TESTIMONIANZE DALLE PERIFERIE: LIBERTÀ DIETRO LE SBARRE

Testimonianze dalle periferie: libertà dietro le sbarre

Testimonianze dalle periferie: libertà dietro le sbarre

Partecipano: Rosa Alba Casella, Direttore del Carcere di Modena e Direttore Reggente del Carcere di Rimini; Patrizia Colombo, Responsabile di Progetto della Cooperativa Sociale Onlus Homo Faber presso la Casa circondariale di Bassone, Como; Massimo Parisi, Direttore della Seconda Casa di Reclusione di Milano-Bollate. Introduce Nicola Boscoletto, Presidente Consorzio Sociale Giotto. In occasione dell’incontro proiezione del video-intervento di Guido Brambilla, Magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale di Milano.

 

NICOLA BOSCOLETTO:
Buon pomeriggio. Prima di tutto, il mio ringraziamento personale va al Meeting di Rimini per avermi invitato ad introdurre e moderare questo incontro. Un ringraziamento particolare poi va ai relatori per aver accettato questo invito ed essere qui con noi. Non è presente, per sopraggiunti impegni di lavoro, Guido Brambilla, Magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale di Milano: vedremo tra poco il suo intervento in video registrazione. Abbiamo con noi inoltre Rosalba Casella, Direttore del Carcere di Modena e Direttore Reggente del Carcere di Rimini, Patrizia Colombo, Responsabile di Progetto della Cooperativa Sociale Onlus Homo Faber presso la Casa circondariale di Bassone, Como, ed infine Massimo Parisi, Direttore della Seconda Casa di Reclusione, Milano-Bollate. Permettetemi ora di rivolgere un ringraziamento speciale a tutte le persone presenti in sala che, a vario titolo, operano nell’amministrazione penitenziaria, agenti di polizia penitenziaria, magistrati di sorveglianza e non, avvocati, direttori di carceri, operatori volontari, cooperatori e non da ultimo i molti ex detenuti e detenuti oggi presenti in permesso premio da più parti d’Italia. Le due rappresentanze più numerose, oltre ai sostenitori di Patrizia dal carcere di Como, sono nelle prime file, i detenuti seguiti dall’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII di Rimini che, con il Progetto CEC, Comunità Educante con i Carcerati, offre accoglienza e reinserimento a più di 300 detenuti. Come ormai da tradizione, c’è il gruppo di detenuti accompagnati dal Consorzio Sociale Giotto di Padova. Verso le periferie del mondo e dell’esistenza. Il destino non ha lasciato solo l’uomo. Testimonianze dalle periferie. Libertà dietro le sbarre. E’ questo il terzo di quattro incontri che il Meeting ha voluto mettere al centro di questa settimana ricca di approfondimenti.
Bisogna dare atto che di questo tema, di questa periferia che è una piaga mondiale tanto cara a Papa Francesco, il Meeting ha iniziato ad occuparsene già nel 2006. Fin dall’inizio, il tentativo è stato quello di mettere al centro lo scopo ed il contenuto vero della detenzione, o meglio della pena, perché come racconterò dopo, non c’è assolutamente coincidenza tra detenzione e pena. Dall’indulto del 2006 ad oggi, in tutta Italia, le uniche iniziative che si sono sviluppate arrivano dalla spinta del privato sociale attraverso l’attività del mondo del volontariato, delle cooperative sociali e delle associazioni. Attività che, dove hanno trovato personale dell’amministrazione penitenziaria di buona volontà, competente e responsabile, hanno portato buoni frutti. A queste persone dell’amministrazione va il nostro grande grazie. Fatta eccezione per queste poche iniziative del privato sociale e per queste poche persone di buona volontà presenti a vario titolo nelle carceri italiane, non è successo granché di buono. Se non si interverrà con urgenza, con interventi seri, in particolare per quanto riguarda l’accoglienza, il lavoro, la sanità, la situazione sarà destinata a peggiorare ancora. E’ vero che grazie al richiamo europeo, che è tutto dire, dei quasi 70.000 detenuti oggi siamo poco più di 50.000. Ma non fare niente in 7 m² invece che in 3 m², non credo cambi molto. E’ la sostanza che deve cambiare, il contenuto. Possiamo avere anche 100 m² a detenuto, ma nulla cambia. Poco cambia anche per quei detenuti che fino ad un attimo prima di uscire, usufruendo giustamente di nuove leggi, sono ritenuti, in particolare dai Magistrati di Sorveglianza, soggetti pericolosissimi, animali feroci da tenere in gabbia. Essere rimesso in libertà, soprattutto dopo tanti anni di detenzione, senza un percorso ed una prospettiva diversa da quella già conosciuta e praticata, è un gesto irresponsabile e per di più illegale, o più semplicemente un fallimento. E’ come se il 70, 90% di malati che entrano in ospedale ne uscisse morto. E’ come se il 70, 90% di chi va a scuola venisse bocciato. Importa relativamente che siano 10.000, 50.000 o 100.000. E’ la percentuale di successo che conta. Con queste percentuali, è veramente scandaloso ritenere che la colpa sia del malato, dello studente, del detenuto. La colpa è sempre degli altri. Scusate la schiettezza, ma non si può più perdere tempo, stiamo parlando di persone. Certo, hanno commesso degli errori e in certi casi gravissimi, orribili, ma pur sempre persone. Le situazioni di inaudita violenza a cui stiamo assistendo nel mondo e che sono sotto gli occhi di tutti, come quelle degli stermini di massa che ogni anno ricordiamo perché non accadano più, oggi sono più presenti nel mondo che neanche 60, 70 anni fa. Questi fatti parlano da soli. Prima di ascoltare i nostri relatori, ripercorriamo velocemente che cosa è successo dal 2006 ad oggi.

Proiezione diapositive

2006: Il lavoro nelle carceri con il Presidente Giulio Andreotti e il Magistrato di Sorveglianza Giovanni Maria Pavarin: si è voluto recuperare e rimettere al centro il senso della pena, in particolare chi ha scritto l’Art. 27 della Costituzione lo aveva presente ed indicava come strada per chi nella vita aveva commesso degli errori.
2008: Libertà va cercando, ch’è sì cara. Vigilando redimere, la grande mostra su esperienze di umanità dalle carceri italiane e del mondo. Vi voglio raccontare uno degli innumerevoli episodi successi quella settimana, per me particolarmente importante per il suo significato. Un episodio successo con i bambini. A questa mostra un po’ tutti facevano da guida, gli operatori, gli agenti, gli avvocati e anche i detenuti. Dopo il primo giorno, vedendo la presenza di molti bambini e ragazzi, ci siamo chiesti: “Che cosa facciamo”?, pensando ai programmi TV da fascia protetta, che non sono in fascia protetta, cioè i telegiornali che sono dei veri e propri bollettini di guerra, violenze, stupri, uccisioni, esempi pietosi e squallidi, liti continue e gossip. Telegiornali che sono tra i più visti anche dai bambini. Abbiamo deciso di fare un turno al mattino e un turno al pomeriggio solo per loro. In una di queste visite spiegata da un pluriergastolano, una bambina di 8 anni, Rebecca, alla fine della visita chiede all’ergastolano: “Ma perché non ci hai pensato due volte prima di sparare e uccidere?”. All’ergastolano si raggela il sangue, riesce solo a dire: “Sì, hai ragione, Rebecca, dovevo pensarci due volte”. E immediatamente scappa dietro alle quinte chiedendo di essere riportato in carcere e rinchiuso in cella. Un nostro operatore gli dà un calcio nel didietro e lo rimanda in mezzo alla mischia. Capite, aveva già scontato 17 anni di galera ma in realtà iniziava veramente a scontare la pena in quell’istante, di fronte e quella bambina di 8 anni che gli chiedeva perché, perché. Per 17 anni era stato solo rinchiuso dentro quattro mura inutilmente, senza capire niente, ma soprattutto senza scontare quello che tutti chiedono e invocano, cioè la pena. E così, tutta la settimana i bambini con l’arma più potente a chiedere: “Perché rubi? Perché hai ucciso? Perché ti droghi e spacci? Se ti fa male rovini te e la tua famiglia. Perché rubi alla vecchietta?”. Il dolore vero, la pena vera comincia con un incontro.
2009: Bar pasticceria Dai carcerati. Un grande ritorno per fare soltanto quello che in carcere si era imparato: i pasticceri. Niente da recriminare, solo da testimoniare e ringraziare. Detenuti, agenti, avvocati, operatori, assieme a lavorare e a servire. Un’esperienza indimenticabile.
2010: si ritorna per fare semplicemente i volontari per una settimana. Visita alle mostre e partecipazione ai vari incontri. In particolare, quello dal titolo Giustizia sarà fatta. Per finire, la sfida di calcio di ritorno Carcerati vs Resto del Mondo. Per la cronaca, la partita di andata, giocata in carcere a Padova, finì in parità. Quella di ritorno, a Rimini, purtroppo vide la vittoria de il Resto del Mondo.
2011: giornata dei detenuti al Meeting. La visita a varie mostre e incontri.
2012: Vigilando redimere, quale idea di pena nel XXI secolo? Un incontro che ha visto la partecipazione di un Magistrato brasiliano che da anni, assieme a molti suoi colleghi, ha seguito e aiutato una delle esperienze forse più belle di recupero dei detenuti, le APAC.
Vi voglio raccontare due episodi brevissimi che mi hanno colpito, che riguardano due Magistrati che ho conosciuto nei due viaggi fatti in Brasile: il primo, lo vediamo qui, piccolino con gli occhiali, al centro, Joaquim Alves De Andrade, giudice di esecuzione penale, un Magistrato anziano che, dopo una lunghissima carriera in cui ha dedicato la sua vita al sostegno di queste opere, alla fine del suo intervento al Congresso (a cui sono stato invitato), ha riassunto in una frase quello che ha imparato in tutta la sua lunghissima carriera di Magistrato. Cito: “Ricordatevi che nessuno va in cielo senza la raccomandazione di un povero”. Tomàz De Aquino Resende, Magistrato, esperto dell’inter-settorialità, ha raccontato l’esempio di un detenuto che è evaso in 1000 modi per dodici volte dal carcere, facendo i cunicoli, da una camionetta, facendosi venire a prendere dalla banda, facendo finta di essere ammalato nel trasporto dall’ospedale al carcere: insomma, dodici volte! Ad un certo punto ha deciso di mandarlo in questo circuito differenziato delle APAC, un carcere dove non ci sono agenti e armi. Aspettava ogni giorno che il suo telefono squillasse per dire: è fuggito! Passa una settimana, passa un mese, passano due mesi… non lo chiamano. Prende, parte e va in questo carcere, chiede del detenuto, c’è ancora! Si siede a parlare con lui e gli dice: “Adesso mi devi spiegare perché qui, che potevi fuggire in ogni istante, senza nessun problema, non sei fuggito!”. E lui, con le lacrime agli occhi, gli risponde: “Dall’amore non si fugge”. E’ la frase scritta in portoghese in questo carcere nello stato del Minas Gerais. Per la prima volta era stato voluto bene, era stato accolto e non era stato misurato, gli erano stati tolti i vestiti monocolore e gli erano stati dati dei vestiti normali.
2013: Una pena per redimere in una società più sicura. Un incontro che ha in qualche modo tentato di mettere al centro delle misure (seppur timide) che hanno segnato un primo cambiamento di prospettiva nelle nostre carceri. E siamo arrivati ad oggi, mercoledì 27 agosto 2014. E do la parola ora a Patrizia Colombo.

