TRA IMMAGINI E LUCI: UN DIALOGO TRA CINEMA E ANIMAZIONE

Michelangelo Frisoni, artista di effetti digitali per il cinema e VFX Lead compositor; Alessandro Jacomini, director of Photography Lighting & Lighting Department Craft Leader Walt Disney Animation Studios. Introduce Daniele Federico, amministratore delegato e cofondatore Toolchefs ltd

Sin dai primi disegni nelle caverne, l’uomo è sempre stato affascinato dal raccontare ed ascoltare storie. Oggi le storie raccontate sul grande schermo vengono realizzate da un esercito di tecnici ed artisti al fine di permettere allo spettatore una totale immersione in mondi immaginari o realistici attraverso gli effetti speciali. Partendo dal nostro primo incontro con questa forma d’arte, vogliamo interrogarci su cosa significhi la nostra creatività nell’opera di un altro e il raccontare storie per le nostre vite.

Con il sostegno della Regione Emilia-Romagna

TRA IMMAGINI E LUCI: UN DIALOGO TRA CINEMA E ANIMAZIONE

TRA IMMAGINI E LUCI: UN DIALOGO TRA CINEMA E ANIMAZIONE

Mercoledì 21 agosto 2024  ore 13:00

Sala Conai A2

Partecipano:
Michelangelo Frisoni, artista di effetti digitali per il cinema e VFX Lead compositor; Alessandro Jacomini, director of Photography Lighting & Lighting Department Craft Leader Walt Disney Animation Studios.

Introduce:

Daniele Federico, amministratore delegato e cofondatore Toolchefs ltd

Federico.
Ok, grazie ancora. Quindi, benvenuti a questo incontro dal titolo *Tra immagini e luci, un dialogo tra cinema e animazione*. Come prima cosa, sono contentissimo di avere qui questi due amici. Sono contento di presentarvi Alessandro Jacomini, direttore della fotografia e illuminazione ai Walt Disney Animation Studios, e Michelangelo Frisoni, VFX Artist e Lead Compositor. Entrambi, oltre ad essere dei grandi artisti, sono anche dei veri ricercatori di quel qualcosa che può rendere il lavoro unico e pieno di valore. Prima di cominciare, ci tenevamo anche a ringraziare il Meeting per averci fornito questo spazio, e i nostri amici Mario e Giona che ci stanno seguendo e che ci hanno aiutato nella preparazione di questo incontro.

Dunque, da sempre l’uomo è stato affascinato dall’ascoltare storie. È un’esperienza a cui difficilmente ci si può sottrarre. Quante volte mi sono trovato perso leggendo le pagine di un libro o guardando un film, rivivendo emozioni sconosciute o a volte dimenticate. Queste sono opere capaci di risvegliarci e, potremmo anche dire, di ridonarci a noi stessi. Ma cosa succede realmente dall’altra parte? Cosa spinge un uomo a raccontare una storia oppure a dedicare mesi o anni, se non la vita intera, al compimento di un’opera? Capita di guardare un film di due ore e tornare alla propria vita come se non fosse successo niente, nonostante quel film possa aver richiesto mesi di sforzi da parte di centinaia di artisti e tecnici, senza contare le notti insonni e i weekend passati davanti a uno schermo. E spingendoci ancora più in là, ciascuno di quegli operatori è una persona che porta in ogni opera non solo le sue abilità, ma anche ciò che ha imparato in una vita intera. Ecco, questi sono alcuni dei temi che vorremmo toccare oggi. Ma, andando per ordine, prima riteniamo importante farvi capire cosa realmente fanno Michelangelo e Alessandro nel loro lavoro, quindi ora passo la parola ad Alessandro che vi racconterà di cosa si occupa.

Jacomini.  Grazie, Daniele, per la tua bellissima introduzione e grazie al Meeting di Rimini per averci invitato: è un onore e un privilegio essere qui con voi oggi. Al di là dei contributi che ho avuto la fortuna di avere nel mio percorso, volevo solo ricordare che sono nato a Cesena, quindi a pochi chilometri da qui, e ho vissuto fino ai miei tardi vent’anni a Milano, dove ho compiuto i miei studi. La mia grande passione è sempre stata il cinema, ed è questa passione che ha fatto sì che, finiti gli studi e iniziato un percorso professionale qui in Italia, a un certo punto ho avuto la fortuna di cogliere l’opportunità di avventurarmi nel mondo degli effetti speciali e dell’animazione negli Stati Uniti.

Daniele mi ha chiesto di spiegare un po’ il lavoro che faccio. Io sono il direttore della fotografia per l’animazione nel mondo digitale; non è molto diverso dal ruolo che si ha nel live-action, nei film con attori reali. In realtà, mi occupo di un mondo virtuale in cui ci sono modelli, ambienti, e personaggi che sono anch’essi virtuali, e che vengono animati. Si associano materiali e le luci sono quella componente che dà vita a questi ambienti, a questi personaggi, e io mi occupo di questo. Credo di averci messo forse 35 anni a spiegare a mia madre di cosa mi occupo, e ancora non ci sono riuscito; non credo di riuscirci in dieci minuti con voi, ma ci proverò.

