Fino alla data del maggio del ‘91, gli incontri risultano da brevi appunti che le partecipanti ad essi hanno preso; poi, si chiese il permesso a don Giussani di poter registrare gli incontri, appunto per farli avere all’amica lontana negli Stati Uniti.
La caratteristica degli incontri della casa è che quasi sempre vi ha partecipato don Giussani, e da qui nasce, si sviluppa, come scintillae in arundineto, il dialogo. I dialoghi sono riportati integralmente. Innanzitutto si è fatta la scelta non di ordinare questi 203 incontri cronologicamente, secondo una successione temporale, ma di raccoglierli per grappoli. Grappoli di incontri attorno ad alcuni temi che costituiscono parole particolarmente care all’autore, parole decisive per comprendere il carisma a lui affidato. Amicizia, dimora, l’amore a Cristo, la memoria, l’offerta, il senso del destino, il compito della vita, la moralità, il sacrificio, il carisma, la verginità, il popolo, la compagnia, la libertà.
Grappoli di incontri, riportati integralmente: è questa una delle caratteristiche non solo nuove, ma più affascinanti del testo. Non è una semplice serie di risposte, non sono semplicemente riportati i passaggi relativi al tema in questione, ma l’intera cena, compresi i riferimenti alle vicende personali delle partecipanti, battute che di norma caratterizzano le fasi iniziali e conclusive dei dialoghi. Parole in presa diretta, riportate fedelmente, e la ragione profonda è che non si tratta di una trattazione sistematica, ma proprio della testimonianza, la documentazione di una amicizia che diventa il metodo, la strada per inoltrarsi nella verità. E non è un caso che il primo volume di questa nuova serie sia intitolato “Tu” (o dell’amicizia): l’amicizia è il grande tema a cui don Giussani ci introduce. Non si tratta di un sentimento, di una generosità, ma si tratta di qualcosa di originale, di essenziale per l’uomo, di così essenziale perché caratterizza la natura stessa dell’essere. L’essere è Trinità, Dio è Trinità, Dio è per natura amicizia. La prima amicizia, la prima forma dell’amicizia, da cui derivano tutte le altre, da cui deriva l’amicizia con Cristo, l’amicizia umana, è il riconoscimento della nostra libertà, riconoscimento amoroso. L’amicizia originale è accettare innanzitutto di essere in questo istante dell’essere.
Zardoni: “Tischreden” è il nome che da subito Giussani ha dato ai raduni della nostra casa: è una scuola, una scuola senza porte e senza mura, anche in senso fisico, perché spessissimo Giussani arrivava con i suoi amici, sposati, stranieri, preti, universitari. È una scuola dove il dialogo non ha mai avuto limiti o confini, che ha sempre portato tutta la realtà della vita nell’approfondimento delle parole.
Le nostre domande spesso sono improprie: al momento, c’è chi mentre parla, come in qualsiasi raduno di Scuola di Comunità, si commuove, c’è chi perde il filo del discorso, oppure ci sono quelle volte in cui si ride per niente. Ma abbiamo dovuto tenere integralmente tutti i nostri interventi, per due motivi. In primo luogo perché altrimenti non si capirebbero certi passaggi del movimento del pensiero proprio di Giussani, e poi per far capire come la realtà si comprende dentro questo dialogo, attraverso questa amicizia.