PATRIZIA COLOMBO:
Sono lieta per la grazia che sto vivendo. Ringrazio il Meeting per questa possibilità di raccontarmi. Sono Patrizia Colombo e sono qui oggi per cercare di raccontare come la mia vita sia diventata esperienza di bellezza che si rinnova di giorno in giorno; come tutto si è impastato e come tutto c’entra con la vita, se cerchi l’essenziale. Da 30 anni lavoro nel mondo della scuola, sono direttrice di una scuola d’infanzia della provincia di Lecco. Ho iniziato a lavorare nel carcere di Como poco più di 10 anni fa, come insegnante di italiano. Ho accettato questo lavoro perché avevo bisogno di un’altra entrata, in quanto mi sono ritrovata (mio malgrado) coinvolta in un fallimento che mi ha portato via tutte le sicurezze materiali: casa, soldi, macchina, insomma, tutto. Siamo rimasti io, mio marito, i miei 5 figli piccoli e qualche amico. Non avrei mai pensato di avere a che fare con il carcere, con i detenuti, era un mondo che proprio non conoscevo e che non mi interessava conoscere. Ma la vita è sempre altro, ciò che accade è sempre diverso da quello che ci si attende. E così è cominciata la mia avventura in carcere, prima con una cooperativa sociale, poi con un’altra, e infine, da 7 anni, per dare stabilità alla cosa, insieme ad alcuni amici di Gi Group, abbiamo fondato una cooperativa sociale che si chiama Homo Faber, che si è fatta carico della gestione di un piccolo paradiso all’interno del carcere di Como. Questo luogo di lavoro si chiama “Centro Stampa”, un luogo di lavoro dove si impara a diventare grafici pubblicitari ma non solo: si impara a diventare uomini. Nel tempo, infatti, è diventata una dimora dove l’umanità può rifiorire grazie all’incontro umano, grazie ad uno sguardo di bene che ti abbraccia, un luogo dove il lavoro deve essere fatto bene, perché attraverso il lavoro fatto bene si viene educati a stare insieme. Al “Centro Stampa” ci sono circa 20 persone che vengono al lavoro ordinate, pulite, col desiderio di incontrarsi e di incontrare. Io ho imparato a guardarli non come detenuti ma come uomini, come persone, come amici ai quali voglio molto bene. Io li guardo così ed anche loro mi guardano così. Ed ho imparato a voler bene perché sono stata per prima voluta bene. Da quando ho questa situazione, la mia mattina inizia sempre molto presto, con la recita delle Lodi. Poi, al “Centro Stampa”, la recita dell’Angelus prima di iniziare a lavorare, recitato anche da chi non è cristiano. La preghiera così diventa domanda di senso, come descritto bene in questa lettera di uno dei miei ragazzi, ve ne leggo un pezzo: “Si può sbagliare nella vita. La condizione in cui ci si trova diventa punto di forza e, se accettata, dagli errori si costruisce. Dio costruisce sui nostri errori, l’errore diventa la pietra d’angolo scartata dai costruttori, sulla quale costruire, investiti da uno sguardo che cambia tutta la tua vita. Uno sguardo, la preghiera di ogni mattina, ti fanno scoprire chi sei e, se accolto, ti fa vivere la realtà in maniera molto più viva e creativa, genera un flusso per cui ti senti al posto giusto nel momento giusto, e le circostanze non ti definiscono, anzi, le circostanze diventano il possibile certo”. “Sentirsi al posto giusto nel momento giusto”: questa affermazione mi colpisce sempre molto, perché se hai questa coscienza ti accorgi che tutto cambia, cambi tu, e la realtà si dispone rendendo semplice il vivere. Insegnare loro italiano con un metodo, correggere le bozze, vedere il prodotto finito, trovare un tempo dedicato a mettere in relazione una lettura alla vita, accogliere le fatiche del vivere, le delusioni o le gioie per la famiglia o per la pena, insomma, vivere con ciascuno e con tutti dentro un’affezione è un giudizio che non lascia nulla al caso, che non ti fa sentire solo ma che ti sostiene, ti comprende, ti riprende, a volte corregge, richiama. Questo fa sì che per il gruppo di lavoro diventi un’esperienza di cammino condiviso. Chi entra al “Centro Stampa” si accorge che c’è qualcosa di diverso, un clima si respira. La domanda spesso è: “Ma siamo in carcere?”. E dal clima, gli sguardi, e quegli occhi ti entrano nel cuore, tanto che chi entra desidera ritornare. Ogni volta che un detenuto viene trasferito si avverte una mancanza, un dolore, e spesso vengono rintracciati, solitamente li vado a trovare. Mi capita ormai spesso di andare in giro per le carceri, mi sento di starci fino in fondo. Chi esce quasi sempre ci cerca, e desidera continuare un rapporto. Chi ha fatto un incontro di bene dentro non ti lascia più. Oggi siamo in parecchi, continuiamo ad essere amici e a condividere la vita. Qualcuno dei miei uomini è qui presente oggi in sala: è rimasto così colpito e preso dalla nostra compagnia che non ci ha lasciati neppure al termine della pena. Ci aiutiamo a vivere le circostanze, le fatiche, le gioie, e insieme abbiamo deciso di dare stabilità a questo stare insieme, e di chiamare il nostro gruppetto i Maltrainsema, “messi insieme male”: non però come debolezza, ma come desiderio di accogliere chiunque voglia starci. Questo gruppetto di fraternità oggi è formato da ex-detenuti, da alcuni dei loro familiari, da alcuni genitori della mia scuola, che nel tempo si sono implicati, e da alcuni amici incontrati in questo cammino. Pensate che c’è chi ha nascosto anche l’argenteria nei primi tempi, quando invitava a casa gli ex-detenuti, ma solo nella conoscenza e nell’affezione la paura si è trasformata in apertura. A volte, vi assicuro, non è semplice: la fatica c’è, perché stare insieme così chiede tutto, chiede una lealtà. Ma c’è la consapevolezza che il motivo per cui ci si incontra vale, e che stare insieme così è più bello, più convincente, è una grazia. Tutto allora prende consapevolezza, perché comprendo che nulla accade per caso, è per me, è per noi, e questo è motivo di crescita e di conversione. Una volta al mese, generalmente il secondo sabato, da circa 7 anni si fa insieme la Scuola di Comunità, che in carcere si chiama “lettura condivisa”, che è guidata da un grande amico. Questo gesto è sostenuto da un gruppetto di amici fedeli, e questo è il punto di forza del nostro stare insieme, dentro e fuori dal carcere, perché giudicare la vita così ci fa essere più lieti e felici, ed è commovente come ogni volta che usciamo sperimentiamo come questo serva a noi. Ogni volta portiamo a casa più di quanto riusciamo a dare, e questo diventa per noi motivo di stupore e di presenza. Da tre mesi ho iniziato la stessa esperienza della Scuola di Comunità anche nel carcere di Bergamo, grazie all’invito di un ragazzo che era al “Centro Stampa”. Condivido questo momento con alcuni amici, e vi garantisco che si diventa davvero più amici, perché è un’esperienza che ti permette di fare un lavoro serio su di te, e la percezione di bene la si capisce dalle lettere che iniziamo a ricevere. Quindi, ciò che è partito da un fallimento (quindi da un di meno) oggi mi compie completamente. Mio marito e i miei figli e i miei amici sono tutti coinvolti con questa esperienza, al punto che oggi desidero lavorare tenendo tutto unito. Per me, essere un testimone, essere una presenza significa, lì dove sono, in carcere, a scuola, in famiglia, nel gruppetto di fraternità, con chi incontro, col direttore, gli agenti, il commissario, gli educatori, gli insegnanti, i genitori, i figli, gli amici, ecc., non dividere niente, essere leale, essere vera. E io per questo desidero dare la mia vita. Capite allora che la questione non è il carcere. A me è stata data questa circostanza, ad altri di fare altro, ma il punto è desiderare che tutto quello che capita nella vita sia vissuto con questa pienezza e con questa tensione al voler bene, prima di tutto a se stessi e poi a chi incontri. Ho sempre in mente l’acqua e la farina, che impastate danno il pane: la mia vita non riesco più a pensarla come farina o acqua, ma come il pane, tutto impastato e cotto a puntino: ecco, questa esperienza si è fatta proprio pane quotidiano.
Qualcuno di loro, vivendo così il carcere, è talmente cambiato che sta cambiando anche chi incontra, e non solo i detenuti ma anche gli agenti, gli operatori, i familiari o gli amici che vengono a colloquio, e questo è davvero incredibile. Ogni pomeriggio nella cella di due amici si trovano in otto a leggere a voce alta il Vangelo, i testi di don Giussani, per dire il Rosario per i nostri amici malati o per chi ha bisogno. Penso che questo modo di vivere la carcerazione sia segno evidente che il destino è presente. Certo, non per tutti è così, dipende dal tuo starci, dal tuo seguire, dalla tua libertà, e questo vale sia dentro che fuori; non c’è nessun obbligo, c’è solo un’adesione leale alla proposta. Il destino si sta rivelando proprio attraverso gli sguardi e gli incontri, e dentro un’umanità apparentemente distrutto, carcerata appunto, perdente per la nostra società, ma incredibilmente florida e carica d’amore. Il loro dolore, come quello di ognuno di noi, è misteriosamente fecondo: mi rendo allora sempre più conto che, come è successo per me, quell’umiliazione e la fatica del perdere tutto, per loro l’errore, il peccato, la carcerazione, la pena sono state l’occasione per vedere e comprendere come nella vita, quando abbiamo toccato il fondo, un uomo, un fatto accaduto 2000 anni fa, ma presente qui, ora, che si chiama Cristo, ci ha presi e ci ha cambiati. I miei uomini sono terra buona, spalancati alle grandi domande che tutti abbiamo, di felicità, di bellezza, di giustizia e di amore; desiderano essere capaci di valorizzare se stessi e gli altri, e io, per come sono capace, li valorizzo, voglio loro bene, e misteriosamente i loro sguardi brillano più forti, i loro occhi cercano, e anche chi appare più lontano si avvicina, ci sta, cambia, diventa più sereno, si toglie la mano dalla faccia ed è evidente come acquista bellezza. Come non essere grata di tutto ciò? Quando vivi con questo cuore ti si spalanca il mondo, e cominci a fare cose che non avresti mai pensato: la tua casa si apre, e diventi capace di accogliere ed educare come figli chi ospiti. Liu, un ragazzo cinese, quando è uscito dal carcere è stato accolto a vivere a casa nostra per tre anni, è diventato un figlio per noi. Oggi è felicemente sposato e padre di due bambine, capo di un’azienda italiana in Cina. Edmondo, anche lui ormai figlio, ha vissuto per più di tre anni in famiglia: oggi è qui in sala con noi e con sua moglie. Nella responsabilità quotidiana, è stata un’esperienza di bene grande che abbiamo ricevuto, con loro il nostro cuore si è aperto tanto che abbiamo accolto in casa contemporaneamente mio suocero, rimasto vedovo, e la mia mamma malata di Alzheimer, accompagnata quest’ultima al Padre con serena certezza. In questa accoglienza, la fatica c’è stata ed è stata motivo di giudizio con chi è per noi l’autorità. Non è mai stata vissuta però come obiezione, abbiamo imparato che non è un ragionamento astratto che ti cambia ma una realtà in carne ed ossa, un’esperienza. Ed è così sempre, ogni giorno una sfida, per esempio il nostro amico Zef ci ha chiesto quest’anno di andare in Albania e di tenere a battesimo il suo nipotino: per la stima e l’affezione a mio marito ha voluto si chiamasse Fabio. Da lì, la sorellina di undici anni ha espresso il desiderio di venire a studiare in Italia. Ora è qui al Meeting con noi, vivrà a casa nostra e l’accompagneremo in questo pezzo della sua vita. Proprio Zef mi ha scritto: “Chi l’avrebbe mai detto quattordici anni fa, quando sono partito dall’Albania con un gommone insieme a 70 uomini alla ricerca di un posto migliore, che sarei finito in carcere? Nella vita ho incontrato cose belle e meno belle, ma tutto ciò che io desideravo mi svaniva nel momento che lo avevo, non mi soddisfaceva, e tutto il desiderio che prima avevo cadeva in tristezza. Poi ho perso tutto, la libertà, il denaro, la felicità.
