TRACCE DI VITA NUOVA. TESTIMONIANZE DAGLI STATI UNITI

Partecipano: Renzo Canetta, Medico ricercatore oncologo-ematologo; Guido Piccarolo, CEO Los Angeles Habilitation House. Introduce Letizia Bardazzi, Presidente AIC (Associazione Italiana Centri Culturali).

TRACCE DI VITA NUOVA A STELLE E STRISCE

LETIZIA BARDAZZI:
Buonasera a tutti, benvenuti a questo incontro dal titolo “Tracce di vita nuova. Testimonianze dagli Stati Uniti”. Dopo questi giorni di bellezza vissuti insieme al Meeting, dopo le tante mostre, i tanti eventi, i tanti spettacoli, gli incontri a cui abbiamo partecipato, dopo l’incoraggiamento che Papa Francesco ha fatto nel suo discorso inaugurale, a porre ogni attenzione alla personale testimonianza creativa, oggi al Meeting vi proponiamo due testimonianze, che hanno sempre un posto centrale nella nostra settimana, due testimonianze che ci permettono di approfondire il titolo. E proviamo ad approfondirlo rispondendo a queste domande: qual è il di più per la mia vita che viene dall’altro? Chi è l’altro? Cos’è questo bene? Cosa vuol dire ospitare, accogliere e convivere con qualcuno diverso da noi? Che tipo di lavoro quotidiano permette di aprire una breccia, anche se piccola, nella nostra società, nel mondo dove operiamo, soprattutto in una società come quella americana, che ci spinge continuamente a mettere noi stessi in primo piano, a concepire gli altri o come un limite o secondo delle categorie utilitaristiche, soprattutto quando nella maggior parte dei dei casi tendiamo ad usare gli altri? Che cosa vuol dire guardare all’altro come a un bene? Vedremo che in circostanze completamente diverse, e in modo diverso, queste due testimonianze, queste due storie, queste due vite vissute nel crocevia contemporaneo, nel periodo segnato dalla confusione odierna, dal malcontento, dal crollo delle evidenze, dal malessere che alberga in noi e negli altri, la vita dei nostri ospiti documenta un’intelligenza nuova della realtà, un desiderio interamente ridestato, una iniziativa che è instancabile e uno sguardo nuovo di cui gli altri si accorgono, che non lascia nessuno indifferente.
Ve li presento, premettendo che entrambi sono italiani ma cittadini americani radicati nella vita del Paese da molti, molti anni. Renzo Canetta è un medico ricercatore, oncologo, ematologo, si è occupato principalmente di studi clinici, linfomi e tumori gastrointestinali. Vive negli Stati Uniti con la famiglia dal 1980 per lavorare in una delle principali aziende farmaceutiche a livello mondiale. Possiamo dire che l’esperienza lavorativa di Renzo consiste nell’introduzione di diciotto farmaci sperimentali alla pratica medica generale; adesso, da pochi mesi si occupa di consulenza per organizzazioni professionali e non profit. Accogliamo Renzo con un applauso. Guido Piccarolo, che molti di voi già conoscono perché è stato al Meeting nel 2011, è anche lui da tanti anni sulla West Coast, dopo un breve passaggio sulla East Coast. Prima è stato un analista alla Walt Disney e adesso è Amministratore Delegato e co-fondatore della Los Angeles Habilitation House, che si occupa di creare e gestire opportunità di lavoro, principalmente servizi nell’ambito della pulizia, dell’amministrazione, della contabilità, per persone con disabilità mentali e fisiche, fra cui i reduci dalla guerra. Accogliamo il nostro amico Guido Piccarolo con un applauso. Darei subito la parola a Renzo Canetta per il suo intervento.

RENZO CANETTA:
Grazie. Come vedete, c’è già una differenza tra la costa atlantica – giacca e cravatta – e la costa pacifica.

GUIDO PICCAROLO:
Hai fatto felice la mamma. La mamma stamattina me l’ha detto: “Guarda che devi avere la cravatta”. Le ho risposto: “Guarda, che sono della West Coast, quindi…”.

