TECNOLOGIA: UN GRANDE BENE O IDOLATRIA?

Tecnologia: Un grande bene o idolatria?

Tecnologia: un grande bene o idolatria?

Partecipano: Marco Carrai, Presidente Cambridge Management Consulting Labs Srl; Roberto Cingolani, Direttore Scientifico Istituto Italiano di Tecnologia; Maximo Ibarra, Amministratore Delegato Wind Spa; Fabio Pammolli, Docente all’Institute for Advanced Studies di Lucca; Mario Rasetti, Presidente Institute for Scientific Interchange Foundation. Introduce Andrea Simoncini, Docente di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Firenze.

 

ANDREA SIMONCINI:
Buonasera, e benvenuti a questo nostro incontro sul tema: “Tecnologia, un grande bene o idolatria?”. Quando si programma il Meeting, lo si fa sempre molto in anticipo, e si spera sempre che dalla concatenazione degli incontri, degli eventi, delle presentazioni e delle conferenze possa emergere un filo unitario. D’altronde, questa è una manifestazione in cui si svolgono decine e decine di incontri e il rischio è di essere un po’ dispersiva. Il rischio è che tra un incontro e l’altro ci siano approcci, tagli diversi. Ecco, pur nella nostra migliore aspettativa di riuscire a creare un legame unitario, certo non avremmo forse immaginato quanto in realtà l’incontro di questa sera finisca per collocarsi esattamente in connessione con molte delle riflessioni che sono emerse fino ad adesso.
Il tema che affrontiamo stasera è la tecnologia, non c’è bisogno di dire quanto oggi la tecnologia abbia cambiato e stia cambiando il volto della nostra vita e proprio perché non voglio dirlo io, vorrei, per introdurre, prendere a prestito la descrizione che ne fa Papa Francesco nella sua recentissima enciclica, Laudato si’, dove a mio avviso coglie un po’ il cuore del problema che vorremmo affrontare questa sera.
Dice Papa Francesco al capitolo 3: “L’umanità è entrata in una nuova era in cui la potenza della tecnologia ci pone di fronte ad un bivio. Siamo gli eredi di due secoli di enormi ondate di cambiamento: la macchina a vapore, la ferrovia, il telegrafo, l’elettricità, l’automobile, l’aereo, le industrie chimiche, la medicina moderna, l’informatica e, più recentemente, la rivoluzione digitale, la robotica, le biotecnologie e le nanotecnologie. È giusto rallegrarsi per questi progressi ed entusiasmarsi di fronte alle ampie possibilità che ci aprono queste continue novità, perché «la scienza e la tecnologia sono un prodotto meraviglioso della creatività umana che è un dono di Dio». […]Tuttavia non possiamo ignorare che l’energia nucleare, la biotecnologia, l’informatica, la conoscenza del nostro stesso DNA e altre potenzialità che abbiamo acquisito ci offrono un tremendo potere. Anzi, danno a coloro che detengono la conoscenza e soprattutto il potere economico per sfruttarla un dominio impressionante sull’insieme del genere umano e del mondo intero. Mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene, soprattutto se si considera il modo in cui se ne sta servendo”.
Siamo di fronte ad un bivio, la tecnologia, la scienza ci pone davanti delle possibilità inedite, possibilità che sono anche possibilità economiche inedite. Come vedrete l’incontro di questa sera mette insieme il profilo scientifico e tecnologico con il profilo economico imprenditoriale. La nuova tecnologia è anche occasione di nuovo sviluppo economico, nuova occasione di impresa, eppure questa nuova opportunità, per usare le parole dell’incontro che Monica Maggioni ha magistralmente moderato poco fa, per usare le parole del prof. Weiler, “non elimina il problema del dovere, della responsabilità”. Queste possibilità, anzi paradossalmente potenziano la capacità di scelta dell’uomo e dunque non risolvono automaticamente la domanda per che cosa uso, per chi, con quale scopo uso queste possibilità.
