Chi siamo
TRA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA E DEMOCRAZIA DIRETTA: DIALOGO A 70 ANNI DALLA COSTITUENTE
In collaborazione con Fondazione De Gasperi. Partecipano: Francesco Bonini, Rettore dell’Università LUMSA; Diego Fusaro, Saggista. Introduce Lorenzo Malagola, Segretario Generale Fondazione De Gasperi.
TRA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA E DEMOCRAZIA DIRETTA: DIALOGO A 70 ANNI DALLA COSTITUENTE
Ore: 15.00 Arena della Storia A5
TRA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA E DEMOCRAZIA DIRETTA: DIALOGO A 70 ANNI DALLA COSTITUENTE
In collaborazione con Fondazione De Gasperi. Partecipano: Francesco Bonini, Rettore dell’Università LUMSA; Diego Fusaro, Saggista. Introduce Lorenzo Malagola, Segretario Generale Fondazione De Gasperi.
LORENZO MALAGOLA:
Buon pomeriggio, diamo inizio a questo incontro dal titolo “Tra democrazia rappresentativa e de-mocrazia diretta. Dialogo a 70 anni dalla Costituente”. Mi chiamo Lorenzo Malagola e sono segre-tario generale della Fondazione De Gasperi. L’incontro di questo pomeriggio nasce collegato alla mostra “L’Italia è” proposta dalla Fondazione De Gasperi e che potete trovare qui di fianco, a set-tant’anni appunto dalla Assemblea Costituente. Abbiamo voluto ricordare quello che fu il dialogo tra i nostri padri costituenti e quello che esso generò: una Costituzione che ci ha permesso set-tant’anni di vita pacifica. Da quella mostra abbiamo poi deciso di estrapolare un tema di attualità, il passaggio, che oggi è solo un dibattito culturale, tra la democrazia rappresentativa, quella che ha caratterizzato i nostri padri costituenti, la nostra vita democratica degli ultimi settanta anni e la democrazia diretta, che per molti è un concetto nuovo ma che in realtà non lo è. Sia l’antica Roma che Atene o, in epoca più moderna, la rivoluzione francese, hanno posto la democrazia diretta come una nuova forma di democrazia. Oggi in Italia si parla di democrazia diretta ed esiste addi-rittura un ministro del governo in carica dedicato, il ministro per i Rapporti con il parlamento e la Democrazia diretta. Quindi sta tornando ad essere una categoria politica. Abbiamo due ospiti che ringrazio: Francesco Bonini, che è rettore dell’Università Lumsa di Roma e membro del comitato scientifico della Fondazione De Gasperi e Diego Fusaro, saggista, un giovane saggista, fondatore di un blog di successo, “Filosofico.net”, volto televisivo che devo dire non è mai banale nei suoi inter-venti e per questo lo abbiamo invitato, proprio per la sua originalità di pensiero. Per cominciare chiederei al professor Bonini: Francesco, questa idea della democrazia diretta non è così tanto nuova come accennavo prima, da dove nasce e di cosa si tratta?
FRANCESCO BONINI:
Vorrei partire dalla osservazione iniziale di Lorenzo Malagola a proposito del ministero per la Democrazia diretta che in realtà prende il posto del vecchio ministero per le Riforme istituzionali. Esso ci dice, a settant’anni dalla Costituzione, di un cambiamento di aria. Il punto non è più tanto nel nostro sentire comune, non è più tanto quello di lavorare all’ingegneria costituzionale ma è piuttosto la necessità, l’urgenza di misurarsi con la questione della democrazia che, in effetti, è il vero, grande nodo della contemporaneità, in Europa e nel mondo. L’etichetta di “democrazia di-retta” applicata a questo nuovo ministero dice della necessità di lavorare sul tema della democra-zia. In realtà se noi ci poniamo dal punto di vista del dibattito italiano ed internazionale sulla de-mocrazia, la contrapposizione tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, che è uno de-gli elementi di scuola del dibattito da almeno duecento anni, in realtà è un pretesto. Vorrei legge-re questa urgenza di misurarsi appunto con l’etichetta della democrazia diretta perché c’è una questione di democrazia, c’è una questione sul nostro vincolo sociale. Quindi c’è la necessità di ra-gionare insieme e di riappropriarci dei meccanismi istituzionali per far sì che questo vincolo socia-le sia utile, sia effettivo, riesca a rispondere ai grandi problemi di oggi, che sono per molti aspetti i tradizionali problemi, ma sono anche dei problemi inediti. Credo che la contrapposizione demo-crazia diretta/democrazia rappresentativa sia una contrapposizione di scuola ma sia una strada per porci la questione della democrazia. Ci siamo messi d’accordo per fare degli interventi brevi e per dialogare, ma vorrei ricordare, io sono il più anziano in questo salotto con le poltrone bianche, quello che a noi che eravamo molto più giovani scriveva Giovanni Paolo II a proposito della demo-crazia nell’enciclica Centesimus annus. Diceva: «… la Chiesa apprezza la democrazia ma la demo-crazia è sempre “in pericolo” o, più esattamente, la democrazia è sempre sottoposta alle dinami-che della storia. La democrazia può corrompersi in forme di totalitarismo aperto o subdolo, come insegna la storia». Quindi io credo che la questione che noi oggi, che ogni generazione si deve porre, è la questione sulla fragilità ma anche la necessità della democrazia, che non è solo una forma di governo ma una modalità per costruire la società. Concludo con un’altra idea che Gio-vanni Paolo II sottolineava all’epoca (siamo nel 1991, secolo scorso, a cento anni dalla Rerum No-varum), quando sottolineava che la democrazia si sviluppa solo in relazione alla soggettività della società. Perché la democrazia sia viva, serve una società che sia fatta di soggetti, che ai fini della Costituzione italiana, e qui chiudo questa prima parte di intervento, sono le persone e le formazio-ni sociale. Senza soggetti non c’è la democrazia, né la democrazia diretta né la democrazia rap-presentativa; senza soggetti avanzano forme di “totalitarismo” aperto oppure subdolo. La parola subdolo ci deve fare molto riflettere.
