Chi siamo
TESTIMONY
Organizzato da Tracce
In dialogo con Paul W. Kahn, Robert W. Winner Professor of Law and the Humanities, Yale Law School. Modera Mattia Ferraresi, caporedattore Domani
Il filosofo e giurista di Yale si confronta con la ricerca di significato, il rapporto tra vita e fede e il tema del Meeting a partire dal libro in cui racconta il suo approdo a una visione cristiana del mondo.
TESTIMONY
TESTIMONY
Organizzato da Tracce
Venerdì 23 agosto 2024 ore 14:00
Arena Tracce A3
In dialogo con:
Paul W. Kahn,
Modera:
Mattia Ferraresi, caporedattore Domani
Ferraresi. Buonasera a tutti. Sono onoratissimo di essere qui; ringrazio Tracce per lo spazio, l’opportunità e l’ospitalità.
Mi chiamo Mattia Ferraresi, sono un giornalista e lavoro per un quotidiano che si chiama Domani. L’ospite, che già ieri ha fatto un intervento al Meeting, si chiama Paul Kahn; è un giurista, professore alla Scuola di Legge di Yale, e si è occupato di tantissimi argomenti nella sua carriera, ma c’è un libro che ha scritto alcuni anni fa che mi ha cambiato: dopo averlo letto, qualcosa in me è cambiato. Questo libro è il racconto della sua traiettoria esistenziale alla luce di alcuni fatti importanti che sono accaduti e di cui vi parlerà.
Perché dico che mi ha cambiato?
Perché raramente mi era capitato di incontrare una persona che aveva preso così tanto sul serio le domande esistenziali fondamentali.
In questo suo racconto, che è il racconto di una storia, ma anche una riflessione sulla sua vita, emergono potentemente tutte le grandi domande sull’amore, sulla fede, sulla morte, sulla possibilità del bene dentro un mondo dove tutto sembra invece chiudersi, morire e finire nel nulla. Tutte le grandi questioni che da sempre infiammano il cuore di tutti gli uomini, sono dette in un modo così profondo e bello che mi hanno colpito tantissimo e mi hanno convinto che qui al Meeting dovevamo ascoltare Paul non solo nella sua veste di analista teorico della politica, ma anche per incontrare lui e la sua vicenda.
Prima di lasciargli la parola, vi anticipo che questa presentazione abbiamo deciso insieme di farla in un modo un po’ particolare: gli vorrei lanciare alcuni spunti traendoli dal libro che, purtroppo, non è disponibile in italiano e, invece di fargli delle domande tradizionali, mi appoggerò su alcuni passaggi fra le centinaia che mi hanno colpito e che hanno acceso qualcosa in me, anche per dare l’opportunità a tutti di incontrare le sue parole. Detto questo, vi chiederei di accogliere Paul con un applauso, anche perché è molto emozionato nel raccontare esperienze che sono molto intime e personali. Gli chiederei di introdurci al suo libro e alla sua vita.
Kahn. Innanzitutto grazie mille per questa introduzione, grazie a tutti voi per essere qui e grazie dell’invito. Ho passato già qualche giorno qui al Meeting e devo dire che è un evento davvero straordinario. Testimony è un libro che comprende diversi livelli.
A livello superficiale, si tratta alla fine di una storia: è la storia della vita di mia madre negli ultimi cinque anni, quando è successo qualcosa di veramente straordinario. Inizia con una confessione che lei ha fatto, rivelando di aver avuto una relazione extraconiugale 30-40 anni prima, e questo ha scatenato l’ira, la rabbia furibonda di mio padre, che non ha potuto accettare in alcun modo questo tipo di tradimento. È stata una risposta che è diventata un grosso conflitto, quasi una tortura. Pertanto, si tratta di uno scontro tra l’amore e il tradimento. E poi, dopo anni di questo lungo conflitto, è arrivato il momento in cui è mancata mia madre; lei era malata di cancro, quindi a un certo punto se n’è andata. Ed ecco che il libro si concentra più sull’amore e la morte, in quanto mio padre ha continuato a dover fare i conti con questo senso di ingiustizia per quello che era successo. Poi c’è stata tutta la parte per capire cosa si dovesse fare e tutto il processo che è venuto dopo questi avvenimenti. Questo è, potremmo dire, il livello più superficiale. Poi ci sono altri livelli che entrano più in profondità rispetto a quello che ho raccontato.
