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TERRE D’ARABIA: UN DESERTO PIENO DI VITA
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S.E. Mons. Aldo Berardi, vicario apostolico per l’Arabia settentrionale; S.E. Mons. Paolo Martinelli, vicario apostolico per l’Arabia meridionale. Modera Alessandra Buzzetti, corrispondente per il Medioriente di Tv2000
Monsignor Aldo Berardi e Paolo Martinelli sono i vicari della penisola Arabica, che comprende sette stati tra cui Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Questa regione combina una fede musulmana profondamente radicata con modernità straordinaria, ospitando anche una comunità cristiana tutta fatta di migranti, compresi i Vescovi. Papa Francesco ha visitato queste terre due volte negli ultimi tre anni, promuovendo la fraternità e l’amicizia sociale. L’Abrahamic Family House ad Abu Dhabi, ispirata al Documento sulla Fraternità Umana, ospita una moschea, una sinagoga e una chiesa. Proprio questo anno, mentre a Gaza scoppiava la guerra, è stato indetto il Giubileo straordinario per la commemorazione dei martiri d’Arabia, Santi Areta e compagni.
TERRE D’ARABIA: UN DESERTO PIENO DI VITA
TERRE D’ARABIA: UN DESERTO PIENO DI VITA
Sabato 24 agosto 2024 ore 17:00
Sala Neri Generali Cattolica
Partecipano:
S.E. Mons. Aldo Berardi, vicario apostolico per l’Arabia settentrionale; S.E. Mons. Paolo Martinelli, vicario apostolico per l’Arabia meridionale.
Modera:
Alessandra Buzzetti., corrispondente per il Medioriente di Tv200
Buzzetti. – 0:02:25 – Buonasera a tutti, grazie di essere qui a questo incontro. Sappiamo che tutto il Medio Oriente sta vivendo un momento molto drammatico, molto turbolento, forse il più turbolento degli ultimi decenni. E sappiamo che questo conflitto, scoppiato in Terra Santa, sicuramente cambierà anche l’assetto non solo politico dell’intera regione. In questo conflitto abbiamo sentito spesso parlare dei Paesi del Golfo come attori più o meno implicati in ciò che sta accadendo, soprattutto tra israeliani e palestinesi. Sentiamo spesso parlare di questa realtà come di un monoblocco, definito giornalisticamente come il grande blocco dei Paesi sunniti. Sappiamo però che non è esattamente così.
Questa sera vogliamo entrare in questa realtà, che è complessa come tutta l’area mediorientale, estremamente complicata, da una prospettiva un po’ diversa, che spesso non è quella che vediamo nelle prime pagine dei giornali. In un momento in cui è importante accendere i riflettori su aree che sono interamente musulmane, vogliamo farlo da un’altra prospettiva: la prospettiva dei cristiani che abitano i Paesi del Golfo, che sono parte dei 15 milioni di migranti che vivono nei sette Paesi del Golfo. Nel suo viaggio in Bahrain, volevo iniziare citando le parole di Papa Francesco, che ha descritto questa presenza cristiana, che vedremo anche numericamente non così piccola. Egli ha detto così. Nell’ottobre di due anni fa, Papa Francesco pronunciò queste parole:
“In questa terra c’è tanto deserto, ma ci sono anche sorgenti di acqua dolce, che scorrono silenziosamente nel sottosuolo, irrigandolo. È una bella immagine di ciò che siete voi e, soprattutto, di ciò che la fede opera nella vita. In superficie emerge la nostra fragilità, inaridita da tante difficoltà, sfide da affrontare, mali personali e sociali; ma nel profondo dell’anima, nell’intimo del cuore, scorre calma e silenziosa l’acqua dolce dello spirito, che irriga i nostri deserti, ridona vigore a ciò che rischia di seccare e rinnova costantemente la vita.”
Quindi, cosa significa questo nell’esperienza quotidiana dei cristiani nei Paesi del Golfo? Come sentiremo, non è facile da nessun punto di vista. Abbiamo questa sera due testimoni davvero importanti, che sono proprio i due pastori di queste comunità che compongono il Vicariato d’Arabia, che, come vedremo, comprende sette stati. Sono Monsignor Aldo Berardi, un applauso, e Monsignor Paolo Martinelli, che sono rispettivamente il Vicario Apostolico dell’Arabia Settentrionale e quello dell’Arabia Meridionale.
Prima di dare a loro la parola, la ragione per cui siamo qui, volevo fornire, anche con l’aiuto di una mappa, alcuni dati per comprendere la presenza dei cristiani, in proporzione agli abitanti di questi Paesi. Iniziamo dal vicariato del nord, guidato da Monsignor Berardi, che comprende quattro Stati: il Kuwait, un emirato che ha la Sharia come fonte principale della legislazione. Dei 4 milioni di abitanti, 2 milioni sono stranieri, quindi la metà, e 350 mila sono cattolici. Poi c’è il Bahrain, dove è stato Papa Francesco, un regno di un milione e 300 mila abitanti, di cui anche qui più della metà sono stranieri e il 9% sono cattolici. Anche in questo caso la religione di stato è l’Islam, la dinastia regnante è sunnita, anche se in Bahrain il 70% dei musulmani è sciita.
Sappiamo che l’Islam è diviso in queste due grandi realtà, e sappiamo che l’altro blocco, in qualche modo sciita, è quello guidato dall’Iran, di cui abbiamo sentito tanto parlare anche in questi mesi di guerra. Poi c’è il Qatar, un emirato che ha sempre l’Islam come religione di stato, con 2 milioni e 600 mila abitanti, di cui l’80% sono stranieri e il 10% cattolici. L’ultimo è lo stato più grande: l’Arabia Saudita, un regno di 28 milioni di abitanti, di cui il 4% sono cristiani, in gran parte cattolici. L’Islam è imposto dalla potente dinastia regnante, e la vita politica, sociale e personale è regolata dalla Sharia, legge islamica. Avete visto poi in queste slide il numero delle chiese cattoliche nei rispettivi Paesi, e vediamo che in Arabia Saudita non ce n’è neanche una.
Passiamo poi al vicariato guidato da Monsignor Martinelli, che comprende tre Stati: il Vicariato del Sud, che include gli Emirati Arabi Uniti, dove abbiamo 9 milioni e mezzo di abitanti, di cui l’88% sono stranieri e il 9% cristiani. È una monarchia islamica più liberale rispetto ad altri Paesi del Golfo, che stasera impareremo a conoscere meglio. Poi c’è l’Oman, un sultanato islamico con 4 milioni e mezzo di abitanti, di cui il 2% sono cattolici. E infine lo Yemen, di cui abbiamo sentito parlare tanto in questo periodo, degli Houthi che attaccano il Mar Rosso. È un Paese devastato da una lunga guerra civile, con 30 milioni di abitanti; i cattolici sono forse 200 o 300. Questo è un quadro generale per avere in mente la mappa dei Paesi che Monsignor Berardi e Monsignor Martinelli realmente servono.
Allora, iniziamo dal Nord, quindi con Monsignor Berardi. Questo è il nostro dialogo. Monsignor Berardi ha 61 anni, è di origine francese, padre trinitario, da più di vent’anni missionario in Paesi arabi e, da gennaio 2023, è stato nominato Vicario Apostolico dell’Arabia Settentrionale. Monsignor Berardi, per lei cosa significa guidare la comunità in queste condizioni non facili, in questi Paesi a maggioranza musulmana, ma in qualche modo continuare ad essere quella sorgente d’acqua dolce nel deserto, come vi ha descritto proprio in Bahrain Papa Francesco?