Qual è lo scopo del *lighting*, così si dice in inglese, ovvero delle luci? C’è un aspetto contestuale di pura informazione nell’aspetto narrativo del raccontare una storia. Io userò molti contributi di film; questo è *Barry Lyndon* di Stanley Kubrick. Le luci aiutano a dare un contesto molto pratico: che ore sono, è mattino, pomeriggio, sera? Quali condizioni atmosferiche ci sono? È una giornata assolata, ci sono le nuvole, è un interno o un esterno? Se è un interno, ci sono luci artificiali, quindi è una storia contemporanea, oppure ci sono luci naturali come lampade a olio, candele, torce, e questo definisce il periodo. Le luci aiutano a dare chiarezza e enfasi, in particolare ai personaggi, per cui si cerca di fare in modo che gli attori e i protagonisti abbiano più rilievo, separandoli dal background, caratterizzando la loro prestazione. In particolare, nei musical è fondamentale che le luci raccontino la performance. Il cinema è basato anche su convenzioni per cui l’illuminazione aiuta lo spettatore a capire di che genere si tratta. Ad esempio, il *film noir* prende il nome dal tipo di illuminazione, piena di contrasti tra chiari, scuri, luci e ombre, e a questo si associa un aspetto drammatico o thriller.

La cosa che più mi affascina, e forse la più complicata, è usare le luci per stabilire uno stato d’animo, un’atmosfera, un *mood*, ed è questo forse l’aspetto più complesso e sfuggente del processo: sottolineare il tono emotivo che l’autore richiede per raccontare la storia. Non bisogna essere esperti di cinema per accorgersi che siamo tutti soggetti all’uso delle luci per creare atmosfere. Queste sono semplici cartoline di un’icona come la Torre Eiffel in diversi momenti del giorno, con diverse illuminazioni che creano emozioni differenti. Il grande regista Ingmar Bergman comunicava al suo direttore della fotografia di fiducia, Sven Nykvist, usando termini molto lirici e poetici, come “luce dolce, pericolosa, onirica, vivente, morta, chiara, nebbiosa, calma, violenta”, tratti dalla sua biografia *La lanterna magica*. Questo sottolinea quanto la poesia sia l’arte più vicina al cinema, e quanto, da un certo punto di vista, sia difficile e complesso trasferire un sentimento di questa natura per immagini, usando la luce. Questa è la vera sfida del mio lavoro.

Le luci sono un’arte interpretativa, al contrario della regia o, a maggior ragione, della sceneggiatura, che sono arti di creazione. Le luci, come l’animazione della performance nei film d’animazione o le musiche nei film, sono arti di interpretazione. Nelle luci si usano toni e colori per enfatizzare linee e forme, per creare ritmi e rime visive, come un compositore usa note, armonie e melodie nella musica. Chiarito lo scopo del *lighting*, perché si spende così tanto tempo per le luci, qual è l’arte, o meglio, il mestiere? È un lavoro molto artigianale, che richiede una propensione per un aspetto sia scientifico, tecnico, che artistico. Bisogna avere familiarità con la fisica della luce, i concetti relativi, il fatto che più ci si avvicina a una sorgente luminosa, più energia viene emessa, e così via. Le leggi fisiche influenzano il comportamento della luce: essa attraversa ambienti, rimbalza su superfici, viene rifratta, riflessa, assorbita, e il colore di una superficie è funzione del colore della luce, delle proprietà dei materiali, della prossimità di altri oggetti.

Ma c’è anche un aspetto artistico, soprattutto nel mondo dell’animazione, che è quello che mi compete. L’animazione è un mondo esagerato, caricaturale, stilizzato, e quindi si prende in prestito moltissimo dalle lezioni dei grandi maestri per creare e sottolineare emozioni rilevanti per la storia. Si fa ampio affidamento sui concetti di contrasto e affinità: più le componenti visive di un’immagine hanno contrasto tra loro, più l’impatto visivo dell’immagine è aumentato. Un esempio è il *film noir*, che è sempre associato a momenti drammatici o thriller. Al contrario, maggiore è l’affinità tra colori e valori di luminanza, minore è l’impatto visivo, più adatto a una riflessione o a una commedia. Queste sono interpretazioni personali, ma la cosa importante è la cura nel sottolineare il tono emotivo richiesto dall’autore, anche a scapito di scelte estetiche che possono essere subordinate alla logica. È molto più importante creare un’immagine che abbia un impatto emozionale e che serva la storia, anche con una logica discutibile, piuttosto che un’immagine perfetta ma senza feeling, senza atmosfera.

Vorrei mostrarvi alcuni esempi. Questo è tratto da *Scarpette rosse* di Michael Powell e Emeric Pressburger: si noti come le luci cambino completamente tra due scene contigue, ma lo spettatore non lo percepisce, anzi, coglie l’impatto emozionale delle immagini. Oppure, in *Il padrino* di Coppola, Gordon Willis sceglie una pallette di colori per il guardaroba di Kay Adams, la moglie di Michael Corleone, di grande impatto cromatico, in contrasto con il mondo monocromatico del marito. Il grande Federico Fellini, con il suo direttore della fotografia Gianni Di Venanzo, in *8½* e *Giulietta degli spiriti*, compie voli di grande innovazione nel cercare di raccontare momenti di realismo magico. Un altro esempio citato spesso è *Quarto potere* di Orson Welles, che ribalta completamente le logiche dell’epoca, arrivando a non mostrare neanche i lineamenti degli attori in alcune scene, cosa impensabile per i tempi. O ancora, Dario Argento con Luciano Tovoli per *Suspiria*, che usa una palette cromatica di grande coraggio.