RENZO CANETTA:
Allora, tanto per cominciare voglio ringraziare gli organizzatori per l’invito, anche se mi chiedo ancora come mai abbiano invitato me quando ci sono tanti esempi di vita nuova, non solo negli Stati Uniti ma anche altrove, forse molto più notevoli di quello che posso raccontarvi io, a partire dal mio amico Guido, seduto qua. Ho studiato in Italia Medicina, poi ho avuto il mio board in ematologia e in oncologia e mi sono trasferito nel 1980 negli Stati Uniti, lavorando per una compagnia farmaceutica di cui sono diventato Capo della Ricerca nel 1991. Ho tenuto questo posto fino al 2014, occupandomi di ricerca clinica, cioè di pazienti, ricerca di farmaci nuovi e sperimentali nei pazienti e Metodologia degli Studi clinici. Nel 2014 mi sono dedicato – ne parlerò un attimo, dopo – alle politiche della ricerca e ho creato questa posizione che ho tenuto fino alla fine dell’anno scorso, quando poi sono andato in pensione. Attualmente, faccio consulenze per la maggior parte gratuite per Governi, Agenzie governative tipo l’Istituto nazionale della Salute negli Stati Uniti, la Food and Drugs Administration, l’Agenzia che regola la produzione dei farmaci negli Stati Uniti, e con l’Agenzia europea del Farmaco a Londra. Lavoro con organizzazioni professionali: l’associazione americana della ricerca sul cancro, l’associazione europea di oncologia medica. Soprattutto lavoro molto con queste nuove realtà che si sono affermate negli scorsi anni, i gruppi di supporto e di quello che noi chiamiamo advocacy, di rappresentanza dei pazienti. Recentemente mi hanno chiesto di diventare, sempre gratuitamente, membro del Consiglio d’Amministrazione della Leukemia and Lymphoma Society, una delle più vecchie associazioni di questo tipo negli Stati Uniti. Per oggi pensavo di coprire tre punti, ve li anticipo così potete averli in mente durante la presentazione. Il primo punto l’ho chiamato “obbedienza alla realtà”, il secondo punto “tu sei un bene per me” e il terzo punto è il punto di riferimento.
Allora, parto con “obbedienza alla realtà”. Pensando a questo titolo per il primo punto, mi veniva in mente come quando noi usiamo la parola obbedienza pensiamo in termini limitativi: “bisogna aderire a certe norme, a certe regole, a certe precostituite organizzazioni”. Invece il mio modo – o almeno, quello che mi è stato insegnato e che io poi ho adottato – di obbedire è guardare in faccia alla realtà per quello che è, senza censurarne aspetti o motivi o funzioni che a me non piacessero. E lo stesso quando penso alla parola realtà: anche qui, molto spesso parliamo di realtà in termini limitativi, soprattutto quando si parla di malattia, quando si parla di medicina, come se fosse qualcosa contro di noi, qualcosa da superare oppure qualcosa con cui giungere a compromesso, se non fossimo capaci di piegarla ai nostri voleri. Devo dire che per me invece la realtà è stata forse qualcosa di più, è sempre stata una provocazione ma anche un ricordo del fatto che c’è sempre qualcosa di più. Questo è vero a livello della biologia, è vero a livello della farmacologia, è vero a livello dei rapporti umani ed è vero a livello dell’organizzazione del lavoro così come la viviamo: c’è sempre un qualcosa di più che è li per sorprenderci e per educarci.
Credo che affrontare la realtà con questo tipo di atteggiamento sia il modo più serio, più concreto e forse più appropriato col quale vivere e col quale vivere anche la professionalità. Naturalmente, avendo questo atteggiamento di stupore di fronte a quello di nuovo che la realtà ci offre, la possibilità di superare o rompere certe convenzioni. Tanto per fare un esempio di quella che è la mia professione, la più regolata nell’ambito dell’umano. Conosco solo un altro tipo di professione che è forse più regolata della nostra, quella che regola le norme dei voli e dei piloti e dell’industria del trasporto aereo. Quindi, quotidianamente ci si trova a dover ottemperare, ma anche superare, questo tipo di situazione, tenendo presente il motivo e lo scopo per cui facciamo quello che facciamo. Devo dire anche che c’è un aspetto famigliare per noi: decidere di accettare questa sfida ha voluto dire accettare di trasferirci, cambiare nazione, cambiare continente, cambiare ambiente di lavoro, passando dall’accademia all’industria ma tenendo presente un certo tipo di concetto. Se quello che ci è stato insegnato è vero, è vero dappertutto, quindi può essere vero in Italia così come in un altro continente o in un altro ambiente di lavoro. La sfida è questa, verificare tutti i giorni come quello che ci è stato insegnato sia valido in qualsiasi ambiente. Mi sento di dirlo perché, molte volte, si corre il rischio di cadere in un certo tipo di vittimismo o di moralismo: non ci sono condizioni che prevengano la nostra possibilità di vivere un’esperienza così globale come quella che ci è stata data di vivere. Di fatto, e questo lo ricordo spesso ai miei colleghi più giovani, per via del lavoro che ho avuto la fortuna di fare e la possibilità di insegnare, affrontare la realtà in questo modo è una responsabilità che ci è stata data, la responsabilità di utilizzare le doti, i doni, le risorse, anche economiche che ci sono state messe a disposizione per uno scopo buono, costruttivo. E devo dire che il costruire è stato il tema fondamentale che ha sostenuto le attività negli scorsi anni, sia a livello personale che a livello di dipartimento, cercando, come norma, di avere un approccio costruttivo. Vi farò degli esempi. Il secondo tipo di commento è che essere seri nei confronti della realtà vuol dire anche mettersi in discussione e prendersi dei rischi. Il nostro dipartimento aveva raggiunto un successo scientifico ed un ruolo tali per cui venivamo riconosciuti come i leader della ricerca in campo tumorale, soprattutto con i farmaci chemioterapici. I farmaci chemioterapici sono farmaci che attaccano i tumori secondo alcuni meccanismi chimici particolari. A un certo punto, a cavallo del millennio, abbiamo preso una decisione molto rischiosa e anche sofferta, da un certo punto di vista, di abbandonare progressivamente questo ramo di ricerca e dedicarci invece ad altre modalità. Perché? Perché secondo me bisogna lasciarsi interrogare dalla realtà, mettersi in gioco. Perché ci siamo accorti che con tutti i successi che abbiamo potuto ottenere