Al “Centro Stampa” ho incontrato delle persone che per me sono diventate presenza: Patrizia, Fabio, la loro famiglia, Alessandro, Stefano. Li guardo e capisco che il loro modo di vivere e il loro modo di affrontare la vita mi interessa: allora in me accade una cosa meravigliosa che si chiama “incontro”, l’incontro con quei volti mi fa vivere, mi rende uomo”. E un altro nostro amico scrive: “Il carcere è un luogo che blocca l’immagine di te stesso come davanti a uno specchio, un luogo dove vieni guardato solo dal buco della ferita del tuo reato, giudicato e classificato come quello che ha fatto quella cosa lì. Qui nessuno ti chiama mai per nome, sei un cognome e un numero, il tuo reato ti inchioda alla tua croce, alternativa non c’è. Ma quando inaspettatamente la carità ti viene incontro con un volto umano, tu non puoi non commuoverti, non puoi non “muoverti con” lei, perché ne resti colpito. Quando qualcuno ti guarda così, ti chiama per nome, tu capisci che è proprio quello che attendevi, quello che corrisponde al tuo bisogno, e la cosa più incredibile è che cercando di capire l’altro cominci a capire te stesso, te stesso e la vita. Oggi la vita ristretta ha un altro sapore, è molto più vera. Grazie alla bellezza che giornalmente viviamo insieme, sento questa Presenza che mi fa, che mi ha così cambiato e che sta cambiando anche chi è vicino a me, tanto da stupire e sconvolgere tutti quelli che incontro. Ultimamente, quando le circostanze me lo permettono, vengo fermato e mi chiedono: “Ma che cosa sta succedendo al “Centro Stampa”? Quelli che sono lì sono persone cambiate, e si vede dalle loro facce”. Io rispondo: “Vieni e vedi”. Non è così facile qui il “vieni e vedi”, perché il carcere su questo ha delle regole, ma già il chiedere di capire è un gesto che ti apre di più al Mistero, è una richiesta di cambiamento. Non possono raccontare che vivere così è un’altra cosa, è più bello, e vorrei che tutti lo capissero, perché è come la varicella del cuore, contagia e lascia il segno”. Sì, la gente domanda, gli agenti e i familiari si fanno più amici, comprendono che il tuo lavoro è ben fatto perché vedono gli uomini che cambiano, ma la mia non è una bravura: nel periodo più faticoso della mia vita mi sono sentita guardata così, l’ho imparato dai miei amici della fraternità di Varese. Da loro ho imparato a volere bene gratis, hanno preso tra le loro braccia me e mio marito così come eravamo, e così ho imparato a seguire e a obbedire. E’ proprio indispensabile seguire, perché da soli non si va da nessuna parte. Seguire significa essere più vero e leale con la propria possibilità di vivere quell’esperienza di bene che il nostro cuore cerca. In questo cammino allora non ti senti più solo, la vita è abitata.
Un altro dei ragazzi scrive: “Ero molto dispiaciuto quando mi dissero che mi trasferivano in questo carcere, non sapevo della bellissima sorpresa che aveva preparato per me nostro Signore. Sono capitato in cella con Alberto e Zef: vivendo con loro, mi sono sentito preso e affascinato da qualcosa che neanch’io sapevo. Era bellissimo, perché riuscivo a percepire anch’io quella gioia dentro il mio cuore. E se anche non comprendevo, nasceva dentro di me il desiderio incrollabile di capire, di andare dietro a quello che loro avevano incontrato, che li aveva così cambiati tanto da essere felici nonostante quello che gli era successo. Poi il colloquio per essere inserito al “Centro Stampa”, quel giorno, è stato veramente unico: il “Centro Stampa” e la compagnia oggi sono la sorpresa che Dio aveva preparato per me, sono il luogo dove Dio mi sta facendo conoscere me stesso, e dove ho trovato un senso alla mia vita. Il nostro modo di stare insieme mi fa sparire la sensazione di essere chiuso dietro le sbarre, mi fa sentire libero, mi fa ravvivare la speranza e la certezza del mio destino, che neanche la prigione può ridurre. Grazie, Patrizia, per la tua pazienza e umanità, ringrazio Dio perché ha fatto di te lo strumento per farmi capire che c’è una via, un cammino per la mia salvezza, per la quale vale la pena vivere, solo ma non da solo”. Ciò che mi ha scritto questo ragazzo mi fa dire che è vero che l’incontro non è a caso, ma mi fa anche riflettere sul fatto che tu puoi incontrare il vero e il bello ogni giorno, e non accorgerti: puoi non vedere, puoi non ascoltare, e questo è anche per me, ma grazie ad un’amicizia così l’altro mi corregge, mi mette nella posizione giusta.
A questo proposito, vi leggo un altro pezzo di lettere che diventa paragone con questo esempio: “Grazie sorella Pat: questa mattina mi sono svegliato con una grande letizia nel cuore e il profondo desiderio di comprendere meglio questo “centuplo quaggiù” che mi sta investendo ogni giorno. Chiedendo a Lui di guidarmi, avevo un po’ paura in me, perché non voglio più sbagliare, non voglio ridurre più nulla, ma voglio vivere intensamente il reale. Sono sceso dalla branda prima di tutti e, come sempre, ho iniziato con le Lodi, poi mi sono preparato il caffè, l’ho bevuto e ho messo la macchinetta del caffè sotto il rubinetto per raffreddarla. Devi sapere che da qualche tempo non abbiamo più i rubinetti con la manopola per la regolazione dell’acqua, ma dei rubinetti a pressione che gestiscono automaticamente la durata del flusso, e a quell’ora c’è molta pressione. Oggi, quando ho posizionato la caffettiera sotto il rubinetto e ho aperto il coperchio, la pressione dell’acqua era tale per cui la caffettiera non riusciva a riempirsi, l’acqua aveva una tale forza che usciva spruzzando sul muro tutto intorno. Ho osservato la scena ancora assonnato, e mi è bastato spostare di un centimetro la posizione della caffettiera perché l’acqua la riempisse tutta. Lì ho pensato: Gesù è proprio come quest’acqua, e noi come la caffettiera, Lui ci manda continuamente doni e segni in sovrabbondanza, proprio attraverso la realtà che viviamo, ci manda il suo amore. Il compito della nostra compagnia è quello di spostarci nella posizione giusta, e basta un centimetro delle volte e tutta la realtà per noi cambia, perché cominciamo a trattenere, e Lui ci riempie il cuore, ci pulisce l’anima, perché penetra ovunque, proprio come quell’acqua. Cavoli, era proprio il segno che attendevo! Oggi sarà una giornata speciale, perché Gesù e la nostra compagnia mi hanno messo nella posizione giusta”. Rileggendo la lettera, mi è venuto in mente un episodio di questa estate: per la prima volta sono stata invitata alla vacanza con Carròn. Eravamo veramente in tanti ma non conoscevo nessuno approfonditamente. La prima sensazione che ho avuto è stata quella di sentirmi sola ma il primo giorno è accaduto un fatto straordinario: mentre camminavo in salita lungo il sentiero, il mio desiderio era raggiungere e incontrare chi guidava la vacanza. Camminavo sempre più forte, con una grande voglia, volevo raccontare di me e dei miei uomini. Ho fatto molta fatica ad arrivare ma la fatica maggiore era perché con me nel mio cuore erano presenti anche loro. Raggiungo Carròn e, dopo avergli raccontato, lui mi abbraccia: in quel momento mi sono sentita presa ed è stato un tuffo al cuore, perché mi ha riportato alla mente l’abbraccio di don Giussani che ho ricevuto 30 anni fa, quando sono stata mandata a Todi per aprire una scuola materna. In quel momento, tutto è diventato nuovo, in quel momento ho fatto un’esperienza di libertà incredibile, ed è svanita la solitudine che provavo all’inizio. Mentre osservavo lo sguardo di Carròn mi sono passati davanti agli occhi i volti di tutti i miei uomini, di mio marito, dei miei figli, e lì ho ripensato alla caffettiera, ed è proprio vero che la realtà cambia quando cambi tu. Comprendo allora che tutto c’entra con la mia vita, che la capacità critica (cioè la capacità di giudizio) mi fa guardare e abbracciare chi incontro con un paragone, mi pone la domanda: cosa c’entra con me questo o quello? Cosa c’entra il carcere oggi con me? Il carcere è stato ed è per me l’occasione per crescere e cambiare, nella consapevolezza che il mio io non si esaurisce nel mondo carcere ma che sono chiamata ad essere vera lì come a scuola, in famiglia, nel gruppetto, e che il mio sguardo e il mio bene devono spalancarsi in ogni circostanza che la vita mi mette davanti. Ora – e finisco – sto cercando di mettere in piedi un’opera che tenga insieme tutto questo, grazie al sostegno e al contributo di un po’ di amici. Desidero una casa che possa diventare una dimora, un luogo che possa accogliere i detenuti e gli ex-detenuti, ne capisco l’urgenza e il bisogno. Chi esce cerca, ha bisogno di un luogo così, dove possa essere educato con il lavoro ma anche con la presenza stabile di famiglie che desiderano come noi dare la vita, famiglie che accolgano, vogliano bene, stimino, educhino e vengano educate dentro il significato del bene comune, dentro la consapevolezza che il destino non ti lascia solo: una compagnia cioè che educa e che permette che la libertà di ciascuno sia adesione e cambiamento. Vi ringrazio per l’attenzione e vi chiedo di pregare per me, per i miei uomini e per quest’opera. Grazie.