Quello che io vorrei dirvi come prima cosa, se dovessi dire quello che mi ha colpito di più in questi dieci anni, è l’affermazione dell’altro, che ha sempre fatto il Giuss di noi, perché c’è. Provate a pensare: bisogna preparare due pagine, il paragrafo del testo di Scuola di Comunità, e uno dice sempre “lo leggo dopo, lo leggo dopo”. E poi arriva il Giuss, è normalissimo che uno si senta impreparato, e non si sente impreparato per umiltà, si sente impreparato per realismo, per cui tantissime volte, io incominciavo dicendo: “don Giuss, non sono tanto pronta”. E mi ha sempre colpito perché lui mi ha sempre detto: “non importa”. E allora io dicevo: “Ma allora, che cosa importa?”. “Importa esserci”. E questo era vero proprio per tutti. Tutti gli anni arrivavano delle nuove ragazze, oppure arrivavano dei nuovi amici, e lui non calava mai la tensione e l’attenzione e sempre entrava in rapporto con tutti. Mi ha colpito una volta: eravamo lì in una ventina, e io ero convinta che il motivo per cui lui era così interessato fosse per alcune presenze, poi quelle presenze sono andate via, e io ho detto: “adesso sarà meno interessato”. E lui invece è rimasto uguale. Allora dopo in macchina gli ho proprio detto: “Ma come è possibile che tutto ti interessi?”. E lui mi ha risposto: “come faccio a non interessarmi se è un pezzo della compagnia che Dio dà alla mia strada?”. Ecco, la prima cosa è questa, che traspare nel libro, cioè vi accorgerete che a poco a poco il Giuss a tutte noi cambia il nome, a tutte dà i soprannomi, si interessa di noi, e poi lo dice proprio nei contenuti.
“Se uno non è appassionatamente alla ricerca dello scopo del suo vivere, non capisce che gli altri sono vivi e alla ricerca di uno scopo del loro vivere, non capisce che gli altri vivono, per lui sono tutti manichini, non compagni di cammino, non carne della propria carne, non capisce che tutti insieme si dice: “tu”. E questi compagni di cammino, che hanno tutti un nome. È così misterioso il rapporto con il destino, a cui l’amicizia desta, che l’amicizia richiama e incarna. Come avete ognuno un nome e un cognome diverso, così è diverso il vostro influsso sugli altri, su di me, su di lei, sulle persone, l’influsso è diverso, il rapporto è diverso, ed è Dio che lo stabilisce. Che cosa è la realtà? Che cosa è l’altro? È ciò che ti provoca. Cosa vuol dire provocare? Che ti chiama ad essere te stesso”.
Non so se avete notato agli esercizi della fraternità di Rimini, quando il Giuss dice: “Anch’io un giorno sarò completamente me stesso”. È la certezza che lui diventa completamente se stesso, dentro il cammino con il reale, dentro gli istanti, i gesti e i momenti del reale. Questa è la seconda cosa che mi preme. Cioè l’evidenza che la vita è un cammino. A volte dice: “Le cose non sono ancora chiare, non sono ancora decantate, perché siamo in cammino, per quello che potremmo sembrare ancora confusi”. È così originale per il Giuss l’idea che la vita sia un cammino ed è anche così bello, che lo descrive anche parlando del Paradiso: “Anche il Paradiso sarà un cammino”. Cioè è proprio della struttura dell’uomo, è la bellezza dell’uomo questo camminare.
“Lo scopo per cui parti, lo raggiungi. Ma lo raggiungi nella sua soglia iniziale, oltre questa soglia tu vai, cammini, cammini e cammini, quanto più cammini, tanto più si approfondisce il senso della sproporzione tra te e la cosa, e capisci che ultimamente non ti fermerai mai, perché è mistero, e questo è il Paradiso. Il Paradiso è così, tanto è vero che l’Inferno, il male, è il limite raggiunto nella cosa, che l’altro non ti possa dire più niente, non sia più un infinito”.
E la terza cosa di cui voglio parlare è l’amore alla verità. Ne ha parlato anche prima Pino, perché il Giuss l’ha messo anche nell’introduzione, è la cosa che fa sì che “Tischreden” sia proprio una scuola. L’altro giorno appunto il Giuss mi diceva: “Sì, bisogna dire che è una scuola, perché non c’è nessun rapporto tra noi che non è di scuola, anche il rapporto tra Gesù e i suoi è stato una scuola”. Infatti, sempre a Rimini diceva, “Gesù fece e insegnò”, fece e insegnò. C’è un passaggio a pg. 228, in cui dice come per lui questo riconoscimento del vero è sempre stato decisivo del suo essere. Sta spiegando come la libertà c’entra anche nel riconoscimento del vero.