con i farmaci chemioterapici, c’era sempre un di più, un qualcosa di più da cercare: e questo di più, dal punto di vista scientifico, per noi è stato cominciare a focalizzarci su certi meccanismi che sostengono la crescita dei tumori, cercando di bloccarli chimicamente. E poi, ultimamente – questo è stato un grosso passo dal punto di vista scientifico -, focalizzarci non tanto sul tumore ma sui meccanismi di difesa contro i tumori che ciascuno di noi si porta appresso, nel proprio corpo, quello che normalmente chiamiamo immunologia. Facendo questo – ed è stata una decisone molto rischiosa -, abbiamo avuto la fortuna di imparare, capire e conoscere certi meccanismi che bloccano le nostre difese contro i tumori. Abbiamo potuto scovare modalità in base alle quali il nostro sistema immunitario si potesse risvegliare per essere utilizzato contro i tumori. E’ stato un tipo di approccio molto innovativo, sta portando in questo periodo della storia della medicina a risultati molto impressionanti, non è la risposta a tutte le malattie, non è la risposta a tutti i tumori ma è quel di più, quel passo successivo a cui uno deve sempre guardare e su cui deve sempre interrogarsi.
Naturalmente, ci sono dei prezzi da pagare. Tanto per darvi un’idea del tipo di lavoro che facciamo noi, su cento farmaci che vengono portati in clinica per essere studiati, ne arrivano ai pazienti, perché funzionano e perché sono approvati dai vari Ministeri della Sanità, solo cinque. Tenete presente che lo sviluppo di un farmaco costa secondo stime attuali tra gli ottocento e i mille milioni di dollari, e tenete presente che, dal punto di vista del rischio, se voi lavorate per una industria automobilistica, potete disegnare una macchina, se è una macchina americana in genere non è molto buona, però sapete che alla fine dello sviluppo avete una macchina da vendere, magari non ne venderete tante. Nel nostro caso, ci troviamo molto spesso con delle molecole che finiscono nel cestino della spazzatura e non è che costino meno delle molecole che invece arrivano al paziente. C’è questa componente di rischio che, da un certo punto di vista, non è una dose di adrenalina per dei gasati che pensano di dominare il mondo ma una dose di umiltà che ci viene ricordata ogni giorno. Noi siamo abbonati, da un certo punto di vista, al fallimento: pensate che il 95% delle molecole che portiamo in clinica falliscono.
Un’ultima cosa sulla quale io insisto moltissimo: in questo ambito, la competenza professionale non è secondaria, non è un optional. Se vogliamo essere seri di fronte alla realtà, se vogliamo sapere di più rispetto alla realtà, se la vogliamo interrogare e studiare -io, alla mia tarda età, spendo ancora diverse ore al giorno studiando e ricordo sempre ai miei colleghi più giovani che questo fa parte della nostra responsabilità e del nostro bagaglio professionale -, non si possono tagliare gli angoli, bisogna spendere tempo, fatica e intelligenza studiando quello che ci viene offerto. Questo mi porta al secondo punto che vi avevo anticipato. Devo confessare che magari il titolo della sessione di oggi non mi piace molto, però il titolo del Meeting mi piace, perché dire “tu sei un bene per me” ci ricorda, mi ricorda, come ciascuno abbia qualcosa per contribuire ad un bene comune. Dico questo perché, specificatamente nel mio ambiente – ma vedo questo anche in altre realtà al di fuori della scienza, al di fuori della medicina -, c’è sempre stata una tendenza a isolare certe funzioni l’una dall’altra. L’accademia era responsabile per le ricerche meccanicistiche, le ricerche di base, la scienza; i Governi erano responsabili per le regole, per la protezione del malato, per evitare ogni tipo di rischio; l’industria era responsabile solo per farci i soldi e le organizzazioni di supporto dei pazienti venivano dimenticate o non esistevano e, quando esistevano, avevano magari programmi limitati alla raccolta fondi, a fare pubblicità a un tipo particolare di malattia, per cui oggi la mia malattia è più importante della tua.
Questa mentalità esiste molto negli Stati Uniti. Noi abbiamo cercato di portare la possibilità di costruire strumenti in cui ciascuno potesse contribuire con la propria originalità, ma in un modo costruttivo e condiviso. L’accademia una volta inventava i farmaci, questo non esiste più. L’accademia inventa i meccanismi di azione dei farmaci, ma i farmaci stessi vengono inventati o scoperti dall’industria che ha strumenti anche robotizzati molto più efficaci e veloci. Però l’accademia ha la responsabilità non solo della carriera accademica dei propri membri ma anche dell’insegnamento e ha la responsabilità di quella che noi chiamiamo la traslazione della scienza dal laboratorio alla clinica. I Governi hanno sempre interpretato il proprio ruolo, e questo è stato vero soprattutto negli Stati Uniti in un modo molto limitativo, come se fossero i poliziotti della situazione, cercando di evitare qualsiasi rischio dal punto di vista della salute del paziente, ma anche rischi che di fatto non esistono o che producono ritardi nell’accesso dei pazienti a farmaci che funzionano.
Solo da poco tempo le Agenzie governative, le agenzie regolative hanno cominciato ad interpretare il loro ruolo in un modo più aperto, più innovativo e noi abbiamo lavorato insieme a loro: vi darò degli esempi di questo. Dallo stesso punto di vista, l’industria non è solo vendere più farmaci, far crescere il valoro delle azioni a Wall Street o essere competitivi contro altre industrie. Di fatto, nella realtà attuale, globale, come diceva Carròn nella sua intervista di ieri al Corriere della Sera, nella realtà irriducibile, l’industria ha la responsabilità di sviluppare e rendere queste terapie disponibili in tutto il mondo, non solo in certe geografie privilegiate, utilizzando questa possibilità di sviluppo globale in termini di velocità ma anche di credibilità dei risultati, in modo che rispondano ai bisogni reali di pazienti. Con un corollario, perché è una cosa che abbiamo fatto noi per primi, ma adesso si fa molto più frequentemente. Siamo stati i primi a contattare un’altra compagnia farmaceutica, chiedendo di fare degli studi insieme con farmaci sperimentali. Questo non era mai stato fatto nella storia della medicina, ciascuno si teneva la propria molecola, la mia molecola è più bella della tua, ecc. Noi abbiamo rotto questa convenzione, non perché pensiamo di essere più intelligenti ma perché semplicemente c’erano dati sufficienti che ci dicevano che valeva la pena di fare questo tipo di azioni per il bene del paziente.
