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TRA NICHILISMO E JIHADISMO: LA SFIDA DI RICOSTRUIRE LA CIVILTÀ NELLO SPAZIO PUBBLICO
Partecipano: Brian Grim, President of the Religious Freedom & Business Foundation; Olivier Roy, Joint Chair RSCAS, Chair in Mediterranean Studies at EUI (European University Institute). Introduce Stefano Alberto, Professore di Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Tra nichilismo e jihadismo: la sfida di ricostruire la civiltà nello spazio pubblico
STEFANO ALBERTO:
Buonasera a tutti, benvenuti a questo ultimo incontro delle cinque in Auditorium. Il Meeting si avvia alla conclusione ma affrontiamo questa sera un tema molto impegnativo, come potete vedere dal titolo, un tema che riguarda la nostra quotidianità. Il terrorismo fa parte del panorama urbano. Gli ultimi recenti fatti di Barcellona sono solo un punto di una ormai lunga serie di atti terribili che hanno insanguinato improvvisamente la vita della gente comune, quella che viene chiamata una guerra asimmetrica. Vorrei però richiamare la vostra attenzione sulle parole contenute in questo titolo. Nichilismo è una parola antica, occidentale, dell’Ottocento: non riguarda solo un fenomeno filosofico o politico ma la possibilità di ciascuno di noi, tra le pieghe della vita, di cedere al vuoto, di usare la libertà per inaridirsi o, come ha detto la mamma di quel terrorista in Inghilterra, per ossificarsi.
Già Agostino parlava della “fascinatio fugacitatis”, il fascino del niente. In una delle mostre più visitate al Meeting, abbiamo visto che un secolo fa la società russa, il popolo russo, la chiesa russa sono caduti in mano a una delle più sanguinarie dittature della storia. Una minoranza, nonostante loro si proclamassero maggioranza, ha potuto impadronirsi dello Stato, della società, perché la società si era svuotata e ha ceduto alla paura e al nulla.
Questi giovani sono terroristi senza ragione, ventenni che si sono fatti saltare in aria facendo stragi. 23 mila attentati nell’arco di vent’anni, 11 mila morti. Vale a dire che, fatte le dovute distinzioni e proporzioni, per evitare anacronismi, questo fascino del nulla che inaridisce la vita, tanto che uno arriva ad affermare “amo più la morte che la vita”, è una possibilità reale. L’altra parola è Jihadismo e come ogni ismo indica la deformazione di un principio contenuto nel Corano in qualche cosa di mostruoso. Ma qui – ecco il nesso con la seconda parte del titolo – la strumentalizzazione religiosa pone all’Occidente una grande questione.
Non possiamo nasconderci che fino a pochi anni fa – oggi ci sono segnali di ripensamento, di cambiamento – la vulgata comune e grandi pensatori politici, basta citare il primo John Rawls, hanno teorizzato in lungo e in largo che lo Stato secolarizzato, lo Stato liberale è uno spazio vuoto del fenomeno religioso, relegato nel privato. Nello spazio vuoto, però, il vuoto entra nel cuore dell’uomo. Allora, lo sappiamo bene, non basta cavarsela con slogan del tipo: “sono le loro religioni con la loro pretesa di assoluto che creano la violenza”, tesi ancora oggi piuttosto diffusa e non solo nei riguardi dell’Islam. Dobbiamo cercare di capire, rinunciando ai facili slogan, alle battute ad effetto, a strumentalizzazioni politiche superficiali e interessate, per affrontare al meglio quello che comunque riguarda ciascuno di noi. Ed ecco allora che oggi, in questo incontro, si intersecheranno i temi del radicalismo che strumentalizza la dimensione religiosa, la funzione della religione nello spazio pubblico, per usare una espressione efficace di qualche anno fa del Cardinale Tauran, per capire se la religione fa parte del problema, come molti pensano, o della soluzione per una nuova civiltà, come in effetti è.