“Finché si tratta di un vero astratto, come 2+2=4, la libertà non c’entra; ma poiché si tratta del vero per l’esistenza – il destino è il vero per l’esistenza -, la libertà c’entra anche nel riconoscimento del vero, come dice “Il senso religioso” (che dovete continuamente rileggere, perché ho capito che la maggior parte non l’ha letto: l’ha letto senza leggerlo. Bisogna che quel frasario si identifichi col modo di percepire, di pensare, di ragionare, di decidere; deve coincidere col nostro modo di sentire). La preghiera di sant’Anselmo è tutta su questo, con quella finale bellissima: “Tu che mi fai chiedere, concedi”. Son di quelle frasi che sfondano la montagna, atterrano qualsiasi ostacolo: son vere, uno è lì lì per toccare la verità con le dita. Io so cosa vuol dire questa emozione, perché in seminario, quando ero piccolo – ho incominciato a capire queste cose dai 10 anni in su -, ero da solo a sentirle e anche a dirle, ma non mi faceva alcun problema, perché era vero. Percepire una cosa vera e deciderla, cioè percepirla e amarla, vale a dire affermare l’oggetto proprio della libertà – perché l’oggetto proprio della nostra libertà è il vero amato – è una cosa identica alla parola “io”. “Io” ha questo contenuto, non ha un altro contenuto!”.
E mi piacerebbe brevemente fare tre passaggi su questo amore alla verità, parlando soprattutto del capitolo sulla simpatia umana. Io vorrei parlarvi di questo capitolo, sulla simpatia profonda, perché è stato il momento, attraverso questa serie di dialoghi, in cui ho capito il nesso grande che c’è tra l’attrattiva e il dovere, tra il vero e l’attaccamento. Perché se no, l’idea che comunque, siccome sei cristiano devi comportarti in un certo modo, mi rimaneva come un dubbio, mi rimaneva come un interrogativo non risolto.
Il tema “la simpatia profonda” parte da delle domande che gli abbiamo fatto sul capitolo di “Si può vivere così?” sull’obbedienza, in cui una ragazza citava una frase del Giuss che diceva: “Per obbedire, prima devi voler bene”. E invece il Giuss dice: “l’attaccamento affettivo nasce seguendo un altro”. Cioè il problema è: io, per obbedire a una persona, devo prima volergli bene. E invece il Giuss dice: “No, seguendola gli vuoi bene”. Siccome aveva appena detto, era due anni fa, era il momento di “Riconoscere Cristo”, lui aveva detto: “Imparare è una simpatia profonda”. E allora gli abbiamo chiesto come stavamo queste due cose.
“Rispondo, perché l’obiezione è molto sottile – dice il Giuss – cioè: “Se uno vuol bene, obbedisce” e questo sembra il caso di san Pietro, perché prima ha detto: “Sì, Signore, ti amo”, dopo la sua vita fu amore a Cristo fino alla morte in croce. Ma quello che avviene è più profondamente drammatico di questo, perché Gesù mi ama come obbedienza al Padre, cioè secondo il disegno del Padre, secondo il vero. Questo sembra contraddittorio con l’affermazione che sembra più constatabile; ciò che sembra più constatabile è che se uno vuol bene, allora fa quello che dice l’altro”. Se uno vuol bene, obbedisce.
Però il Giuss dice: “Nasconde un equivoco questa frase, perché fare quello che dice l’altro diventa una omologazione, diventa schiavo dell’altro, soggetto all’altro. E là dove si obbedisce perché appunto piace l’altro, non dura: e il sole tramonta sul disagio dell’anima. Cioè non corrisponde niente del cuore e uno è insieme a quello lì, perché l’aveva un po’ scelto lui, perché gli piaceva, e dopo si sente troppo a disagio”. Noi non capivamo e allora lui è come se avesse rispiegato.