Non sto a raccontarvi quanto sudore e sangue questo ci sia costato in termini di tempo speso con gli avvocati delle varie compagnie, soprattutto gli avvocati a carico dei brevetti, però siamo riusciti a farlo e abbiamo aperto questa strada che adesso viene seguita più frequentemente da altre compagnie. Per i gruppi di supporto dei pazienti, anche qui c’è stato un itinerario molto interessante. Inizialmente questi gruppi si occupavano di una malattia specifica o di un tipo di tumore specifico, facevano del lobbismo sulle forze politiche, difendendo, proponendo la propria malattia e raccogliendo fondi. Con il tempo, lavorando insieme, siamo arrivati ad una maturazione di questo tipo: i gruppi hanno imparato, insieme a noi, a utilizzare direttamente i propri fondi nella ricerca usando dei meccanismi alternativi a quelli che sono i meccanismi tradizionali dell’Istituito nazionale dei tumori americano (NCI) o di altri organismi governativi. Questo ha snellito di molto il processo e di fatto ha creato un processo, non alternativo ma integrativo degli studi governativi, però con la capacità di essere molto più a contatto con il paziente perché queste associazioni sono di fatto la voce dei pazienti, sono a contatto quotidianamente con le domande che i pazienti pongono loro. Un terzo livello che queste associazioni hanno raggiunto molto più recentemente è un livello in base al quale non si occupano della loro malattia specifica o di un tumore specifico ma si occupano della legislazione a livello politico o anche a livello esecutivo, in modo da modificare le norme e le regole in un modo più realistico, più efficiente, e anche, se vogliamo, più globale. Non esistono differenze sostanziali per certi tipi di malattie o per certi tipi di tumore tra un paziente giapponese e un paziente americano o uno italiano: la possibilità di utilizzare dati globali, di dialogare con le realtà governative regolatorie è stato un passo avanti notevole che abbiamo fatto nella nostra storia.
Tra gli esempi che posso darvi, noi abbiamo donato all’Amministrazione americana le nostre basi di dati, gli studi sull’infezione HIV, l’agente patogeno dell’Aids, e i nostri database su studi fatti in relazione ai tumori, dimostrando che per certi farmaci che funzionano veramente una verifica più precoce fosse possibile richiedendo la conferma successiva anche in studi molto più larghi e con punti di controllo molto più a lungo termine. Però questo approccio non è stato mai sconfessato con una sola eccezione nella storia della medicina e ha consentito ai nostri pazienti di avere accesso a questi farmaci, una volta provati, molto prima, intendo dai tre ai cinque anni, prima rispetto al meccanismo di approvazione vigente nel passato. Ovviamente, questo lo si ottiene lavorando insieme, non solo per conto proprio. E lavorando insieme vuol dire anche rompendo le barriere con altre compagnie farmaceutiche o con altre entità accademiche che non erano abituate a condividere i propri dati. Un’altra cosa che abbiamo introdotto: in questo momento l’oncologia è molto sviluppata, perché è uno dei problemi medici più importanti. Abbiamo creato insieme al Governo, insieme all’accademia, insieme ai rappresentanti dei pazienti ei corsi di insegnamento che adeso sono obbligatori per i giovano che lavorano nelle Agenzie governative, per i giovani che lavorano nell’industria, in cui viene insegnato come sviluppare i farmaci, non solo come scrivere i protocolli di ricerca. Infine, una cosa molto innovativa che abbiamo fatto: abbiamo chiesto ai gruppi di supporto dei pazienti di rivedere i nostri piani di ricerca, non solo i protocolli ma gli interi piani di ricerca.
E questo mi spinge all’ultimo punto: qual è il punto di riferimento? Perché lo facciamo? Perché siamo tutti buoni? Direi di no, qualche volta si può cadere un po’ nel moralismo o anche nel formalismo. In realtà, lavorare insieme è un modo di servire meglio – per usare un termine che aveva usato Mauro Ferrari ieri qui al Meeting – i nostri pazienti.
Voi sentirete gente, adesso e in futuro, dire che il paziente è al centro: è vero ma può suonare come uno slogan, perché si rischia di parlare del paziente come di una categoria. Io posso dirvi che nella mia esperienza lavorativa le cose più belle, più inaspettate, più innovative, le abbiamo fatte imparando da alcuni pazienti specifici. Li conosco, i pazienti, posso dirvi chi erano, cioè, non posso dirvi chi erano perché sarebbe contro la legge, ma partendo da bisogni specifici che loro avevano abbiamo potuto interpretare e sviluppare certi studi per rispondere ai loro bisogni. Ora, se ci pensate un momento, questo vuol dire nient’altro che partire dall’esperienza. Partire dall’esperienza è un metodo che ci è stato insegnato certo non nelle scuole di medicina ma da un’educazione più vasta che abbiamo ricevuto. E possiamo anche dire che il punto di riferimento per quelli che sono non cristiani può essere il paziente come tale, ma ci sono altri che vedono nel paziente una presenza ed un punto di riferimento che richiama quella realtà di cui vi dicevo all’inizio. Chiudo dicendo che questo tipo di approccio ha significato anche cambiare delle leggi, cambiare delle norme, cambiare delle regole e anche, sempre tenendo presente questo di più, andando ad interpellare e a coinvolgere entità con cui eravamo soliti lavorare. Di solito, si lavorava nei laboratori e nelle cliniche: noi lavoriamo ancora nei laboratori e nelle cliniche, però siamo andati ad interpellare anche i politici, anche i legislatori, anche le compagnie di assicurazione che negli Stati Uniti, almeno, contrariamente al resto del mondo, sono quelli che provvedono all’assistenza mutualistica del Paese. C’è sempre questo di più che ci provoca anche ad allargare il nostro orizzonte. Chiudo dicendo che è così vero che essere pazienti non è una categoria ma un’esperienza, che anche noi, prima o poi, sperabilmente poi, diverremo dei pazienti e anche noi avremo a che fare con questo tipo di situazione, è un’esperienza umana ed è un’esperienza umana che ci coinvolge. Grazie per la vostra attenzione.