Il processo è complesso. Volevo riassumerlo con un’immagine: questo è il gruppo di lavoro per il film *Encanto* del 2020, composto da più di 850 tra tecnici, artisti, coordinatori e producer. Volevo farvi vedere che io sono solo un puntino in questo mare, come è giusto che sia. Questo per dire che il cinema d’animazione è un cinema di estrema collaborazione, e il vero miracolo è che da così tanti contributi emerga una storia con coesione, ed è forse questo ciò che mi attrae di più di questo medium.

Vorrei chiudere il mio intervento mostrando tre dipinti fiamminghi: *Ritratto di signora* di Roger Van Weyden, *Ritratto di suo padre* di Albrecht Dürer, e *Ritratto di anziano in rosso* di Rembrandt. Volevo solo farvi notare come nel giro di 200 anni, dal 1440 al 1660, l’illuminazione sia cambiata. Nel primo, di van der Weyden, la luce è molto frontale, viene dallo spettatore. Con Dürer, 50 anni dopo, la luce inizia a spostarsi leggermente sulla destra e vediamo ombre, pieghe, un certo chiaroscuro nel viso. Con Rembrandt, nel 1660, il viaggio della luce si completa e l’ombra quasi prevale rispetto alla componente luminosa.

Questi dipinti mi ispirano perché sono capolavori in sé, ma soprattutto perché rappresentano un’evoluzione: l’Europa entra nell’Umanesimo con Dürer e Rembrandt, e si passa da una rappresentazione più simbolica e formale, in cui la signora è rappresentata nel suo ruolo e nella sua forma, a qualcosa che sottolinea di più il realismo, l’umanesimo, e ciò che i personaggi sono, e molto spesso, ciò che pensano. E con questo chiudo il mio intervento. Volevo solo dirvi che sono passato dai mari placidi dell’Adriatico a mari più impegnativi, con imbarcazioni più potenti, ma le domande sono rimaste le stesse, e sono quelle che mi hanno portato a viaggiare, ma che continuano a porsi. Vi ringrazio. Grazie, Daniele.

Frisoni. Grazie, Alessandro, per quello che hai raccontato, perché è veramente incredibile. Se immagini tutta la storia che hai raccontato per ogni singolo professionista e artista che lavora all’interno della produzione, c’è veramente una carica umana incredibile nella realizzazione di un film d’animazione, ma anche, come vedremo adesso nella mia presentazione, di un *feature film* o di una serie TV. Grazie anche a Daniele per aver organizzato questo incontro e al Meeting per avercelo permesso.

Io sono Michelangelo Frisoni, principalmente un compositor artist. Lavoro per film e serie TV. Ancora non lavoro nell’animazione, ma è un ambito che mi piacerebbe esplorare in futuro. Invece di mostrarvi i film che ho fatto, volevo farvi capire un attimo cosa è il compositing. Il compositing nasce con il cinema, nello specifico con Georges Méliès. Devo fare una breve introduzione storica, altrimenti ci perdiamo. Georges Méliès è stato un pioniere cinematografico nato nel 1861, che si divertiva a fare i primi effetti di compositing, unendo due pellicole, quindi video separati, ritagliati e messi insieme per generare illusioni ottiche. Oggi, con un occhio più attento, si può notare dove c’è stato un taglio; si vede che l’immagine è stata tagliata e poi sostituita con un altro video in cui la signora non c’era più, o un altro in cui appariva uno scheletro.

Spesso oggi si sente dire: “Ah, gli effetti speciali, la computer grafica… roba nuova! I film non sono più quelli di una volta, da quando ci sono gli effetti speciali”. Non esiste bugia più grande, perché il cinema è nato con gli effetti speciali e, speriamo, non morirà mai. Qui vi faccio vedere un piccolo esempio di un *prima e dopo*, per farvi capire cosa vuol dire fare effetti speciali in generale all’interno di un film. Si parte da girare un video in studio, sapendo bene che, come vedete nella clip in basso, c’è un fondale blu. Quindi si parte da un’illuminazione fatta in studio, sapendo esattamente quello che poi verrà realizzato. C’è tutta una preparazione: sappiamo che saremo nel deserto, che ci sarà il sole in quella direzione, che cosa accadrà, e quindi giriamo in studio, perché è meno costoso che girare nel deserto. Grazie a tutte le professionalità che operano all’interno del cinema, riusciamo a ottenere il risultato finale, che deve colpire l’occhio dello spettatore e comunicare una storia.

Una cosa che mi piace molto della clip sotto è il fatto che è stata posizionata una luce, sapendo che lì ci sarebbe stato il sole al tramonto, e vedete come poi l’integrazione tra ciò che è digitale e ciò che è girato con la telecamera risulti uniforme e coerente. Per farvi capire dove mi posiziono io all’interno di questa mega *pipeline* (che significa “linea di tubi”), una produzione che parte dall’idea. Ora non vi spiegherò nel dettaglio ogni singola slide, ma andrò per blocchi generali. Si parte dall’idea, si scrive una sceneggiatura, si fanno degli storyboard, a volte si fanno gli animatic, i producer dicono “va benissimo, facciamo la storia e iniziamo il film”, e si inizia il design, si parte con il layout. Il layout è l’impostazione di ciò che avverrà a schermo, quindi si decide, ad esempio, dove saranno posizionati gli aerei in una scena, come verranno inquadrati, e quindi si stabilisce il mood generale della scena, il livello di tensione della scena e, di conseguenza, del film o della sequenza.