Per affrontare questo tema, abbiamo un panel, come si suol dire, un insieme di relatori eccezionale, sia dal punto di vista del prestigio e del grado di innovatività sia dal punto di vista della capacità di intrapresa, della capacità di proporre queste novità anche sul piano economico.
In particolare, Marco Carrai, Presidente Cambridge Management Consulting Labs Srl, è colui al quale si deve anche gran parte dell’ideazione di questo incontro e dei nomi che sono qui questa sera. Con Marco Carrai ci sarà il professor Roberto Cingolani, Direttore Scientifico dell’ Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, il professor Mario Rasetti, Presidente dell’ Institute for Scientific Interchange Foundation di New York; alla mia sinistra Maximo Ibarra, che è Amministratore Delegato di Wind S.P.A. e per chiudere il professor Fabio Pammolli, che è Docente all’Institute for Advanced Studies di Lucca. Chiederei a Marco di cominciare.

MARCO CARRAI:
Grazie prof. Simoncini, anzi grazie Andrea per l’invito. La tecnologia null’altro è che una emanazione dell’uomo e il problema è quando la tecnologia da oggetto dell’uomo diventa soggetto. Nell’incontro precedente avete sentito proferire parole come dovere, coscienza, libertà, i responsabilità, che sono in definitiva le parole cardine di come l’uomo si comporta nella vita e quindi anche di fronte alle grandi sfide, all’entusiasmanti sfide della tecnologia. A me piace iniziare con un film, mi piace iniziare con “The imitation game”, un film che non so quanti di voi avranno visto. Questo film parla di un personaggio, ai più sconosciuto, ma di un grandissimo personaggio che si chiama Alan Turing. Chi era Alan Turing? Alan Turing oggi probabilmente sarebbe definito da alcuni un pazzo, da altri un genio, in realtà Alan Turing era un genio e ha contribuito anche alla fine anticipata della seconda guerra mondiale.
Alan Turing era un matematico, che il Governo inglese chiamò con altri matematici e fisici nel famoso gruppo di crittografi, stabilitisi a Bentley Park, per decriptare quelli che erano i codici che i nazisti utilizzavano per dare le comunicazioni alle navi da guerra per affondare i rifornimenti verso l’Inghilterra e in definitiva le navi da guerra alleate.
Alan Turing fu mosso sì dall’amore per Sua Maestà, la Regina, ma fu mosso soprattutto dall’amore per la ricerca dell’infinito, dall’amore per la ricerca della conoscenza, dall’amore della propria ragione e del dare ragione al proprio essere. Riuscì a decriptare i codici andando a realizzare quella che è chiamata “la macchina di Turing”, che in definitiva è un sistema basato sul calcolo computazionale, che è il progenitore dell’attuale computer.
L’attuale personal computer null’altro è che il prodotto di una ricerca nata da questo grandissimo matematico, anche controverso matematico, che creò decriptando dei codici, il cosidetto machine learning.
Ma machine learnign è ancora di più. Il machine learning è alla base di quello che anni dopo nascerà con il nome di Yahoo e di Google. Alla base degli algoritmi che fondano Facebook, Amazon, Google, Yahoo sta il machine learning, che è una primordiale forma di intelligenza artificiale, che a nostra insaputa condiziona la nostra vita tutti i giorni.
Il prof. Rasetti, molto meglio di me, andrà a descrivere quali siano le grandi opportunità del cosiddetto big data, perché dal machine learning nascerà quello che oggi noi chiamiamo le analitics, cioè il big data.
Vi do alcuni numeri, che lui darà molto meglio di me. Tutti gli anni, nelle sole comunicazioni sociali, quindi Facebook, Mail, Twitter, vengono prodotti un numero che il prof. Rasetti mi ha dato. Tutti gli anni si producono 10 alla ventunesima byte, cioè cento miliardi di miliardi di dati. È un po’, dice sempre Rasetti, come se venisse stampata 323 miliardi di volte, Guerra e pace, un libro di 1250 pagine, ma è soprattutto un’altra cosa molto significativa.