LETIZIA BARDAZZI:
La parola a Guido Piccarolo.

GUIDO PICCAROLO:
Allora, io chiedo subito scusa perché probabilmente quando si parla delle cose più care è facile commuoversi, poi, con il passare degli anni, diventa quasi più naturale commuoversi per le cose accadono nella propria vita per cui è possibile che mi fermi, che mi soffi il naso, mi vengano qualche lacrima. Però voglio condividere con voi un pezzo del cammino di questi vent’anni – il cui inizio è stato prima – di storia americana. E lo dico subito perché è come il filo conduttore di quello che mi è successo: penso che questo si capisca dagli esempi di vita che proverò a fare, ma la vita, la mia vita è coincisa e coincide con uno sguardo di misericordia e di amore che continuamente io ricevo ogni giorno. Ed è uno sguardo – quando lo ricevi, quando te ne accorgi, sulla propria vita, sulla mia vita – di amore, amore puro. Poi tutta la vita si dischiude nell’aprirsi e nel lasciarsi determinare da questo amore più grande, concreto, reale, presente. Allora, dico questo perché magari molti non lo sanno: lavoro da nove anni, dopo aver lavorato nel settore amministrativo del Controllo Gestione alla Disney, con la mia cara grande amica Nancy, che ci ha lanciato in una avventura paradossalmente strana. Abbiamo cominciato un’opera non-profit e lo scopo del nostro lavoro, dell’esistenza di questa compagnia, di questa organizzazione è aiutare a far lavorare, dare un lavoro. Noi diamo lavoro e aiutiamo a mantenere il lavoro a giovani e meno giovani con disabilità che vanno dall’autismo alla sindrome di Down ai ritardati mentali, fino ad aiutare, come diceva Letizia, quelli che sono ragazzi, donne, uomini che ritornano dalla guerra con quella che è chiamato Post Dramatic Stress Disorder, oppure Traumatic Brain Injury, cioè danni irreparabili al cervello. E questo lo facciamo dando lavoro e contratti a questi nostri ragazzi con cui lavoriamo: pulendo uffici – quindi non sovvenzionati dallo Stato, niente di tutto questo -, offrendo servizi amministrativi in ospedale, lavoro di contabilità, per quelli che sono reduci dalla guerra, veterans. Questo è quello che faccio. Per cui non sono abituato a parlare ma c’è tanto lavoro e questo mi fa trovare più a mio agio rispetto al parlare di oggi.
Quando sono arrivato a Los Angeles nel 1997, per una posizione di lavoro che mi avevano offerto da New York a Los Angeles, la cosa più impressionante, che ancora oggi mi porto dietro, è che è accaduta mentre io pensavo e desideravo di prendere questa opportunità di lavoro che mi era stata offerta a Los Angeles. Avevo chiesto al don Gius e agli amici dei Memores Domini se potevo andare, se potevo partire per andare a Los Angeles a lavorare: era il desiderio che avevo, il desiderio di potere vivere anche lì la bellezza dell’incontro con il Signore, con Cristo. Totalmente e inaspettatamente, senza che io me lo aspettassi, perché non era scontato, non solo il don Gius mi aveva detto: “Guarda, è così vero e così importante il desiderio che hai, che sicuramente vai, ma non ti lascio andare da solo. Lì ci sarà una casa”. Questa è una cosa dell’altro mondo, perché non è una casa fisica ma un luogo che costantemente, continuamente accompagna la mia vita al destino, un luogo che mi sorregge, un luogo che mi ama. Questo è lo sguardo che ho incontrato nella vita, qualcuno che inaspettatamente ti prende per mano e ti dice: “Lì ci sarà un luogo”, e questa è la cosa più liberante, più vera che possa accadere. Lo dico perché per me questo sguardo di amore che è accaduto così, in quel momento, ogni giorno si è ripetuto e si ripete: è lo sguardo che sostiene la vita, è lo sguardo che quando accade ci vuoi entrare sempre più dentro, perché non è un amore limitato ma un amore infinito, e più ti tocca e più vuoi entrare a conoscerlo. Ed è proprio vero che il cuore è là dove è il tesoro: ci tenevo a dirlo perché è come il punto unificante di tutto quello che mi è successo, questo sguardo che ho ricevuto vivendo in California. Là si sente moltissimo il flusso della mentalità comune di cui io sono pieno, per cui l’altro che vive, che incontro, colui che è differente, inevitabilmente da me è scartato, è messo da parte ciò che è differente nella vita, che fa paura, e allora non lo considero, tanto più poi quando ci lavori, devi farci business, devi portare i soldi, devi fatturare. Figurarsi se io posso perdere del tempo, il tempo è denaro, il tempo non è sempre un amore. Che io debba spendere tempo per accogliere il diverso, quello che è diverso, che la California – che io amo dal profondo del cuore – non accoglie o lo accoglie superficialmente, lo accoglie poi se va bene secondo quello che io penso, che faccio – immaginate quale grazia abbia ricevuto nella vita per cominciare un lavoro per cui dover far quadrare i conti, e nello stesso tempo, desiderare, per quello sguardo ricevuto, che possano partecipare coloro che sono i più semplici i più wounded, feriti attraverso un bisogno particolare, una disabilità che è un bisogno. Pensate che scandalo, è impossibile, e infatti non era quello che avevo pensato. Ma qualche anno fa, una collega che lavorava con me e Nancy alla Disney è venuta a trovarci in ufficio, inaspettatamente: abbiamo mangiato insieme, abbiamo cominciato a raccontarle quello che facciamo: facciamo le pulizie, non è che resuscitiamo la gente o facciamo cose strane, facciamo le pulizie e cerchiamo di farle bene. E lei ad un certo punto si è fermata, ci ha guardato e fa: “Ma voi, tu e Nancy, avete realizzato quello che è il sogno americano”. Io dico: “Come, il sogno americano?”. “Sì, avete realizzato quello che è il sogno americano”. Se pensiamo quale sia per tutti noi il sogno americano, pensi che questa ragazza avesse visto il palazzo della Disney con i sette nani, tutto bello, tutto perfetto, non so, qualcosa di eccezionale. E qualcosa di eccezionale lo aveva visto, perché, qual è il sogno americano? Ma il sogno della vita! E’ poter guardare, poter essere guardati con un amore, da un amore: lei lo aveva visto in quello che dicevamo. Io tante volte non me ne rendo conto ma questo è il sogno americano, che ci sia uno che ti accoglie.