Volevo leggere dieci righe dal documento programmatico di Papa Francesco, l’Evangelii Gaudium, dove la questione della libertà religiosa oggi viene così tratteggiata: “Un sano pluralismo che davvero rispetti gli altri e i valori come tali non implica una privatizzazione delle religioni, con la pretesa di ridurle al silenzio e all’oscurità della coscienza di ciascuno o alla marginalità del recinto chiuso delle chiese, delle sinagoghe o delle moschee. Si tratterebbe, in definitiva, di una nuova forma di discriminazione e di autoritarismo. Il rispetto dovuto alle minoranze, il rispetto dovuto agli agnostici, non deve imporsi in un modo arbitrario, che metta a tacere le condizioni di credenti o ignori la ricchezza delle tradizioni religiose; questo alla lunga fomenterebbe di più il risentimento che la tolleranza e la pace”. Prima di presentare i nostri due relatori, volevo ricordare affettuosamente Jàn Figel’, che è inviato speciale dalla Commissione europea per la promozione della libertà di religione e di credo al di fuori dell’Unione europea, che avevamo invitato e che aveva accettato volentieri. Si scusa con tutti voi ma non è potuto essere qui per problemi di salute piuttosto delicati che sta affrontando: e chiede non solo la nostra comprensione ma anche di sostenerlo in questo momento particolarmente importante. Per affrontare un tema così complesso e così carico di pregiudizi, di superficialità, abbiamo la fortuna di avere qui, per la prima volta al Meeting, uno dei più grandi studiosi ed esperti di Islam e di oriente, il professor Olivier Roy, che è attualmente Co-presidente del Robert Schuman Centre for Advanced Studies, e del Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Istituto Universitario Europeo. Non è solo uno studioso a tavolino ma è una persona che ha assunto grandi conoscenze sul campo: per esempio, ha diretto la missione OSCE per il Tagikistan nel ’93/’94, è stato consulente per l’ufficio delle Nazioni Unite del coordinatore per l’Afghanistan, è direttore del Religio West. Il suo ambito di lavoro comprende Islam politico in Medio Oriente, Islam in Occidente e religioni comparative. Tra i suoi innumerevoli studi e pubblicazioni, vorrei citare solo gli ultimi, tradotti in Italiano: La Santa Ignoranza, ripubblicato quest’anno da Feltrinelli, e il recentissimo Generazione Isis: chi sono i giovani che scelgono il Califfato e perché combattono l’Occidente, pubblicato da Feltrinelli. Alla mia sinistra c’è invece una personalità non nuova, è alla sua terza partecipazione al Meeting, Brian Grim, Presidente della Religious Freedom and Business Foundation, membro del Consiglio del World Economic Forum sul ruolo della fede, consulente su fede geopolitica per la Tony Blair Faith Foundation: è uno dei principali esperti dell’impatto socioeconomico della libertà religiosa alla università di Washington, Visiting Professor alla Saint Mary’s University a Londra. Tra le sue pubblicazioni ricordo The price of freedom denied. Ha lavorato in Europa, Asia e Medio Oriente. A lui chiediamo innanzitutto una presentazione sintetica di alcune prospettive in atto che illustrano, a partire dalla libertà religiosa effettivamente goduta e praticata, il contributo positivo delle religioni per la convivenza civile e il bene comune. Prego.
BRIAN GRIM:
Grazie, grazie, don Pino. Parlerò in inglese ma ringrazio gentilmente il moderatore e gli interpreti per il loro aiuto. Oggi vi farò due domande. La prima: vi siete mai chiesti perché Dio ha scelto ha scelto un imprenditore come marito della Vergine Maria e quindi come padre terreno di Gesù? Ha scelto un falegname, uno che aveva un laboratorio di falegname: forse è la prima volta che vi viene rivolta questa domanda, ma proviamo a riflettere insieme. Dio ci ha creato dal punto di vista fisico e spirituale, abbiamo necessità fisiche e necessità spirituali, e per prendersi cura di questa famiglia Dio ha scelto un uomo che aveva una certa forza, una certa capacità, perché le sfide del mondo all’epoca erano molto difficili da superare, pensiamo ad esempio alle persecuzioni di Erode. Quest’uomo doveva utilizzare le sue capacità per proteggere il nostro Salvatore e la Vergine Maria, quindi, potremmo dire che Giuseppe era altrettanto importante della Vergine Maria, in questa famiglia. La gran parte del mio lavoro consiste nel mettere in evidenza il legame che c’è tra quello che facciamo ogni giorno e l’impatto che può avere sul mondo: qualsiasi sia la vostra professione, qualsiasi lavoro facciate, è sacro quanto il lavoro che svolge un sacerdote. Perché è la vocazione che Dio ci dà. Fatemi fare un esempio del potere di un imprenditore nel portare avanti la causa della libertà religiosa, lavorando con persone di religioni diverse. Siamo in Indonesia, dove c’è la più vasta popolazione musulmana del mondo ma anche una vasta popolazione cristiana; e poi induisti, buddisti e molte altre religioni. Ora, l’Indonesia ha un problema particolare, che fa sì che 40 milioni di bambini si trovino in condizione di povertà: questi bambini non hanno un certificato di nascita e pertanto non possono frequentare le scuole statali, non possono ricevere l’assistenza pubblica, non possono lavorare nel settore pubblico, avere una istruzione. E il motivo per cui non hanno il loro certificato di nascita è stata scoperto proprio da questo imprenditore, perché si è reso conto che i suoi dipendenti facevano molta fatica ad andare al lavoro, ad occuparsi della loro famiglia. Ha chiesto loro: “Qual è il problema?”