Il secondo livello del libro è il desiderio molto forte di scrivere un libro sull’ultimo secolo, i miei genitori diventano rappresentanti di alcuni dei movimenti più profondi e dei problemi dell’ultimo secolo.
Mia madre era una rifugiata dalla Germania nazista. È andata via dalla Germania nel 1938 per trasferirsi a New York. Mio padre è un figlio della Grande Depressione. È nato in una famiglia abbastanza povera nel 1923, e quando suo padre è morto non c’era alcuna sicurezza sociale, la depressione è arrivata, e lui è passato da un parente all’altro, per poi essere mandato in guerra. Ha combattuto con l’esercito di Patton in Europa. Uno dei temi del libro è che lui è tornato a casa con PTSD (disturbo da stress post traumatico n.d.r.). Non lo abbiamo saputo fino a molto tempo dopo e lui non lo ha mai veramente compreso. Quindi vedo queste storie come profondamente intrecciate con la storia del XX secolo. Si parte dalla Germania nazista e dalla Grande Depressione; si passa attraverso la Seconda Guerra Mondiale e poi si arriva ai movimenti di liberazione degli anni ’60, che sono stati momenti fondamentali di questo secolo, con la rivoluzione dei diritti civili, la rivoluzione dell’amore libero e la promessa di autenticità di quegli anni. Volevo quindi raccontare una storia sulle scelte e i cambiamenti del XX secolo.
C’è poi anche un terzo livello che ritengo sia quello più importante. È un livello di riflessione filosofica sui temi molto importanti a cui ha fatto prima riferimento Mattia. Questo si vede chiaramente dai titoli dei vari capitoli. Il primo capitolo si intitola Truth (Verità) e riguarda il rapporto tra potere e verità. Il secondo si intitola Memory (Memoria) e riguarda quella che è la patologia della memoria. Di solito si tende a pensare che la patologia della memoria sia l’oblio, ma io sostengo anche il contrario, cioè che ci sia anche l’incapacità di dimenticare, che può essere una parte patologica della memoria. Il terzo capitolo è intitolato Death (Morte) e il quarto capitolo Faith (Fede). In ogni capitolo cerco di cogliere in maniera approfondita le tradizioni di pensiero più ampie del mondo occidentale e come queste possano emergere nello svolgersi della mia vicenda familiare.
Ferraresi. Dopo questa introduzione, vorrei leggervi alcuni passi. Li ho raggruppati secondo alcuni temi e chiederò poi a Paul di commentarli e di spiegarceli meglio. Trovo che alcuni di essi siano illuminanti, anche per il modo in cui lui descrive.
In una parte sulla confessione della madre Paul riflette: “La confessione equivale a una nuova affermazione di libertà. Confessando, immaginiamo la possibilità di rifare noi stessi. Implicita nella confessione è la fede nella possibilità di un nuovo inizio. La narrazione della confessione è l’apparizione della libertà davanti a un Dio onnipotente. Nel nostro mondo moderno, la confessione è il punto in cui libertà e amore si confrontano. Le uniche confessioni che contano sono quelle fatte alle persone che amiamo. Mia madre voleva dalla sua confessione quello che la gente ha sempre voluto: essere messa a parte del significato eterno dell’universo, sentirsi dire che non era sola e che la sua vita era legata a un ordine più grande, che era davvero amata.”
Kahn. Spiegherò questa parte sulla confessione che è proprio l’inizio del libro. La storia comincia con la confessione di mia madre che, quando compie 75 anni, decide di rivelare a mio padre che 30 anni prima aveva avuto una relazione extraconiugale. Un po’ l’aveva fatto con l’idea di verità, per poter vivere gli ultimi anni della sua vita in pieno riconoscimento e accettazione reciproca, in maniera più trasparente. Pensava che dicendo questa cosa a mio padre, lui l’avrebbe accettata e perdonata senza problemi, ma mio padre non era un uomo molto facile e ha considerato questo fatto come inaudito. Non l’ha mai accettato, non poteva funzionare. La situazione è diventata davvero terribile, quasi una tortura per lui, e non ha mai potuto perdonarla, ma nemmeno lasciarla.