10 alla ventunesima è anche all’incirca il numero di Avogadro che in realtà è 6,022 per 10 alla ventitreesima, cioè, non mi addentro in questioni fisiche, la particella più piccola. Il nostro sconfinato sistema di comunicazione si avvicina a quello che c’è di più piccolo, all’unità di misura della quantità di sostanza: l’infinitamente piccolo è stato raggiunto dallo sterminato sistema di comunicazione.
Non sappiamo se questo sia un bene o un male, e soprattutto non sappiamo quello che noi abbiamo dentro, il numero di Avogadro, ma sappiamo tutto di tutti. Se questo appunto sia un bene o un male lo scopriremo più avanti. Mi piace fare da questo punto di vista un salto quantico, e poi Rasetti ci informerà anche sul quanting computer, cioè su quello che è la cosa più vicina all’intelligenza artificiale: trasformare le stringhe di dati di zero in uno, tramite la fisica quantistica, per andare a fare calcoli milioni di volte più potenti di quelli degli attuali algoritmi di Yahoo e di Google, quindi in qualche modo di realizzare veramente per la prima volta l’intelligenza artificiale.
Ma faccio un salto quantico e riprendo le parole di Julián Carrón nel suo intervento, anni fa, alla presentazione del volume Charity, terzo dei tre tomi in inglese del percorso del libro di don Giussani, Si può vivere così, intorno alle tre virtù teologali, fede, speranza, carità: “Non sono parole, fede, speranza, carità – ci descrive Carrón – non sono parole che si sovrappongono all’esterno dell’esistenza umana, ma un fatto che entra nella struttura dell’io, nella sua autocoscienza – parola chiave – con la pretesa di rispondere al problema della vita. Questo infatti è in gioco soprattutto oggi, che la vita valga la pena di essere vissuta. Noi non sappiamo capire che cos’è la carità senza prendere coscienza della nostra natura bisognosa. Essa viene fuori nel rapporto con ogni cosa. Niente ci basta. Il poeta Mario Luzi – dice sempre Carrón – descrive in modo insuperabile in che consiste questa natura: «Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?». La natura di questa mancanza – continua Carrón – si rende evidente quando cerchiamo di rispondervi. I piaceri costituiscono spesso il primo tentativo di colmare il vuoto di questa mancanza, ma ci aspetta una sorpresa descritta da Cesare Pavese in un modo ineccepibile: «Ciò che l’uomo cerca nei piaceri è un infinito e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di conseguire questa infinit໓.
Ecco, è questa tensione verso l’infinito la risposta al tema di oggi: “Tecnologia: un grande bene o idolatria?”. Nella storia, le grandi innovazioni sono nate essenzialmente per due motivi, per dare una risposta ad un problema pratico oppure per dare una risposta alla necessità di infinito, quindi alla voglia di ricerca che è dentro ciascuno di noi.
Faccio due esempi. Charles Carlston, che probabilmente nessuno di voi conoscerà, lavorava all’ufficio brevetti, e doveva ricopiare a mano i disegni dei brevetti. Ad un certo punto nella sua vita gli prende l’artrite e quindi non può più continuare a copiare a mano, perché all’epoca la fotocopiatrice non c’era. Però vedendo che gli passavano sotto mano alcuni brevetti, all’epoca non c’era internet, trovò delle nuove scoperte fisiche che resero possibile la creazione della prima fotocopiatrice. Andò a presentarle a IBM, il quale non capiva cosa fosse, poi il Governo americano gli dette una commessa, gli americani sono molto bravi a fare queste cose, e da IBM fu fondata la Xerox. È la storia della fotocopiatrice, nata perché ad un signore dell’ufficio brevetti veniva l’artrite a una mano. Quindi si parte da un problema personale per arrivare ad una invenzione che ha cambiato parte della storia moderna, fino ai nostri giorni.
D’altra parte anche Alan Turing parte da un problema della ricerca, della propria ricerca di infinito, che mette a servizio di Sua Maestà, ma ciò che lo spinse fu l’amore e la ricerca.