LORENZO MALAGOLA:
Franceso ha fatto un passo indietro. Il dialogo, il dibattito non è tanto su democrazia diretta e de-mocrazia rappresentativa, ma sulla natura stessa della democrazia e sulla sua situazione odierna, sulla sua messa in pericolo. Noi apparteniamo ad una generazione che è molto lontana dall’ultima volta in cui la democrazia italiana non aveva libertà. Abbiamo fatto una mostra appunto a set-tant’anni dalla Assemblea costituente, perché settant’anni fa in Italia non c’era la democrazia. Quindi la nostra generazione non ha neanche un vago ricordo, non ha sentito raccontare dai pro-pri padri di quel momento storico. Ma secondo te la nostra generazione ha consapevolezza di quello che dice Francesco, cioè che la democrazia è sempre in pericolo e forse oggi si stanno svi-luppando dei germi che potrebbero metterla di nuovo in pericolo come settant’anni fa?
DIEGO FUSARO:
Grazie per la domanda. Credo che oggi le nuove generazioni non ne siano pienamente consapevoli anche in ragione del fatto che stiamo assistendo, come è stato opportunamente ricordato, ad un processo di sgretolamento della democrazia e di sostituzione di essa con un subdolo totalitarismo, totalitarismo glamour e seducente da un certo punto di vista, che si può connotare come società del consumo illimitato, come società della sovranità del mercato finanziario che sta sopra le deci-sioni democratiche dei popoli. Questo sta nello scenario di questa Belle Époque post 1989, che si era aperta con la promessa della realizzazione della piena democrazia e della piena liberazione degli esseri umani e che invece sta producendo sotto i cieli nuove e non meno feroci, seppur sub-dole, forme di totalitarismo. Perché vi sia democrazia, mi permetto di fare questa precisazione sia pur telegrafica, occorre che vi siano vari elementi. La democrazia non è soltanto la libertà di espressione, che pur naturalmente è inclusa nel concetto di democrazia, ma non esaurisce il con-cetto di democrazia. Se noi volessimo definire la democrazia, dovremmo, innanzitutto, seguire le orme di uno dei più grandi teorici della politica dell’Occidente tutto, Aristotele. Infatti, nella Politi-ca, quando parla della democrazia, mette a tema essenzialmente due aspetti: in primis il fatto che la vera democrazia è quella in cui prevale un ceto medio, dice lui, né troppo ricchi né troppo po-veri (quindi c’è una sorta di uguaglianza, di eguale libertà nelle sostanze) e in secondo luogo, dice Aristotele, vi è democrazia quando c’è l’alternanza tra “l’archein” e “l’archeisten”, cioè tra il go-vernare e l’essere governati. Sicché democrazia vuol dire propriamente il potere del popolo, ma anche il popolo al potere. Queste due componenti sono inscindibili tra loro. Ora nell’odierno qua-dro post 1989 ci troviamo noi in una democrazia seguendo le orme di Aristotele? Trascurando qui tutta una serie di altri più o meno importanti autori come Spinoza venuti dopo, credo che siamo sempre meno in una democrazia, sempre meno forse ce ne rendiamo conto. In primis natural-mente non è rispettato il criterio del ceto medio. Sempre più la società si sta polarizzando secondo le due forme esorcizzate da Aristotele: un ceto sempre più ristretto, possidenti sempre più ricchi, e un ceto sempre più ampio di plebi pauperizzate dai processi di mondializzazione. Primo punto. In secondo luogo non vi è nessuna alternanza “l’archein” e “l’archeisten” e non vi è la sovranità del popolo nelle decisioni fondamentali della propria vita nazionale. Nel caso specifico, parlando dell’Italia, pongo alcuni quesiti fondamentali che sono noti ma non conosciuti forse. Ad esempio il fatto che non si può dire democrazia uno Stato in cui si bombarda la Serbia perché lo ha deciso Washington, per dirne una, o si bombarda la Libia su decisione sovrana di uno Stato altro, o dove vi sono basi militari di un altro Stato, gli Stati Uniti d’America, che occupano il territorio nazionale. Non è una democrazia se, come si sarebbe detto una volta, vi è una sovranità limitata. Al tempo stesso non c’è democrazia nella misura in cui il popolo non può decidere sovranamente sulla pro-pria vita politica ed economica nazionale, dipendendo essa invece dai dispositivi anonimi del mer-cato, della finanza e di quant’altro. Ecco, da questo punto di vista stiamo procedendo in quella che da più parti si è chiamata l’epoca postdemocratica, in cui si sta sempre più disseccando, vorrei di-re, la radice democratica che seppure in forma imperfette il Novecento aveva in parte sperimen-tato. Vorrei qui ricordare, a mo’ di prova empirica di ciò che sto dicendo, essenzialmente tre esempi. Uno di questi si ebbe quando all’indomani della Brexit, nel 2016, un importante politico italiano, fiduciario dei mercati, disse che gli inglesi avevano peccato di democrazia. Se ci pensate è una contradictio in adjecto questa formula. Il popolo avrebbe peccato di democrazia, perché si sarebbe rimesso alla volontà popolare un argomento che non andava rimesso alla volontà popola-re. In secondo luogo, sempre all’indomani della Brexit, un noto esponente, in questo caso non del-la politica ma della finanza internazionale, disse che occorreva rovesciare l’esito di questo refe-rendum. Ora, se il referendum è stato democratico, rovesciarlo lascia presagire qualcosa di ben poco democratico, evidentemente. Il terzo caso, più vicino a noi, si ebbe quando all’indomani delle votazioni del 4 marzo, un noto scrittore, un noto giornalista del rotocalco La Repubblica, che ci de-lizia la domenica con le sue omelie laiche, disse che con quelle elezioni la plebe era salita al pote-re, era impaurito e quasi indignato dal fatto che avesse vinto la plebe contro quello che presumi-bilmente sarebbe da intendersi come un patriziato cosmopolita dei mercati. Ecco, questi tre esempi, che qui ho episodicamente menzionato, testimoniano quello che sta avvenendo, l’arretramento della democrazia o, se preferite, il cominciamento sempre più visibile di un’epoca postdemocratica, in cui la sola sovranità è quella dei mercati transnazionali. Gli ultimi enti ancora in grado di custodire a mo’ di fortilizio la democrazia come volontà dei popoli sovrani, cioè gli Sta-ti sovrani nazionali, sono i principali bersagli dei processi della mondializzazione postdemocratica. L’aggressività che il mercato sta rivelando contro gli Stati sovrani nazionali, si spiega esattamente in questa chiave, come lotta tra un principio postdemocratico, la volontà dei mercati, contro quel-le democrazie pur perfettibili inquadrate negli Stati sovrani nazionali. Questo è lo scenario in cui ci troviamo ed è bene che le nuove generazioni acquistino coscienza di questa epoca che, con le pa-role del grande Fichte, mi piace chiamare della “compiuta peccaminosità”.