Tutto questo mi ha portato a fare una serie di riflessioni, partendo dall’idea che la confessione sia un atto di libertà e di potere allo stesso tempo. Per mia madre non c’era la sensazione che dire la verità potesse portare a una specie di punizione o di distruzione. Lei ha detto ciò che voleva dire perché voleva esprimere l’idea: “Io l’ho fatto, l’ho fatto io, mi sono sentita libera, è stato un momento eccezionale, questa sono io.” Questo è l’atto che l’ha spinta a dire la verità. Lei voleva una sorta di riconoscimento di questo momento eccezionale che era accaduto nella sua vita. Ma nella confessione ci sono due tipi di movimento: c’è un’azione di libertà e poi c’è un’insistenza sull’io, sull’io che ha fatto ciò che ha fatto, insistendo su questa identità del soggetto. È quasi un dramma della libertà, come dire: “Tu mi devi riconoscere per quello che sono e per quello che ho fatto.” Lei era attratta da questa idea di autenticità. E c’è anche un’altra dinamica all’interno di questa relazione della confessione, che è tra la verità e il potere. È come quando ci confessiamo di fronte a Dio: non è che Dio non sappia le cose che stiamo confessando, ma siamo noi che vogliamo essere riconosciuti per quello che siamo e per quello che abbiamo fatto. È un’espressione di libertà. E allora, perché mia madre pensava di poter essere accettata senza considerare che suo marito potesse non prenderla bene? Questo rapporto della confessione riguarda anche la verità e il volersi occupare di qualcuno. Questo è andato oltre la capacità di mio padre; mio padre non aveva questo tipo di parametro e quindi, invece di accettare e di continuare a occuparsi dell’altra persona, ha reagito in maniera completamente diversa. Questo ci porta a chiederci: in una relazione d’amore, cosa viene prima? La verità può essere molto potente, può essere anche distruttiva e può essere troppo in alcuni momenti. Mia madre non aveva fatto queste considerazioni; era rimasta legata a questa idea più romantica della riconciliazione attraverso la verità e invece questa decisione ha portato poi a una storia di conflitto e di guerra.
Ferraresi. Ci sono pagine molto belle e particolarmente originali. Come ci ha detto Paul, lo sfondo in cui tutto avviene sono gli anni ’60 e ’70, che sono stati anni di grande cambiamento culturale e antropologico.
Parlando di sua madre, scrive: “Ha abbracciato la rivoluzione. Mio padre poteva finalmente abbandonare la giacca e la cravatta e mettersi la tuta da operaio. Lei, invece, avrebbe rinunciato alla monogamia.” Qual era la lezione più forte degli anni ’60? La libertà di reinventarsi o il sesso libero?
Kahn. Sì, come dicevo, questa storia attraversa diversi momenti: la depressione, le migrazioni dalla Germania, la Seconda Guerra Mondiale; i miei genitori sono riusciti a sopravvivere a tutte queste vicende. Il libro risponde anche a tutta una serie di valori e situazioni emergenti degli anni ’60. A partire dall’idea di autenticità, dell’autocreazione, della verità, di come possiamo fare per creare la nostra verità. Questo è un progetto che tutti noi possiamo considerare anche nel nostro contesto politico, un’idea di rivoluzione, la rimozione delle aspettative. Tutto ciò aveva motivato molto i miei genitori, ma alla fine è stato un vero e proprio disastro; è stato un errore, perché viviamo in un mondo dove, di fatto, non possiamo creare noi stessi. Il significato ci arriva da ciò che ci circonda. L’amore è l’esperienza di essere accettati da qualcun altro. È un ordine imminente del significato. In questo senso, i miei genitori sono stati traditi dalla rivoluzione degli anni ’60, che prometteva loro l’idea dell’autenticità. Questa autenticità contrasta un po’ con quella che è invece la vera libertà e l’indipendenza. L’idea di autocostruzione, di libertà individuale, ha creato comunque una serie di strutture come la comunità, la famiglia, i bambini, che sono importanti, perché queste sono le strutture in cui riusciamo veramente a definirci e a trovarci ed è lì che accettiamo: questa è la mia verità, questa è la mia vita. I miei genitori pensavano di potersi definire diversamente, ma non era così. Un altro aspetto che mancava negli anni ’60 è il sacrificio. Il “per chi mi sacrifico” diventa un fattore determinante di significato nella nostra vita.