Si va avanti con la ricerca e sviluppo, si sviluppano software per realizzare effetti più complessi, si fanno le modellazioni dei personaggi, nel caso degli aerei, ad esempio, si farà il texturing, che significa dipingere la *skin*, si decidono le texture, e poi si prendono questi personaggi e si animano, nel caso degli aerei, facendoli muovere, traballare col vento, si fanno tutte queste cose. A un certo punto si simulano esplosioni, fiamme, fumo, acqua, tutti quei fenomeni dinamici che in fisica sono considerati fluidi e vengono simulati da un dipartimento apposito, ed è una delle cose più belle, secondo me, della produzione degli effetti visivi.

A un certo punto c’è qualcuno, in questo caso Alessandro, che fa il *lighting*, cioè decide il mood, il tono, la saturazione, e quindi stabilisce il carico emozionale e la luce della scena. Quando tutto questo è fatto e viene consegnato a noi *compositor*, che siamo i compositor, in pezzi, il nostro compito è unire tutti questi pezzi e rendere il tutto esteticamente realistico. La differenza tra realistico e non realistico, e quindi tra un lavoro fatto bene e uno fatto male, è che quando vedete un film, per esempio *Transformers*, non dite “Ah, si vede che è finto”, ma fate “Wow!”. Vuol dire che, oltre ad essere stati bravi tutti quelli prima del compositing, il compositor ha fatto bene il suo mestiere, rendendo reale ciò che esce da un computer, che per definizione è perfetto, non ha difetti. Se il compositor ha fatto bene il suo lavoro, non si nota; se ha fatto male il suo lavoro, si vede benissimo.

Qui in questo video vi mostro ciò che stavo spiegando: è un insieme di elementi, vedete? C’è la slide da sinistra verso destra che mostra come le cose si aggiungono pian piano: il modello 3D, la texture, l’illuminazione, la montagna, l’occlusione ambientale, la neve sulle montagne, i flair… Sono tutte cose che andremo a scoprire un po’ più nel dettaglio. Questo è per darvi un’idea generale di cosa sta accadendo. L’unione di tutti questi elementi, il bilanciamento tra di loro, è il lavoro del compositor.

In compositing possiamo fare tantissime cose. Lo scopo sarebbe amplificare il lavoro fatto da tutti i dipartimenti precedenti, ma purtroppo a volte capita che, in compositing, finiamo per distruggere ciò che è stato generato precedentemente perché magari il regista o il supervisor degli effetti speciali cambia idea, e si decide di tornare sui propri passi. Ma non c’è tempo per rifare un modello o una simulazione di una fiamma, di un’esplosione, e allora in compositing dobbiamo prendere ciò che è stato fatto, rimodellarlo e cercare di farlo funzionare. Quello che mi affascina del mio mestiere è il fatto che è un ringraziamento a tutti quelli che vengono prima di noi. Consiste nel rispettare il lavoro degli altri e amplificarlo, per cui è una responsabilità importante, perché con noi o distruggiamo tutto quello che è stato fatto prima o lo amplifichiamo.

Nello specifico, una cosa che fa parte della realtà ma che è invisibile all’occhio umano è, per esempio, il *lens flare*, i brillamenti della lente. Questa è una foto che ho fatto al Ponte di Tiberio qui a Rimini, e si vede quella sorta di cerchietto che è la luce che riflette all’interno delle lenti della telecamera o della fotocamera. Questo è un effetto che in digitale tendenzialmente non viene generato dai dipartimenti precedenti; noi in compositing dobbiamo decidere quale lens flare mettere, come farlo, l’intensità, la direzione, la dimensione, tutto indicato dall’immagine principale. Se nel film il sole è in una direzione, io non posso mettere un lens flare che arriva da un punto dove non c’è nessuna luce; devo rispettare ciò che è stato girato con la telecamera.

Allo stesso modo, ci sono tanti altri elementi che fanno parte del realismo dell’immagine. Qui vi faccio vedere un esempio: a destra ci sono effetti come la messa a fuoco; ciò che vedete in primo piano è il manubrio di una bicicletta fuori fuoco. Oppure c’è l’avvolgimento di luce, che noi chiamiamo *light wrap*, o gli aloni. Sono tutti effetti generati all’interno delle lenti e sono importanti per comunicare una storia. Noi, guardando quell’immagine, sappiamo subito, senza pensare, qual è il soggetto. Il soggetto è lo sfondo. Sappiamo che è il tramonto, non solo perché c’è il sole ed è arancione, ma perché l’immagine è quasi tutta in silhouette. Tutto lo sfondo è nero, non abbiamo informazioni, non vediamo le finestre, i dettagli degli edifici sullo sfondo. Non abbiamo bisogno di vederli per capire l’informazione. È sempre molto interessante, nel nostro lavoro, capire cosa serve veramente per comunicare una storia, perché dire tutto significa dire meno, a volte. Con poche informazioni si può far arrivare una storia, un messaggio. È affascinante perché poi ognuno ha la propria interpretazione; ci sono indicazioni stilistiche, il *visual effects supervisor*, il regista che vuole una cosa, uno vuole un’altra, ma alla fine c’è sempre un’indicazione su cosa vogliamo fare.