LORENZO MALAGOLA:
Francesco, tu prima hai parlato del fatto che quando la democrazia è scarica di ideali va a morire. Cosa si è rotto nel rapporto tra il popolo e chi rappresenta il popolo? Soprattutto, come si può, a tuo avviso, rigenerare la democrazia?
FRANCESCO BONINI:
Ma io credo che bisogna giocare il gioco della democrazia; credo che questo sia il nostro compito, di tutte le generazioni, quelle più giovani e quelle più anziane. Bisogna giocare il gioco della de-mocrazia ma, naturalmente, così come oggi si gioca al calcio con le nuove regole del fuorigioco rispetto a quelle che c’erano vent’anni fa o con il Var che prima non c’era, bisogna giocarla in questo quadro che è un quadro multilevel, in cui c’è la comunità locale, in cui c’è lo Stato naziona-le, in cui ci sono le aggregazioni sovranazionali e in cui c’è questa melassa, diciamo così, globale. Per cui è molto più difficile giocare questo gioco in un quadro multilevel rispetto a quando lo si doveva giocare in un orizzonte più ristretto, da cui la famosa battuta di Churchill quando diceva che la democrazia è il miglior sistema essendo caducati tutti gli altri. È più difficile giocare la de-mocrazia nel quadro multilevel perché la tentazione è quella di giocarla soltanto ad uno dei livelli, cioè giocarla soltanto sul livello locale, giocarla soltanto sul livello nazionale, giocarla soltanto sul livello sovranazionale. Il grande problema, l’enorme problema, che noi ci troviamo ad affrontare oggi è sincronizzare questi diversi livelli. E di fronte ad un problema così enorme come questo ci troviamo demoliti, ci troviamo privi di strumenti e quindi la tentazione è quella di semplificare i livelli, di semplificare il discorso perché non abbiamo ancora un sistema politico in grado di lavo-rare in maniera efficace su tutti i livelli. Fossero soltanto i tre livelli che più direttamente ci inte-ressano, cioè quello locale, quello nazionale e quello europeo, come dimostra il caso della nave Diciotti e di tutte le altre navi di questi giorni, noi non abbiamo gli strumenti; in particolare non abbiamo lo strumento principe della democrazia che è il partito. La democrazia dei moderni utiliz-za i partiti: nasce come partito. In Assemblea costituente si parlava di democrazia dei partiti e altri denunciavano la partitocrazia cioè l’invadenza dei partiti. Noi non abbiamo dei partiti che riescano a lavorare su tutti e tre i livelli, su quello locale, su quello nazionale e su quello europeo, e quindi noi viviamo sulla nostra pelle una serie di cortocircuiti. Noi dobbiamo lavorare a costruire degli strumenti con dei mezzi poveri, perché abbiamo una cultura politica poverissima a livello persona-le e a livello di gruppi. Abbiamo una cultura politica molto più povera di quella dei miei padri e dei vostri nonni, quelli che avevano partecipato ai partiti di massa dell’epoca immediatamente post-bellica. Abbiamo pochi strumenti di cultura politica e quindi dobbiamo, come ci esorta papa Fran-cesco, «fare tesoro della nostra povertà». Abbiamo un solo talento, non ne abbiamo dieci o cin-que, ne abbiamo uno solo ma non dobbiamo correre, non dobbiamo seguire la tentazione di inter-rarlo, dobbiamo trafficare questo nostro, unico, talento. E quindi dobbiamo riattivare ed attivare tutti quei meccanismi della democrazia, tenendo presente che non funziona più ad un solo livello o a due ma funziona almeno a tre livelli. E quindi i partiti e quindi i sindacati e quindi le associazioni e quindi i movimenti e quindi i gruppi e quindi i giornali e quindi le televisioni e quindi gli strumen-ti, “i cinguettatori“, cui faceva riferimento prima Diego, gli strumenti social ecc. ecc., dobbiamo cercare di utilizzarli con la consapevolezza di questa nostra povertà, per sviluppare la democrazia in una situazione di grande povertà. Siamo tutti molto più poveri non soltanto dal punto di vista materiale ma dal punto di vista dei nostri riferimenti culturali e ideali. Ma questa consapevolezza ci permette di essere attivi. Ci deve permettere di essere attivi. È straordinariamente difficile ma appunto, se è vero che il quadro è multilevel, il nostro impegno dev’essere multilevel, ognuno di noi si deve muovere coerentemente sui livelli che pratica, perché appunto la democrazia presup-pone la soggettività della società. La democrazia non è il potere del popolo inteso come massa, ma del popolo fatto di soggetti e di formazioni sociali, se no ritorniamo all’“antico regime”. C’era un ambasciatore francese presso la Comunità europea che aveva scritto, qualche anno fa, un libri-cino dicendo che la democrazia è uno spazio bicentenario in una storia fatta di imperi. E durante il cosiddetto “antico regime” il popolo eccome se si sollevava: c’erano le rivolte popolari perché si percepivano le cose che non andavano bene ma queste rivolte poi si esaurivano naturalmente. Il rischio è che oggi il senso (ha detto il vicepresidente del Consiglio a ferragosto, a Genova: «C’è tanta rabbia e io devo interpretare questa tanta rabbia») della “tanta rabbia” sia vissuto nelle forme dell’“antico regime”, una rivolta che poi non cambia nulla. La democrazia permette di far sì che le giuste istanze di un popolo impoverito dal punto di vista della cultura, dei valori, dal punto di vista del senso di appartenenza, dal punto di vista del senso di comunità, permette che le giuste istanze di un popolo impoverito ma organizzato e consapevole della sua soggettività, siano espres-se: di qui la democrazia rappresentativa, perché si tratta di esprimere queste istanze, che si com-bina con una forma di democrazia diretta. Forme di democrazia diretta sono (anche se molti giuri-sti non sono d’accordo) il referendum, sono il cosiddetto “recall”, cioè la sfiducia a determinate personalità, sono le istanze di democrazia partecipativa e deliberativa, sono anche certe forme di e-democracy (quella appunto via internet). Insomma bisogna combinare strumenti antichi e stru-menti nuovi per “rappresentare” ma per questo dobbiamo essere consapevoli della nostra povertà e anche consapevoli del fatto che lavorando insieme possiamo realizzare quello che hanno realiz-zato i nostri padri e quello che hanno realizzato i nostri nonni nel corso di questi lunghi anni, che non possono essere una parentesi in una storia fatta solo di imperi oppressivi.