Berardi. – 0:09:23 – Buonasera a tutti, grazie per l’invito. Stasera voglio parlare di fede, di speranza, di gioia. La gioia di essere cristiani, la gioia di vivere la nostra vocazione in un mondo difficile, islamico, ma profondamente accogliente per noi. Viviamo in circostanze eccezionali, diciamo, in Paesi islamici con la legge islamica. Poi sono arrivate migliaia, milioni di persone per lavorare, nel settore petrolifero, nei servizi, e dunque ci siamo ritrovati in una circostanza speciale. I musulmani stessi hanno accolto questi cristiani, persone che per secoli non avevano mai incontrato, forse al tempo delle crociate, ma poi per secoli sono rimasti isolati nel loro mondo. Quando hanno scoperto il petrolio e si sono sviluppati questi Paesi, sono arrivati i cristiani, e quindi il punto di incontro tra due civiltà, o meglio, due religioni e molte civiltà. Noi cristiani, provenienti da tanti Paesi diversi, abbiamo portato con noi le nostre tradizioni, i nostri riti, le nostre lingue, e dunque la cattolicità della Chiesa si ritrova qui.
È interessante che i musulmani abbiano riscoperto la religione cristiana. Ci sono stati conflitti, alcuni limiti, qualche volta persecuzioni, ma poco a poco la coabitazione è diventata più pacifica, secondo i Paesi, e c’è stato un incontro. Prima di tutto, c’è l’incontro della Chiesa Cattolica nella sua diversità, di lingue, di riti, perché in tutti questi Paesi sono arrivati tanti cattolici da tanti Paesi con le loro tradizioni, i riti orientali e il rito latino, il nostro, ma anche il rito latino in diverse lingue. Siamo a un incrocio di cattolicità, e la nostra sfida è l’unità di questa Chiesa nella diversità delle origini, delle lingue e delle tradizioni. Il nostro primo messaggio è la gioia di essere cristiani, di vivere come membri della Chiesa Cattolica universale nella diversità che conosciamo, forse per esperienza diretta o dai libri, ma ora anche concretamente. Anche ora, in Europa, con l’emigrazione, accogliamo tanti cattolici di diversi riti e origini, ma qui siamo insieme con un solo vescovo latino responsabile di tutte queste comunità, tutte queste tradizioni, e i riti orientali e indiani.
La nostra gioia di essere cattolici, qualche volta, si scontra con la diversità, e dunque il nostro compito è di mantenere questa unità che è la Chiesa Cattolica. Abbiamo la gioia di essere cattolici, dobbiamo dirlo sempre, essere cattolici con la nostra organizzazione, con l’organizzazione universale della Chiesa, che ci dà più libertà rispetto ad altre chiese non cattoliche, che sono più ristrette nel loro approccio. Ma noi, nelle missioni, siamo sempre legati alla Chiesa universale; viviamo la Chiesa in loco, ma c’è anche questo legame che ci porta a capire che siamo di una Chiesa che supera tutte le nazioni, e siamo uniti in questo punto.
Le difficoltà non mancano, certamente, e non mancano per questa diversità delle persone, dei nostri cristiani cattolici, ma anche a causa delle restrizioni che abbiamo. Poche chiese, alcune volte chiese strapiene, e sempre strapiene. Dunque, come organizzarci per accogliere tutti questi cattolici devoti che vengono e che vogliono celebrare nel loro rito, nella loro lingua? Significa che il clero non è locale; il clero viene da diversi Paesi, i religiosi da diverse comunità, poi anche i “fidei donum” che vengono a dare una mano per celebrare nelle lingue di questi cattolici. Vedete, noi non abbiamo il problema delle chiese vuote, abbiamo il problema delle chiese strapiene, e dobbiamo aprire altre chiese, ma non è possibile. Secondo i Paesi ci danno il permesso, o non ce lo danno. E poi, per ottenere un permesso per una chiesa, ci vogliono anni, anni e anni. Nel frattempo, noi cresciamo in numero, e c’è questa difficoltà dello spazio.
È diverso secondo i Paesi. Avete visto un milione di cattolici in Arabia Saudita senza una sola chiesa, e poi nel Bahrain una nuova cattedrale con un’altra chiesa. E poi, parlo per il mio vicariato, in Qatar c’è una sola chiesa latina e due piccole chiese del rito siro-malabarese e del rito siro-malankarese, che sono i riti dei cristiani del Kerala. In Kuwait, invece, c’è una concattedrale con una piccola chiesetta, e come facciamo ad accogliere tutta questa gente? Dunque, abbiamo dei basement, sotterranei, dove si riuniscono e vivono parrocchie senza chiesa, anche se abbiamo chiesto più volte il permesso, ma viene sempre negato. Ebbene, come cattolici chiediamo di nuovo, vedremo più tardi.
Quindi, il problema dello spazio e della coabitazione di tutti questi riti, e dell’unità intorno alla figura del Vescovo, che assume un ruolo veramente importante. Secondo la decisione della Santa Sede, il Vescovo latino è il responsabile di tutti i riti, e deve provvedere a tutti i riti e tutte le lingue, fino a qualche anno fa, quando sono state date giurisdizioni alle chiese orientali. Quando parliamo del Golfo Persico non parliamo della chiesa orientale, parliamo dei cristiani in Oriente, perché con la crescita del rito latino e dei cristiani da diversi Paesi asiatici, africani, europei, sudamericani, tutti quelli che vengono non sono del rito orientale, ma sono cristiani in Oriente e vogliono vivere la loro fede in quei Paesi.
C’è quindi quella sfida interna della Chiesa, dell’unità. Poi c’è l’incontro con l’Islam. Non possiamo negarlo: siamo in Paesi islamici, e l’incontro con l’Islam significa un approccio di dialogo, per negoziare un po’ il nostro posto, la nostra partecipazione nella società. Certamente tutti questi cristiani che vengono vivono lì, lavorano e partecipano allo sviluppo economico e sociale del Paese, ma molte volte i loro diritti sono limitati. Non ricevono mai la cittadinanza, e le condizioni di vita non sono facili per tutti, a seconda del livello sociale o del lavoro. Questo incontro con l’Islam ci porta al dialogo, di cui parleremo più tardi, un dialogo ufficiale qualche volta, ma soprattutto il dialogo della vita, perché c’è questa coabitazione, la coesistenza, come dicono sempre in Bahrain.
La coesistenza delle diverse religioni, perché ci siamo noi cattolici, ma ci sono anche altre chiese, e poi ci sono i buddisti, gli induisti, e non so quanti altri gruppi esistono. Tentiamo di vivere insieme, e ci sono sforzi, si fanno sforzi per la coabitazione. Secondo il Paese, c’è un dialogo più informale o formale con l’Islam. Ma l’incontro è importante: l’incontro della vita, l’incontro quotidiano. Dobbiamo essere testimoni di Cristo senza predicare niente, senza evangelizzare apertamente. C’è una riflessione sull’evangelizzazione, che per noi significa prima di tutto vivere il Vangelo concretamente nella nostra vita, nel nostro lavoro, nei rapporti sociali. Non possiamo predicare, qualche volta neanche esprimere apertamente le cose della nostra fede. Questo è forse anche più difficile, perché parlare può essere facile, ma viverlo quotidianamente, far sentire e vedere che siamo cristiani, e specialmente cattolici, nella concretezza della vita, è una sfida per noi.