Un altro gruppo però, che si stabilì a Manhattan, e partiva sempre dall’amore per la ricerca, finì per inventare un’altra cosa: la bomba atomica.
Dove sta allora la differenza tra Alan Turing e il progetto Manhattan?
Dove sta il limite della ricerca di raggiungere l’infinito della conoscenza?
Nella nostra autocoscienza e nella regolamentazione. Riprendendo le parole del Papa nell’enciclica Laudato si’, “ogni epoca tende a sviluppare una scarsa autocoscienza dei propri limiti”. Vi faccio un semplice esempio. Lo smartphone ci ha cambiato la vita di tutti i giorni, è nato un eco sistema, l’eco sistema delle app.
Fino a poco tempo fa nessuno sapeva cosa fosse una app. L’esigenza ha creato anche una esigenza, quella di rimanere tutti connessi. Il mondo delle app ha rivoluzionato in modo permanente il nostro modo di vivere come mai forse era successo dopo l’invenzione del motore a scoppio.
Tre esempi di cosa vuol dire l’innovazione tecnologica nel mondo. La più grande società immobiliare al mondo è una società nata tre anni fa, che si chiama Air B&B: non possiede neppure un immobile.
Il più grande trasportatore al mondo è una società nata 5 anni fa, che si chiama Uber: non possiede neppure una macchina.
Il più grande market al mondo non è Amazon o Ebay, ma è una società cinese, si chiama AlìBaba ed è grande cinque volte Ebay e Amazon messe insieme: non ha neppure un negozio.
Questa è la rivoluzione copernicana che abbiamo avuto in questi ultimi anni. Le app scatenano la creatività di ognuno, ma anche se non ce ne siamo accorti creano i più grandi monopoli, con il rischio, come dice Papa Francesco, che si riducano le capacità di decisione personale e la nostra libertà più autentica.
Oggi, di noi, sa più Google, Facebook e Amazon, di quanto sappia la guardia di finanza, i carabinieri e i servizi segreti messi insieme.
Io non so se questo sia un bene e un male, ci pone però un problema enorme, un problema che un grande filosofo del ’900, il primo marito di Hannah Arendt, Günther Anders, descrive in due volumi, quando dice che l’uomo è antiquato, e introduce il concetto di “vergogna prometeica”.
La vergogna prometeica – Prometeo come sapete è l’uomo che ruba il fuoco a Dio e lo dona agli uomini – è anche l’uomo che, di fronte alla grandissima tecnologia, si sente inadeguato. Questo è un problema naturalmente di natura sociale, ma anche un problema quotidiano. La mia piccola nipotina Livia, che ha un anno e sette mesi, se le diamo in mano un cellulare, senza saperlo fa così e allarga, mentre mio padre, che ha creato tante cose, non sa fare. Questo è sì un problema, ma è anche una sterminata opportunità, perché noi possiamo avere delle applicazioni incredibili. Pensate alla ricerca che non potrà più essere fatta in vitro, ma che sarà fatta artificialmente, andando a stringere sia i risparmi che i tempi per le nuove scoperte mediche; oppure alla gestione dei flussi logistici: se voi siete un abitante di New York e fate la spesa su Amazon, quando riempite il carrello, scoprite che metà del carrello è già riempito, perché Amazon sa quello di cui avete bisogno prima di voi e comincia a riempire il carrello prima che voi pigiate il bottone. E’ un limite alla nostra libertà? Non lo so. Io so che è solamente una enorme opportunità e che è una enorme opportunità in mano all’uomo, in mano alla libertà dell’uomo e in mano anche al coraggio che ogni uomo ha e deve e dare alla propria vita per essere uomo. Non è il telefonino il nostro problema, ma il genio umano, che può essere un problema o può non esserlo e secondo me non lo è quando si mette alla ricerca dell’infinito, alla ricerca di quella libertà che, come diceva Antigone, “è iscritta dai cieli nei cuori degli uomini”. Grazie.

ANDREA SIMONCINI:
Grazie. Ora a lei la parola, professor Rasetti.