NICOLA BOSCOLETTO:
Grazie, Patrizia e tutti gli amici di Patrizia e di Como. Ora vediamo questa periferia, questa libertà dietro le sbarre da un altro punto di vista, cioè nell’esperienza di un Direttore di carcere, la dottoressa Rosa Alba Casella, che di carceri in questo momento ne regge ben due: il carcere di Modena e il carcere di Rimini. A lei la parola.

ROSA ALBA CASELLA:
Ringrazio per l’invito che mi è stato rivolto questa sera e che in qualche modo spero crei un legame tra il Meeting e la realtà penitenziaria di Rimini. Il legame tra il carcere e le periferie del mondo, tema centrale del Meeting, mi è sembrato subito forte e diretto. Gli istituti penitenziari, almeno quelli di più recente costruzione, sono posti all’estrema periferia dei centri urbani e a questa regola non fa eccezione il carcere di Rimini che, costruito negli anni ’80, è posto ai piedi di una collina, nascosto alla città, tanto da essere quasi invisibile ai più. La scelta di porre il carcere in periferia non è casuale ma è segno della tendenza a rimuovere tutto quello che ci turba e ci inquieta. Generalmente, tendiamo ad allontanare non solo tutto quello che sentiamo diverso da noi ma anche tutto quello che suscita sentimenti negativi quali paura, rifiuto, indifferenza. Non è una tendenza nuova: storicamente i “perdenti” in senso lato sono sempre stati considerati un pericolo ed una minaccia per la società e conseguentemente sono stati rinchiusi o allontanati in case di correzione, prigioni, ospedali. Così, in carcere abbiamo fatto sparire coloro che pongono problemi alla società: immigrati, tossicodipendenti, malati psichiatrici, poveri, disoccupati. In nome della sicurezza, il carcere è diventato una discarica sociale, uno strumento di segregazione per quelle fasce di popolazione di cui la società non riesce o non vuole farsi carico, quelle che Bauman chiama “le vite di scarto”. Il carcere discarica, però, è inumano e degradante, secondo la valutazione della Corte di Strasburgo che ha condannato più volte l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Ma le condanne della Corte, così come i ripetuti appelli del Presidente Napolitano, non hanno provocato l’indignazione collettiva come avrebbero dovuto, forse perché non si riesce ad immaginare che cosa significhi vivere in 9 mq in tre, convivere forzatamente con persone di estrazione sociale, cultura e religione diversa. Forse perché non si riesce ad immaginare di che cosa possano lamentarsi i detenuti, che hanno vitto e alloggio gratis o quasi e anche la televisione in cella. Se sono in carcere, qualcosa hanno fatto e quindi è giusto che paghino. L’illegalità del carcere sembra accettata, quasi che la violazione dei diritti umani sia maggiormente tollerata se riguarda coloro che si trovano in una posizione deviante rispetto alle norme. La Corte di Strasburgo ha precisato che le modalità di esecuzione della pena non devono sottoporre i detenuti ad uno stato di sconforto né ad una prova di intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione, che già sottrae l’uomo al consorzio sociale, alla sua vita familiare e spesso anche lavorativa. La limitazione della libertà è così grave, così incisiva da escludere che possa essere aggravata da atteggiamenti ed interventi che il reato non esige e che le ragioni di giustizia non richiedono (Moro).
Umanità e rieducazione: la doppia prescrizione dell’art. 27 della Costituzione deve intendersi in senso unitario posto che “un trattamento penale ispirato a criteri di umanità è necessario presupposto per un’azione rieducativa del condannato” (sent. Corte cost. N. 12/1966). Non c’è dubbio che condizioni detentive inumane costituiscano un concreto ostacolo al processo di ri-orientamento del detenuto ai valori della socialità e della legalità. Come è possibile la rieducazione in strutture sovraffollate e scarsamente mantenute per carenza di fondi, in cui i prodotti per l’igiene personale non vengono distribuiti per contenere le spese entro budget risicati? Come è pensabile rieducare e risocializzare se manca il lavoro, che per i condannati è obbligatorio, se il tempo della detenzione trascorre nell’ozio involontario, se per la maggior parte dei detenuti è un tempo vuoto? La lesione della dignità umana piuttosto che funzionare da deterrente alimenta la spirale della violenza. Un detenuto privato della dignità comincia a nutrire sentimenti di rivalsa verso la società e di disprezzo verso la legalità, che non vede osservata nei propri confronti. Difficilmente sarà disponibile a mettersi in discussione e a prendere coscienza del proprio comportamento antigiuridico. Il degrado fisico e ambientale contribuisce ad aumentare o talvolta a causare quello morale. Occorre, allora, migliorare le condizioni di detenzione, investire in umanità, In modo che la dignità resti integra soprattutto in carcere. La dignità non si acquista per meriti e non si perde per demeriti. La riduzione del sovraffollamento, che pure c’è stata per effetto dei più recenti interventi normativi (siamo passati da 62 a 54.000 detenuti), il sistema delle celle aperte, non bastano a ridare dignità ai detenuti. Così continua ad accadere che chi entra in carcere sia vinto dallo sconforto e dalla disperazione e decida di togliersi la vita o manifesti il suo disagio con atti di autolesionismo. Nell’ultimo periodo, questo tipo di eventi critici ha registrato una flessione ma non si può abbassare la guardia, tenuto conto che dall’inizio dell’anno i suicidi sono stati 25 (nel 2013 son stati 49). L’impatto con l’istituzione, soprattutto per le persone alla prima carcerazione è e resta un fatto traumatico nell’esistenza sia del detenuto che dei familiari, provoca sentimenti di abbandono, che possono portare a perdere la speranza. Prevenire il disagio, per evitare che il detenuto si lasci prendere dallo sconforto e perda ogni interesse per la vita, non è certamente facile, poiché ogni persona ha alle spalle una storia, spesso di emarginazione, di sofferenza, di deprivazione, di fallimenti. Senza contare i tanti che tornano in carcere, perché fuori non sono riusciti ad affrancarsi da una condizione di marginalità e per i quali il carcere rappresenta la deriva della propria vita. Peraltro, il rispetto e la promozione della dignità del detenuto non sono in contrasto con l’esigenza della sicurezza, come spesso si è portati a credere. La sicurezza è un bene di cui tutti devono disporre ma si costruisce con l’inclusione e non con l’espulsione, con i diritti e non con la riduzione del sociale al penale, con gli strumenti della politica e non solo con quelli del controllo (Ciotti).
In termini di prevenzione generale, è più utile una politica tesa ad investire sulla capacità dell’uomo di cambiare e di compiere scelte diverse, rispetto ad una politica basata solo sulla forza e sulla deterrenza. I sistemi repressivi, infatti, scatenano i peggiori istinti dell’uomo: aggressività, rabbia, odio, vendetta. Il dolore evitabile, anche se legale – scriveva il cardinale Martini – inflitto per forza difficilmente rende migliore l’uomo. E’ necessario che sulle periferie urbane ed umane, e su chi le popola, si posi uno sguardo diverso da quello individualista che rende insicuri, spaesati, assillati dal problema della sicurezza. Incontrare, dialogare, accompagnare, comprendere sono le azioni del cambiamento possibile, che pone al centro l’uomo e la sua capacità di scegliere. E questo vale per tutti gli uomini, dentro e fuori dal carcere: il detenuto deve costruirsi una vita migliore rispetto a quella che lo ha portato al delitto, anche a costo di non vedere riconosciuti gli sforzi, e la collettività deve accordargli una chance, anche a rischio che ne abusi. Gli uni e gli altri devono correre una parte di rischio per raggiungere l’obiettivo. Una trasformazione del carcere si impone, non solo perché il costo di quello attuale è troppo alto in termini di recidiva, ma anche per ragioni legate ai valori delle moderne democrazie: i diritti fondamentali vanno presi sul serio per evitare ciò che Turati diceva a proposito delle carceri italiane, che “sono la maggiore vergogna del nostro Paese”.