Siamo una Chiesa di passaggio, una Chiesa di migranti, ma una Chiesa che dura nel tempo. Anche se la gente passa qualche anno, 10 anni, 20 anni, alcuni poi se ne vanno, emigrano in altri Paesi o ritornano a casa, la Chiesa è sempre lì. Dunque, c’è questa sfida della perennità della Chiesa, anche con il cambiamento della gente, dei cristiani. Vedete che le sfide esistono dappertutto, ma c’è sempre questa gioia di vivere la nostra fede, di essere insieme. Quando celebriamo le feste, la Settimana Santa, c’è una massa di gente che segue le funzioni, tutti i riti, 24 ore su 24, senza sosta. Significa che abbiamo la gioia di vivere tutto questo, e poi il catechismo e tutto il resto. Ci sono migliaia di bambini, anche se non abbiamo abbastanza spazio, ma si fa lo stesso.
Dunque, per dirvi che la situazione è un po’ difficile, ma c’è la gioia di essere insieme nella cattolicità della nostra Chiesa, la diversità e l’unità sono un momento di gioia intorno al Vescovo. La sfida è vivere ed esprimere la nostra gioia di essere cristiani. Ecco la nostra esperienza nel nord
Buzzetti. – 0:22:45 – Grazie, Monsignor Berardi, anche per la gioia che anche lei trasmette mentre racconta della sua gente. Monsignor Martinelli, che è vicario, merito, diciamo, un po’ storico del Sud, 65 anni, frate cappuccino, teologo, vescovo, ausiliare a Milano per qualche anno e dal 1° maggio 2022 nominato vicario della rabbia meridionale. Quindi giro anche a lei la stessa domanda: le sfide sono simili, però anche lei ha paesi che hanno nell’insieme anche molte similitudini ma anche delle diversità. Quindi ci racconti anche lei cosa significa guidare queste comunità.
Martinelli. – 0:23:24 – Innanzitutto, grazie, grazie dell’invito, sono molto contento di essere qui e poter condividere con voi l’esperienza ancora relativamente breve; sono poco più di due anni che sono lì e quindi ho come delle forti impressioni, ecco, rispetto alla realtà della Chiesa, che è molto diversificata secondo, diciamo anche, secondo questi paesi che vengono coperti dal vicariato apostolico. Diciamo, la prima parola che a me viene in mente quando penso alla mia gente lì è un po’ la parola “polifonia”, che è una parola che ha pronunciato Papa Francesco quando è venuto negli Emirati Arabi Uniti nel febbraio del 2019 per firmare il famoso documento sulla “human fraternity” e quando ha celebrato la messa nello stadio, Zayed, nell’omelia ha pronunciato queste parole: “Si dice che tra il Vangelo scritto e quello vissuto ci sia la stessa differenza che esiste tra la musica scritta e quella suonata. Voi qui conoscete la melodia del Vangelo e vivete l’entusiasmo del suo ritmo. Siete un coro che comprende una varietà di nazioni, lingua, riti; una diversità che lo Spirito Santo ama e vuole sempre più armonizzare per farne una sinfonia. Questa gioiosa polifonia della fede è una testimonianza che è data a tutti e che edifica la Chiesa.”
Ecco, io ho trovato veramente una Chiesa molto viva, ricca di differenze culturali, rituali, linguistiche; una chiesa modulata appunto diversamente secondo gli Stati a cui ci riferiamo. Gli Emirati Arabi Uniti costituiscono uno stato dinamico, aperto, amante della tolleranza, della coesistenza dei popoli, delle religioni diverse e uno stato nello stesso tempo molto religioso e anche estremamente moderno. Questa è una cosa che mi ha fatto molto pensare, l’impatto di una modernità che comunque ha molto a cuore il tema della religione. L’Oman è invece un paese con tratti più tradizionali, dove regna un ritmo di vita sereno, tranquillo, la gente molto mite. Ecco, la Chiesa è organizzata in modo simile in questi due paesi, mentre un discorso a parte bisogna farlo per lo Yemen dopo dieci anni di guerra civile.
Sostanzialmente tutti i cattolici, appunto, come ha ricordato anche Monsignor Aldo, sono migranti: preti, suore, vescovi compresi, siamo tutti migranti e siamo lì appunto perché c’è un compito, c’è un lavoro. Possono rimanere alcuni per pochi anni oppure per trent’anni, anche di più, secondo appunto l’impiego. I nostri fedeli fanno lavori più disparati, da quelli più semplici, umili fino a quelli più ricercati che chiedono maggiori competenze. La maggior parte dei nostri fedeli proviene dalle Filippine, dall’India, dallo Sri Lanka, dal Pakistan e anche da alcuni paesi arabi. Un buon numero di fedeli arriva anche dall’Africa, dal Kenya, dall’Uganda, dalla Nigeria, dal Ghana. C’è un buon numero di cattolici che proviene dall’Europa, dall’America, soprattutto dall’America Latina. Davvero una Chiesa dalle genti, un popolo di popoli.
La struttura fondamentale della Chiesa è costituita dalle nostre parrocchie. Come abbiamo visto ne abbiamo nove negli Emirati, quattro in Oman. Ecco, nello Yemen c’erano quattro parrocchie attualmente inattive, sostanzialmente inagibili a causa dei danni subiti dalla guerra civile. La sfida pastorale grande è quella, come è stata ricordata, dell’unità nella differenza. Seguendo l’impostazione dei miei predecessori, allora le parrocchie sono strutturate in modo molto interessante, cioè attraverso delle comunità linguistiche, anche se il nome non è propriamente quello giusto probabilmente. Si tratta infatti di comunità che radunano persone della stessa nazione, con lo stesso linguaggio, oppure per zona geografica e hanno il compito innanzitutto di esprimere la vicinanza della Chiesa alla situazione di ciascuno.
Questo è molto importante, soprattutto per i nuovi, per quelli che arrivano, non bisogna essere accolti, sostenuti, ascoltati. E poi hanno anche la capacità, magari, di andare a intercettare quei cattolici che sono arrivati in questi paesi ma che non frequentano la Chiesa. È molto importante non lasciare nessuno isolato, ma trovare il modo di offrire una compagnia, una possibilità di trovarsi insieme, di condividere le difficoltà che si possono trovare e anche la gioia di poter camminare insieme. Inoltre queste comunità, appunto, cosiddette linguistiche, hanno anche il compito di introdurre i fedeli a tutta la parrocchia, la comunità intera, la Chiesa intera. Infatti non basta appartenere solo al proprio gruppo linguistico, ma occorre che attraverso il gruppo linguistico uno possa sperimentare che fa parte della Chiesa di Cristo, che è membro dell’unico popolo, popolo santo di Dio.