MARIO RASETTI:
Il titolo di questo incontro è “Tecnologia: grande bene o idolatria?”. Inizio subito dicendo che sono molto più dalla parte di chi la considera un grande bene che non una idolatria. Credo che questo sia un momento epocale, estremamente importante e interessante, nel quale sta succedendo qualche cosa che nella storia è successo poche volte. Noi stiamo avviando una società con un modello strutturale diverso dal consueto, che è la società della conoscenza, una società nella quale il bene principale, il bene sul quale si fonderanno anche i poteri, il benessere, l’essere uomo, è la conoscenza. E nello stesso tempo sta nascendo sul fronte tecnologico il fatto che finalmente abbiamo gli strumenti per affrontare e sostenere questa società della conoscenza. Si parla di quinta rivoluzione dell ICT, dove la prima era dell’ICT erano i computer, i grandi computer degli anni ’70, poi venne il pc, il personal, poi internet, poi il web 1.0. Poi i cellulari e il web 2.0 se volete, e questo è il quinto passo di questa evoluzione, il big data. Ma i big data sono una cosa che assomiglia molto a quel fatto storico di importanza incommensurabile che fu l’invenzione della stampa. Fermatevi un momento a riflettere su che cosa significò l’invenzione della stampa. L’invenzione della stampa significò il passaggio degli strumenti della conoscenza, della tradizione e del sapere e del modo di vivere quindi, dalle mani di pochi, di pochissimi, a comunità sempre più allargate. La rivoluzione della stampa non consistette solo nel fatto che si potessero riprodurre più libri, ma che si potessero riprodurre a costi tali che ben presto si diffusero a tutti i ceti sociali. E’ la nascita delle grandi intellighentie, della categoria stessa degli intellettuali e poi successivamente dell’alfabetizzazione. Bene, io credo che big data sia una cosa della stessa portata epocale. I big data danno origine a un nuovo modello di società, la società iperstestuale, una società nella quale gli uomini comunicano fra di loro non soltanto con quegli strumenti che derivano dal loro essere uomini, quindi il linguaggio e la scrittura, ma da relazioni interpersonali che sono mediate da un meccanismo di interazione inedito, dovuto alla tecnologia. Questo crea nuove modalità di equilibrio tra gli individui e la comunità a cui appartengono, crea nuove tensioni tra i concetti di libertà, dignità, uguaglianza che, contrariamente a quello che succedeva, con gli strumenti tradizionali, e questa è la potenza della nuova stampa che è il digitale, sono quasi istantanei nella diffusione globale. Quanto sono grandi i big data ve l’ha detto Marco Carrai, che ha citato anche i numerini con i quali io mi diverto a stupire gli studenti. Oggi giorno, scriviamo 350 miliardi di volte Guerra e pace, ma stiamo avvolgendo il mondo di una sterminata quantità di dati, che è l’equivalente di 350 miliardi di volte Guerra e pace, dei quali sappiamo far poco e abbiamo bisogno di tutti gli strumenti possibili perché in quei dati è racchiuso tutto. Questo, che vedete ora, è un film che vi mostra come, dai primi dell’’800, la distribuzione della temperatura sulla terra. Il bianco è il valore medio degli ultimi 100 anni, il blu e il rosso sono gli spostamenti verso il freddo e verso il caldo. Fate attenzione a cosa succede negli ultimi 10 anni. Sono i dati che ci consentono di avere questo tipo di informazione. Sono i dati che ci insegnano a vivere la nuova vita, che questa società della conoscenza ci chiamerà a vivere, in una maniera che riesca ad essere all’altezza delle sfide di questo mondo, dove ci sono 7 miliardi e mezzo di persone e 4 miliardi e mezzo di cellulari (di persone posseggono un cellulare). E’ il primo strumento che più di metà della popolazione del Globo possiede. Vi racconto un aneddoto che è una metafora che vi fa capure perché i dati sono importanti. Credo tutti voi ricordiate, l’epidemia aviaria del 2009. L’aviaria è