“Anche umanamente parlando è così: una ragazza innamoratissima dice quel che pensa, fa quel che dice, imita il suo fidanzato. Questa cosa dura un mese e due giorni: non ha fondamento adeguato, è un miraggio. Se non è una scema, è un miraggio! I soggetti si staccano. Invece, il suo ragazzo è proprio bravissimo, lei ha imparato che quando lui apre la bocca, lei tace, e vorrebbe sentirlo parlar sempre. Da un atteggiamento del genere non può non definirsi una simpatia, però così profonda che quella è la sua simpatia: la sua simpatia è quel ragazzo lì. Dire: “La sua simpatia è quel ragazzo lì” è lontanissimo, infinitamente più grande che dire: “mi piace”. Allora, quanto più attecchisce questo voler bene, questo attaccamento a quel ragazzo, tanto più sorge la voglia di essere come lui, fin dalla radice della propria mente e fin nelle costruzioni più dettagliate del proprio cuore: che le immaginazioni stesse non tradiscano, anche in modo puramente formale, questa simpatia. Questa simpatia non specifica niente: è una simpatia. Prende tutto, dove tutto non vuol dir niente, perché non sapresti cosa dire: è tutto! Ma se tu sei così legato a questa figura che è la tua scelta o simpatia profonda, tutto quello che pensi, che immagini, che crei praticamente, che colleghi come edificazione del mondo, come abbraccio della storia e del popolo che ne il protagonista… tanto più fai questo, tanto più lo fai perché gli vuoi bene.
Allora ripercorriamo i passaggi: incomincia con: “è vero”. San Pietro era attaccato a quell’uomo lì, perché “se non credessi a quest’uomo, non crederei più neanche ai miei occhi”. Secondo: se uno desta una reazione di evidenza così grande, nel contempo non si può non attaccare a questa cosa che si rende evidente nella sua verità così grande. Quei due, mentre dicevano “è vero, è vero”, si attaccavano col cuore. Finisce di parlare, immaginate l’istante in cui Lui finisce di parlare: non viene meno questa simpatia.
E terzo: chiunque ha questa simpatia si purifica come Egli è puro. Ma quest’ultima frase stabilisce un iter, un dinamismo, una storia: la storia della morale in te, che paradossalmente può contare più peccato mortali di quanto non sappia misurare le virtù.
Questa è la morale cristiana, allora. Tutta la differenza tra noi e i saggi laici sta qui, per chi non è cristiano, la morale è un seguito di leggi in cui si definisce quello che l’intelligenza, scavando in se stessa, nella natura dell’uomo, analizzando se stessa, capisce come dinamismo necessario. Mentre per il cristiano, è una adesione di simpatia, una simpatia profonda verso qualcosa che vede e che segue”.
La bellezza del secondo dialogo, sempre su questo tema, era l’inesorabilità per l’uomo dell’attaccarsi al vero, cioè il Giuss dice: “per l’uomo, non per l’alce, non per il porco, ma per l’uomo vedere il vero e attaccarsi è una cosa sola, cioè se non accade è una malattia”. Infatti dice: “perchè dici che è vero? perchè è vero. Ma è contro il tuo interesse? Prova a pensarci, è contro il tuo interesse, contro i tuoi gusti? Ma è vero”.
Leggo subito la terza parte, in cui gli abbiamo chiesto: “ma cosa è esattamente questa simpatia, cosa è esattamente questo nesso?”. E lui risponde: “È lo stupore del vero, è vero. È una evidenza, per usare un termine ancora superficiale, perchè è più che una evidenza, ha una connotazione di co-inter-essenza, è come se ti apparisse qualcosa da cui il tuo corpo è nato e da cui ti sei staccata ed errabonda cercavi, questo ti viene incontro. Per questo la cosa più bella di tutte è la gratuità dell’affermazione del vero, non c’è ragione, non c’è più nessuna ragione possibile. Anzi, questa è l’origine di tutte le ragioni. L’origine di tutte le ragioni è l’evidenza che rende il nostro io simpatetico al vero. L’evidenza del vero che da quell’affectus per cui ci si immedesima. Meno male, che abbiamo già dimostrato che l’atto di conoscenza non è tale fino a quando non finisce in un attaccamento.