Ecco lì allora l’importanza di come vive questa sfida delle differenze. Ecco, l’importanza di scoprire il battesimo, quello che ci unisce al battesimo. Siamo diversi per lingua, siamo diversi per riti, siamo diversi per caratteristiche culturali, ma tutti abbiamo ricevuto lo stesso battesimo. Quando si diventa consapevoli di questo, allora le differenze diventano una ricchezza; se invece manca questa consapevolezza, le differenze possono diventare un po’ delle barriere. Ecco perché è il compito del vescovo proprio quello di richiamare tutti all’appartenenza a Cristo attraverso il battesimo, che ci ha reso membra del suo corpo. Certamente questo porta a volte anche a delle tensioni, c’è il rischio a volte di rimanere solo nel proprio gruppo o rimanere con quelli che sono simili. Tuttavia, è molto interessante che quando si riconosce l’unica appartenenza, allora accogliere la diversità della tradizione, pur all’interno della stessa fede cristiana, è qualcosa che mi fa scoprire ancora di più le mie caratteristiche; cioè, riconoscere la differenza è sempre una ricchezza per tutti.
Ecco, poi interessante è anche il clero, appunto. Il nostro clero è estremamente variegato: per esempio, nel Sud siamo 67 sacerdoti, la maggior parte sono cappuccini perché i cappuccini hanno una lunga tradizione di presenza in questo territorio, ma anche loro vengono da paesi diversi. Noi abbiamo nella stessa parrocchia un frate indiano, un frate pakistano, un sacerdote che viene dalle Filippine o dall’Italia o dall’Africa. Ecco, è molto interessante questo perché la gente vede che il clero è diverso ma è componendo lo stesso clero; allora vede anche nei sacerdoti quello che sono chiamati anche loro a essere. Ecco, i sacerdoti sono differenti, anche loro vengono da nazioni diverse, ma compongono un unico clero; ecco, questo suggerisce anche ai fedeli che, anche se siamo diversi, ci riconosciamo come parte dello stesso popolo.
Poi un’altra cosa che mi ha colpito molto è la presenza di tanti carismi, movimenti, associazioni e anche una grande disponibilità ad assumere servizi e ministeri all’interno delle parrocchie. Le realtà più significative, secondo me, sono quelle che aiutano a scoprire proprio il senso del battesimo da vivere quotidianamente, a partire dalla propria famiglia fino al posto di lavoro. In un contesto islamico e multireligioso, è molto importante che ci siano cammini in cui approfondire le ragioni della propria fede cristiana. Particolarmente significative sono quei movimenti o comunità che hanno capacità di aggregare persone che sono di culture diverse; questa interculturalità di un’esperienza carismatica, ad esempio, è una cosa che edifica molto, aiuta anche tutti a vivere meglio la diversità nell’unità.
Ecco, un’altra realtà molto significativa, per esempio, nel nostro vicariato, soprattutto negli Emirati, sono le scuole. Abbiamo nove scuole cattoliche negli Emirati, sei sono gestite direttamente dal vicariato apostolico. Abbiamo oltre 30 mila studenti che sono coinvolti, non solo cattolici, ma anche musulmani e di altre religioni; sono molto apprezzate per l’esperienza educativa che viene proposta. Particolarmente significativo è il carattere inclusivo della scuola come un vero laboratorio di dialogo interculturale e interreligioso. Certamente, come dice Papa Francesco, se si vuole cambiare il mondo occorre partire dalla scuola, cioè dall’educazione delle nuove generazioni. Ecco, e credo che, appunto, in genere le scuole danno questa possibilità. Fondamentale è proprio l’importanza dell’educazione religiosa, cioè l’importanza del rapporto con Dio che dà forma a tutto il rapporto con la realtà, per umanizzare le relazioni e la società.
Ecco, in genere le scuole sono dirette con grande competenza da suore; nel vicariato sono 50. La cosa è un po’ strana, ci sono meno suore che preti; di solito è sempre il contrario, sono più le suore. Ma magari speriamo che in questi anni si possano aumentare anche le suore. Inoltre, voglio comunicarvi proprio lo stupore di vedere la passione dei nostri fedeli nel partecipare attivamente alla vita della Chiesa. In genere abbiamo, appunto, anche come ricordava prima Monsignor Aldo, un’alta partecipazione. Le Chiese spesso non bastano per contenere tutti i fedeli. Appunto, anche noi la lingua ufficiale è la lingua inglese, però spesso, appunto, si danno spazi perché i vari gruppi possano celebrare nella propria lingua, soprattutto coloro che sono, appunto, parte delle chiese sui iuris con dei riti che sono, appunto, propri.
Ecco, può capitare non di rado che i fedeli richiedano anche in modo vigoroso che il vescovo aumenti il numero delle messe, aumenti il numero dei sacerdoti, avere più momenti di preghiera. Quando questo poi lo racconto a qualche prete qui in Italia, mi guarda un po’ male e dice: “i fedeli continuamente chiamate altri preti, costruiamo altre chiese,” solo che lì, appunto, è una cosa che deve avvenire con dei tempi un po’ particolari. Ecco, un altro motivo di gioia è vedere la disponibilità dei fedeli a mettersi a servizio per la vita della Chiesa. Per esempio, colpiscono molto i cori che sono presenti, organizzati dai fedeli; cori linguistici, ma anche cori interculturali, che animano le nostre liturgie; veramente è uno spettacolo vedere questa forte partecipazione. Poi, anche servizi molto umili per organizzare la vita della Chiesa nelle celebrazioni; per esempio, ci sono così tanti fedeli, che ci vogliono alcuni fedeli specializzati per fare entrare i fedeli al momento giusto, perché vengano a fare la comunione, perché riescano in modo ordinato, altrimenti non c’è abbastanza tempo per il gruppo successivo che deve partecipare alla messa.
Quindi è molto interessante questa passione nel tenere ordinata la chiesa perché tutti possano partecipare nel modo migliore. Poi a me colpisce molto l’esperienza del catechismo, la comunicazione, appunto, della fede alle nuove generazioni. Noi abbiamo nel nostro vicariato più di 34.000 bambini che si stanno preparando per la prima comunione e la cresima, e vedere l’entusiasmo dei genitori a mettersi a disposizione o dei giovani che si devono preparare per poter fare questa animazione catechistica e si mettono, nonostante che sono lì, hanno tempi di lavoro molto, molto forti, ma trovano il tempo di formarsi, appunto, anche per poter comunicare la fede alle nuove generazioni.
Questo è molto interessante perché tante volte si sottolinea con loro: “Non si tratta di comunicare un elenco di precetti, bisogna comunicare una vita, far vedere come la fede ci comunica un nuovo modo di sentire la vita, di pensare la vita, di guardare il mondo e quindi anche che è capace di animare le relazioni in un modo diverso.” Ecco, una realtà del genere poi si trova anche nella realtà dell’Oman e, in questo senso, mi fa anche piacere condividere una cosa che è accaduta poche settimane fa. Abbiamo preso la decisione che dovevamo fare un nuovo centro di formazione cristiana a Mascate perché, appunto, anche lì i fedeli si sono mossi da una parrocchia all’altra; adesso in una parrocchia ci sono spazi liberi, ma in una parrocchia non ci sono più posti per fare le riunioni del catechismo, allora abbiamo deciso di fare un nuovo progetto di una casa di formazione cristiana.
Ci sono voluti tutti i tempi perché venissero approvati e poi alla fine, quando abbiamo posato la prima pietra, è stato molto interessante perché ha voluto partecipare anche il direttore degli affari religiosi, musulmano, che ci aveva aiutato ad approvare il progetto. Anzi, a dire il vero, ha voluto lui con me mettere giù la prima pietra. Questo è interessante perché, come dire, c’è un amore da questo punto di vista, perché i cristiani vivono bene la loro fede, perché se sono contenti nel vivere la loro fede, sapranno dare anche un contributo positivo alla società.