Infatti, alla fine, tornando al tema del Meeting, è impressionante perché la gente ti chiede: “Ma tu che lavoro fai?”. E immediatamente mi viene da dire che io faccio qualcosa per l’altro, e questo è un desiderio buono, vero. Ma al fondo io non faccio qualcosa per l’altro: la storia di questi anni, di questi giorni, di questo presente è accogliere l’altro, è la cosa più semplice ma anche la più difficile. Non è fare per l’altro ma è accogliere l’altro, perché quando l’altro è con te, poi cominciamo a fare le cose con gusto. Posso dire che diventa un gusto pulire le toilette, svuotare la spazzatura, scrivere tante volte lo stesso numero, lavorare in contabilità, che è monotono: ecco, quando accogli un altro questo diventa una gioia. Allora, in questo contesto in cui il differente, il diverso non è accolto, la sfida è accoglierlo come la mia vita è stata continuamente accolta. Racconto un paio di episodi in cui è evidente la ragione per cui è vero che tu sei un bene per me, che già accogliere l’altro, quando lo accogli cominci a sperimentare che lui è questo bene: accogliendo la realtà di ogni giorno, questo si è fatto. Noi lavoriamo con ragazzi con disabilità, diamo loro un lavoro. Alla fine del rapporto di lavoro, per circostanze diverse, per alcuni errori che avevano compiuto, abbiamo dovuto chiudere il rapporto lavorativo. Capita, per esempio che ad un certo punto tu faccia lavorare una persona che poi viene sorpresa al lavoro ubriaca: come fai a farla continuare a lavorare? Uno di questi ragazzi aveva un cuore immenso, un cuore gigantesco. Era sempre il primo che, se qualcuno non lavorava, era disponibile a fare il lavoro al suo posto, e anche l’altro aveva un cuore davvero grande e avevamo cercato di aiutarlo in tutti i modi. Pensate che questo ragazzo per molti giorni non era venuto al lavoro. Quando si è presentato in ufficio per parlare con noi, è venuto con il suo papà e la sua mamma, si è seduto e sapete cosa ci ha chiesto? Normalmente uno ti chiede: “Posso tornare a lavorare, mi dai un’altra possibilità?”. Con i suoi occhioni grandi, lui ci guarda e ci fa: “Ma voi, ma voi mi perdonate?”. Come è possibile che uno parli di perdono se nella vita questo perdono non lo ha visto, se non è stato toccato da un perdono? Pensate a uno che nel suo lavoro, perché è accolto, guardato, arriva al punto di dire, senza essere cristiano: “Ma tu mi perdoni?”.
Questa del perdono è un’esperienza che ci è capitata un’altra volta. Era un reduce di guerra, per una serie di motivi, mentre lavorava con noi… Poi la vita è fatta così, il telefono ti suona nel mezzo della notte e trovi una persona che dall’altra parte del telefono ti dice: “Guarda che lo conosci, non dico il nome, Tom, ecc.”. “Sì, è un mio dipendente”. “Beh, è in prigione, è stato arrestato”. “Ma come, arrestato?”. “Sì, è stato arrestato, non posso spiegarle molto ma se vuole pagare la cauzione lo possiamo fare uscire”. “Come faccio a pagare la cauzione? Non ho i soldi, non ho la possibilità, e allora niente”. Torniamo a Los Angeles con Nancy e il giorno dopo ci informiamo di dove sia la prigione e andiamo a trovarlo. Da una settimana era in prigione, era la prima volta che io entravo in un penitenziario americano. Probabilmente sono simili ai nostri, comunque per me era un’esperienza nuova, impensabile. Vedi questo nostro dipendente lì, per una cosa stupida che ha fatto, dietro a un vetro. Io entro, quasi mi blocco, e lui dice: “Vieni avanti”. Iniziamo a parlare al telefono e lui di colpo mette la mano sul vetro, io metto la mia sopra la sua e lui ci guarda, eravamo io e Nancy, e ci dice: “Ma voi mi perdonate?”. Non ha chiesto di uscire dal carcere, i soldi per la cauzione, se poteva in futuro riavere il suo lavoro. Di fronte a noi il miracolo: “Ma voi mi perdonate?”. E di nuovo, il perdono non è qualcosa che si può spiegare ma si riceve. Questo mi ha fatto pensare a me. Quante volte, davanti a questi ragazzi, con la mentalità comune che mi ritrovo io penso di conoscerli già, ho già definito cosa è l’altro nella mia vita, mi può dare questo, mi può dare quello, può fare così o può fare cosà. Ma invece, che l’altro sia questo mistero infinito… Pensate alla vita nella persona che ad un certo punto ti dice: “Ma tu mi perdoni?”. Non io, Guido Piccarolo, ma tu, questo altro che misteriosamente lui vede nella propria vita: “Mi ami? Mi perdoni?”.
Questo per me significa cominciare a realizzare pallidamente che tu sei questo bene per me, perché il mistero della vita non è astratto nel cielo ma è lì di fronte, è un uomo che con la mano tesa ti chiede di perdonarlo. Quando cominci a guardare l’altro così, l’altro è questo bene assoluto per cui vorresti andargli per sempre insieme. Ancora un paio di cose, perché poi non accade che al mattino questi nostri ragazzi vengono da noi e noi gli facciamo la catechesi della giornata: quello che si può fare, quello che non si può fare, come comportarsi. No, li si aiuta a imparare un lavoro. Tanto è vero, che quando si guarda all’altro così, uno degli aspetti più belli nella vita è che cominci ad essere paziente, anzi, non solo sei paziente ma cominci ad ascoltare l’altro. L’altro lo ascolti e questa è una sfida. A Natale, insieme a Nancy, gli amici di una fraternità di Milano che sono all’origine del cammino che abbiamo fatto, perché quando non avevamo un dollaro ci hanno aiutato – in inglese sono i soldi che arrivano dagli angeli – e ci hanno consentito di poter partire con l’attività, dopo questi dieci anni di cammino ci hanno detto: “Vorremmo conoscere alcuni dei vostri dipendenti”. Non è stato semplice per tanti motivi, ma siamo venuti in Italia con un’amica, una collega, una reduce: l’ultima serata abbiamo fatto un giro bellissimo a Roma, facendole conoscere gli amici perché qual è il tesoro più bello della vita? Quando hai amici che ti richiamano al destino. L’ultima sera abbiamo fatto quello che per me è una cosa normale ma invece è una cosa eccezionale: dal mio amico Totò hanno preparato un bellissimo pranzo, mangiare e bere ma con un gusto che non è un gusto suo, facciamo baldoria. Arriviamo in questa casa, avevano preparato per noi un pranzo bellissimo, già commovente solo a vedere come la tavola era apparecchiata. E siccome questa nostra amica adora