Guardare il vero; guardare il vero, stupirsi del vero; questo fa nascere una simpatia per esso; e così nasce la legge che è la legge dell’amore. E ritorni agli uomini e alle cose di tutti i giorni. Perchè devo perdonare chi mi ha offeso, perchè devo perdonare? Perché non devo rubare? Perché non devo togliere la donna al mio amico? Perché non devo togliere i saldi al mio amico? Perché non devo uccidere? Perché non sarebbe un’applicazione di questo appiccicamento profondo, di questa simpatia o di questo rendersi immanente, di quella immedesimazione col vero che ti ha destato il senso della vita, che ti ha dato la febbre del vivere, il brivido della vita. Perchè quando san Pietro ha visto Gesù, di fronte alla sua domanda il sì che ha detto aveva un brivido di vita. Lo stupore del vero. Uno se non ha neanche la più lontana voglia di immaginarsi lo stupore del vero, di ricordare lo stupore per un vero, è fuori gioco, è ancorato a dei concetti logici, è astratto. Mentre lo stupore per il vero, se ti passa davanti agli occhi il vero, un volto che è vero, ti fermi. Ti fermi, questa è la preferenza vera, ti fermi. Ma ti fermi e ti trovi alla fine spalancato in tutto il mondo, e dovunque vai cerchi traccia di quel volto, e la trovi in migliaia, migliaia e migliaia di casi. In tutto c’è qualche cosa di quel volto, e quel volto ti getta nel volto di Gesù, del Verbo di Dio fatto uomo. È il volto di quell’uomo che ti si è svelato”.
E mi piace terminare con questo pezzo su Gesù, perché è per Cristo che il rapporto di amicizia tra gli uomini è possibile. In Cristo si ricovera la certezza della positività del reale, che è anche il tema di questo Meeting. Cristo, come ha detto il Giuss agli esercizi di Rimini di quest’anno, che “è tutto in tutti”, e qua commenta dicendo: “Non dice che alla fine sarà Cristo e basta, ma Cristo tutto in tutti”, cioè la possibilità dell’amicizia con tutti è in Cristo, la compagnia di Dio all’uomo”. E infatti quando dovevamo scegliere la copertina di questo libro, il Giuss mi aveva detto di cercare un immagine di un dialogo tra due o di un’amicizia o tra un uomo e una donna o tra due uomini. E dopo qualche giorno ci ha detto: “No, mettete la vocazione di Matteo, perché l’amicizia da cui tutte le amicizia nascono, è l’amicizia di Cristo”.
Molteni: Prima di accennare al contenuto di questo libro, vorrei rispondere ad una domanda che qualche giorno fa Cesana mi ha fatto: “devi dire come mai, uno come te, che insegna economia in università, si è impegnato in un lavoro così, che evidentemente ha una parentela non stretta con quanto fai normalmente”. Questa domanda è stata una occasione per riflettere su quello che mi è successo. Innanzitutto mi è successo di essere un ospite abituale di questi incontri: ho pensato a quel passaggio del vangelo dove Pietro dice a Gesù: “tu solo hai parole di vita eterna” che don Giussani sempre spiega dicendo “tu solo hai parole che spiegano la vita”. Mi sono reso conto che il carisma che è stato donato a don Giussani, partecipa di questa proprietà di Cristo, cioè quella di spiegare la vita, la capacità di entrare nelle cose. È l’esperienza di parole che descrivono l’esperienza di tutti. Di fronte ad un dono di questo tipo, a certe risposte o a certi modi di spiegare la vita, pensavo ai miei amici, a quelli di casa mia e avevo il desiderio che queste risposte e queste spiegazioni arrivassero a tutti.
Don Giussani una volta diceva (ci eravamo incontrati con lui perché dovevamo fargli leggere le cose che avevamo registrato): “Certo che lavorare insieme è proprio l’inizio del Paradiso!”. E questa è un’esperienza che nel lavorare su questo libro Raffaella ed io abbiamo fatto, ma anche tante altre persone: il libro, il lavoro è stata l’espressione di una coralità. Riascoltare, rendersi conto delle ragioni, cogliere i passaggi, le sfumature, è stato bellissimo. Dopo le sbobinature, c’è stata la fase in cui si trattava di confrontare con Giussani riga per riga quello che era stato detto, perché doveva verificarne la correttezza. E questa è stata anche un’occasione per entrare in confidenza con lui, di prendere il coraggio di chiedergli ciò che non capivamo.