Un ultimo sguardo sullo Yemen. Qui veramente siamo in una situazione diversa. La città di Aden, capitale del paese, era la sede originaria del vicariato apostolico nel suo inizio, nel 1889. I cristiani, soprattutto al tempo della presenza britannica, erano molti. Sono state costruite quattro chiese, c’era anche una grande scuola retta dal vicariato, molto apprezzata. Con il cambiamento del regime la situazione è andata totalmente deteriorandosi ed è stata requisita la scuola. Successivamente, con l’inizio della guerra civile dieci anni fa, la situazione è precipitata dividendo radicalmente in due il paese. La maggior parte dei cristiani ha lasciato lo Yemen, sono rimaste due comunità delle Missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta.
Pensate, già nel 1998, tre sorelle erano state uccise da un fanatico e, all’inizio della guerra civile, il 4 marzo 2016, quattro di loro sono state uccise insieme ad alcuni lavoratori musulmani che aiutavano le suore nel loro lavoro. Ecco, loro hanno voluto rimanere presenti. Diciamo che la maggior parte degli altri cristiani ha lasciato, ma loro fanno veramente un lavoro di carità così enorme che sono per tutti un segno di speranza.
Buzzetti. – 0:39:10 – Grazie, Monsignor Martinelli. Avete descritto bene cosa significa l’unità nella diversità, e c’è un evento di cui forse pochi sanno che è cominciato da diversi mesi nei vostri vicariati: un anticipo di Giubileo, perché Papa Francesco vi ha concesso questo anno di Giubileo straordinario proprio in ricordo del martirio avvenuto 1500 anni fa di Santa Retas e dei suoi compagni. Colpisce che il vostro Giubileo sia cominciato nell’ottobre scorso, proprio nei giorni in cui esplodeva il conflitto in Terra Santa. Quindi, cosa significa innanzitutto per le vostre chiese questo cammino giubilare, ma anche che segno di speranza può essere per tutta la regione, che sta vivendo un momento di enorme dolore e sofferenza?
Berardi. – 0:40:05 – Sant’Aretas e i suoi compagni martiri del sud dell’Arabia… Giubileo per i 1500 anni del loro martirio, uccisi nel 523 dal re dello Yemen. Dunque, abbiamo scoperto questo fatto: si sapeva che esistevano comunità cristiane nella penisola arabica e che sono anche accennate nella tradizione musulmana, specialmente la comunità di Najran, che si recò dal profeta Maometto per chiedere protezione. C’è un documento che si chiama il Trattato di Najran in cui il profeta dell’Islam concesse loro il permesso di rimanere cristiani. Non si sapeva molto di questo. Sapevamo che c’erano dei monasteri e delle comunità cristiane in tutti questi paesi. Quando ci siamo chiesti chi fossero questi martiri, abbiamo scoperto che erano una comunità importante dell’oasi di Najran. Il responsabile della comunità di Najran era un laico, Aretas, che era il capo della città e che, come tutti i cristiani, non volle rinnegare la fede cristiana di fronte al re dello Yemen.
Dunque, abbiamo scoperto questo evento, che al suo tempo fu importantissimo, perché è anche accennato nel Corano — pensate un po’, il Corano scritto cento anni dopo. La narrazione del martirio di questa gente è stata tramandata nei secoli in diverse lingue. Ora capiamo che siamo anche noi eredi di queste comunità, perché si pensa sempre che prima dell’Islam non ci fosse niente. Invece, c’erano tante comunità, c’erano i monasteri e anche i vescovi. Per noi, le comunità cristiane di oggi, è stata una scoperta: come mai si pensava che non ci fosse niente prima? Ora comprendiamo che i missionari, passando da lì, hanno convertito e costruito queste comunità e chiese.
Allora abbiamo chiesto al Santo Padre di avere questo Giubileo, 1500 anni dopo, per ricordare la fedeltà e l’eredità che avevamo ricevuto, ma anche la fedeltà di questi martiri. Sant’Aretas e i suoi compagni sono menzionati nel martirologio cristiano romano il 24 ottobre, e senza ulteriori dettagli storici. Questo Giubileo ha suscitato entusiasmo sia tra i cristiani che tra i non cristiani. Ci si chiede: come mai celebrate questa gente pre-islamica, diciamo? Sono state sviluppate ricerche, e possiamo dire che finalmente molti dei paesi del Golfo hanno accettato di considerare le popolazioni cristiane precedenti alla fondazione dell’Islam. Molte volte i musulmani pensano che tutto inizi con il profeta, e che ciò che era prima fosse un tempo di tenebre. Ma non è vero: c’è una realtà storica importante nella storia del paese, anche nella storia della lingua araba e nella trasmissione del monoteismo. Questo ha suscitato ricerche attuali che sono interessantissime, e finalmente tutti i paesi ora accettano che questi ruderi, che ritroviamo un po’ dappertutto — sia in Kuwait, Arabia Saudita, Bahrain, o negli Emirati — siano oggetto di ricerche storiche.
Per noi è stato un evento importante. Prima di tutto, siamo eredi: capiamo che c’è un legame con queste prime comunità cristiane. Non siamo arrivati in un paese e poi partiti; c’è questo legame che ci porta al passato, quasi al tempo apostolico. È importante per noi, e ha dato entusiasmo e fede ai nostri fedeli. Questo è avvenuto in un momento di tensione nel Medio Oriente. I pellegrinaggi che facciamo e le preghiere del Giubileo sono anche rivolti al Signore per ottenere la pace. I martiri di Najran, Sant’Aretas e i suoi compagni, furono uccisi in un momento di guerra religiosa e politica. Abbiamo l’esempio della loro fedeltà, e vogliamo essere eredi di questa fedeltà dei martiri alla divinità di Cristo in un mondo che nega la sua divinità, alla Trinità in un mondo che nega la Trinità. Dare la vita fino a questo punto richiama la nostra fedeltà personale e di comunità. Perché siamo della stessa fede, siamo testimoni oggi di questa fede in un mondo che è diverso.
Per questo abbiamo iniziato tanti servizi, opportunità di pellegrinaggi, di preghiera, di riflessione in tutte le comunità. Questo Giubileo ci aiuta a superare le tensioni politiche nei paesi del Golfo, ma soprattutto in questa guerra iniziata l’anno scorso. Preghiamo sempre per la pace: non entriamo nelle discussioni politiche perché non possiamo e non vogliamo farlo, ma possiamo essere solidali con chi soffre senza prendere parte per l’una o l’altra parte. I martiri di quel tempo e la gente che soffre oggi ci danno anche nuova forza per pregare e per essere fedeli al Signore e al Suo Vangelo. Santa Retas diceva che dare la vita per Cristo significa trovare la vita eterna. Alla fine, come il tema di questo congresso, ci chiediamo: “Qual è l’essenziale, cosa ti fa vivere alla fine?” Anche noi ci facciamo questa domanda. Perché siamo qui, in questi paesi? Per fare soldi, lavorare? Certamente, la gente sta qui per questo, per dare il pane ai figli, per dare educazione alla famiglia. Ma alla fine, qual è l’essenziale? Dove sta la tua fede? Il martirio di questa popolazione ci riporta all’essenziale, che sarebbe credere nel Cristo risorto che ci dà la vita eterna.