. E gli hanno risposto: “Non abbiamo il certificato di nascita dei nostri figli perché non ci siamo mai sposati”. “Ma perché non siete sposati?”. E loro: “Perché è previsto sia un matrimonio religioso che di Stato, per il matrimonio religioso si prevede una dote consistente, quindi molto costosa, invece per il matrimonio civile sono necessari dei documenti”. Il risultato è che quaranta milioni di bambini non hanno un certificato di nascita. Questo imprenditore ha detto: “Forse posso risolvere il problema”. Ha riunito gli induisti, i musulmani, i cristiani e ha organizzato un matrimonio di massa, così che, di fronte al sacerdote cattolico, di fronte ai rappresentanti di tutte le religioni, si sono unite queste persone in matrimonio e allo stesso tempo hanno ricevuto i documenti, diciamo ufficiali, previsti dal Governo. Per la prima volta volta questa cosa è stata fatta per 50 mila coppie, poi è stata ripetuta negli anni. A questo punto, il Governo musulmano dell’Indonesia ha chiesto all’imprenditore un aiuto per risolvere questo gravissimo problema. Quando lui ha deciso di fare questo passo, è andato oltre l’obiettivo di guadagnare, di fare soldi, ha guardato alle persone. Ecco, una cosa che viene riconosciuta nel lavoro che faccio è il bene che viene fatto da persone che portano avanti una vita di pace, di comprensione reciproca.
Ora vi faccio vedere un breve video.
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Vi ho detto che avrei fatto due domande: avete mai voluto mettere in pratica la parabola del buon samaritano? Penso che la conosciate tutti ma forse non avete mai pensato al fatto che il buon samaritano era uno straniero, con una religione diversa. E fu lui, o meglio, è lui quello a cui Gesù ci dice di guardare per l’amore verso il prossimo. Nell’ultimo anno, a Manchester, in Inghilterra, abbiamo riunito un gruppo di musulmani, mormoni e cattolici che hanno fatto un corso di leadership per mettere in pratica proprio questa parabola del buon samaritano. Il corso dura 10 settimane e si studia, da una prospettiva spirituale, ad esempio come scegliere un buon lavoro, come gestire le proprie finanze, come servire gli altri, come identificare i valori. Questo si collega all’argomento della radicalizzazione, perché uno dei motivi che sta alla base della radicalizzazione è il fatto che alcuni musulmani guardano alla società occidentale come a una società senza Dio, senza speranza. Riunire i giovani, cristiani e musulmani, perché si occupino di queste tematiche, perché lavorino insieme e interagiscano tra loro, significa togliere spazio al radicalismo. Ora vi voglio mostrare un secondo video che descrive proprio questo corso. Sentirete anche le testimonianze di alcuni dei partecipanti: a molti di loro è cambiata la vita.
Video
Avevo detto che vi avrei fatto due domande, in realtà ne ho tre. E la terza domanda è: cosa potete fare voi? Grazie.
STEFANO ALBERTO:
Abbiamo visto degli esempi, perché tali sono, significativi di una funzione positiva: vedete che torna il tema educativo, l’introduzione alla realtà, l’esaltazione della responsabilità, il favorire un senso della vita. E allora, perché tanti giovani scelgono la morte? Perché? C’è il germe della morte dentro la religione? O si tratta di altro? Ma la domanda è anche rivolta alle religioni. Esiste una religione, come spesso sentiamo, pura, che si chiude in se stessa, che non assume più il rischio di incarnarsi, declinarsi dentro alla vita? Da dove nasce il radicalismo, che non è solo un fenomeno dell’Islam? Perché uno diventa fondamentalista, perché strumentalizziamo la religione e come si può rispondere a queste dinamiche dalle conseguenze – lo vediamo tutti – devastanti? Prego, professore.
OLIVIER ROY:
Grazie, parlerò in francese. Il fondamentalismo religioso non è nuovo: al contrario, l’attentato suicida in nome della religione è qualcosa di assolutamente nuovo, è cominciato negli anni ’90 con lo scisma in Libano e poi si è sviluppato, a partire dalla fine degli anni ’90, in tutto il mondo. La prima domanda è: chi sono i terroristi in Europa? Mi concentrerò sui “radicali globali”, cioè quelli che si radicalizzano in Europa, in America, senza parlare in questo contesto della situazione politica in Medio Oriente. La domanda che mi pongo è quella che è appena stata posta: perché i giovani scelgono la morte? Questi giovani possono essere musulmani ma c’è anche una percentuale molto elevata di convertiti che vengono dal cristianesimo, oppure dalla secolarizzazione, e che entrano nelle fila dell’Isis. Circa il 25% dei volontari occidentali che vanno a fare la jihad in Siria sono convertiti: è un numero straordinario, molto elevato. Cominciamo con un po’ di sociologia: chi sono i giovani terroristi? Parto da una banca dati che è stata costituita con i terroristi che operavano in Francia e in Belgio. Ma quello che succede altrove conferma le mie analisi, il gruppo che ha agito a Barcellona corrisponde assolutamente al gruppo che agisce anche in Francia. L’analisi è del 1995, il primo attentato è stato commesso in Francia da una persona che era stata educata in Francia, e così fino agli ultimi attentati.