Il contenuto del libro, la parola a cui si dà più risalto, è l’amicizia. È un contributo che l’esperienza di questa casa può dare al movimento. Rileggendo i duecento incontri che erano stati fatti abbiano iniziato a selezionare quelle parole in cui questo tema tornava più frequentemente: non sono incontri sistematici, quindi a seconda della domanda, della preoccupazione prevalente di una certa situazione spesso magari della situazione di una persona, l’incontro può prendere una piega, può piegarsi alla situazione personale di una persona che era lì presente. Poi ci siamo resi conto che c’erano degli altri temi, che si coagulavano attorno al tema della amicizia che potevano caratterizzarsi come capitoli del libro. Queste parole son diventate quattro: il “TU”, l’esperienza del “Tu”, l’amicizia in senso stretto, la preferenza e la simpatia umana. Sono quattro parole umanissime che non possono essere accusate di alternativa all’esperienza quotidiana dell’uomo e di non essere al centro dell’interesse di un uomo vivo. Per spiegare il contenuto ho pensato di identificare quattro immagini, quattro esempi, quattro pezzi di vita che sono descritti nel libro, sperando che possano essere un contributo, oltre che ad invogliare a leggere il libro, anche a fissare dei punti di ingresso dentro queste parole.
“Sartre o del Tu”. Ad un incontro all’Università di Chieti sull’educazione alla formazione della persona don Giussani aveva affermato che l’educazione deve sviluppare il senso del Mistero che, come tale (il Mistero), è ineffabile, è irriducibile alle nostre categorie, eppure questo senso del Mistero è così essenziale per la vita di ogni uomo. Stava spiegando questo concetto e nell’incontro della casa percorre i passaggi aggiungendo l’esempio su Sartre. “Mentre parlavo e vedevo che finalmente la gente era più attenta, mi è venuto in mente spontaneamente: se c’è questo Mistero, dobbiamo usare nel rapporto con Lui le parole più importanti, più significative che usiamo. Qual è la parola più significativa che usiamo, la parola più significativa che l’io possa usare? È la parola tu, è il tu; tu. Ma, anche naturalmente parlando – nessuno ci avrebbe pensato, ma è vero anche naturalmente parlando! -, è impossibile dire “tu” ad una persona a cui si voglia bene – che perciò ci interessa e su cui puntiamo il fuoco del nostro occhio (un bambino con sua madre, un ragazzo con sua madre) – è impossibile guardare una persona a cui si dica “tu” senza che si presentino delle componenti di rispetto, di una stima strana, di un timore che gli capiti qualche cosa di ultimamente decisivo, di una domanda sulla consistenza o sulla verità. Insomma, è qualche cosa che non coincide con la somma delle conoscenze che ho della persona. Se dico “tu” a te, c’è il presentimento di qualcosa che sfugge, c’è un rispetto, c’è un distacco; anche se una donna afferra il suo bambino e lo stringe, c’è un distacco. Perchè chi dice “tu” all’altro, all’altra persona, a quella che trova sul tranvai, mai vista, a chiunque…” Qui si blocca e di colpo come spesso fa quando parla introduce questa immagine : “anche quella persona che, a Recife, nel salotto dove mangiavamo alle 11 di notte per la sosta dell’aereo, ho visto mentre entrava e ho detto: ‘Questo qui è Sartre!’ che era in giro… ve l’ho raccontato questo!… Beh, ve lo racconterò un’altra volta! La prossima volta qualunque sia il tema ve lo racconto.” Poi si ferma e inizia a raccontarlo da subito. “Comunque, se avessi avuto più sfacciataggine, oppure se ci fosse stato un caso, un occasione – fosse caduto lui e io fossi andato a tirarlo su; o fossi caduto io… non veniva a tirarmi su lui! – … comunque, se io avessi detto “tu”, la ripugnanza e l’avversione accanita – ero ancora giovane, un po’ più giovane – che provavo verso di lui, la ribellione a come i giornali ne avevano parlato, sarebbe stato tutto attutito, smorzato e una vena di sentimento, come l’ha avuta sua madre quando era bambino, sarebbe entrata anche in me, sarebbe nata anche in me. Tu.” (pp. 335-336).