Per questo Giubileo, che si chiuderà a ottobre e poi apriremo l’anno santo. Vedete, siamo sempre in festa, e a noi piace la festa. Come si diceva, tutte le diverse comunità hanno ciascuna la propria festa, dunque siamo sempre in festa, anche nei giorni di digiuno. Ma il Signore ci perdona perché siamo così contenti di celebrare la Sua risurrezione. Siamo legati a questa gente, ai martiri, e a chi soffre oggi. Ritorniamo a ciò che è più importante: l’amore di Cristo, che finalmente ci dà comunione col Padre e nello Spirito Santo.
Buzzetti. – 0:49:38 – Grazie, Monsignor Berardi. Lei ci ha ben descritto come questi martiri di 1500 anni fa siano testimoni oggi, non solo per voi, ma anche come punto di speranza per tutta la regione. Ora vorremmo affrontare un punto che possiamo chiamare di speranza anche rispetto al dialogo con l’Islam. Abbiamo ascoltato, introducendo questo Meeting, il Cardinale Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, che diceva che a causa del conflitto, almeno nelle sue aree, questo dialogo a livello istituzionale è praticamente interrotto tra i diversi leader religiosi, ebrei e, evidentemente, anche musulmani. Lei ha come sede principale Abu Dhabi, dove poco tempo fa è stata inaugurata questa Casa della Famiglia di Abramo, che è proprio espressione di quella pietra miliare per un nuovo passo nel dialogo interreligioso, soprattutto con l’Islam, come Papa Francesco l’ha visitata. Quindi, ci racconta che cos’è, che significato ha per voi questo dialogo a livello istituzionale, comunitario e personale? Che punto di speranza può essere per l’intero Medio Oriente da questo punto di vista?
Martinelli. – 0:50:55 – Certo, l’esperienza della Casa Abramica, l’Abrahamic Family House, è molto significativa e rappresenta, a mio avviso, un punto interessante di ricezione del documento firmato da Papa Francesco e dal grande Imam di Al-Azhar nel 2019. In effetti, senza questo documento non si riesce a comprendere il significato dell’Abrahamic Family House. Come sappiamo, Papa Francesco è venuto nel 2019, è stato anche il primo viaggio di un Papa nel Golfo, e poi nel 2022 è andato anche in Bahrain. Tuttavia, nel 2019 fu davvero la prima volta, e venne firmato questo documento evocando l’incontro di San Francesco d’Assisi, avvenuto 800 anni prima, con il Sultano al-Malik al-Kamil. Questo documento sulla fratellanza umana è certamente unico, profetico, ispirativo, ed è orientato verso una nuova relazione tra le religioni, a partire da quelle che, in modi diversi, si relazionano alla figura di Abramo come padre nella fede.
C’è un passaggio del testo di questo documento che mi sembra molto significativo, in cui si afferma: “In nome di Dio e di tutto questo Al-Azhar Al-Sharif, con i musulmani d’Oriente e d’Occidente, insieme alla Chiesa cattolica, con i cattolici d’Oriente e d’Occidente, dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via, la collaborazione comune come condotta, la conoscenza reciproca come metodo e criterio.” Si tratta di un’affermazione che apre a un nuovo capitolo nella storia del rapporto tra le religioni. È un invito a una sincera conoscenza reciproca che superi i pregiudizi vicendevoli per un compito fondamentale: quello della promozione della fratellanza umana, cioè di una società più giusta e fraterna. Il documento, nella sua prefazione, afferma che “la fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere ed amare.” Le religioni hanno il compito di ricordare a tutti che, senza Dio, l’uomo va contro se stesso e rende inumana la società. Come dice altrove il documento, è necessario educarsi al ruolo fondamentale del senso religioso che abita in ogni uomo e ogni donna, cioè il senso di Dio come significato ultimo della vita. Ogni autentica religione possiede un patrimonio inestimabile di spiritualità che umanizza la convivenza umana. Per questo, il documento condanna fermamente ogni forma di strumentalizzazione che, in nome di Dio, promuove violenza e guerre. Dio è sempre il Dio della pace e della riconciliazione.
L’inaugurazione dell’Abrahamic Family House è avvenuta il 16 febbraio 2023 e rappresenta un momento significativo di recezione di questo documento. Qui, in un certo senso, è possibile fare esperienza, per quanto iniziale, di ciò che è scritto e dichiarato in questo documento. L’Abrahamic Family House ci stimola a ridefinire, a rimettere in discussione il nostro modo di comprenderci e di comprendere gli altri. Si tratta di tre luoghi di culto ben distinti, con le caratteristiche proprie di ciascun culto, ma che coesistono in armonia tra loro. Questo indica che il progetto non intende in alcun modo creare una sintesi tra le religioni o una super-religione, ma promuovere il riconoscimento delle differenze come un dato positivo da rispettare e valorizzare. In questo modo, i fedeli delle diverse religioni sono invitati, innanzitutto, a frequentare il proprio luogo di culto. Ma già nel fare questo, grazie all’eccezionalità della struttura architettonica, ogni fedele, per recarsi a pregare, deve passare attraverso un quarto spazio chiamato a ragione “forum”. Questo è il punto comune che, architettonicamente, genera il dialogo tra la moschea, la sinagoga e la chiesa cattolica, rendendole tre strutture allo stesso tempo distinte ma interconnesse.
Ogni fedele che si reca nella Casa Abramica per pregare è chiamato a riconoscere l’esistenza delle altre religioni prima di poter entrare nel proprio luogo di culto, vivendo così una chiara identità distinta ma interconnessa con le altre. La chiesa cattolica è dedicata a San Francesco d’Assisi, donata a Papa Francesco dal Presidente degli Emirati Arabi, ed è affidata al Vicariato Apostolico dell’Arabia Meridionale per l’animazione pastorale. Il responsabile per la chiesa cattolica è un sacerdote religioso cappuccino, padre Stefano Luca, grande esperto di Islam e di dialogo interreligioso. Ad oltre un anno dalla sua apertura, ormai si è formata una comunità cristiana stabile che frequenta la chiesa per la messa durante la settimana, soprattutto la domenica, quando la chiesa è sempre gremita, e per gli incontri di formazione sulla spiritualità francescana con particolare riferimento alla cultura del dialogo e dell’incontro.
Nel quarto spazio che ho già menzionato in precedenza, cioè il cosiddetto “forum”, ogni settimana vengono organizzati momenti formativi e laboratori sia per bambini che per adulti, aperti a tutte e tre le comunità religiose. Le attività svolte in questo luogo affrontano temi specifici che promuovono l’educazione al dialogo interreligioso, al fine di dimostrare che le sfide sociali e globali possono essere davvero affrontate insieme. La straordinarietà che sempre mi colpisce è che chiunque partecipi a queste attività fa esperienza di un luogo protetto, di una casa, di una famiglia, dove può condividere senza timori il proprio punto di vista e la propria tradizione religiosa e culturale. Come Vicariato Apostolico, promuoviamo con convinzione il rapporto con questo centro; ad esempio, fa parte del percorso del catechismo dei ragazzi visitare l’Abrahamic Family House. Inoltre, le scuole cattoliche sono invitate a visitare questa casa e a studiare il documento sulla fratellanza umana.