Ferraresi. Sentite cosa scrive sull’autocreazione: “La mia vita è stata impostata profondamente e direttamente contro questa idea di autocreazione individuale. Al centro di tutto ciò che faccio e di tutto ciò che penso c’è il fatto di amare. Ho discusso e combattuto contro l’idea che le nostre vite acquistino significato attraverso le decisioni che prendiamo. Anche quando mettiamo in quelle decisioni tutte le capacità di riflessione di cui siamo capaci, non è sufficiente. La volontà e la ragione non sono le fonti di una vita piena di significato. Il significato esplode nella nostra vita dall’esterno. Arriva come un atto di grazia. Ci prende e ci dice chi siamo, indipendentemente da ciò che avremmo potuto pensare o da come avremmo potuto scegliere. I miei genitori stavano recitando, stavano esplorando, ma non erano chiamati”.
Kahn. Aggiungo solo un paio di idee al riguardo. A livello politico, a livello sociale, ci sono delle patologie molto interessanti oggi. Una di queste è la capacità di amare, perché ormai ci concentriamo solo su noi stessi. Vogliamo trovare la necessità di costruire noi stessi. Però io vado un po’ contro questa idea del modello decisionale, è come se noi potessimo veramente decidere in qualsiasi momento cosa fare. Non che non possa accadere, però inviterei ciascuno a provare a sentire il momento, a capire qual è la direzione della propria vita in quello che sente e in quello che vede. Anche a livello personale, viviamo in un mondo che ci spinge e ci tira attraverso strutture di significato. E in tutto questo, un’altra delle grandi patologie del nostro mondo è la secolarizzazione, una certa idea della libertà, ma libertà di scegliere cosa? Di diventare cosa? Dove vogliamo andare? E allora il libro diventa anche una meditazione, una riflessione sull’amore, che è il vero elemento che ci può dare la libertà di fare ciò che desideriamo.
Ferraresi. Sull’amore, un altro passo che vi leggo: “L’amore è tutto ciò a cui possiamo aggrapparci e ci arriva sempre allo stesso modo, quello del neonato. Viene da fuori del nostro mondo ordinario, ma ci dice pienamente e completamente chi siamo. Questa visione dell’amore mi rende una persona religiosa, anche se non ho un credo religioso convenzionale, sono troppo figlio di mio padre per questo. Ma so di cosa parlavano i Santi e i Profeti, del bisogno di grazia nella nostra vita e della solitudine assoluta della morte senza questa grazia. L’amore rende possibile assumere il peso della morte, ma non lo rende più facile”.
Kahn. – 0:40:01 – Una buona parte del libro si occupa proprio del problema della morte. E il problema per i miei genitori non era tanto la morte in sé o il fatto dell’invecchiamento, quanto il sentire che stavano invecchiando, anche con tutte le patologie, soprattutto mio padre, che soffriva della sindrome da stress post-traumatico. Lui era rimasto bloccato nella guerra in cui aveva combattuto. E allora a questo punto ci si chiede quali siano le risorse per poter affrontare il tema della morte. Io ne parlo, descrivo queste questioni, anche con una visione della religione nel nostro mondo laico, nel mondo secolare, perché la religione non è appannaggio solo della Chiesa, non è monopolio della Chiesa. La nostra vita è chiamata a trovare un significato, che siamo religiosi o meno, e il significato legato all’idea dell’amore è proprio il sacrificio. Cosa siamo disposti a fare? Se non c’è questa risposta di fronte al sacrificio, difficilmente avremo l’amore e questo è ciò che mio padre non è stato disposto a fare: il sacrificio. Per questo poi non c’era più l’amore. Allora possiamo anche chiederci come possiamo confrontarci con il tema della morte. Il sacrificio è come una realizzazione del significato, è come una transustanziazione che viene vista anche nella Chiesa, è ciò a cui vogliamo sentirci collegati, a qualcosa di più grande. Vogliamo sentirci chiamati verso qualcosa di più ampio, di più vasto. Ed è lì che troviamo il vero senso della vita. L’idea di essere chiamati da qualcuno, questo è l’amore. L’amore sta proprio nell’idea di sentirsi chiamati, di sentirsi richiesti da qualcuno. È lì che abbiamo la possibilità di fare la scelta di continuare con il nostro sacrificio.