“Leopardi o della amicizia”. In tutto il libro ci sono numerose definizione dell’amicizia. Voglio fissare solo una immagine. L’uomo, qualsiasi uomo, cerca chi lo rappresenti di più in ciò di cui sperimenta la mancanza. “Se uno è triste legge volentieri Leopardi o sente volentieri un brano di musica triste: cerca l’autorità, vale a dire uno che lo rappresenti di più in quello che sente mancare”. “Un’autorità è tale perchè rappresenta me meglio di quanto io sia capace; ma se mi fermo qui, questa autorità resta fuori di me, resta – nonostante tutto – estranea, e perciò come un limite e alla fine diventa un peso. Tu leggi Leopardi o senti certa musica per dieci minuti o un quarto d’ora e poi basta però, ti stufi”. “Quando leggevo Leopardi nella mia terza ginnasio, Leopardi non mi era amico. Rappresentava molto meglio di quel che avrei saputo fare io quel che sentivo, ma non mi era amico: era un’autorità estatica, fuori di me. Quando ho cominciato in prima liceo a capire certe cose, allora Leopardi mi insegnava: mi dava le ragioni del suo essere malinconico e scoprivo da queste ragioni che non era giusto, le ragioni non erano esatte; era così perchè lui dimenticava certe cose. Allora sarei dovuto essere in contrasto con lui; ma non solo non ero in contrasto, mi faceva pena e mi diventava amico: mi è diventato amico. Uno diventa amico nella misura in cui tu lo interiorizzi, vale a dire comprendi le ragioni del perchè lui ti rappresenta. Quando incominci a capire le ragioni e incominci ad essere critico verso di esse – vale a dire a capirle di più o a capirne i limiti -, allora quell’autorità comincia a diventarti amica”. “Se tu non sei riflessiva e non senti te stessa, non badi a te stessa, non hai coscienza di te stessa, non troverai mai un autorità”.
Il seminarista di Saronno o della preferenza. Questa parola “preferenza” mi è diventata sempre più cara a mano a mano che ho partecipato a questi incontri. E anche qui devo fare una brevissima premessa per farvi capire i passaggi che introducono l’esempio. La prima idea è una cosa che ha detto il Giuss una volta ed è una di quelle cose che alzi la testa di colpo e dici: “ma cosa dice?”. “Guardate che la preferenza è un obbedienza. La vera preferenza non significa che ci sono 50 persone e tu scegli una persona che preferisci alle altre. La preferenza è qualcosa di originale come l’essere, preferisci qualcosa che è fatto per te “più di”. (…) Paradossalmente, quindi, non si può scegliere: è soltanto Dio che può veramente scegliere, perchè crea ciò che sceglie, dà l’essere a ciò che sceglie. La preferenza nell’uomo è invece proprio ex natura rei: è una vicinanza naturale, come se fossi fatto della stessa carne e dello stesso legno” (pag. 99). Al titolo sono rimasto stralunato, alla spiegazione ho capito che era così, descriveva un’esperienza, l’esperienza che un qualsiasi uomo fa o un qualsiasi padre fa con i propri figli. Tanto è vero che poi lo può mettere anche in imbarazzo riconoscendo che non sceglie di preferire ma non c’è niente da fare, preferisce. Come vivere questo rapporto di preferenza che può mettere anche in imbarazzo? “Ma io devo fare il proposito di parlare di meno di preferenza, perchè è la cosa che si capisce meno!” “La preferenza è un rapporto che ti tende a voler bene a tutti come vuoi bene in quel rapporto; e, per voler bene a tutti come vuoi bene in quel rapporto, devi passare da quel rapporto” (p. 113). “Comunque, venendo qui, il gioco della preferenza fa voler bene a persone totalmente ignote, come la preferenza è fervida verso le persone note; anzi da queste fluisce sulle altre. Insomma, è evidente che il modo