Considerando la situazione nel Medio Oriente, in particolare dopo il 7 ottobre, credo che sia davvero significativo poter portare avanti un’esperienza di incontro tra religioni differenti. Mi sembra che questa esperienza aiuti a portare il dialogo tra le diverse fedi a livello della vita quotidiana. Non si tratta di un dialogo di nicchia per esperti: le persone devono incontrarsi, le comunità devono camminare insieme, conoscersi e lavorare per il bene comune. Peraltro, in questi paesi i nostri fedeli vivono quotidianamente a contatto con musulmani, induisti, buddisti, ebrei, e persone di altre religioni. Viviamo fianco a fianco sul lavoro, nella scuola e nella società. Per questo, il dialogo con le altre fedi è qualcosa di intrinseco alla nostra fede, non è qualcosa che riguarda solo qualcuno ogni tanto, perché noi tutti i giorni abbiamo a che fare con loro. Infatti, il dialogo, l’incontro vero, non richiede mai il superamento delle differenze, ma il loro approfondimento relazionale. Il dialogo richiede consapevolezza della propria identità, rispetto per la religione dell’altro, e soprattutto rispetto per la libertà credente dell’altro. Ogni fede in Dio è costitutivamente correlata alla libertà. Per questo, per dialogare con persone di fedi differenti, non si deve mai mettere in dubbio o relativizzare la propria religione, ma rispettare profondamente il mistero della libertà dell’altro. Nel cammino comune rimane pertanto il tema della verità della religione, ma esso passa inevitabilmente attraverso il rispetto della libertà di ciascuno e la consapevolezza che, come affermato dal documento Nostra Aetate del Vaticano II, “la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni”.
Concludo con un episodio accaduto il giorno di Pasqua. Dopo la celebrazione, la Casa Abramica, che è un ente governativo, ha organizzato un pranzo per noi alla fine della messa. Eravamo un gruppo numeroso e siamo stati ospitati nel forum, dove siamo stati serviti da giovani musulmani. Mentre ci godevamo questo pranzo che ci avevano preparato, ci siamo ricordati che per loro era il periodo del Ramadan, durante il quale digiunano durante il giorno. Allora abbiamo detto loro: “Grazie per il servizio che ci state offrendo, ci dispiace che ci portiate da mangiare e da bere mentre voi in questo momento non potete né mangiare né bere.” Uno di loro, con un modo molto simpatico, ci ha risposto: “Guardate, siamo proprio contenti di farvi questo regalo perché sappiamo che per voi questo è il giorno più importante dell’anno.”
Buzzetti. – 1:01:43 – Grazie, Monsignor Martinelli. Adesso vorrei concludere con una domanda per entrambi, una domanda un po’ più personale, dalla quale però nasce e continua questa ricchezza di servizio che ci avete descritto e condiviso con noi. Voi siete, come ci avete detto, entrambi due vescovi, entrambi migranti, pastori di una chiesa di migranti, e siete anche entrambi religiosi, ma appartenete a due storie e carismi differenti. Monsignor Berardi, lei appartiene all’Ordine della Santissima Trinità, anche noto come “padri trinitari”. Vorrei chiederle come la sua esperienza di vocazione personale e il carisma al quale appartiene l’aiutano a vivere ciò che è essenziale. Ci ha già detto quale sia l’essenziale, ma che cosa significa vivere in questo deserto che immagino spesso sia anche spirituale, oltre che geografico?
Berardi. – 1:02:42 – Ordine della Santissima Trinità e degli schiavi. Dunque, vedete che per noi il carisma è la comunione e la liberazione. Mi sembra che conosciate questo, no? Perché la Trinità è il fondamento, certamente con Cristo, la divinità di Cristo, il fondamento della nostra fede. Poi abbiamo ricevuto questa libertà e dobbiamo vivere come figli e figlie liberi e, dunque, non è accettabile quando uno è schiavizzato o prigioniero per causa della fede. Per questo la nostra fondazione risale al 1198, un po’ prima di San Francesco. Dunque, era per liberare gli schiavi al tempo della guerra e delle crociate, per dare una risposta pacifica o diversa nel conflitto che c’era tra l’Oriente e l’Occidente in quel tempo. E non torniamo sulle ragioni delle crociate, non è il momento. Ma i Trinitari sono stati fondati da San Giovanni de Mata per questo: andare senza conflitto, dovevano cavalcare un asino. Dunque, un asino in guerra non serve a niente, quindi significa che lo scopo, il carisma, era quello di andare alla liberazione, per liberare gli schiavi o i prigionieri delle crociate o delle razzie, ma anche i turchi, vi ricordate, sulle coste italiane o spagnole. Dunque, dovevano andare e dialogare, discutere col mondo islamico. Abbiamo, quindi, una lunga storia di dialogo con l’Islam, forse qualche volta commerciale, diciamo, per riprendere gli schiavi o scambiare quelli musulmani che erano in Occidente con i cristiani in Oriente. Una lunga storia, interessantissima, e questo carisma ci aiuta ad andare fuori, ad andare nei luoghi più difficili dove c’è questa schiavitù o mancanza di libertà. Per questo la mia comunità mi ha mandato, i miei fratelli anche, che stanno nel vicariato. Siamo stati mandati per aiutare le comunità cristiane senza sacerdoti o che mancavano di aiuto spirituale, e per questo siamo nel dinamismo del nostro carisma, essendo sul posto.
Quello che ho scoperto io, certamente legato al mio carisma, sono comunità cristiane che vivono profondamente la fede, cosa che mi ha aiutato personalmente. È un altro modo di vivere la Chiesa, qualche volta, secondo il Paese, certamente; qualche volta è classico, con le parrocchie, ma altre volte non ci sono chiese, non ci sono luoghi di incontro o possibilità di celebrare. Dunque, a chi affidiamo la Chiesa? La Chiesa non è fatta solo di sacerdoti e religiosi, siamo tutti insieme la Chiesa. Quindi, significa che l’importanza dei laici nell’organizzare, nella trasmissione della fede è importantissima in questi Paesi. Loro organizzano il catechismo, le formazioni, le preghiere quando non c’è il sacerdote; loro organizzano le comunità e la fedeltà alla Chiesa universale. È una conversione per noi sacerdoti. E poi, adesso come vescovo, devo anche tener conto di questo dinamismo importante dei laici. Non è facile convincere i sacerdoti, che vogliono sempre un po’ mettere la mano dappertutto, a lasciare lo spazio ai laici, il loro spazio, il loro vero spazio, la vera pastorale, l’evangelizzazione. Dunque, ciascuno, secondo il suo carisma, certamente, il mondo del clero e il mondo dei laici, dobbiamo collaborare insieme, dobbiamo vivere insieme per edificare l’unica Chiesa di Dio.
Anche io mi sono convertito a questo slancio perché le circostanze hanno fatto sì che non possiamo, qualche volta, organizzare le cose come a casa nostra, o come a casa dei sacerdoti in India o nelle Filippine o in Africa. È un altro modo di vivere la Chiesa, qualche volta più classica, qualche volta più dinamica, ma sempre un altro modo di edificare il corpo di Cristo. Io mi sento totalmente partecipe di questo dinamismo, di questa ricerca spirituale. Per questo penso che questa esperienza di tanti anni in quella zona mi abbia cambiato il mio modo di pregare: non prego più come prima, ma con la gente. Ha cambiato anche il mio modo di essere pastore, di lasciare spazio agli altri, di animare e far crescere i carismi che esistono. Alla fine, come ho detto, l’esempio della vita è importante: quando non possiamo parlare, ci sono segni che dimostrano che siamo cristiani. Quando un non cristiano dice: “Ecco, riconosco la tua fede come cristiano”, allora abbiamo vinto nella vita spirituale. È una sfida personale ma anche una gioia servire questa diversità di Chiesa. Grazie.