Altre foto mostrano alcuni effetti ambientali che noi in compositing inseriamo per generare profondità e interesse. Qui vedete i raggi volumetrici, la luce che si riflette e si rifrange all’interno della foschia, nella slide di sinistra, generando un effetto quasi intenso, da film horror. Invece, a destra, si vede quasi niente: una foto fatta a San Marino dove si vede un tetto, e quindi capiamo che siamo in alto, e si nota come le montagne diventino sempre più scure man mano che la foschia aumenta. Queste informazioni ci danno subito un’idea di dove siamo, cosa stiamo guardando, e anche una sensazione emotiva. Una foto comunica qualcosa con pochi elementi; questo, secondo me, è l’obiettivo principale del lavoro del compositor.

Altri effetti, ora non vi spiego tutto nel dettaglio, ma ci sono elementi come la sfocatura di movimento, il *motion blur*, che accade quando si muove velocemente una telecamera e l’otturatore non riesce a stare dietro al campionamento dell’immagine. Si genera questo effetto di movimento, che in computer grafica deve essere simulato, perché quando si fa il rendering di un’immagine, non viene catturata da una telecamera reale, quindi l’otturatore non c’è ed è una cosa da simulare. Noi in compositing spesso siamo chiamati a generare questa sfocatura di movimento. Perché ve ne parlo? Perché la cosa che mi affascina tantissimo è l’introduzione di un difetto per generare un’immagine interessante. Non è la ricerca della perfezione, del dettaglio assoluto, ma a volte addirittura quasi distruggere l’immagine per comunicare una storia nel modo più adeguato.

Questa è una cosa un po’ divertente che volevo farvi vedere: cosa vede un compositor quando guarda un’immagine? Qui ho fatto una serie di annotazioni: questa è una foto che ho fatto a Toronto nel 2016 quando nevicava. Ci sono delle linee di fuga; immediatamente capiamo qual è il punto di interesse di un’immagine, *point of interest*, stiamo guardando là senza sapere perché. Quindi andiamo a vedere un po’ nel dettaglio queste cose e cerchiamo di utilizzarle per comunicare al meglio la nostra storia. Qui, senza andare troppo nel dettaglio, una cosa che mi affascina molto dell’immagine che cerchiamo di inserire è la discrepanza di dettagli: dettagli molto definiti, come l’asfalto rovinato, che è a fuoco, mentre altri dettagli sfocati ci danno indicazioni di profondità. Oppure, una cosa che mi affascina sempre del nostro lavoro è il *feeling against seeing*: noi sappiamo che qui nevica perché abbiamo percepito la neve, non perché l’abbiamo vista. L’abbiamo percepita, l’abbiamo vista chiaramente, ma spesso quando si gira un film si dice “Ok, vogliamo vedere che nevica, fai tanta neve perché dobbiamo far vedere che nevica”. Ma quella non è la strada giusta; dobbiamo trovare il giusto bilanciamento, perché alcune informazioni sono importanti, ma non sono prioritarie. È un percepire piuttosto che vedere, e questo è ciò che rende il nostro lavoro affascinante: generare immagini che creano interesse.
Anche qui, ci sono cose che in compositing cerchiamo sempre di aggiungere. La discrepanza di dettagli: vedete, lì c’è una linea bianca, subito dopo una linea nera sul marciapiede. Ci sono tanti dettagli discrepanti e questi raccontano una storia, la storia di questa immagine. Questo è ciò che mi affascina di questo mestiere.
Cerco di tagliare corto e vi mostro un video tratto da *The Last of Us*, una serie TV andata in onda su HBO. Qui si vede un *prima e dopo*, dove mostra gli asset generati dai dipartimenti precedenti e come, grazie anche al compositing, questi asset diventano reali, integrati con i video girati con la telecamera. Questo è anche un esempio di come gli effetti visivi siano utilizzati per raccontare una storia. Ci sono alcune storie che sarebbero impossibili da raccontare senza questo medium. Per esempio, dove si può trovare una città con gli edifici distrutti dove poter girare in questo modo, e che abbia caratteristiche specifiche? Ogni cosa ha uno scopo, è stata pensata per comunicare un’emozione, un’idea. A me affascina sempre molto questo *breakdown* perché mostra l’utilizzo del compositing come strumento comunicativo. Dopo questo, basta. Venite a fare effetti visivi perché è una figata.

Federico. Grazie a tutti e due. Allora, qua il timer sta correndo un po’ troppo veloce rispetto a quello che avevamo previsto, però vabbè, proviamo a farci un po’ di domande. Allora, la prima è questa: io, nella mia carriera, mi sono sempre confrontato con altri colleghi e spesso ho sentito raccontare uno o due episodi che sono stati capaci di farci innamorare di questo lavoro. E ancora mi ricordo quando vent’anni fa, in un pomeriggio d’autunno del 2005, vidi per la prima volta il test del leone di Narnia. Era un test che era stato rilasciato prima dell’uscita del film. E io rimasi rimbambito, completamente pieno di stupore, immerso nella sorpresa di vedere questo leone così realistico, mentre tutti i miei colleghi cercavano sullo schermo qualche dettaglio che potesse far capire che era finto, che era fatto in 3D. Io però in quel momento ho capito che basta, dovevo fare gli effetti speciali, dovevo fare delle cose così belle. E allora volevo chiedervi come è stato per voi, qual è stata la scintilla o le scintille che vi hanno fatto desiderare di lavorare in questo ambito. Magari se riusciamo a essere un po’ più contenuti, dai, ok, grazie. Vado io?