LORENZO MALAGOLA:
Diego, tu prima hai sottolineato il fatto che la politica, nella piramide dei poteri, non è più al ver-tice; è stata sopravanzata dal potere finanziario, dai mass media anche; un potere tale da mettere in crisi le democrazie. Allora come la politica può riguadagnare il ruolo che gli spetta, quello di es-sere punto di sintesi del volere del popolo e quindi di equilibrio tra i vari poteri che contraddistin-guono la vita sociale?
DIEGO FUSARO:
Sì, nella sua essenza il processo di mondializzazione, al cui interno ci troviamo, si caratterizza pro-prio per una sempre più spiccata neutralizzazione della politica. Un grande filosofo e giurista co-me Carl Schmitt parlava di “spoliticizzazione” – “entpolitisierung” in tedesco – perché aveva ben visto, dai bordi della sua epoca, come la civiltà del tecnocapitalismo fosse quella che di fatto ten-deva a neutralizzare la politica sovrana per sostituirla con gli automatismi della tecnica e dell’economia autonomizzate.
Ecco, questa diagnosi, questa profezia vorrei dire, di Carl Schmitt si sta realizzando compiutamen-te oggi negli spazi della cosmopoli di cui siamo abitatori. Più precisamente: io sono convinto del fatto che oggi gli stati sovrani nazionali, con tutti i limiti che li caratterizzano e che storicamente – pensiamo al Novecento – li hanno caratterizzati, restino nondimeno gli ultimi fortilizi del primato del politico sull’economico – se vogliamo chiamarlo così -, dell’egemonia della politica sull’economia o, se preferite, del primato della decisione politica sovrana sugli automatismi del mercato deregolamentato. La globalizzazione sta esattamente producendo uno svuotamento della politica che procede di conserva con lo svuotamento degli stati sovrani nazionali. Sicché, credo che sia anche empiricamente suffragato, ogni qualvolta noi sentiamo risuonare nel discorso pubblico mediatico, giornalistico, la locuzione “cessione di sovranità”, per passare a istituti transnazionali posti al di là degli stati sovrani nazionali. Ciò comporta – e fino a qui ha comportato – sempre emorragie di democrazie, emorragie di politica, emorragia di sovranità nazionale per passare evidentemente a realtà che sono certamente transnazionali e al contempo post- democratiche. Il caso dell’Unione europea mi sembra, per restare non troppo distanti dalla nostra realtà, quello più vicino: è stato un grandioso svuotamento di sovranità nazionale. Il teorema della cessione di so-vranità nazionale avrebbe avuto senso se gli stati sovrani nazionali avessero rinunziato alla loro sovranità nazionale, per poi riconquistarla su scala più grande, come Unione europea. Questo non è avvenuto. Non è avvenuto perché l’Unione europea, così com’è, implica non già il primato della politica e della scelta sovrana nazionale. La decisione, in ultima istanza, spetta a enti che di demo-cratico non hanno nulla e che rispecchiano sempre più il nudo interesse economico che si concen-tra nei caveau delle banche d’affari.
Ecco, questa dinamica si sta oggi realizzando, la democrazia si sta svuotando nella misura stessa in cui si sta svuotando lo Stato sovrano nazionale. Stiamo passando in una fase che potremmo chia-mare di “post-modernità politica”, se la modernità coincide con l’evo dello jus publicum euro-paeum del già citato Carl Schmitt e quindi con gli stati sovrani nazionali, con la loro conflittualità, ma anche con gli equilibri a cui dava luogo la pluralità degli stati sovrani nazionali.
Stiamo passando da questa fase a una fase post-moderna di mercato sovrano, di mercato sovrano che produce la spoliticizzazione dell’economia. Ecco, la spoliticizzazione dell’economia, che coinci-de con una parola che si dice quotidianamente, che viene ripetuta quasi con irriflesso automati-smo, che è deregulation. Deregulation, de-regolamentazione, significa né più e né meno una eco-nomia privata dei vincoli della politica, cioè di quei vincoli che il discorso egemonico liberista qua-lifica in blocco, o anzi squalifica in blocco, come i lacci e i lacciuoli dello Stato, della politica e così via.
Ora, io credo che nello stato delle cose in cui ci troviamo, occorra procedere in direzione ostina-tamente contraria rispetto a questi processi; occorra, avrebbe detto Nietzsche, procedere contro le onde della storia. Procedere contro le onde della storia, per valorizzare gli Stati sovrani naziona-li come fortilizi delle democrazie, del primato del politico, e rovesciare l’ordine globalizzato che per ciò stesso, come pur telegraficamente ho detto, è un ordine sempre più post-democratico. Per questo oggi la riconquista della sovranità nazionale è un punto ineludibile di tutela delle democra-zie. Per questo, ancora, oggi più che mai è importante la riconquista della sovranità monetaria, economica, politica, culturale: la globalizzazione sta producendo in un sol parto la distruzione delle democrazie, lo svuotamento delle identità dei popoli. Si sta producendo su scala cosmopolitica l’individuo svuotato, sradicato, senza prospettiva progettuale né radicamento storico. L’individuo apolide post-democratico, che è puramente in mano ai processi post-democratici, appunto della mondializzazionedei palazzi.