cucinare, ci hanno chiesto che cosa potevano regalarle e io avevo risposto: magari una tovaglia quelle belle italiane, perché da noi le tovaglie tante volte non si utilizzano, si mangia sul piano. Era una tovaglia ricamata, bellissima. Siamo tornati a Los Angeles, tre settimane fa Nancy chiama questa nostra amica, le chiede come sta e la trova in un momento di difficoltà. Adesso non lavora più per noi, ha trovato una posizione con altri attraverso quello che ha fatto con noi. Nancy la chiama e la trova triste, triste e pensierosa, ansiosa, depressa, perché fa fatica nei rapporti di lavoro che non sono più con gente semplice. Dice: “Ho tanta nostalgia di quello che ho visto stando con voi, sto quasi pensando di smettere di lavorare, magari è meglio se lavoro da casa così non vedo nessuno”. Pensate alla difficoltà di essere in rapporto: perché è difficile stare con l’altro che lavora con me, l’altro che è con me. “Ma sai, Nancy” dice, “voglio dirti che in questo momento di fatica e di depressione fortissima, mi è venuta nostalgia di quello che ho visto in Italia, di quello che ho visto con voi quando sono stata in Italia, di come sono stata guardata e di come ho cominciato io a guardare. Sai che cosa ho fatto? Sono andato in cucina, ho aperto l’armadietto più in alto, ho preso la tovaglia che i nostri amici a Milano mi hanno regalato e ho cominciato a stirarla. Non è che tutta questa sofferenza, questa drammaticità dei rapporti con i miei colleghi sia sparita però, cominciando a stirare questa tovaglia, ho capito che anche quella sofferenza e quella difficoltà nei rapporti ha un senso, può essere per me”. A me questa cosa, che c’entra con il tema bellissimo, “tu sei un bene per me”, ha fatto dire: ma dov’è la tovaglia della mia vita, dove ho questa tovaglia che, di fronte alla difficoltà del lavoro, della vita, ho il coraggio e la semplicità di tirare fuori e cominciarla a stirare? Perché questo è il segreto della vita, c’è una tovaglia: mi ha così commosso questa cosa, questa semplicità che mi ha fatto venire in mente che 2000 anni dopo è la stessa cosa del Vangelo, di quella che perde i sandali, di quella donna ammalata, che con tutta la sua malattia, tutta la difficoltà, si aggrappa alla veste del Signore. Ecco questo la grazia della semplicità di vedere come Cristo continuamente entra nella carne, attraverso una donna che apre un armadietto e dice: io voglio stare attaccata alla tovaglia della mia vita. Duemila anni dopo, questo è il miracolo, letteralmente, della resurrezione: che c’è un punto a cui ti puoi attaccare, da cui cominci a guardare la realtà. Il cammino è mio, perché il giorno dopo quegli impiegati lì ce li ho.
L’altra cosa: è oggettivo che il tu è un bene per la mia vita, qualcosa che devo scoprire. Ogni tanto stiamo insieme in modo molto semplice, andando a mangiare qualcosa a un ristorante con qualcuna di loro. Una sera è accaduta una cosa dell’altro mondo. Fuori dal ristorante, lei ferma a me e Nancy, ci guarda e dice: “Io vi ringrazio perché senza di voi non sarei qui, non sarei me stessa”. Noi la guardiamo: “Certo, si, abbiamo pregato tanto per te”. Ma lei dice: “No, io voglio dire grazie a te, a voi”. E noi, di nuovo: “Ma guarda, abbiamo sempre pregato per te”. E lei: “No, smettetela, sei tu, siete voi”. Ad un certo punto, quando una inizia ad essere aggressiva, tu dici: va bene, hai ragione. Ci allontaniamo, con Nancy, poi ci guardiamo e diciamo: “Ma noi in questo momento abbiamo detto di no all’incarnazione, perché il metodo di Dio è un metodo carnale che arriva a noi, a me attraverso una carne. Spesso noi diciamo di no al metodo che Dio ha scelto, e il metodo di Dio è questa preferenza, una preferenza per cui dice tu. E io faccio fatica a stare di fronte a questo: tu sei un bene per me, facile dirlo, più semplice quando cominci ad accogliere. Questi momenti sono il tesoro della vita, tu dici grazie a Dio perché ci sei e non sei il mistero che penso ma il mistero che mi si presenta ora, mi fa dire si. Io voglio stare con te perché quando è così è più bello, è più vero, cominci a essere te stesso. E finisco, anche se mi piacerebbe dire ancora più cose, ma finisco perché in fondo ce le siamo dette già tutte. Rileggendo un breve e-mail che ci ha mandato una nostra dipendente, di recente mi sentivo davvero frustrata: è una che ha lavorato per un anno e mezzo con noi e poi, avendo imparato il lavoro, è andata a lavorare per un’associazione, una compagnia più grossa. “Sono davvero frustrata con il mio lavoro, ma in questa frustrazione sto continuamente cercando quei raggi di sole, quei raggi di luce che ritornano tutte le volte che rileggo la meravigliosa cartolina di auguri che mi avete mandato per il mio compleanno. Io desidero questo per me, quei dialoghi che hanno la forza di educare e solidificare il nostro rapporto di poveri esseri umani con Dio. Adoro questi dialoghi, ritornano vivi nella mia giornata e sono l’origine dell’amore più profondo, dei miei pensieri e delle azioni verso gli altri. Così, mentre la vostra amicizia non sarà mai seconda a nessuno, ho deciso che posso fare qualcosa che faccia da eco al nostro essere in rapporto ogni giorno, tutti i giorni. Io vivo qualcosa di bello, quello sguardo che ho visto all’inizio con don Giussani, desidero che accada di nuovo, allora mi muovo, guardo intorno, desidero fare qualcosa per cui questo possa rimanere. Ho visto l’intervista di padre Richard Rohr, un monaco francescano” – lei non è cattolica – “e mi sono appuntata alcune delle cose che dice. Voglio leggerle ogni giorno il più possibile, ho anche pensato che possa aiutarmi prendere nota e attaccare queste note a casa, nella macchina, sulla scrivania, in ufficio e portarmele nella borsa”. Un raggio di luce reale, concreto, un mistero che entra nella vita, uno non lo può lasciare lontano, me lo porto nella borsa, me lo porto nel cuore. Per questo, la ricchezza più grande che abbiamo è poter accogliere questo tu che è il bene per la mia vita. Il mistero è questo tu che entra nella vita ogni giorno, attraverso un lavoro che per me è il lavoro più bello che si possa fare, perché è accogliere la diversità misteriosa che l’altro, chiunque esso sia, porta nella vita. Grazie.