Jacomini. Ma non so se c’è una cosa per me in particolare, penso sia stato un insieme. Sicuramente, in famiglia il cinema è stato qualcosa di valore, di cui c’era cultura, nonostante, quando ero piccolo, andassimo al cinema a film iniziato, perché a quei tempi si faceva così. Forse questo aumentava l’interesse nel cercare di capire cosa si stava vedendo. Anche negli studi ho avuto la fortuna di avere un’insegnante che era appassionata e sicuramente ha sensibilizzato. Io sono sempre stato più affascinato dalla comunicazione visiva che da quella scritta o parlata, e il cinema, all’inizio, ha avuto sicuramente un rapporto viscerale, nel senso che capivo che generava in me emozioni forti. Forse per te è stato Narnia, per me è stato “2001: Odissea nello spazio”, visto a 10-11 anni. Chiaramente un mistero, perché è un film impegnativo, bellissimo, però a quell’età ancora più misterioso. Diciamo che non solo quello che vedevo, ma forse l’aspetto di andare al cinema era quasi un piccolo rito pagano, in cui c’era uno sforzo. Si andava al cinema e da un certo punto di vista mi accorgevo che in quel contesto il mondo aveva un po’ più di significato; riuscivo a far quadrare di più le cose all’interno di una storia narrativa con un inizio, una fine, una risoluzione. Questo sicuramente ha avuto un’impressione e ha fatto sì che coltivassi la mia passione al punto tale da cercare non solo di usufruire, ma di andare a capire come si faceva, di andare a scoprire quei meccanismi. E questo è ciò che ho avuto la fortuna di fare, diciamo, andando negli Stati Uniti e seguendo un percorso per cui ho visto un po’ la macchina da dentro, vedendo il motore, gli ingranaggi. Certo, si perde un po’ della magia, ma si acquisisce molto altro e si cerca di esserne parte. Ecco, non direi che c’è qualcosa in particolare, è più un insieme, però tuttora rimane qualcosa di speciale per me il cinema.

Frisoni. Per me è molto simile a quello che ha detto Alessandro. Nel momento in cui, quando ero giovane, ho avuto l’opportunità… c’è un pezzo di slide che devo far vedere, non so, qui non compare. Quando ero ragazzino, mio babbo portava a casa le cassette del Blockbuster ed era di nuovo un rito pagano quasi. Attimo solo, ecco. La scintilla praticamente la colpa fu di questo film: a un certo punto io avevo nove anni, credo, e esce questo film e lo guardo, non capisco niente, ma rimango affascinato da due cose. La prima è questa e dico “Bello, non capisco, ma bellissimo”. La seconda è questa: io che schivo le pallottole, e io lo guardavo e dicevo “Ma come hanno fatto?”. Non capivo cosa stessi guardando, però in quel momento entrava un seme, e l’ho tenuto sempre in mente. Poi, qui, i miei amici hanno iniziato a fare video, sempre pensando che io volevo fare gli effetti speciali, io volevo riuscire a fare il bullet time, volevo riuscirci. Però non sapevo cosa volesse dire fare effetti speciali, io volevo semplicemente divertirmi. E allora ho iniziato a fare queste cose che, secondo me, sono tra le cose più formative che io abbia mai fatto, perché principalmente volevo divertirmi, e questo non è cambiato. Non sta partendo… E qui c’è una cosa che vi voglio far vedere. Io, a 15 anni, ho fatto questo video e se vedete bene la spada laser, crea quell’effetto che dicevo prima, il motion blur. Per me questo, col senno di poi guardando indietro, ho detto “Ah, vedi?”. Cioè, quando l’ho fatto, ricordo l’interesse nel generare quel dettaglio lì, ok? Cioè, era qualcosa che era lì, che andava tirata fuori, però non era mai stata chiara. Era proprio un desiderio di fare qualcosa di interessante che mi divertisse, molto semplicemente, senza troppi giri. Questo è un video che io vi volevo far vedere sempre per la stessa ragione: il mio primo chroma key, che vuol dire sostituire il fondale blu o il fondale verde con uno sfondo a piacere, e se notate io rimango appiccicato male, ma rimango appiccicato ai tetti mentre la telecamera si gira. Quello è un effetto che noi utilizziamo giornalmente, si chiama tracking, che vuol dire prendere un oggetto 3D e appiccicarlo nella ripresa reale mentre la telecamera si muove. E niente, quello è stato un altro dettaglio che mi ha fatto capire che volevo fare effetti visivi e quindi vi invito di nuovo a fare effetti visivi perché è bellissimo. Basta. Grazie.

Federico. Io avevo ancora un’altra domanda, anzi, altre due in verità. Allora, un’altra esperienza che ho provato tanto negli anni, mentre lavoravo anche io a film, è stata quella di sentirmi un po’ un ingranaggio, un meccanismo, quella cosa di cui parlavate anche prima, però l’ho vissuta un po’ male. Cioè, io volevo fare cose grandi, poi mi ritrovavo a lavorare a film, di cui non faccio i nomi, diciamo, che erano un po’ terribili, che erano semplicemente creati per l’incasso al botteghino e che non proponevano quasi niente. Tanto è vero che io, nella mia carriera di 20 anni, l’unico film su cui sono stato veramente contento di partecipare è stato “Gravity”. Quindi volevo chiedervi a voi, che siete molto più luminari di me, che valore attribuite alla vostra creatività nell’opera di un altro e se c’è anche qualcosa che cercate nel lavoro di ogni giorno.