Io credo che occorra ripartire dalla sovranità nazionale come luogo resistenziale rispetto a tutto questo, ben consapevoli del fatto che il discorso che ipertroficamente ripete, che ormai lo Stato sovrano nazionale è un’anticaglia da relegarsi al museo delle antichità, o qualcosa di intrinseca-mente nocivo, è un discorso intrinsecamente politico, intrinsecamente ideologico, che è quello del discorso imperante di tipo liberista, che deve neutralizzare la forza del politico per lasciare solo la nuda forza dei rapporti di forza economici. Per questo io credo che sia di fondamentale importan-za ripartire dagli Stati sovrani nazionali e da un mondo multipolare, come si potrebbe anche chiamare. Un mondo multipolare, perché la mondializzazione si caratterizza a un tempo come produzione di un unico mercato globale; la globalizzazione di per sé è un’espressione tautologica, ma significa la riduzione del mondo intero a un unico mercato deregolamentato con libero e illi-mitato scorrimento delle merci e delle persone, da sempre encomiata dal discorso egemonico.: «Libera circolazione delle merci e delle persone» significa che prima le merci e poi le persone mercificate si muovono sul libero mercato concorrenziale, vengono delocalizzate dove appunto convenga, vengono deportate dall’Africa con nuove forme di colonialismo indecorose e così via. Ecco, in questo scenario la globalizzazione sta neutralizzando gli Stati sovrani nazionali e lo sta fa-cendo non con un processo naturale, come gli tsunami o i terremoti, ma con un processo con una chiara impronta politica. La mondializzazione non è un processo che esista alla stregua dei terre-moti, è un processo con un chiaro indirizzo politico, che giova a una chiara parte contro l’altra. La chiara parte a cui giova è quella della classe dominante cosmopolita, dei signori del capitale fi-nanziario e quant’altro e la parte che, diciamo così, subisce la mondializzazione, la parte per la quale la mondializzazione è di nocumento, è la massa nazionale popolare, sono i popoli intesi co-me unità dinamiche di culture, di ceti medi e di classi lavoratrici, oggi precipitati ugualmente nell’abisso della mondializzazione. Perciò credo nell’importanza di riconoscere il principio della sovranità nazionale, non appunto come un residuo bellico, ma come il punto vitale di ogni demo-crazia. Oggi ovviamente la democrazia non può essere quella della polis periclea, la democrazia oggi se esiste deve esistere nella forma degli Stati sovrani nazionali o tutt’al più uniti in confedera-zioni kantiane di Stati sovrani nazionali, ma non come dissoluzione degli Stati sovrani nazionali. Questo è il punto che mi premeva sottolineare.
LORENZO MALAGOLA:
Francesco, tu prima hai parlato di corpi intermedi, è emersa la necessità che il popolo sia l’anima della democrazia. Che ruolo può e deve avere oggi la Chiesa, il popolo di Dio nel rigenerare la democrazie?
FRANCESCO BONINI:
Mio nonno era più o meno contemporaneo di De Gasperi, – era del 1882, mentre De Gasperi era del 1883 – ed era un socialdemocratico prampoliniano di Reggio Emilia. Ripeteva “vint’an la va, vint’an la vin”, che significa: vent’anni va, vent’anni viene e credo che noi dobbiamo avere anche questo senso storico, lui ce l’aveva perché aveva attraversato i vent’anni del fascismo, dobbiamo avere questo senso storico anche per traguardare quello he sta prima, cioè traguardare il periodo storico e quindi guardare avanti. Mi pare che Apple fatturi oggi la metà del Pil italiano e questo è un dato significativo, d’altro canto è anche vero che la Chiesa cattolica è la più grande multinazio-nale, anche se, diciamo così, è battuta in breccia da contestazioni molto forti, pensiamo soltanto all’Australia e agli Stati Uniti. Quindi io credo che noi dobbiamo introdurre un ulteriore elemento, cioè un elemento agonistico. Nella storia c’è un confronto, non è che i processi storici siano inevi-tabili, i processi storici nascono e si concludono e nello stesso tempo c’è anche quella che un tem-po si chiamava lotta politica o comunque lotta culturale e lotta sociale. Noi dobbiamo riappro-priarci di un’idea agonistica dell’agire sociale e dell’agire politico. Non c’è nulla di inevitabile, per questo la democrazia serve, perché la democrazia regola il conflitto e lo rende funzionale allo svi-luppo del corpo sociale. Se noi non ci riappropriamo di un’idea agonistica della storia e quindi an-che della politica, facciamo il gioco di tutte quelle belle cose che ci ha illustrato Diego Fusaro pri-ma, cioè siamo assolutamente funzionali alla grande melassa del sistema della comunicazione e del consumo globale a base individualista e turbo-capitalista, come si suol dire. Questo ci riporta appunto alla domanda che pone a tutti noi, perché non la pone solo a me o a Fusaro, ma la pone a tutti noi, Lorenzo Malagola. In realtà il presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardina-le Bassetti, ha più volte fatto menzione di un anniversario che cadrà – adesso abbiamo l’anniversario del Sessantotto – nel 2019, l’anniversario de “L’appello ai liberi e forti”. Luigi Sturzo, il 19 gennaio 1919, finita la Prima Guerra Mondiale, il grande passaggio della contemporaneità, ha fatto un appello a tutti coloro che volevano qualcosa di diverso rispetto a quello che la mondia-lizzazione di allora, Prima Guerra Mondiale, proponeva e che poi drammaticamente emergerà qualche anno dopo. Significa mobilitare le varie energie. E chi erano questi liberi e forti? Questi liberi e forti erano delle persone, ma erano soprattutto delle esperienze, delle esperienze di ag-gregazione, delle opere, delle persone aggregate, delle esperienze di Chiesa, ma anche delle esperienze di banca, delle esperienze di sindacato, delle esperienze di cooperazione. Ecco, credo che il punto sia che molto spesso noi, e anche i nostri pastori, amano gli anniversari, le celebrazio-ni, ma come dare sostanza a questa idea del cardinal Bassetti? Io credo che potrebbe essere utile che lo stesso proponente si facesse carico non tanto di indicare delle modalità, quanto di recensire delle esperienze e di far incontrare e mettere insieme delle esperienze, allora si potrebbero crea-re le condizioni per un appello alle energie necessarie per lavorare in questi nuovi scenari. Se no noi ci possiamo lamentare finché vogliamo, ma non facciamo che il gioco di coloro che, con gran-de sfoggio di paillettes, di colori, di prebende, di lotterie, ci coccolano in una bambagia dalla quale però, nei momenti di lucidità, ci risvegliamo, come dicevo prima, tutti più poveri. Quindi l’idea è che esistano delle persone e soprattutto delle esperienze aggregate, libere e forti oggi, non soltan-to limitate all’orizzonte della Chiesa cattolica, anzi! L’Italia è piena di realtà libere e forti ad ampio spettro, però queste realtà, nel momento in cui rimangono sole, non producono nulla. Il dramma dell’individualismo consumistico è proprio la solitudine e quindi credo che l’operazione che debba essere fatta non sia quella di centralizzare queste risorse ma quella di dar loro benzina, dar loro sfogo, dar loro ossigeno. È un’operazione difficile, ma credo che soltanto in questo modo questo anniversario non andrà perduto oppure semplicemente sarà l’occasione per una splendida mostra che la Fondazione De Gasperi potrà realizzare il prossimo anno e di cui potremo discutere da qui a un anno, ma che poi magari non sarà in grado di incidere in un momento storico politico, italiano ed europeo, straordinariamente fecondo. Questo è un momento importante, è un momento signi-ficativo, è un momento in cui ci sono energie che sono disponibili, ma come in tutte le cose della società di oggi, è una disponibilità intermittente; se non viene intercettata nel momento giusto svanisce, perché la gente continua a fare le belle cose che ci propone il mainstream, il pensiero dominante, continua a giocare con i cellulari, con i social e in questo modo continua ad addormen-tarsi nella melassa della comunicazione e del consumo globalizzato.