Buzzetti. – 1:09:24 – Monsignor Martinelli, sappiamo che lei è un cappuccino del carisma di San Francesco e per lei, a differenza di Monsignor Berardi, è stato anche un immergersi in un mondo completamente nuovo rispetto al suo background pastorale.
Martinelli. – 1:09:40 – La prima cosa che desidero condividere è l’idea che mi sono fatto del deserto, di cosa esso sia. Anche perché lui aveva un sacco di tempo per stare nel deserto: quando si va da una città all’altra, si passa in mezzo a questi deserti. E anche la Bibbia dice che Dio parla al cuore dell’uomo chiamandolo nel deserto. Io avevo un’immagine un po’ statica, invece mi sono accorto che il deserto è una realtà molto viva, perché è continuamente mosso dal vento, per cui non è mai uguale a se stesso. È un’immagine del mistero: Dio, infatti, non lo puoi fissare in una tua immagine; non lo puoi bloccare, ma lo puoi solo seguire, come di volta in volta ti si dona da conoscere. Questa è l’esperienza che io ho fatto del deserto come simbolo del rapporto che ciascuno di noi ha con Dio.
E poi, perché mi sono trovato nel deserto? Questa è una domanda interessante. Innanzitutto, perché i frati cappuccini sono legati al Golfo da quasi due secoli. A dire il vero, io mi ero un po’ dimenticato di questa tradizione e ho dovuto ricordarmene quando mi è arrivata la chiamata. Io ero da otto anni felicemente vescovo ausiliare di Milano e, ricevuta la telefonata, mi sono chiesto: “Cosa ci devo andare a fare in questo posto dove non sono mai stato?” Poi ho ricordato che i cappuccini sono lì da due secoli; io sono un vescovo cappuccino, quindi forse accettare questo incarico è un modo per rispondere alla chiamata del mistero. Ecco, in questo senso, cosa vuol dire cercare l’essenziale? Per me, sinteticamente, sono due parole che non posso mai separare: vocazione e missione.
Innanzitutto, l’essenziale è riconoscere la vocazione, cioè essere voluti, essere amati, istante per istante. L’essenziale è riconoscere di essere voluti: questo è il sentimento supremo della vita. Come diceva tante volte il Servo di Dio, Monsignor Giussani, non c’è nulla che possa rimpiazzare questo sentimento supremo della vita, l’essere voluti, l’essere amati. Se non c’è questo sentimento, tutto diventa un problema; se invece domina questo riconoscimento, allora i problemi fanno parte del cammino della vita. E poi si è chiamati per una missione. Ecco, questa è l’altra parola che semplifica radicalmente il rapporto con Dio, con la realtà e con se stessi. Papa Francesco, come sapete, in Evangelii Gaudium dice: “Io sono una missione.” In effetti, la missione non è una cosa da fare, ma è un modo di vivere, è un modo di percepire il tempo, lo spazio, un modo di abitare su questa terra. Significa che tu sei mandato da qualcuno, quindi sei in rapporto con colui che ti manda; sei in rapporto con Dio che si è reso presente nella storia. Così come Gesù è stato mandato dal Padre, e come gli apostoli sono stati mandati da Gesù, così noi siamo raggiunti dal mistero di Dio attraverso la Chiesa, attraverso il Papa che ti chiama e ti invia in un posto dove non avresti mai immaginato di andare.
E poi sei sempre mandato a qualcuno; la missione non è mai generica. Sono mandato innanzitutto a servire il popolo santo di Dio nel Golfo, sono inviato tra i nostri fratelli musulmani e delle altre religioni, non per fare proselitismo, ma per servire, amare e testimoniare a loro la gioia del Vangelo, imparando da loro tutto ciò che c’è di autentico e camminando insieme per costruire un mondo più giusto, più fraterno e più umano nella prospettiva del Regno di Dio. Inoltre, si è sempre mandati con qualcuno, non si è mai missionari da soli. Non si comprende la propria vocazione missionaria se non vivendo la comunione e la fraternità con coloro che ti sono dati come compagni di viaggio. Penso ai miei sacerdoti, ai miei frati, alle persone consacrate; penso ai tanti amici che il Signore non mi fa mai mancare e penso allo stesso popolo santo di Dio, che spesso sono proprio loro a sostenere, sento, la mia vita dentro questa missione.
Devo dire che l’esperienza che sto vivendo da due anni ha trovato una buona palestra nella diocesi di Milano, dove sono stato vescovo ausiliare, prima sotto l’episcopato del cardinale Scola e poi dell’arcivescovo Delpini. La diocesi di Milano è certamente una grande palestra di interculturalità e si può vedere in atto quel meticciato di culture, di civiltà; si vede questa “Chiesa dalle genti”, un popolo formato da popoli. Qui ho imparato che il fenomeno delle migrazioni non è solo un problema di cui prenderci cura, certamente lo è, soprattutto con i profughi e i rifugiati, ma in realtà è un processo che sta cambiando il volto della Chiesa e il volto della società.
Infine, questa posizione che cerca l’essenziale per me è possibile grazie ai testimoni e ai maestri che ho avuto la grazia di incontrare nel mio cammino. Penso ai tanti frati, alla formazione francescana ricevuta. Da piccolo sono sempre stato affascinato dalla semplicità e dall’essenzialità della vita di San Francesco d’Assisi e dal suo puntare all’essenziale, al Vangelo, a Cristo, ma anche dalla sua straordinaria capacità di dialogo con tutti, tra cui emerge l’incontro con il Sultano. Di questo incontro si trova traccia nella regola non bollata, quando San Francesco dice come i frati devono comportarsi quando vanno tra i saraceni: “Non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani e quando vedranno che piace al Signore annuncino la parola di Dio, semplice ed essenziale.”
Tuttavia, e con questo concludo, penso che San Francesco non mi avrebbe così colpito, fino a destare in me il senso della chiamata, se non avessi incontrato anche il carisma di Don Giussani, di cui ho potuto seguire i corsi all’Università Cattolica. Soprattutto il corso sul senso religioso è per me indelebile e prezioso anche oggi per il dialogo con i fedeli delle religioni diverse. Veramente non c’è una persona umana che non faccia i conti con il senso religioso, con questa esigenza fondamentale di un senso ultimo a tutto quello che viviamo. Anche oggi ricorro frequentemente a quelle lezioni che mi richiamano alla posizione giusta di fronte alla realtà e a riscoprire quel desiderio ultimo, quella domanda che accomuna tutti sul senso della vita e della morte, della gioia e del dolore, che ci permette di alzarci ogni giorno per lavorare affinché venga il Suo Regno.
Buzzetti. – 1:17:45 – Grazie ancora davvero di cuore perché ci avete fatto vedere cosa significa vivere l’essenziale della fede nella propria persona e quindi fecondare davvero anche il deserto. Grazie di nuovo da parte di tutti. Volevo anche dare un breve avviso. Avete visto che ci sono in giro questi desk con il “Dona Ora con il cuore”. Il Meeting ha deciso, dopo le parole che ci ha rivolto il Cardinale Pizzaballa, proprio in merito alla domanda su come costruire il dialogo e la pace, di devolvere una parte delle donazioni che saranno raccolte durante questo Meeting proprio per l’emergenza in Terra Santa. Grazie ancora a tutti e buona serata.