NICOLA BOSCOLETTO:
Grazie, dottoressa Rosa Alba Casella. Ora, un altro direttore di un carcere importantissimo, il dottor Massimo Parisi, direttore della seconda casa di reclusione di Milano Bollate. E’ il carcere più avanzato d’Italia per il trattamento, chiaramente dopo quello di Parma. Prego.

MASSIMO PARISI:
Grazie. No, sì, è giusto scherzare. Intanto ringrazio il Meeting per l’onore che mi è riservato, perché possa rendere una testimonianza. Vi vorrei raccontare un’esperienza, credo che spesso del carcere si parli in termini teorici. Ci sono categorie ricorrenti, pensiamo al sovraffollamento, alla rieducazione. Però non vorrei che questo facesse sfuggire del carcere qualcosa di molto concreto: vorrei portare alla vostra attenzione persone, fatti, circostanze e volti. Io ho iniziato a lavorare nell’amministrazione penitenziaria, facendo un lavoro straordinario, circa 20 anni fa. Ero molto giovane, venivo dall’università con molte teorie, molti concetti giuridici, molte nozioni: però, poi, appena sono entrato in carcere ho capito che quelle nozioni, per quanto rilevanti, per quanto pertinenti e importanti, non erano decisive, perché decisiva credo sia la relazione umana. Abbiamo a che fare con persone e quindi la relazione umana è un po’ al centro del nostro lavoro. Lo è anche rispetto al personale, alla comunità esterna. Io dico spesso che la qualità di un istituto penitenziario si misura non solo per l’organizzazione. Il direttore ha il compito di organizzare, dare un’identità, una fisionomia, un progetto, ma si misura sul contenuto e sulla intensità delle relazioni umane. Questo credo sia fondamentale, questo più mi ha colpito. Parlo di relazioni umane anche con lo stesso personale. Mi sono permesso di dire loro che, nel momento in cui operano, non debbono avere paura della propria umanità, di metterla al servizio delle istituzioni, perché se no si è prigionieri di un ruolo e quel ruolo probabilmente non lo si esercita in una maniera confacente agli obiettivi che ci proponiamo. Sotto questo profilo, al di là di tutti gli aspetti istituzionali e organizzativi, al di là delle amministrazioni che possono cambiare, credo di avere imparato molto, non so se ho dato più di quanto ho imparato. In particolare, due sono gli aspetti che ho focalizzato. Il primo è che non è il reato a definire le persone, questo probabilmente ha migliorato la mia capacità di giudizio in generale. Non è il reato che definisce le persone, la persona è qualcosa di molto più complesso. Il reato è un fatto che si incastona nel percorso, nella vita. Quando vengono in istituto, la prima cosa che vedono in un detenuto è che reato ha commesso; i giornalisti, la prima domanda che fanno, è che reato ha commesso.
Credo che questa sia un po’ una limitazione, anche di valutazione. Il secondo concetto è che ognuno di noi ha dentro delle risorse, delle attitudini, delle capacità nascoste che magari non conosce e che dobbiamo tirare fuori. Educare credo che venga dal latino ex ducere, tirare fuori. Ecco, questo probabilmente stiamo cercando di fare a Bollate, mettere in moto le persone, responsabilizzarle, renderle attive e non ovviamente destinatarie di azioni che noi concepiamo e che poi sono assolutamente sterili, se gravitano all’interno di una camera detentiva. Però ho detto che volevo parlare di fatti, di circostanze, quindi, vorrei fare alcuni esempi. Il primo è quello che definisco il detenuto classico, si chiama Massimiliano, è più o meno mio coetaneo. Quando aveva 8 anni, assisteva già i genitori che si facevano di eroina. Ha vissuto in quel contesto e quindi inevitabilmente, nei vicoli genovesi, è finito nel circuito penale. E’ diventato il detenuto che entrava e usciva dagli istituti, che si contrapponeva alle istituzioni. Massimiliano arriva a Bollate prima di me e comincia un certo percorso, cioè un progetto in cui gli si offre fiducia. Partecipa a qualche gruppo in particolare che lo avvolge, lo avvince, un gruppo non di sfondo religioso, si chiama gruppo della trasgressione, con cui viene impostato un vero proprio patto trattamentale. Adesso vi leggo che cosa scrive Massimiliano di questo patto: “Facendo parte del gruppo della trasgressione da circa 5 anni, ci tengo a dire le mie sensazioni su questo argomento. Il mio patto è stato stipulato dopo qualche anno di frequentazione del gruppo, non c’è stato bisogno di sottoscriverlo o dichiararlo ufficialmente ma è avvenuto da sé, con il tempo, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Penso che in buona parte racchiuda in sé i motivi e le sensazioni per cui ho trovato gli stimoli che mi hanno portato a cambiare stile di vita. Ricordo sempre una frase di un mio caro amico che dice: “Tu costruisci e cresci con il gruppo. Farai strada ma non ti montare la testa, non hai finito di imparare. Fidati di me”. Beh, in questa frase ci sono tre parole per me fondamentali: costruire, crescere e fidarsi. Parlo di fidarmi e non fuggire, costruire una parte del futuro insieme, dando un contributo al gruppo per far sì che abbia più valore.
Ora cercherò di descrive come il patto prende corpo nelle mie sensazioni personali. Parliamo dell’infinito. Per me non esiste nulla di realmente infinito, esiste però la sensazione di infinito, di qualcosa che duri nel tempo senza scadenza. Noi tutti sappiamo che giungeremo al capitolo finale ma credo che abbiamo bisogno di quella sensazione che nel presente ci rende immortali. Paradossalmente, questa sensazione di infinito si ottiene nel presente e io la vivo ogni giorno tenendo fede al mio patto. È successo anche oggi. Spesso dico che le rapine e le droghe mi davano sensazioni simili, ma ragionandoci ora non è proprio cosi. Tutto era illusorio e svaniva, rapina dopo rapina, sniffata dopo sniffata. Che strazio. Un altro paradosso, cercare la sensazione di infinito giocando ogni giorno con la morte. Il passaggio da un paradosso all’altro è così grande che mi sembra di essere quasi un’altra persona, ma non sono diventato un’altra persona. Ho trovato altre motivazioni che mi hanno dato la forza e l’appagamento per andare avanti e la consapevolezza che a volte sarà dura, ma che ne varrà la pena”. Massimiliano ha continuato questo percorso e ha collaborato molto: noi stiamo cercando di impostare un progetto che vada sulle dimissioni dei detenuti. Sono convintissimo che noi dobbiamo strutturare dei servizi dall’interno delle dimissioni dei detenuti, preparare i raccordi con i servizi sociali, creare diritti di cittadinanza in carcere, che significa avere un documento di identità, avere una patente. Ecco, questi sono gli aspetti su cui dobbiamo assolutamente lavorare. Massimiliano è stato ammesso al lavoro all’esterno e lì ha cominciato un percorso, lavora ma ha cominciato anche a fare volontariato, tanto che, insieme ad un altro gruppo di detenuti – a Bollate in questo momento abbiamo 160 detenuti che lavorano all’esterno, su un totale di 1140 -, mette su un’associazione di volontariato che ha come finalità attività di volontariato all’esterno: significa che vanno alla Caritas, ai servizi docce, che imbiancano le scuole insieme ai genitori dei ragazzi della scuola stessa, perché noi crediamo che facendo questo si possa modificare la cultura dell’esecuzione della pena. Cioè, se il detenuto esce, si rende utile, si può cambiare anche un’idea, un pregiudizio forte, radicato nella collettività. Questa associazione che si chiama Articolo 21, non a caso, ha questo scopo preciso: tra l’altro non c’era niente di strumentale, erano tutti detenuti che già lavoravano all’esterno. Dopo questo percorso, è in affidamento, fa un servizio giornalistico inerente a questa associazione. Mi scrive questa mail, qualche giorno fa: “Ieri, come ben sapete, ho contribuito a un servizio giornalistico inerente alla nostra associazione di volontariato. Per me è stato un piacere portare una testimonianza di ciò che un gruppo di detenuti può fare se è messo nelle condizioni di farlo. Ma sono convinto che, senza aver fatto un percorso all’interno, non sarei riuscito a vivere fuori. Troppo frenetici i tempi, troppe le emozioni, troppe le paure, le tentazioni. L’umiltà che ho raggiunto oggi mi fa stare con i piedi per terra e non mi fa sentire mai arrivato. A volte riconosco ancora qualche mio atteggiamento sbagliato, ma tra le altre cose ho capito che non sono perfetto, che ho anch’io delle fragilità. L’importante è non usarle come giustificazioni. Rileggendo ciò che vi sto scrivendo oggi, mi sembrano cose così banali ma forse anche questa è crescita, l’avvicinarsi di una nuova identità, facendo sì che le parole non escano più con tanta fatica, come il famoso masso di Sisifo. Insomma, grazie, buon lavoro, sperando che vi serva come stimolo, dando anche un senso a ciò che fate”.