Allora, vi darò alcuni punti che si ritrovano sistematicamente in questi giorni: la maggioranza dei radicali sono giovani di seconda generazione, cioè giovani e figli di immigrati, che sono stati educati in Europa e usano una lingua europea come lingua madre. I giovani che hanno fatto l’attentato di Barcellona parlano catalano, non sanno una parola araba. Si potrebbe dire che negli anni ’90 è normale trovare la seconda generazione di giovani, ma 22 anni dopo si trova anche una terza generazione, in Francia, in Germania e in Gran Bretagna. C’è sempre comunque una seconda generazione. Qui assistiamo ad un’anomalia: perché sono sempre di seconda generazione, una generazione sovra-rappresentata? Questo va di pari passo con un’altra domanda: perché c’è un’eccessiva rappresentanza, ad esempio, di marocchini, e una sotto-rappresentanza di turchi? Perché i radicali in Germania, in Olanda o in Danimarca, sono più spesso marocchini che turchi? Capiamo che la radicalizzazione non corrisponde alla demografia dell’immigrazione. Riguarda un gruppo molto preciso di immigrati. E poi c’è un secondo punto: la maggioranza di questi giovani non ha una formazione religiosa e anche l’imam della città di Ripoll, quella dell’attentato, si è autoproclamato: è stato due anni in prigione per traffico di hashish, quindi è forse in prigione che ha imparato la religione, non so, ma non si può certo dire che la prigione sia un’università di teologia islamica. Nessuno di loro ha avuto un passato come militante religioso politico, non hanno preso parte ad un’organizzazione, non hanno predicato, non hanno mai partecipato a manifestazioni, ad esempio, pro Palestina, né appartengono a un ente di beneficenza musulmano. A livello sociale non vengono da nessuna parte. C’è una sorta di mancanza di integrazione sociale in queste persone. Ma questo non vuol dire che non lavorino o che siano analfabeti, che siano poveri, ecc. Molti di loro hanno un lavoro, quindi non è una questione di esclusione economica. E poi, c’è un terzo punto: in Francia, ma lo si vede anche in molti altri Paesi, il 50% ha un passato di piccola delinquenza, ad esempio sono stati in prigione per traffico di droga, di hashish, per tumulti, scontri, ecc. Quindi ci sono persone che comunque sono già nella devianza, già sfidano la società. Quarto punto: sono tutti immersi nella cultura giovane occidentale contemporanea, con la musica, i vestiti, lo slang che usano. Nessuno di loro rappresenta una cultura africana o orientale tradizionale. Quinto punto, che è un pochino più strano: dal 1997, tutte le cellule terroristiche che hanno agito in Francia sono state composte da coppie di fratelli. A Barcellona ci sono tre coppie di fratelli e ritroviamo questo fenomeno anche negli Stati Uniti, con i fratelli ceceni che hanno fatto l’attentato a Boston. In nessuna organizzazione estremista, o criminale, ci sono coppie di fratelli. Nella mafia c’è questo fenomeno, ma ci sono anche il papà, lo zio, c’è tutta la famiglia coinvolta. E questo è il sesto punto, che è altrettanto importante, cioè la rottura generazionale. Ci sono orfani, ci sono padri che sono andati via, che hanno lasciato la famiglia: ma questi giovani, anche quando sono in contatto con la famiglia, rimproverano i padri di essere cattivi musulmani e rifiutano l’Islam dei genitori. Quando rimangono legati ai propri genitori, spesso alla madre, il messaggio che lanciano prima di morire, come ad esempio è accaduto per l’attentato di Bruxelles, dice: “Mamma, sei una cattiva musulmana ma grazie al mio sacrificio riuscirai comunque ad andare in paradiso”. E questo è un fenomeno molto vicino al tema di questo incontro. C’è una sorta di inversione generazionale, sono loro che diventano i salvatori dei propri genitori, ma questo vuole dire che non hanno ricevuto niente dai loro genitori, e poi c’è un fenomeno ancora più strano: tutti i volontari jihadisti che, ad esempio, vanno in Siria, fanno figli e muoiono, sanno che l’organizzazione chiede loro di fare dei figli, sanno che andranno in Siria e dovranno commettere un attentato suicida, sanno che non potranno educare i loro figli. Quindi, capite, rifiutano l’eredità del passato ma rifiutano anche di lasciare un’eredità: ed è questo che io chiamo nichilismo. Fondamentalmente annullano la storia, la società, e questo va di pari passo con l’odio del passato e della cultura. Sono iconoclasti, abbiamo visto in Siria che distruggono non solo le Chiese e i templi di epoca romana ma le stesse moschee storiche, i cimiteri musulmani: fondamentalmente cancellano la storia.