Ferraresi. Nel crescendo del libro c’è, a un certo punto, proprio una battaglia con la fede, una battaglia con Dio. Vi leggo questo passaggio sulla fede che mi ha colpito. “Non c’è da stupirsi se nell’epoca della fede ogni giorno si concludeva con una preghiera a Dio e con la speranza di essere ancora vivi il mattino successivo. Ognuna delle mie giornate si è conclusa senza una preghiera così sentita. Ora, ripensando a quei momenti, mi rendo conto che stavo mettendo in atto una mia forma di preghiera. Il cristianesimo ha offerto una redenzione personale e noi occidentali abbiamo accettato volentieri l’offerta. Non avevamo più bisogno di liberarci del corpo come un peso per il pensiero. In effetti la ragione non era più il valore più alto; era stata spodestata dall’amore. A differenza della conoscenza, l’amore è sempre del corpo. L’enigma della relazione del corpo con l’amore, e di entrambi con la morte, è al centro del mistero di Cristo: “Chi crede in me non morirà mai.” Chi può credere a questo oggi? La nostra epoca secolarizzata non è tornata alla premoderna fiducia nell’immortalità. Siamo invece legati al corpo e, senza la fede, siamo legati alla morte. Per la maggior parte viviamo come cristiani che vogliono l’immortalità corporea, ma senza crederci davvero. Vogliamo la promessa ma abbiamo perso la fede che la rendeva possibile”.
Kahn. Il libro è rivolto principalmente a un pubblico laico; non so bene come potrebbe essere ricevuto da un pubblico non laico. Mi occupo di approfondire anche tutta una serie di termini che riguardano la fede nella società laica e tutto ciò che questi termini comportano per noi. Parto dalla scoperta della fede, collegata al tema dell’amore di cui parlavo prima e dalla scoperta dei riti della fede. Riti della fede che, oggigiorno, se vogliamo, non ci sono più. Ci inventiamo dei riti, dei rituali, perché quelli tradizionali ormai sono stati quasi svuotati del loro significato.
All’inizio parlo anche dell’esperienza di quando si portano i figli a dormire e si legge loro una storia. Questo può essere visto anche come una sorta di rituale e c’è qualcosa di implicito in questo rituale, quasi come un mantra a cui ho pensato continuamente: “Io vivo, tu vivi, io muoio.” È questo che vedo nel genitore che osserva il figlio che ascolta la storia, rendendosi conto che non gli sopravviverà. Vedo la morte nell’immagine di mio figlio che ascolta la storia. Ed è qualcosa di triste, se vogliamo, perché sentiamo un pesantissimo fardello e pensiamo a tutto ciò che perderemo di quello che accadrà quando non ci saremo più. Questa è un’idea di base cioè che la vita finisce, esiste solo in maniera temporanea.
Cerco anche di dire che oggi si cerca di sviluppare tutta una serie di rituali o pratiche proprio per far fronte a questa sensazione, a questa idea. Parlo, per esempio, degli esercizi spirituali che io faccio ogni sera prima di andare a letto e dell’importanza dell’idea dell’amore di cui ho parlato prima. Racconto, per esempio, di un amico che non ha figli e a cui ho parlato del fatto di leggere storie ai bambini prima di addormentarsi e di vedere l’idea della morte nell’osservare il figlio che ascolta la storia. Questo ha scioccato il mio amico, perché vede la combinazione improvvisa di innocenza e morte, ma è qualcosa di cui dobbiamo fare esperienza, qualcosa su cui dobbiamo davvero riflettere: come possiamo gestire questa sensazione?
Il secondo punto di riflessione riguarda, da un lato, tutto ciò che ci offre il cristianesimo e, dall’altro, ciò che ci offre la tradizione classica. Ho studiato filosofia classica e il tema dell’immortalità mi ha sempre attratto, anche se oggi forse non è più così attuale. Possiamo davvero cercare di recuperare questa idea dell’immortalità e vedere dove collocarla all’interno del cristianesimo.
Ferraresi. Ci sono due passaggi che vi voglio ancora leggere prima di concludere. Riguardano entrambi la fede. Ve li leggo e li commentiamo brevemente, poi ci salutiamo. “Se cerchiamo di misurare gli oggetti del nostro amore con la misura della giustizia, non saranno mai all’altezza. Questo è ciò che intendeva Gesù quando ricordava ai suoi ascoltatori che tutti hanno peccato. Dobbiamo arrivare all’amore pronti a perdonare e pronti a essere perdonati. Tra il dolore di mia madre e la rabbia di mio padre, sceglierei l’amore invece che la giustizia. Mio padre, che rifiutava profondamente l’ebraismo, è rimasto un ebreo fino alla fine. Suo figlio, che rifiutava ogni forma di religione organizzata, è diventato cristiano”.