Questa è una storia un po’ emblematica. Ma ne vorrei raccontare un’altra che ha un versante diverso, perché noi spesso, come lavoratori della giustizia, rischiamo di vedere il mondo un po’ a pezzettini: chi lavora in carcere si occupa del detenuto, le forze di polizia si occupano di chi commette il reato, i magistrati di altro, e talvolta questi sistemi non riescono a integrarsi. Un aspetto, per esempio, su cui in quest’ultimo periodo stiamo lavorando come istituto, perché fa parte del percorso di recupero del detenuto, è la questione della vittima del reato. C’è un episodio che mi ha scosso moltissimo e che voglio raccontare. Noi facciamo diverse iniziative, che ogni tanto sono riprese dai mass media. C’è un servizio giornalistico su una iniziativa che facciamo, credo fosse la Scuola Alberghiera. E riprendeva, appunto, un detenuto che aveva rilasciato un’intervista sul suo percorso. Questo detenuto era autore di un reato di omicidio, senonché dopo qualche giorno, su un famoso quotidiano nazionale, ha scritto la madre della vittima. Una lettera molto accorata, devo dire molto compita, che sostanzialmente diceva: Mah, perché io devo aprire il telegiornale e vedere l’omicida di mia figlia, lì, che mi entra in cucina? Questa cosa mi ha molto scosso, penso che talvolta noi abbiamo veramente una visione limitata. Non abbiamo fatto niente di male, stiamo facendo il nostro lavoro, stiamo cercando di valorizzare i percorsi trattamentali. E allora è iniziata una discussione all’interno della struttura, dove ogni settimana facciamo una riunione con tutti i collaboratori. C’era chi mi suggeriva di scrivere al giornale, chi mi diceva che avevamo ragione noi. Io ho fatto l’unica cosa che mi sentivo di fare in quel momento, vale a dire alzare il telefono e chiamare quella mamma. L’ho ritenuto giusto, sia sul piano istituzionale, sia sul piano personale. E’ stato molto difficile, guardarla anche idealmente in faccia è stato difficile. Però credo che abbia dato maggior senso a quello che noi facciamo. Il contenuto della telefonata è stato dialogico, ognuno aveva la propria posizione, non voglio entrare oltre nei particolari, però questa cosa ci ha toccati. Io l’ho girata molto sul piano organizzativo e istituzionale, al di là del fatto di essere cauti quando autorizziamo, quando cerchiamo detenuti per certe interviste: era già avvenuto altre volte e non era accaduto niente. Però, al di là di questo, abbiamo ragionato sulle vittime dei reati e sono iniziati dei progetti. Quindi, da un fatto sono scaturiti dei progetti che in qualche modo riguardano il percorso del detenuto. Ad esempio, è nato il progetto “Demetra”. Noi abbiamo quasi 400 detenuti autori di reati a sfondo sessuale, autori di violenze nei confronti soprattutto delle donne. Questi detenuti, a titolo volontario hanno coltivato delle piantine, messe nei vasetti che vengono colorati e portati nelle piazze dai detenuti stessi, nei convegni, nelle iniziative: chi vuole, dà un’offerta che poi viene passata a “Telefono Rosa”, quindi idealmente alle vittime, facendo ragionare i detenuti sul fatto che il loro percorso parte anche dal rispetto della vittima. Quel lavorare a pezzettini, un po’ a compartimenti stagni, credo non sia positivo. Così come abbiamo previsto dei detenuti che, laddove la sentenza prevede un risarcimento danni, aprono dei libretti postali per risarcire le vittime. Credo sia un modo per cui si valorizza il concetto di rieducazione, anche agli occhi della collettività. Poi ci sono altre vittime innocenti, sono i familiari dei detenuti. Io lavoro in carcere ormai da tanti anni e vedo le code. Noi stiamo cercando di fare come amministrazione tantissimo sul versante del diritto all’affettività. Ci sono delle indicazione chiare dell’amministrazione sull’apertura dei colloqui, sulle sale verdi, sulle ludoteche. Però, anche qui, cerchiamo di contestualizzare: pensiamo a bambini di otto, nove, dieci anni, che sono uguali ai nostri figli. Quel giorno non sono andati a scuola per andare a vedere il padre e cominciano a subire lo stigma da parte dei loro compagni, perché lui non è andato a scuola per quel motivo e quello stigma diventa rabbia. Su questo versante, dobbiamo ragionare e migliorare, cioè avere una grande attenzione. Però, anche in questo caso, credo che più delle mie parole valgano delle testimonianze. Noi facciamo diverse iniziative per cui abbiamo anche università che vengono da noi.
Alla fine di una visita universitaria, una detenuta scrive questa mail: “Salve, perdoni l’orario ma avevo estremo bisogno di scriverle questa mail, che avrà tutto fuorché un contenuto formale. Durante l’incontro di sabato al carcere, sono state risvegliate in me delle emozioni e dei ricordi che avevo solo in parte nascosto nelle parti più profonde della mia anima. Avevo quattordici anni quando sono entrata in stretto contatto con il carcere. Ricordo ancora quella sensazione che ti stringe il cuore, che ti fa mancare il respiro. Quel rumore orribile della chiave, quell’umido, quel corridoio interminabile. Non vedevo mio padre da due anni e l’ho visto in una sala con un tavolo di legno e una finestra piccola in alto – adesso per fortuna i tavoloni di legno non ci sono più -. La guardia chiude la porta alle mie spalle, mi siedo e aspetto. Dopo qualche minuto, si apre un’altra porta di fronte e un’altra guardia accompagna papà. Volevo piangere ma ero forte, ho trattenuto le lacrime. In quel momento, lui aveva bisogno dei miei sorrisi, si sentiva già abbastanza in colpa. Da lì iniziò il mio percorso, è come se il dolore vissuto da lui, in un certo senso, mi sia rimasto dentro. Ho scelto questo laboratorio per lavorare sulla scissione della parte personale da quella professionale e sono consapevole del fatto che scrivendo questa mail non lo sto facendo, ma ne sentivo il bisogno. Durante il laboratorio, sono uscita fuori perché non sono riuscita a reggere il confronto alla domanda: Vede i parenti? Sì, avrei voluto urlare, sì, avevo mio padre. Quando parlò dei permessi premio, mi si è stretto il cuore, ho vissuto cinque anni aspettando il lunedì sera alle diciannove per sentire mio padre con la voce guida che mi metteva in contatto. Ho rivissuto tutto il dolore ma anche tutta la gioia che investiva il mio cuore ogni volta che lo abbracciavo. Grazie per aver letto queste righe confuse e piene di tristezza. Spero di non essere stata troppo banale”. Quando sono stato trasferito da Monza a Bollate, ho ricevuto un bigliettino da un operatore del Comune di Monza, comune con il quale abbiamo veramente collaborato in maniera ottima e che mi permetto ancora di ringraziare. Questo bigliettino recita così, è tratto dal film Balla coi lupi: “Stavo pensando che di tutte le piste di questa vita, la più importante è quella che conduce all’essere umano”. Ecco io vorrei fare il Direttore così e spero di essere riuscito a testimoniarlo. Grazie

NICOLA BOSCOLETTO:
Grazie al Direttore Massimo Parisi, ora farei immediatamente l’Intervento di Guido Brambilla, Magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale di Milano.