Frisoni. Questa è una bella domanda perché la risposta esatta non c’è. Nel mio caso raccontare la mia storia è stata un’evoluzione di interessi. Sono partito volendo fare questa cosa perché mi divertiva, mi divertiva e basta. Poi il divertimento ha iniziato a non essere abbastanza, ha iniziato a esserci un interesse, ho iniziato veramente a interessarmi di più all’immagine come medium per raccontare, e poi ho iniziato a focalizzarmi sul dettaglio. Poi, quando ho visto che praticamente, dal primo film a tre quarti della mia carriera, tutti i film a cui avevo lavorato erano o sequel o comunque cose che uno diceva “vabbè, si stava bene lo stesso anche se non si faceva”, sono stato costretto, dal day one, a chiedermi “perché lo sto facendo?”, “perché sto facendo le notti insonni?”, “perché sto lavorando così tanto e poi magari il mio lavoro viene preso e gettato via perché c’è un cambio di scelta stilistica o comunque quella clip non funziona più bene?”, ok? Per cui, dal primo giorno, mi sono dovuto chiedere “perché lo sto facendo?”, “lo sto facendo per la storia di qualcun altro?”, “lo sto facendo per vedere il risultato su schermo?”, “lo sto facendo per rendermi bello con gli amici?”. E questa domanda non ha mai avuto una risposta precisa e secca, ma ha avuto un’evoluzione positiva. Ho un esempio: un po’ di anni fa ho lavorato in un film che non era proprio il massimo, e tutti noi eravamo molto consapevoli che il film a cui avremmo lavorato non era proprio il massimo. È nata dal nostro interesse comunque di fare qualcosa di veramente bello, prima per noi che per gli altri. È nato un gruppo di discussione in cui discutevamo tecniche, immagini, quadri, frame dei film che ci appassionavano. E automaticamente, quando noi abbiamo spostato il focus da là a qua, cioè la mia storia, il mio interesse, non solo quel film, l’abbiamo fatto in tempo e tutto quanto, ma il risultato estetico è venuto fuori eccezionale, eccezionale. E poi ho avuto una candidatura all’Oscar, il nostro lavoro non è specifico, è il lavoro di tutto il team. E questo mi ha fatto sempre chiedere molto perché non posso fare un film pensando di voler servire la storia di un altro. Devo prima servire la mia storia e, facendolo, non solo sto imparando a servire poi meglio un film in cui dico “Oh, qui ne vale la pena” e do tutto quello che ho imparato, ma approfondendo quelle cose che sono parte della storia che sto raccontando in quel momento: il rapporto coi colleghi, il rapporto anche nello studio di tecniche nuove e cose del genere. Raccontare storie, fare parte della storia di un altro per me significa capire di più chi sono io e quindi questo mi libera completamente dal risultato estetico e finale o del successo o insuccesso del film.

Jacomini. Il cinema in generale è un processo molto collaborativo, e io ho scelto l’animazione che lo è ancora di più, soprattutto l’animazione di questi film molto importanti che vengono distribuiti un po’ in tutto il mondo. Richiedono un enorme numero di personale, di artisti, di tecnici. È quasi inevitabile il fatto che si collabori, e da un certo punto di vista forse è la salsa speciale affinché ci si avvicini a qualcosa che abbia successo, ed è proprio il fatto che la collaborazione deve essere la più fluida, la più virtuosa possibile. Ci si un po’ perde, ci si chiede “Ok, qual è il mio contributo in questo mare?”, e come vi dicevo, il tuo contributo è nel cercare di comunicare una tua sensibilità che fa parte del tuo percorso, di chi sei, nel piacere sicuramente di fare parte di un ensemble, di un gruppo. E soprattutto, come nel mio caso, ho la fortuna di collaborare con talenti incredibili: c’è una gioia nel vedere contributi in discipline che non si conoscono molto bene, che aiutano a creare una storia ancora più efficace. È chiaro che il fine giustifica il fatto che si è un po’ persi in questo mare di sforzi, però ne vale la pena sicuramente. Direi che alla fine, quando si ha la fortuna di vedere un film che funziona, lo so che forse non è la parola giusta, però si ha la percezione che c’è qualcosa di veramente speciale. Ci sono talmente tanti elementi che possono andare storti ed è così difficile, molto spesso si lavora sotto deadline, scadenze pressanti. Quando per qualche motivo tutto funziona, è un piccolo miracolo che, da un certo punto di vista, giustifica un po’ tutti gli sforzi che si sono fatti. Per cui questo è quello che si guadagna in questo processo.

Federico. Io vi faccio l’ultima domanda. Volevo chiedervi, giusto perché è successo a me e anche a Michelangelo, di aver avuto la fortuna di ricevere durante il nostro percorso una parola di incoraggiamento, un consiglio che ci ha fatto poi prendere questa strada. Voi, ragazzi che ci sono in sala, magari quelli che ci seguono, cos’è che direste a qualcuno che magari vuole cominciare una carriera come la nostra? Che consigli gli dareste?