Kahn. Un aspetto molto profondo riguarda proprio il rapporto tra giustizia e amore e lo si può affrontare sia dal punto di vista politico sia dal punto di vista personale. Ci sono tantissimi parallelismi che emergono sia nella vita personale sia nella vita politica all’interno delle comunità. L’esperienza dell’amore spesso viene considerata come ciò che viene prima della giustizia. Tutti nasciamo in uno Stato, in una comunità politica, ma non ci chiediamo se essa sia giusta al punto da sentirci autorizzati a farne parte, ad entrarci. Sentiamo comunque un richiamo, una chiamata a questa comunità politica dovuta al senso di appartenenza, a un certo patriottismo, forse, e ovviamente se poi vediamo che questa è giusta, che c’è giustizia, allora sentiamo anche un senso di attaccamento. Tuttavia, non siamo felici se non ritroviamo un significato di giustizia nelle cose.
Noi amiamo i nostri figli non perché è un atto di giustizia; può essere anche ingiusto a volte, ma amiamo perché vogliamo farlo e perché sappiamo che possiamo essere più felici, e questo ci dà poi il senso di giustizia. Quindi c’è proprio un rapporto relativo tra verità e amore, tra giustizia e amore. È quello che cerchiamo, ed è questa che è un po’ la terra promessa, se vogliamo, ma il viaggio comincia proprio dalla richiesta, dal richiamo dell’amore. Ci sono alcune cose che possono confonderci e portarci a mettere la giustizia prima dell’amore e qui potremmo parlare di teoria politica, di tutti i problemi collegati anche ai diritti umani nel mondo. Però deve essere l’amore che viene prima della giustizia. La priorità è quella di trovare noi stessi in un mondo che ha significato, dove l’amore viene prima della giustizia.
Nella seconda parte del libro, quando parlo di mio padre, penso che lui non sia stato in grado di fare questa scelta: non è riuscito a mettere l’amore prima della giustizia, ma ha sempre messo la giustizia al primo posto. Non riusciva a superare il trauma che aveva vissuto durante la guerra o forse in giovane età, durante la Grande Depressione. Non sto cercando di giustificarlo in nessun modo, però questo ha portato a uno stato patologico profondo che non gli ha permesso di invertire questi due valori. Mia madre, invece, era l’esatto opposto. Aveva un senso più caritatevole di amore che portava poi anche alla giustizia.
Nel libro ci sono due parallelismi importanti: da una parte, il giudaismo con i valori dell’amore, della giustizia e della trascendenza; dall’altra, la tradizione cristiana con l’immanenza e l’amore. Confermo ciò che ha letto Mattia: sono un ebreo laico, figlio di ebrei e cristiani. Ho parlato di questi tre livelli di approfondimento all’inizio del libro, ma alla fine la storia della mia famiglia non è una storia fuori dall’ordinario, è una storia abbastanza normale. L’intenzione, l’aspirazione massima che avevo per questo libro era proprio quella di fermarsi e riflettere in maniera significativa anche sulle banalità di tutti i giorni, su ciò che possiamo imparare osservando i nostri figli, le persone amate o riflettendo sulla morte. Il desiderio era proprio di mostrare come una vita riflessiva possa darci di più. Una riflessione che deriva dal rapporto tra padre e figlio, tra genitori e figli, o tra cittadini e Stato.
Ferraresi. Vi lascio con un ultimo passaggio che lasciamo senza commento. È un ringraziamento e un modo di salutarci con le parole di Paul: “L’enigma della mia vita non è che l’ingiustizia possa esistere in un mondo che è buono, ma che questo mondo, che è buono, finirà. Su questo sono in lutto da sempre. Possiamo amare in un mondo che è condannato, come è condannato ciascuno di noi? Possiamo trovare la strada verso l’infinito in un mondo finito? Questa è la vera lotta della fede con il dubbio oggi. Io non so se possiamo, ma sono convinto che dobbiamo.”
Grazie a Paul Kahn e grazie a tutti voi per essere stati qui con noi.