GUIDO BRAMBILLA (in video):
Allora, buon pomeriggio a tutti, innanzitutto mi scuso per non essere lì con voi personalmente ma motivi privati mi hanno trattenuto purtroppo a Milano. Ringrazio quindi il Meeting di Rimini per avermi concesso l’opportunità di poter essere ugualmente lì, con voi, almeno con il cuore e di poter comunicare a voi tutti la mia esperienza di Magistrato di Sorveglianza, di un magistrato cioè che si occupa, come ben sapete, di carcerati, di detenuti, di condannati definitivi. E allora iniziamo con il titolo di questo Meeting, che mi ha provocato subito una prima riflessione: quali sono in fondo le periferie dell’esistenza, quelle di cui parla papa Francesco nella sua esortazione apostolica? Certo, noi pensiamo innanzitutto a dei luoghi, come possono essere appunto le carceri, gli ospedali, oppure a delle realtà geopolitiche di povertà, di miseria, di emarginazione, di disagio sociale. Ma io penso che la periferia dell’esistenza riguardi più in fondo ogni singolo io, ogni soggetto laddove è costretto a vivere il proprio limite, la propria finitezza, la propria fragilità dentro un’ultima solitudine o addirittura dentro una mancanza di senso, di significato. Ecco allora perché è indispensabile quel grido che si erge oggi drammatico nell’epoca moderna. Grido che chiede, che esprime il bisogno di una compagnia profonda all’io, di una compagnia che non lo lasci solo, che lo accompagni nel suo faticoso cammino dell’esistenza. “Il destino non ha lasciato solo l’uomo” dice ancora il titolo del Meeting di quest’anno: è quindi una presenza e un volto riconoscibile, che si documenta esperienzialmente nella compagnia di persone che sanno dire la parola “tu”, sanno guardare, abbracciare il tu dell’altro fino in fondo, fino alle domande ultime. Non per risolvere semplicemente un problema contingente, non solo per quello, ma che aiutino l’io a essere se stesso nella pienezza della propria dignità creaturale, pur davanti al problema, pur davanti alla difficoltà.
Ed ecco allora come possono spiegarsi, constatarsi quelle estreme esperienze di libertà pur dentro la prigionia, pur dentro la costrizione della malattia o della povertà. È possibile, mi chiedo, a queste condizioni vivere una libertà dietro le sbarre? Non io ma l’esperienza dice di sì. E non è prima di tutto una questione di indulto, di amnistia, di grazia, di leggi svuota carceri, ecc., è una questione di amore alla persona, lì dov’è, alla singola persona, con nome e cognome, non a una categoria sociale generalista. Non si tratta quindi di una forma di buonismo nei confronti dei detenuti, questa sarebbe una deriva ideologica che spesso maschera altri fini che nulla hanno a che vedere con la singola persona e con il suo destino. A questo punto, vorrei fare però una piccola premessa su quello che è il mio lavoro: quello del Magistrato di Sorveglianza, mestiere che non tutti conoscono e che di certo non è così spesso oggetto dell’attenzione mediatica. Quando viene condannata in via definitiva, una persona viene consegnata sì a un luogo, come può essere un carcere, ma anche a una serie di rapporti con altre persone. Un universo di incontri con soggetti preposti alla custodia ma soprattutto al percorso trattamentale e rieducativo. Durante la sua vita detentiva, il carcerato è seguito oltre che dalla polizia penitenziaria, dai Direttori degli istituti di pena, dai Magistrati di Sorveglianza, appunto, e poi da educatori, volontari, medici, psicologi, criminologi, assistenti sociali, insegnati, ecc. Nell’organizzazione della città detentiva, intervengono a fini di sostegno ed aiuto anche gli enti locali: banche, fondazioni, imprese e cooperative. Tutto questo proprio perché l’interesse alla promozione umana e alla inclusività sociale è prevalente rispetto a quello pur indispensabile della giusta retribuzione, anche in termini di riduzione dei costi sociali, di valorizzazione di risorse umane e del territorio. Il Magistrato di Sorveglianza, poi, è un tipo di giudice nato con la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975. Mentre il giudice più conosciuto, il giudice ordinario, il giudice della cognizione di origine illuminista è chiamato a valutare dei fatti, o meglio delle fattispecie astratte di reato definite dal codice in termini formalmente uguali fra loro, dopo la condanna invece il Magistrato di Sorveglianza interviene quale giudice, giudice ignoto in altri ordinamenti anche europei, che, pur operando con strumenti normativi, è chiamato ad utilizzarli tentativamente in un percorso interpersonale con il detenuto. Egli è chiamato cioè a plasmare i diversi istituti giuridici, alla vita che cambia, con l’attenzione alla diversità dei soggetti coinvolti che vengono guardati in modo non più monotematico (il reato commesso), ma tenendo conto della molteplicità dei fattori che riguardano la loro esistenza. Molta importanza viene data, infatti, all’ambito famigliare del detenuto, alle sue condizioni economiche, alle sue condizioni lavorative, alle sue condizioni di salute, ecc. Mi è sempre piaciuto quindi definire il Magistrato di Sorveglianza come un giudice del rapporto o nel rapporto, che opera e giudica secondo diritto ed equità ammorbidendo, per così dire, la rigidità di un giudizio formulato su criteri prefissati ed astratti per adattarsi alla vivacità del mutamento dell’uomo che non è un’immagine scolpita nel legno. Ma qual è il fine del lavoro del Magistrato di Sorveglianza e di tutti i soggetti che collaborano con lui? Come sosteneva un noto giurista, Francesco Carnelutti, il recupero, l’abbraccio finale da parte della società civile di un detenuto, cambiato nel corso dell’espiazione della pena, è lo scopo ultimo dello stesso processo penale, è ciò che gli dà valore e senso. Il compito del Magistrato di Sorveglianza, quindi, oltre a garantire l’effettività della giusta punizione, è ultimamente però quello di favorire il recupero del condannato, la sua rieducazione. Ma cosa vuol dire rieducazione? L’articolo 27 terzo comma della Costituzione italiana afferma infatti che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Ma nessuna legge, nessuna sentenza, nessuno mai ci ha detto, ci ha spiegato in cosa consiste la rieducazione, questa parola un po’ strana, ri-educare.
Certo, il nostro ordinamento penitenziario, accogliendo l’orientamento della scuola positiva, prevede che il detenuto sia sottoposto a un’osservazione scientifica (vedete, scuola positiva, osservazione scientifica della personalità) con la predisposizione di un trattamento individualizzato, mirante a un percorso di recupero, con ciò prevedendo anche la partecipazione a questo percorso di soggetti esterni al carcere, appartenenti alla comunità civile, al mondo del lavoro, dell’impresa, alle associazioni, eccetera. Ecco, come ho avuto modo già di esprimere in un mio precedente contributo alla rivista online Il Sussidiario, ordinariamente il cambiamento del condannato è strutturato come un percorso di progressione verso un recupero dal male, costituito dal reato. Si cerca, attraverso degli strumenti previsti dalla legge, come possono essere il lavoro all’interno del carcere, all’esterno del carcere, i permessi premio, le attività ricreative sportive, le misure alternative alla detenzione, eccetera, di giungere nel tempo a una rivisitazione da parte del condannato della propria pregressa condotta deviante, con una rielaborazione del futuro in termini di progettualità positiva volta in termini di reinserimento sociale. Tutto ciò è indubbiamente positivo ed è certamente utile ed importante per non concepire e vivere la sanzione penale nel suo aspetto solamente retributivo. Tuttavia, e qui richiedo un attimo di attenzione, ho potuto constatare nell’esperienza che il vero cambiamento, il vero recupero, il vero dolore per il male commesso e il vero desiderio di conversione dell’io, sono avvenimenti che spesso non implicano gli automatismi e il tempo di un progetto anche buono, ma avvengono subito, nell’istante di uno sguardo, anche se poi può essere necessario il tempo della comprensione di ciò che è accaduto, di un perdono inatteso, di un nuovo giudizio. Mi è capitato, infatti, nell’esperienza del mio lavoro, di incontrare persone condannate che dopo aver seguito tutta la trafila delle tappe rieducative, e dopo essere state scarcerate, sono di nuovo cadute nella devianza, nella commissione di altri reati; e diversamente ho visto persone, magari ancora all’inizio del loro percorso carcerario, cambiare in un momento, aprirsi in un pianto commosso alla vera identità di sé, e questo solo magari per uno sguardo, per una parola, per un gesto, uno sguardo cioè che, pur non banalizzando il male commesso, non congeli la persona in una definizione giuridico criminologica (terrorista, ladro, rapinatore, tossicodipendente, eccetera), non la riduca al limite della sua azione od omissione. Se un persona, infatti, all’interno del rapporto con un tu, capisce che la propria identità più profonda non è definita dal male commesso, allora si può aprire all’esperienza autentica del