LORENZO MALAGOLA:
Pongo un’ultima domanda a Diego Fusaro e poi apro al pubblico la possibilità di fare domande di-rette ai nostri ospiti. Nel passato, alla democrazia diretta si è accompagnato anche un certo grado di violenza, in varie forme, anche fisica. Che rischi vedi tu oggi, in questa parabola che abbiamo descritto, che rischi vedi di un ritorno a un certo livello di violenza nella nostra società?
DIEGO FUSARO:
Dunque io direi che nell’essenziale la violenza è pienamente sviluppata nella nostra società, una violenza certo che per sua essenza si presenta in forme diversificate rispetto a quelle che abbiamo sperimentato nel secolo trascorso. Quella oggi dominante è una violenza di tipo economico essen-zialmente, è una violenza immanente ai rapporti di forza, una violenza di ordine economico, che non ha più esigenza di esibirsi nelle forme plateali, quelle che Cuoco definiva “l’estetica dei sup-plizi”, di cui il Novecento ha fornito un grande teatro degli orrori, se così vogliamo definirlo. Oggi la violenza funziona, potremmo dire, in maniera immanente e quasi invisibile rispetto al sistema egemonico nell’ordine mondiale costituito. Pensate anche solo alla violenza dell’economia di mer-cato, come si abbatte nelle vite, rovesciandole, sconvolgendole, delle nuove generazioni, privando-le del diritto al futuro, privandole della possibilità stessa di un’esistenza radicata e prospettica, do-tata di un radicamento non solo simbolico, dell’appartenenza alla propria tradizione, alla propria storia, ma anche di un radicamento nel senso più eminentemente fisico e materiale: l’oicos, la fis-sa dimora. Le nuove generazioni sono coartate dal sistema economico allo sradicamento. Il nuovo paradigma è quello dell’ homo migrans, il migrante. L’obiettivo della mondializzazione non è certo quello di integrare i migranti, è quello di disintegrare i non ancora migranti, estendendo quel mo-dello di violenza continuamente subita anche dalle nuove generazioni, che per inciso sempre più vivono alla stregua di migranti, costrette come sono a fuggire a Londra o a Nuova York per fare i lavapiatti, anche se laureati in economia o in ingegneria: “le bellezze della mondializzazione” di-rebbero i soloni del pensiero unico cosmopolita dominante. Questo è lo scenario in cui ci trovia-mo. La globalizzazione, rovesciando la sintassi della neolingua dei mercati, ho proposto di ribattez-zarla la glebalizzazione, perché si sta producendo una servitù della gleba cosmopolita su scala pla-netaria, che si manifesta nelle forme economiche ma anche in quelle simboliche, nell’impoverimento spirituale di cui dicevamo prima riguardo ai cellulari. Io chiamo “i selfie della gleba”, quelli che continuamente, anziché protestare, – perché c’è un grado di miseria che in altre epoche avrebbe generato, con la sua rabbia gravida di buone ragioni, venti rivoluzioni francesi – si lamentano sui social, imprigionando la rabbia negli antri della coscienza individuale, veri atomi cosmopoliti lobotomizzati, selfie della gleba, come dicevo prima. E c’è una violenza economica in-credibile che si sta dispiegando, che però produce sempre anche una violenza simbolica dominan-te corrispettiva. I giovani che subiscono la violenza intanto si fanno i selfie, i giovani che sono pri-vati della possibilità di radicarsi in una casa, con fissa dimora, e che intanto vivono nell’Erasmus permanente il mito della erranza cosmopolita, i giovani che sono impossibilitati a costituirsi una famiglia, precarizzati come sono e al tempo stesso scendono in piazza a manifestare contro la fa-miglia, sono l’emblema di quelli che nella caverna platonica erano imprigionati e lottavano contro chi voleva liberarli. Ecco, questo è lo scenario della violenza immanente che si sta dispiegando nell’ordine della mondializzazione, è una violenza meno direttamente visibile, io per spiegarla an-che ai miei studenti uso sempre un’immagine che traggo da un breve apologo, è l’apologo del mandarino cinese, lo trovate canonizzato per la prima volta in René de Chateaubriand, il genio del cristianesimo, ma poi diventa famoso con Papà Goriot, il grande romanzo che tutti immagino ab-biate letto. Si immagina la scena seguente: due amici discutono a Parigi, uno chiede all’altro: «Immagina di poter mandare a morte premendo un pulsante qui a Parigi un Mandarino cinese e in cambio arricchirti immediatamente, accetteresti o no di premere quel pulsante?», l’amico ri-sponde: «Giammai, perché me lo impedisce la mia coscienza morale». Ora, la globalizzazione così com’è, con la sua violenza immanente e invisibile, fa sì che ciascuno di noi, quotidianamente, sen-za nemmeno saperlo, prema quel pulsante e mandi a morte Mandarini cinesi dall’altra parte del mondo. Pensate a quando acquistate le merci sulla rete internet a prezzi concorrenziali, ogni volta che premete quel pulsante muore un lavoratore in Cina, che in realtà è anche molto più vicino vi-sto che tra le bellezze della globalizzazione c’è quella per cui già i nostri diritti volano anche verso i paesi detti in via di sviluppo ma al contrario dobbiamo competere noi coi paesi in via di sviluppo e privarci dei nostri diritti, per inciso. Ecco, questa è la violenza incredibile della mondializzazione, la violenza ogni giorno crescente, con un paradosso tuttavia, che è una violenza invisibile: quello della globalizzazione è un manganello che non si vede, viene continuamente menato contro i gio-vani che nemmeno lo vedono. Questo è il paradosso della mondializzazione come violenza diret-tamente invisibile. Ecco, io credo che occorra partire da questa consapevolezza e debba essere in-nanzitutto una lotta culturale. Accolgo con grande piacere le parole poc’anzi pronunziate: occorre ripartire da una lotta culturale, cioè da un’acquisizione di coscienza nella cultura della propria po-sizione nel mondo e nei rapporti di forza in cui ci troviamo. Occorre quindi decostruire le gram-matiche del pensiero unico, pensare altrimenti, appunto, rispetto a come ci induce a pensare con automatico e irriflesso tecnicismo il pensiero unico. Provate a decostruire i pilastri del pensiero unico, ad aprire crepe nel muro del pensiero unico, rovesciando gli schemi e provando appunto a percorrere le strade platonicamente ci conducono via dalla caverna globalizzata in cui ci trovia-mo.