LETIZIA BARDAZZI:
Provo solo a trattenere due spunti, due fuochi di queste ricchissime, bellissime testimonianze. Ha detto Renzo Canetta: se quello che ci è stato dato è vero, è vero ovunque, in qualsiasi condizione, senza barriere di spazio. Ciò che genera un uomo nuovo non è altro che l’affetto per l’avvenimento della fede, è l’attaccamento a quel punto pieno di attrattiva che noi abbiamo incontrato, a quel di più che ci provoca ad allargare gli orizzonti. Le parole del nostro Guido sono state: la mia vita è coincisa con quello sguardo di misericordia che ricevo ogni giorno, un amore puro, tutto si fa determinare da un amore ricevuto, un punto che ti prende per mano e ti conduce, un punto che quando accade ci vuoi entrare sempre più dentro. Allora cogli tutto come nella vita io sono stato accolto, perdono tutto come la vita è stata perdonata, noi siamo attaccati alla tovaglia e allora anche noi siamo invitati a tirarla fuori, questa tovaglia. Questa è la testimonianza, è la forza della testimonianza che i nostri ospiti oggi ci hanno offerto, è la categoria con la quale intendiamo indicare la modalità della nostra presenza come cristiani nella società di oggi. Io li ringrazio ancora, li saluto con un applauso. Vi invito tutti a partecipare alla nostra campagna di Fundraising e vi raccomando di fare la donazione solo nei punti espressamente segnalati dal logo della campagna: questo è molto importante per il sostegno a questo bellissimo Meeting di Rimini. Grazie ancora, buonasera.

Data

23 Agosto 2016

Ora

15:00

Edizione

2016
Categoria
Incontri