E qui passo a un altro punto, che può per così dire riassumere il tutto: rifiutano la cultura, qualsiasi tipo di cultura, anche la cultura musulmana, in nome di una religione pura, che non ha nessuna base storica, sociale o culturale. E questo è legato all’elemento principale della loro azione, che cioè tutti muoiono. Dal ’97 al 2000, quasi tutti i terroristi in Occidente si fanno uccidere durante l’azione, o si fanno esplodere, o aspettano di essere uccisi dalla polizia: non c’è mai un piano B per scappare, mai. C’è un video straordinario sugli ultimi avvenimenti che è stato girato in Catalogna, dove si vede un giovane: sono in una macchina, non hanno armi e non hanno esplosivi, hanno semplicemente dei coltelli. Quando la polizia arriva, invece di scappare, rimangono fermi, la sfidano, fanno credere di avere delle cinture di esplosivo addosso che in realtà sono vuote, ma ovviamente la polizia spara e loro muoiono. Quindi, si vede che la morte è al cuore del loro progetto, la forza d’attrazione dell’ISIS su questi giovani non è tanto di natura politica, come ad esempio potrebbe essere il Califfato, e non è neanche di natura religiosa, con la shari’a, perché il suicidio è proibito nella shari’a. Questa forza risiede nel fascino di un’immagine dell’ISIS fondata su un’estetica della violenza, un fascino di morte. ISIS è molto forte a utilizzare i codici culturali della gioventù moderna, tipo la musica, i videogiochi, i riferimenti cinematografici: Born to kill, ad esempio, o No future, con il tema dell’eroe solitario che uccide tutti nei videogiochi. Dal punto di vista religioso, loro pensano di andare in Paradiso ma hanno una sorta di fascino per l’Apocalisse: la fine dei tempi è vicina, quindi non vale la pena di cercare di vivere in questa società. Sono nichilisti e individualisti allo stesso tempo: appena prima dell’Apocalisse, devo assicurarmi la mia salvezza. E qui, passo a un altro punto: che cosa ci dice tutto questo della società contemporanea? Perché se la violenza islamista sembra essere quella più parossistica oggi nel mondo, non è a causa del numero di morti che produce, perché ad esempio il genocidio del Rwanda ha fatto più morti del terrorismo islamico, e la guerra civile nel Sud Sudan, su presupposte basi cristiane, è estremamente violenta e crudele. Quello che ci fa paura nel terrorismo islamico non è la violenza in sé, è il fascino per la morte da parte di chi si immola: sono persone che amano la morte ed è per questo che c’è un legame molto stretto tra il nichilismo e la lontananza tra religione e cultura che arriva all’apice nei giovani radicali islamici. Ma è un fenomeno contemporaneo, e credo sia importante capirlo, che esiste dagli anni Sessanta. I valori della cultura dominante non sono più religiosi o laicizzati. Si potrebbe dire infatti che i laici nel ’900 condividevano gli stessi valori dei cristiani: l’aborto era penalizzato in tutti i Paesi europei, anche l’omosessualità era criminalizzata nella maggioranza dei Paesi europei. In un Paese come la Francia c’è stato un fortissimo conflitto tra lo Stato repubblicano e la Chiesa ma si trattava di un conflitto politico, sul potere e il controllo della società, non di un conflitto sui valori. I cattolici e i laici si conoscevano benissimo, tutti i grandi anticlericali del ’900 in Francia conoscevano il catechismo, sapevano di cosa parlavano, non erano anti-religiosi, seguivano un’altra via di spiritualità, ma erano comunque anticlericali, erano contro la Chiesa. Dagli anni ’60, in generale, si può dire che c’è una crescente lontananza tra i valori della cultura dominante e la religione: la prima presa di coscienza di questo divorzio è l’enciclica Umanae vitae. È qui che compare quest’idea per la prima volta, perché oggi ci si pone la domanda dei valori e non del ruolo della Chiesa nella società. Da allora, il divorzio è stato sempre più netto, e non solo perché diminuisce il numero di credenti. Prendete ad esempio gli Stati Uniti: credo che il 59% degli americani dica di essere credente e praticante, eppure il matrimonio omosessuale è stato approvato senza nessun problema con il sostegno dell’opinione pubblica. Quindi, la cultura dominante è secolare e questo fatto non è direttamente legato alla percentuale di credenti nella società. Ci sono molti religiosi musulmani egiziani che vi possono dire che la cultura egiziana contemporanea si sta secolarizzando, non piace loro come fenomeno, ma è così. La conseguenza è quella che io ho chiamato la santa ignoranza, cioè i secolari non comprendono più la religione e i credenti pensano che la religione dominante sia ostile. Abbiamo quello che