LORENZO MALAGOLA:
Raccolgo tre domande per poi fare un giro di tavolo.
DOMANDA:
Buonasera. Mi chiamo Foschi e sono un insegnante di storia e filosofia. Volevo chiedere questo. Riprendo lo spunto del professor Fusaro sulla questione dello Stato nazionale. Lei diceva «ricostrui-re lo Stato nazionale come baluardo nei confronti della mondializzazione, globalizzazione, etc.». Io credo che nessuno abbia timore di questo processo di ricostruzione dello Stato nazionale. In fondo abbiamo visto una mostra che ci presenta la ricostruzione di una Nazione dopo il disastro del fasci-smo, della seconda guerra mondiale. Quello che credo costituisca più obiezione sia la modalità con cui si intende ricostruire questo Stato nazionale, nel senso che le forze che presiedono questa operazione, chiamiamole sovraniste, populiste per intenderci, per semplificare, in questa fase ac-carezzano in maniera molto esasperata il tema del bisogno, fanno della ricostruzione della neces-sità di ricostruire lo Stato nazionale, un oggetto dialettico, come una lotta tra esclusi e tradiziona-listi. Quindi lo Stato nazionale dovrebbe ridiventare lo Stato che fino in fondo soddisfa il proprio bisogno di casa, lavoro, felicità, nei confronti di una classe politica rappresentata anche in qualche modo dalla politica nazionale che invece questo avrebbe impedito. Ora nel momento in cui si toc-ca questo tema si va poi a intrecciare il tema della felicità, alla fine dei conti non mi accontento del lavoro, dello spazio, di non aver più dei vicini che rompono, ma desidero la felicità. Ecco, sap-piamo esattamente dove vogliamo andare? Nel momento in cui si sbollina questo tema, non si ca-pisce che la felicità non è una questione di strumentazioni politiche, democrazia più o meno diret-ta ma è anche una questione profondamente esistenziale e culturale, che un sistema per quanto perfetto non risolve.
DOMANDA:
Io volevo fare una considerazione che mi ha suscitato il suo discorso. Mi sono meravigliato effetti-vamente perché credo che, e non mi vergogno di dirlo, questo sia il classico esempio di essere cat-tivi maestri. Settant’anni di pace noi abbiamo avuto questo Paese, ma da dove vengono set-tant’anni di pace? Da un sogno europeo, perché non dovevano più esserci guerre. Noi veniamo da un sovranismo esasperato di secoli che hanno portato in questa Europa solo guerre, distruzioni, e dove sicuramente anche lì chi faceva il bello e il brutto era la classica oligarchia, quella che mi sembra voglia creare lei oggi. Ha elencato tutto questa situazione di disastro dovuta all’economia: è vero sicuramente. Ma secondo lei lo Stato sovranista potrebbe evitare tutto questo strapotere dell’economia? Io credo che l’economia debba essere governata da una politica sana a livello eu-ropeo, e non solamente come Italia, perché noi siamo parte di tantissime nazioni che hanno vissu-to contemporaneamente il dramma di secoli e la ricostruzione in questi settant’anni di pace. Io me lo ricordo mio padre quando mi parlava di questa guerra, e di mia madre quando cadevano le bombe. Non dimentichiamo che l’ottanta per cento questa Regione lo esporta, ricordiamolo. Allo-ra che la democrazia, che l’Europa abbiano bisogno di essere tutelate, curate, proprio perché in questo momento c’è una paurosa ignoranza, sono d’accordo. Ma il modo che lei ha descritto ci fa tornare indietro di due secoli e uno contro l’altro armati. Altro che balle. Il sovranismo comporta la guerra.
DOMANDA:
Volevo sapere se, secondo i due relatori, questo governo, che è formato da tre mesi, potrà soste-nere le battaglie dell’economia e della politica.