dolore, del dolore sincero che schiude l’io all’autentica speranza del cambiamento. Guardate, vi dico una cosa, si può fare di tutto per i detenuti, iniziative culturali, lavori socialmente utili, rappresentazioni teatrali, partite di calcio, laboratori artigianali, bande musicali, amnistie, indulti. E’ tutto positivo, ma può ancora mancare l’io, e l’io, per i condannati come per i liberi, per i giusti come per gli ingiusti, per i sani come per i malati, rinasce solo nell’incontro con un tu, ed è questo tu la parola più semplice e insieme più difficile, nella mentalità dominante, da riscoprire, perché il tu vuol dire presenza di altro a me, proprio a me, e non sappiamo più oggi cos’è, o meglio chi è, una presenza. Vedete, si possono fare tante cose belle e buone in modo impersonale, in modo non presente, da professionisti del bene, senza esserci. Il detenuto allora può diventare un pretesto per mettere a posto la propria coscienza, oppure per affermare ancora una volta se stessi, per dimostrarci che in fondo siamo buoni. Il tu presente non è la pacca sulla spalla, non è il dai che ce la fai, non è io sono qui per te; è l’irrompere dell’irripetibile, di qualcosa di nuovo che genera una commozione dell’io, che lo cambia scalzandolo da sotto, più in fondo della sua tristezza, dissipatezza o dimenticanza. Anche un bel tramonto, o è un tu o ha lo stesso spessore, la stessa consistenza opaca di una cartolina.
Vi faccio un esempio, uno dei tanti esempi di avvenimenti, di cose cioè che avvengono senza essere state programmate o progettate. Un giorno viene da me in ufficio una signora di mezza età, che io non conoscevo, si affaccia alla mia porta, io la guardo e le dico: “Scusi, ma lei chi è?”. Lei mi guarda un po’ così, intimorita, e mi dice: “Io sono una terrorista e ho commesso due omicidi”. Aveva infatti l’ergastolo e stava scontando la pena, aveva alle spalle già venticinque anni di reclusione. In quel momento, forse perché ero sovrappensiero, stavo pensando ad altro, l’ho guardata e le ho detto: “Ma guardi, io le ho chiesto lei chi è, come si chiama”. Lei mi ha detto il suo nome e il suo cognome e a me è venuto spontaneo dirle: “Vede, il suo nome è più di quello che lei ha fatto”. A quel punto, lei è scoppiata a piangere, forse per la prima volta dopo tanti anni di carcere, e si è aperta in una ricerca che è durata quasi due anni, del desiderio che l’aveva spinta all’azione criminale, alla lotta eversiva, a capirne le motivazioni profonde, dentro un percorso in cui eravamo implicati io e lei, fino alla liberazione condizionale, fino cioè al raggiungimento della libertà. E quel giorno lei mi ha chiesto: “E adesso, cosa devo fare?”. E io le ho risposto: “Segua la realtà”. E seguendo la realtà, seguendo il flusso di persone che l’avevano incontrata, mi chiese un giorno l’autorizzazione per venire proprio qui, al Meeting di Rimini, magari oggi è proprio lì con voi. E tornando dal Meeting mi disse: “Ecco, vede, quello che ho visto è proprio quello che noi cercavamo di organizzare con la lotta armata”. Ma vedete, più in generale, quando io vado in carcere a colloquio con i detenuti, mi accorgo spesso di tre circostanze che spesso mi spiazzano e mi costringono a riflettere anche sulla mia vita. Innanzitutto, devo dire che mai mi è capitato di trovarmi di fronte a dei mostri, come spesso noi li percepiamo nel nostro bisogno di sicurezza, e con l’influsso, per altro, della sempre pervasiva suggestione mediatica. Soggetti, certo, a volte violenti o malati, disturbati o svalutati, con storie pesantissime e molto dolorose alle spalle; certo, non dei soggetti irresponsabili ma fragili; non disumani ma degli io, delle persone dove il bene e il male si confondono spesso nel mistero delle loro personalità piegate a loro volta dalla violenza, dalla povertà, dal bisogno, e a volte certo anche dalla cattiveria gratuita ma con sempre una certa possibilità di bene, con una nascosta speranza di significato, di perdono, di rinascita. Un secondo aspetto che mi ha sempre colpito quando vado a colloquio con i detenuti, è come loro vivono il tempo. Vedete, noi percepiamo il tempo come luogo di proiezione dei nostri progetti, della nostra volontà di fare e di realizzare qualcosa; per i detenuti, invece, quasi sempre, il tempo è il luogo dell’attesa di qualcosa che irrompa dall’esterno, di qualsiasi cosa, sia un permesso premio, una liberazione anticipata o un’agognata misura alternativa. Ma più in profondità, è per loro il luogo semplice e quasi ingenuo dell’attesa di una liberazione, non solo una liberazione dalla prigionia ma una liberazione dal proprio limite, dalla propria fragilità, l’attesa comunque di altro da sé, che sia compagnia a questo limite, a questa fragilità. Questa densità dell’attesa che caratterizza spesso un detenuto – e guardate che quando io vedo un detenuto a colloquio con la propria moglie e i propri figli, quanto è denso quel colloquio, quanto densi quei minuti di colloqui, non si sprecano parole, le parole non sono mai banali come spesso capita a noi, nel rapporto fra moglie e marito, padri e figli – dovrebbe essere il modo giusto con cui noi tutti concepiamo il tempo, attesa, riconoscimento di qualcosa, di qualcuno che viene, che irrompe dall’esterno. E poi, infine, il desiderio. Mi capita spesso di sentire detenuti che si interrogano sul perché hanno scelto di commettere un crimine sotto il profilo appunto del desiderio: cosa cercavo? Cosa desideravo, dicono, nel fare quell’azione? Cosa cercavo, cosa desideravo, lo cerco ancora adesso, in che termini, era sbagliato quello che cercavo o il modo in cui ho tentato di raggiungerlo? E guardate che spesso si tratta di obiettivi, di desideri comuni a tutti: una vita agiata, il guadagno, il benessere per sé e per la propria famiglia, oppure un piacere, una soddisfazione, un’emozione. Ma per tutti al fondo è desiderio di felicità, a cui anela il cuore di ciascun uomo.
Ecco, per chiudere, vorrei dedicare un ultimo pensiero, non ultimo e non meno importante ed anzi forse anche più urgente e drammatico, alle vittime dei reati, anch’esse periferie dell’esistenza. Mi sento infatti spesso dire: “Ma tu, come giudichi i detenuti? Non tieni conto delle vittime, che tanto hanno sofferto e soffrono per il reato subito?”. La perdita violenta magari di un familiare, di un padre, di un figlio, di un marito, di una moglie, con tutto il dolore straziante che ne consegue. Però, vedete, porre la questione in questi termini mi sembra ideologico e fuorviante, mi sembra che esprima la nostra insicurezza, così ostile a termini come cambiamento, come rinascita, o come perdono, ciò che ci costringerebbero a guardare a noi stessi e agli altri con più misericordia; esprime più la nostra insicurezza che non un reale interesse per gli stessi bisogni delle vittime. Parlare allora delle vittime significa interessarsi veramente a loro, fare loro compagnia, non prenderle a pretesto per un giustizialismo difensivo e rassicurante. Ed il bisogno della vittima è innanzitutto un desiderio di verità e di significato, come per il carnefice. La prima domanda che si pone la vittima non è quella, seppur giusta, di cercare il colpevole e di condannarlo, è una domanda certamente comprensibile, ma non esaurisce la ricerca assidua di un cuore così ferito. Un’altra domanda più profonda urge prima: “Perché questo dolore è capitato proprio a me? Perché? Restituitemi il mio caro! Restituitemi la persona amata!”. Ed allora, ecco qui che la giustizia umana, tanto per le vittime quando per i carnefici, quando questi ultimi arrivano a desiderare di non aver mai commesso quello che hanno compiuto, apre all’esigenza di un oltre, senza il quale la giustizia umana è incompleta e, in alcuni casi, anche incomprensibile. Occorre quindi una compagnia, che il destino non lasci solo l’uomo, occorre, insomma, che impariamo ad essere come don Giussani ci aveva esortato, “madri e padri gli uni degli altri nella misericordia”. Grazie a tutti e arrivederci.

NICOLA BOSCOLETTO:
Ora, prima di lasciarci con quattro foto e una frase, voglio ringraziare tutti i presenti per l’affetto che ci dimostrate ogni anno, ne abbiamo bisogno, grazie. E la frase finale e le immagini arrivano dall’incontro con i detenuti del carcere di Isernia di Papa Francesco, sabato cinque luglio 2014. Cito: “Vi ringrazio dell’accoglienza, e io vorrei, mi viene adesso da dirlo, perché sempre lo sento, anche quando ogni quindici giorni telefono ad un carcere di Buenos Aires, dove ci sono giovani e parliamo un po’ al telefono; vi faccio una confidenza, quando io mi incontro con uno di voi, che è in carcere, che sta camminando verso il reinserimento, ma che è recluso, sinceramente mi faccio questa domanda: perché lui e non io? Lo sento così, pensare a questo mi fa bene, poiché le debolezze che abbiamo sono le stesse, perché lui è caduto e non sono caduto io? Per me questo è un mistero che mi fa pregare e mi fa avvicinare ai carcerati”. Grazie a tutti.

Data

27 Agosto 2014

Ora

15:00

Edizione

2014

Luogo

Salone Intesa Sanpaolo D5
Categoria
Incontri