con cui io sono qui è interessato per Tizia, Caia, Sempronia esattamente come persone che già da più tempo conosco tra voi. E non c’è differenza; c’è sì differenza, ma non c’è differenza perchè la preferenza è una differenza piena di uguaglianza” (pp. 169-170). Non scritto a tavolino, detto a tavola, in diretta. E qui Don Giussani fa un esempio che mi è molto caro: “C’era un ragazzo (me lo ricordo ancora: 50 anni fa!) il quale era così cinico che il cinismo gli aveva fatto impietrire i muscoli del viso. Aveva la faccia come una pietra scolpita per esprimere il cinismo. E non parlava mai. L’unica persona con cui parlava ero io; ed erano sempre non dico litigate, erano “guerre guerreggiate”: una guerra continua. Io gli dicevo sempre: “Cambierai quando ti innamorerai di una donna”. Allora lui si ribellava, giurava e spergiurava che non si sarebbe mai innamorato di nessuna. Tantissimi anni dopo, io ero alla stazione di Saronno ad aspettare il treno che veniva da Varese e che mi conduceva a Milano. A Saronno basta sporgersi un po’ e si vede il treno come un punto che arriva. (…) Io stavo guardando così, quando mi sento dire: “Buongiorno Giussani!” Mi volto: era quello lì. “Son contento di vederti”, gli ho detto con entusiasmo, e mentre gli dicevo così arriva il treno. “Mi dispiace, devo andare, tu dove vai?” “Devo andare a Varese” ed io: “Mi spiace, devo andare a Milano”. “Beh, vengo a Milano anch’io… faccio un giretto!”. E siamo saliti sui carrozzoni e abbiamo cominciato a parlare. Ad un certo punto mi dice: “Però, aveva proprio ragione lei, perchè io mi sono innamorato, mi sono sposato e son quattro anni”. “Ti sei sposato giovane. Hai realizzato subito quello che t’ho detto!”. “E questo mi ha cambiato un po’.” E infatti si vedeva dalla faccia: non aveva più i muscoli rigidi. Gli ho fatto qualche congratulazione, qualche domanda; ad un certo punto la faccia gli si è resa, improvvisamente, rigida come prima. “Però ci sono dei momenti in cui capisco che in fondo avevo ragione io!” “Oh?!” io gli dico. “Eh sì, quando mi sorprendo a dire: “Ti adoro” “mia vita” “per sempre!”. Mi dica se ci sono delle bugie più grosse di queste!” E il Giuss si ferma e alla casa dice: “Rispondete: aveva ragione sì o sì? Comunque, non ci sarebbe risposta. Gli ho detto: “Ma se tua moglie fosse il punto, il punto culminante del mondo dal quale tu intravedessi o presentissi la felicità, la bellezza, la felicità eterna; se fosse segno di Dio, sarebbe giusto dire: “Ti adoro”. Se tua moglie fosse un segno per te, non avresti più questo pericolo” (pp. 114–115).
L’esperienza della preferenza come il punto più prossimo che Dio ti ha dato, il punto dove impari pian piano a dire: “Ti adoro” a tutta la realtà, perchè se prescindi da quel punto non puoi estendere pian piano nel tempo questo “ti adoro”. E allora visto che ho accennato al segno, mi avvio alla quarta immagine che volevo comunicarvi.
La moglie di Andrea o della simpatia profonda. “Giovanni e Andrea tornavano a casa con dentro la faccia la faccia di quello lì con cui avevano parlato non erano ancora evoluti. Quando Andrea è entrato in casa vedendo la moglie e i figli era pieno della faccia che aveva visto, ma non era ancora il massimo. Andrea non raggiungeva ancora la novità a cui era stato chiamato, la novità a cui era stato chiamato l’ha raggiunta quando entrando in casa con dentro la faccia di Colui che aveva visto, la faccia di Colui che aveva visto era la faccia di sua moglie e dei suoi figli. Perchè la faccia della moglie e dei suoi figli era fatta da quella faccia, per questo non c’è nessuno estraneo e tutto ha le proporzioni dell’ordine prefissato.”