si chiama il fenomeno della santa ignoranza, cioè i secolari, oppure i laici, chiamateli come volete, che non sono anticlericali, non sono antireligiosi ma non capiscono come si possa essere credenti. E gruppi religiosi, le comunità di fede, che tendono a considerare la cultura dominante pagana – non solamente secolare ma anche pagana -, come una minaccia. E c’è poi una zona grigia tra credenti e non credenti: quello che sparisce è la zona grigia. La conseguenza è che in alcuni Paesi molto laici, come ad esempio la Francia, la soluzione che sembra evidente per porre fine al radicalismo religioso è espellere il religioso dallo spazio pubblico. In generale, l’idea dominante in un Paese come la Francia oggi è che un credente moderato deve essere qualcuno che crede in maniera moderata: accade ad esempio nelle indagini di polizia sul radicalismo islamico. E’ una vecchia tradizione della Repubblica Francese, tra l’altro: nel 1904 il Ministro della Difesa aveva ordinato un’indagine sulla pratica religiosa dei funzionari superiori della Repubblica Francese: se ad esempio non andava mai a messa, oppure solamente nelle grandi occasioni, il colonnello poteva essere nominato già generale, ma se c’era scritto che andava a messa tutti i giorni con il proprio libro delle preghiere, allora la promozione veniva rifiutata. Oggi, negli schedari di polizia per il controllo delle persone che devono avere un’autorizzazione di sicurezza, l’aeroporto di Parigi ad esempio per i musulmani ha scritto: “beve alcool”. Questo è considerato positivo, è l’unica volta in cui va bene bere alcool. Oppure, si trova scritto che va in moschea due volte all’anno, e allora va bene. Se va alla moschea una volta a settimana, le cose cominciano ad essere problematiche. Ma se c’è scritto ad esempio che prega cinque volte al giorno, allora non avrà il proprio certificato, il lasciapassare. Quindi, c’è una specie di doppia violenza: la volontà esplicita nei laici francesi, ma implicita nel secolarismo contemporaneo, che è quella di rifiutare il religioso e di eliminarlo dalla sfera pubblica, relegandolo nel privato. E al contrario, in alcuni credenti e soprattutto nei nuovi credenti, i born again come si dice in inglese, e nei convertiti, c’è la volontà di riconquistare il mondo perduto oppure di sottrarsene ad ogni costo.
E adesso passerò all’ultimo punto: che cosa fare? E qui, prima di tutto, credo che la politica sia una cosa di competenza degli Stati. E’ normale che lo Stato garantisca la sicurezza dei propri cittadini, dia le informazioni, prenda misure di sicurezza anche se sono sconvenienti, anche se non piacciono: è un lavoro che spetta allo Stato. Ma per la società civile, il problema è un altro: credo che occorra lottare contro questo nichilismo nell’ambito spirituale e religioso. Il problema è non lasciare la religione nelle mani dei radicali, primo punto. E secondo punto, offrire uno spazio di spiritualità all’interno di una società profondamente laicizzata. Bisogna avere paura di quello che io definisco presupposto teologico. Si dice ad esempio che bisogna riformare l’Islam: è assurdo per tre motivi: i radicali non sono persone che hanno sbagliato a leggere il Corano, sono persone che nel Corano hanno trovato quello che cercavano. Non è facendo dei corsi di Islam ai radicali che si possa farli tornare moderati, così come, quando c’erano le Brigate Rosse, non era facendo loro corsi di economia politica moderna che li si allontanava dal comunismo, sarebbe sbagliato pensare così. I radicali vogliono il radicalismo. E poi non spetta allo Stato, che si tratti di uno Stato laico o musulmano, riformare una religione. Gli Stati laici pensano che un Islam riformato per definizione sia liberale, femminista o gay-friendly. Giustamente, in una società democratica bisogna accettare l’esistenza di persone che hanno dei valori conservatori. Parlare di valori europei non vuol dire niente, di cosa si parla? Si parla forse dei valori degli anni ’60, quindi viva l’omosessualità? Oppure si parla di valori religiosi? E qui c’è un problema. Non spetta allo Stato decidere i valori. Nei Paesi musulmani, poi, per la maggior parte dei casi gli Stati sono autoritari, quindi non sono loro che sicuramente svilupperanno un Islam aperto, basato sul dibattito, eccetera. Gli Stati musulmani vogliono uno Stato autoritario e conservatore. Non sono gli Stati stranieri che devono occuparsi della formazione dei musulmani europei: bisogna essere chiari su questo punto. E infine, questo è il punto più importante, la teologia non è al centro della religione. Ci sono eminenti teologi con noi, ma il credente medio non è un