DIEGO FUSARO:
Parto dalla seconda domanda, che era quella più espressamente polemica. Io credo che nel mio intervento, salvo errori, di non aver mai usato l’espressione sovranista o sovranismo, io ho parlato di Stato sovrano nazionale democratico. Lei ha ragione a dire che nel Novecento gli Stati hanno prodotto anche delle tragedie evidentemente, ma non dimentichiamo ciò che mai si dice, che gli Stati sovrani nazionali sono stati i luoghi delle conquiste delle classi lavoratrici, i luoghi delle con-quiste welfaristiche delle classi più deboli, proprie quelle conquiste che con l’indebolimento degli Stati nazionali sovrani, stanno sparendo una dopo l’altra. Io ripeto, ritengo fondamentale, l’ho det-to o lo ridico, non ho mai parlato dell’idea di Stati nazionali che possano aggredire la Spagna o di-chiarare guerra alla Polonia. Semplicemente ho parlato di Stati sovrani nazionali come baluardi della democrazia quindi esattamente il contrario di ciò che lei mi ha, debbo dire ingenerosamen-te, attribuito. Parlavo di democrazie, io non conosco altri luoghi in cui esistono le democrazie oggi se non nei pur perfettibili Stati sovrani nazionali. E secondo lei è democratica la Banca centrale europea? Io non credo sia molto democratica. Nessuno di noi l’ha votata, nessuno di noi può par-tecipare alle sue riunioni. Il parlamento italiano con tutti i suoi limiti, debbo dire mi sembra anco-ra più democratico, almeno sulla carta. Possiamo votare, possiamo almeno in certa misura espri-mere il nostro giudizio. Quindi è questa la cosa fondamentale. Per cui la sua ricostruzione fumetti-stica della storia della civiltà, per cui siamo stati sempre in guerra e poi dal ‘45 in poi c’è stata la pace, mi pare che non renda ragione di quello che realmente è avvenuto. La pace c’è stata per molti motivi, vuoi per una guerra fredda che congelava i conflitti, vuoi per tante altre ragioni. Ma non è che c’era l’Unione europea che ci proteggeva dalle guerra. Paradossalmente, dopo l’’89 le guerre sono aumentate infinitamente. Se fosse stata l’Unione europea a proteggerci dalle guerre, non si spiega perché dal ‘45, quando non c’era l’Unione europea, non ci sono state guerre, e dopo l’’89, quando è subentrata l’Unione europea, hanno ripreso invece a proliferare le guerre. C’è un “sequitur”, direbbero i logici. Rispondo così a questa domanda: ben vengano gli Stati nazionali in funzione della democrazia e non dell’imperialismo, chiaramente. Per quel che riguarda la terza domanda, la risolvo brevemente. Io credo che il nuovo governo durerà poco in ragione del fatto che, a torto o a ragione, sta andando a colpire alcuni nuclei fondamentali che non possono che es-sere sgraditi ai signori della mondializzazione. In particolare credo che faranno cadere il nuovo governo utilizzando il tema del razzismo contro la lega e il tema della corruzione contro i cinque-stelle. Hanno già iniziato con la retorica dell’antirazzismo in assenza di razzismo. Per fortuna in Italia, salvo casi sporadici di persone «prive di logos», direbbe Hegel, non c’è razzismo. L’antirazzismo serve oggi come alibi politico per colpire qualcuno, evidentemente. Sulla prima domanda e chiudo in maniera celere, io sono perfettamente convinto, sono perfettamente convin-to del fatto che la felicità sia una componente fondamentale che riguarda l’individuo. La politica può creare le condizioni perché l’individuo si realizzi nella sua felicità, ma non può essere compito della politica, ci mancherebbe! Sarebbe un’istituzione totalitaria quella di una politica che si occu-passe della felicità del singolo individuo. La politica deve fare in modo che gli individui della co-munità umana siano nelle condizioni di poter perseguire e realizzare la propria felicità individuale. Questo è il rapporto, secondo me. L’individuo è intoccabile da questo punto di vista; lo Stato non deve neutralizzare l’individuo, deve porlo nelle condizioni di realizzarsi nella sua comunità demo-cratica di appartenenza, per cui credo che questo sia il modo forse più efficace per impostare la questione.
FRANCESCO BONINI:
Io vorrei chiedere al nostro amico di Venezia se lui si ricorda del governo Zoli. Io sono nato quando in Italia governava Adone Zoli, alla luce di questo fatto io mi astengo dal fare qualsiasi previsione sulla durata dei governi italiani, perché è una cosa assolutamente imprevedibile. Questo non signi-fica essere a favore o contro il cosiddetto establishment. Mi limito a ricordare che ragionare sullo Stato nazionale oggi non è possibile in sé; lo Stato nazionale deve essere inserito in un contesto. Quando l’Italia è nata, 1861, cioè quasi cento anni prima del governo Zoli, quando l’Italia è nata, ci si interrogava se fosse l’ultima delle grandi o la prima delle piccole potenza. E il problema era che l’Italia voleva essere la sesta delle grandi potenze. Quindi diciamo così: il campo degli Stati nazio-nali è stato sempre stato un campo competitivo, come tutte le istituzioni politiche. Anche i comuni tra loro competono nell’ambito provinciale per assicurarsi le risorse. Quindi si può parlare, anzi di deve parlare e io sono favorevole, di rivitalizzare l’ambito nazionale, ma sarebbe cieco e anche controproducente assolutizzare l’ambito nazionale, perché in un sistema multilevel, quando Apple fattura metà del Pil dell’Italia, è un discorso che è utile, è bello, ci ravviva il cuore, ma non serve, diventa disfunzionale ai nostri stessi interessi. Per cui noi dobbiamo combattere tutte le battaglie necessarie e il Governo attuale, a proposito della Diciotti, ne sta combattendo di sacrosante (leg-gete l’editoriale del Messaggero di oggi che è assolutamente condivisibile, non vi dico come va a finire, lo potete trovare in rete); però queste battaglie hanno un senso, portano a dei risultati sol-tanto se sono dentro un contesto, altrimenti sono propaganda o sono discorsi autoconsolatori. Quando discuto con mia moglie in casa, io mi accaloro e mi costruisco un piccolo mondo che piace a me, però poi alla fine non risolvo il problema che ho eventualmente, il problema che ho con mia moglie e i miei figli in casa.
E quindi, benissimo il livello nazionale. Come dieci anni fa abbiamo giustamente enfatizzato il li-vello locale quando parlavamo di federalismo, adesso si parla di Stato nazionale. Va bene parlare di Stato sovrano ma teniamo conto che dobbiamo lavorare in un contesto, sennò noi ci divideremo tra favorevoli all’establishment o contrari all’establishment e non caveremo un ragno dal buco e continueremo a sottostare a interessi molto più grandi di noi.
LORENZO MALAGOLA
Grazie ai nostri relatori, grazie a tutti voi che avete partecipato e vi rinnovo l’invito alla mostra promossa dalla Fondazionei De Gasperi a settant’anni dall’assemblea costituente: “L’Italia è”.
(trascrizione non rivista dai relatori)