Frisoni. Per rispondere a questa domanda, ho due eventi. Il primo è un evento che lo racconto come consiglio, che a me ha proprio illuminato. Io ero a Hollywood in un pub, a un certo punto mi dicono “Guarda guarda, arriva Brad Bird”, che è il regista di Mission Impossible, degli Incredibili, e c’era insieme a lui la sua assistente. Io lo guardo, non sapevo parlare inglese, ma proprio zero, era il 2012, avevo 20 anni. Sento dentro di me tutto che mi dice “Ma no, cosa vai a fare da lui? Fai una figuraccia, cosa gli vuoi dire? Soprattutto ringraziarlo, ma sai quanta gente lo va a ringraziare?”. Tutto questo marasma di pensieri di giustificazioni per non andare a parlargli. Io ho detto “Vabbè, io vado lo stesso”. Per cui vado, gli dico “Brad, grazie, innanzitutto mi spieghi come si fa per venire sul set a portarti l’acqua? Io voglio vedere come lavori”. Lui mi guarda, mi sorride, non dice niente. La sua assistente, non so chi fosse, però lui mi guarda, mi sorride e mi fa “Bravo, è così che si fa”. E lì ho imparato una cosa che è quella che consiglio a tutti: nel momento in cui, ragazzi, vi sentite che tutto di voi dice “No, no, no, non andare là”, è proprio lì che dovete andare. Cioè, quello è proprio il suggerimento numero uno: andate lì, dritti a testa alta. Male che vada, va bene. Punto numero due: delle parole di incoraggiamento ne ho avuto una volta, e riguarda proprio quel signore lì che si chiama Daniele Federico. Era il 2008, ho girato il mio primo film. È una robaccia che… cioè, quello che avete visto prima è da Oscar rispetto a quello che abbiamo fatto nel 2008, a 15 anni. Lui viene qua al Meeting a fare un incontro e parla del leone di Narnia, che aveva fatto un sacco di lavori in effetti visivi. Io, tutto ansiato di nuovo, penso “Ma no, cosa vai da lui? Tanto c’ha un sacco di gente che è andata da lui? Gli vai a rompere le scatole? Questo è un professionista”. Mi presento con il portatile e un paio di amici e gli dico “Guarda, noi abbiamo fatto questo, cosa ne dici?”. Gli abbiamo fatto vedere cose come quelle che avete visto prima, e lui mi fa “Bravo, bello, vai avanti”, e basta. Io lì, proprio struck, ho detto “Ok, questa è la strada giusta, vai dritto”. Per cui, sempre andare contro tutto quello che vi dice il vostro corpo è la cosa giusta da fare. Basta, ho finito.

Jacomini. Allora, in un momento diverso della mia carriera avrei detto appunto “Seguite la vostra passione”, perché sicuramente è quello che ho fatto io, però con le condizioni. Ho avuto la fortuna, sono stato molto fortunato: sia la mia famiglia mi ha incoraggiato in questi termini, sia aver imbroccato il momento giusto per entrare in questo mondo nei primi anni ’90, quando c’era l’esplosione degli effetti speciali e del cinema di animazione digitale. Ecco, adesso che io ho più anni di carriera alle spalle che davanti, ci aggiungerei: cercate di seguire, di individuare il vostro talento e di alimentare la passione anche con delle qualità che sentite vostre, perché sicuramente aiuterà. Per cui cercate, come nella venatura del legno, di capire la vostra vocazione, il vostro talento, e di fare sì che la vostra passione sia l’alimento, ma che non andiate controcorrente rispetto alla vostra natura. Il mondo della tecnologia sta cambiando tantissimo. La mia impressione è che seguire solo la tecnologia sia un po’ avere una visione corta. Tornando al tema del Meeting, cercare di capire l’essenza. Per me, nel mondo della mia competenza, è sicuramente capire quelle leggi, sia artistiche che tecniche, che lo regolano e che vanno al di là degli strumenti che si usano. Non aver paura, sicuramente a un me stesso più giovane direi di osare, di essere più coraggiosi, di navigare mari tempestosi anche perché è così che si impara. Nel mio caso, io non sono mai stato un genio, ho visto i geni al lavoro e si vede subito. Per me è stato sempre un lavoro… in inglese si dice 90% perspiration, 10% inspiration. Cioè, sudore, tanto, e anche un po’ di ispirazione. Non avere paura di lavorare sodo, e se si ha la fortuna di lavorare su qualcosa che si ama, quello aiuta moltissimo. Comunque penso che, da un certo punto di vista, il percorso ognuno ha il proprio. Bisogna sostanzialmente avere ben chiaro, soprattutto nei momenti di mare grosso, di vedere la stella polare e di seguire i propri principi che ti mantengono saldo. Si possono fare errori, si va due passi indietro, un passo avanti, però alla fine, guardando indietro, si vede una certa direzione e si cerca di trarre frutto di tutti gli insegnamenti che si riescono ad acquisire nel tempo. Basta.

Federico. Io spero che questo incontro vi sia stato utile, non solo a farvi capire di più come funziona il cinema, ma magari anche a darvi qualche spunto per il vostro lavoro e le vostre passioni. Prima di concludere, vi ricordo che c’è bisogno dell’aiuto di tutti perché il Meeting possa continuare a regalarci incontri come questo. Per questo, si può contribuire alla costruzione del Meeting attraverso i punti Dona Ora che sono sparsi lungo i padiglioni della fiera. Grazie ancora ai nostri ospiti e grazie a voi per averci seguito.

Data

21 Agosto 2024

Ora

13:00

Edizione

2024

Luogo

Sala Conai A2
Categoria
Incontri