teologo. La teologia non porta né alla fede né alla religiosità. La teologia cristiana è venuta dopo Cristo e, per i protestanti, Lutero non è una causa bensì una conseguenza. Quello che conta veramente è la religiosità del credente e il modo in cui vive la propria fede nel contatto con gli altri, il modo in cui riceve la propria fede, la prova, l’arricchisce, la trasmette oppure al contrario l’impoverisce e la perde. Per rompere il radicalismo, quindi, bisogna aprire, o meglio, riaprire uno spazio di spiritualità, sia per i comuni credenti che per i giovani che sono alla ricerca dell’assoluto. E qui i credenti europei hanno svolto e devono svolgere un ruolo nell’integrazione dell’Islam in Europa. Non parlo di dialogo interreligioso e nemmeno di dialogo interculturale, non si tratta di discutere della natura di Cristo oppure del rapporto con Abramo, non si tratta di parlare di cultura europea e di cultura orientale. Il cristianesimo è una religione universale, non è una cultura europea, soprattutto adesso, e anche l’Islam è una religione universale che poi si è adattata a culture diverse. Si tratta quindi di fare un lavoro sul campo nella società civile per creare spazi comuni di scambio spirituale.
Qui si esce dal mio settore di competenza, vi farò tre esempi. Il primo riguarda un prete, un curato di Vienna in Austria, che un giorno si è accorto che la propria parrocchia era diventata turca: una parrocchia popolare, operaia. Poco a poco la metà degli abitanti erano diventati di origine turca e ovviamente alcune moschee erano state aperte. Cosa fa? Impara il turco, con l’autorizzazione del proprio vescovo va un anno all’università di Teologia islamica di Ankara. Questo per sapere come la pensano gli altri, che cosa pensa l’imam, qual è la sua formazione: non fa dei corsi di teologia cristiana ma vuole capire cosa c’è nella testa dell’imam. E quando torna fa una proposta, solo una, al cardinale e al Ministero degli Affari Esteri che gestisce le relazioni con la Turchia: questi imam che vengono dalla Turchia non parlano bene il tedesco, non conoscono l’Occidente, parlano solamente con i turchi e questa è chiusura totale. Propongo, a titolo volontario e gratuito per qualunque imam lo voglia, un soggiorno nelle montagne del Tirolo, in un monastero cattolico. Punto. Non corsi obbligatori, niente scambi, ma l’imam deve rendersi conto innanzitutto che ci sono cristiani in Europa, perché per molti musulmani che vivono nelle banlieue parigine, ad esempio, i cristiani non esistono. Ovviamente, ci sono i francesi, ci sono dei populisti, c’è il Fronte nazionale, ci sono ex-comunisti, ma dove sono i cristiani? Non li vedono, semplicemente. Che gli imam capiscano che c’è una spiritualità molto ricca nel cristianesimo. Il programma ha avuto un successo enorme. È semplicissimo, si lavora nel piccolo. E poi, un’altra idea: bisogna aprire delle facoltà di Teologia islamica vicino alle facoltà di Teologia cristiana. Non per fare un dialogo teologico ma semplicemente per condividere la stessa esigenza critica nell’esegesi, la stessa esigenza di rapporti con la filosofia, con un dibattito etico contemporaneo, per ricreare questo ponte culturale e lavorare su valori comuni. Ci rendiamo conto che ci sono molte iniziative, soprattutto promosse nei paesi del Nord, ad esempio in Germania, anche in Olanda: credo che occorra farlo però a prescindere dagli Stati, devono essere iniziative promosse dai credenti. E infine, e questo è il mio ultimo esempio e la mia conclusione, si dice sempre che non esiste un Islam europeo, ma invece sì, ce n’è uno e si trova a Sarajevo, in Bosnia. Nel 1908 una parte dei musulmani hanno lasciato la Bosnia perché dovevano fare giuramento di libertà all’Imperatore Franz Joseph, ed è stata la rottura. Un’altra parte di musulmani invece è restata e ha domandato una fatwā all’università di al-Azhar: “Se siete liberi di praticare la vostra religione, allora dovete prestare giuramento al sovrano, di qualsiasi religione esso sia”. In cambio, l’imperatore Francesco Giuseppe ha riconosciuto l’Islam, ha fatto costruire la facoltà di Teologia islamica di Sarajevo, che ancora esiste, con professori eminenti, e ha detto loro: “Formate qui i vostri imam, all’interno dell’impero e non in Turchia”. Questa università esiste ancora, alla sua destra c’è un minareto di circa 60 metri nella moschea saudita, a sinistra c’è un minareto di 62 metri nella moschea turca. Questa è la scelta, per noi: con chi dobbiamo lavorare? Con chi dobbiamo organizzare incontri? Con chi dobbiamo riflettere? Le persone ci sono, semplicemente bisogna vederle. Vi ringrazio della vostra attenzione.
STEFANO ALBERTO:
Credo che questo applauso esprima bene la gratitudine per una persona che su un tema così delicato e decisivo, non appena per l’oggi ma per il nostro domani, ha usato parole chiare, che non nascono da una ideologia ma da una osservazione, dall’esperienza, dalla disponibilità a imparare. Naturalmente questa chiarezza ci apre un lavoro enorme davanti, ma per quello che ho visto in questi giorni al Meeting, dagli incontri casuali ai grandi incontri, da come ho visto ciascuno di voi vivere le mostre, ritornare, andare a comprare i libri, so che il desiderio di imparare, e quindi di cambiare, non nasce da un progetto ideologico ma dalla evidenza che la vita vale la pena di essere vissuta, la vita di tutti è una cosa grande. Mi veniva in mente, sentendo la conclusione del professor Roy, come Monsignor Pizzaballa che vive in prima linea, possiamo dirlo, concludeva il suo intervento: “Non si tratta allora di ricostruire mura che separano, ricreare una distanza tra noi e il mondo”. O, dico io, rispondere al radicalismo ideologico o alla ignoranza radicalizzandoci, riducendo l’esperienza cristiana alla riaffermazione, direbbe Carrón, di un discorso netto e pulito e basta. “Questo è il tempo di saper cogliere” proseguiva Pizzaballa “la realtà del mondo come un’istanza che interpella oggi noi, come nel passato i nostri padri, che interpella la nostra fede. Non c’è nulla dell’esperienza umana che non possa essere illuminata e valorizzata dall’esperienza del Vangelo. E questo è esattamente il nostro compito. Allora accadrà una cosa nuova: che ciò che abbiamo riguadagnato, attraverso questo processo di incarnazione del Vangelo nella storia, non sarà più solo nostro, solo mio, solo tuo, ma sarà per tutti, sarà patrimonio e dono di tutti”. Come ricordava Julian, nell’articolo apparso sul Corriere della Sera dopo gli attentati di Charlie Hebdo e del Bataclan, “Che cosa incontrano questi disperati? Che cristianesimo incontrano? Un cristianesimo de-culturalizzato, chiuso in una rocca autoreferenziale o una diversità umana” che faccia domandare ciò che è risuonato mille volte, diecimila volte in questi giorni: ma voi chi siete? Perché sei così? Vieni e vedi. Perché questo, detto con realismo e grande umiltà, è un esempio piccolo, non un luogo chiuso ma un luogo in cui iniziano processi. Attraverso incontri, uno intravede la strada per essere più se stesso, più cristiano, più musulmano o, se non credente, più uomo. E mi colpisce la concordanza tra la conclusione del professor Roy e quella espressione nel messaggio del Cardinal Parolin a nome di Papa Francesco. Sapete che il Cardinale Parolin domani ci farà il grande regalo di essere qui per concludere praticamente il Meeting, quindi vi aspettiamo tutti: “Aguzzare la vista per scorgere i tanti segni del bisogno di Dio come senso ultimo dell’esistenza” – aguzzare la vista, non girarsi dall’altra parte o chiudersi nel già saputo -, “così da poter offrire alle persone una risposta viva alle grandi domande del cuore umano”. Fa parte di questo aguzzare la vista rendersi conto del dono, perché di questo si tratta, che è l’esperienza del Meeting. Non è obbligatorio, non c’è scritto da nessuna parte, non c’è nessuna legge, nessun dogma eppure ogni anno il Meeting è qua. Ma se non è obbligatorio, non è neanche scontato. Tutta la responsabilità che ciascuno di noi mette, la sete di imparare, la sete di incontrare, la sete di cambiare può arrivare, può, perché è libero, totalmente libero, anche a contribuire ai bisogni materiali del Meeting. Per questo non è un avviso finale, che magari avete già sentito una decina di volte, fa parte integrante di questo incontro, di questa vita. Date quello che volete, ma partecipiamo all’operazione di fundraising “Dona Ora”, nelle quindici postazioni del Meeting presso i desk dedicati, dove sarete accolti dai famosi “uomini che indossano la maglia verde”, verde come la speranza. Ringraziamo il professor Grim e il professor Roy. Buonasera.