una storia di contemporaneità dura, ci dice come è duro il mondo nel quale viviamo. La storia è semplice: un signore americano visita un allevamento di polli a Hong Kong e si prende il virus H1N1, il virus dell’aviaria, e poi ritorna a Los Angeles. Nel viaggio da Hong Kong a Los Angeles, era in mezzo ad altre 500 persone, che per 10 ore hanno tutte respirato la sua stessa aria. L’aria degli aerei è filtrata, ma non a livello del diametro di un virus. Arrivati a Los Angeles, almeno 300, di queste persone avevano il virus: alcuni hanno preso altri aerei, alcuni sono andati a casa e hanno abbracciato i loro bambini e i bambini il giorno dopo hanno preso l’autobus che li portava a scuola. Oggi, le malattie infettive si propagano con meccanismi che sono assolutamente diversi da quelli del passato. La peste del 1370 ci mise 4 anni a spazzolare tutta l’Europa: la ragione era che il morbo era portato dal morso dei topi e il percorso medio dei topi è di pochi metri. Ammazzò però 25 milioni di persone in una Europa che ne aveva 40. Oggi i virus tipo H1N1, sono sotto controllo. Noi riusciamo, con l’analisi dei dati, a fare una cosa che finora non sapevamo fare. Da sempre raccogliamo dati, in particolare la scienza vive raccogliendo dati e cercando di interpretarli, i dati sono un’informazione sulla cosa di cui vi state occupando e sono un’informazione che ricorda la fotografia. Voi fotografate un pezzo di società, un fatto naturale, un fenomeno fisico raccogliendo dati che lo descrivono. Nel momento in cui però fate una fotografia, però, consegnate la cosa che avete fotografato al passato, perché il sistema si evolve. Voi avete una bella fotografia, ma la cosa fotografata intanto è andata avanti. La grande sfida dei dati è quella in base ai quali noi, in particolare il mio istituto di Torino, l’ISI, Istituto per interscambio scientifico, abbiamo costruito questo algoritmo capace di prevedere. Noi oggi cerchiamo di avvicinarci ai dati con tecniche di intelligenza artificiale sostanzialmente, in maniera tale che quello che fotografiamo, lo fotografiamo nel momento attuale ma riusciamo anche a vedere dove sta andando. Con H1N1 i risultati furono clamorosamente buoni, tant’è che oggi l’Organizzazione Mondiale per la Sanità ha adottato il nostro algoritmo. Che cos’è un algoritmo? E’ un insieme di tecniche sostanzialmente matematiche, di matematiche abbastanza esoteriche, per entrare nei dati ed estrarre informazioni. Il vero percorso che noi dobbiamo imparare a fare è passare da questa enorme massa di dati che ci circonda. Il problema è che abbiamo passato il crossing point, abbiamo passato il punto per cui la quantità di dati che produciamo è più grande della nostra capacità di immagazzinarli. Se non siamo in grado di immagazzinarli tutti, chi decide cosa si butta via? Chi decide cosa è importante tenere, cosa è importante buttare? L’algoritmo è la cosa che usa Google. Quando usate Google, voi scrivete 4 o 5 parole e in un tempo che è tipicamente inferiore al centesimo di secondo, Google vi scrive: ho trovato 2 miliardi di risposte. 2 miliardi e mezzo, qualche volta di più. La forza di Google però non è che vi ha trovato 2 miliardi e mezzo di risposte, ma che ve li ordina in maniera che sono in ordine decrescente di correlazione con la domanda che avete fatto e quindi voi, la vostra risposta, la trovate in due pagine, molto spesso nelle prime 10 cose che vi sono offerte. Fare algoritmi significa questo. E’ una nuova cultura e io vorrei concludere citando un dato: una delle cose che io trovo intollerabile nella società italiana è il fatto che ci sia il 42 % dei giovani che sono disoccupati. Poco più di un anno fa è stata fatta una ricerca secondo la quale i big data sono il lavoro del futuro e la società futura vivrà se saprà manipolare i dati e se realizzerà la società della conoscenza. Solo negli Usa si pensa che occorreranno per questo lavoro quasi tre milioni di lavoratori. Ora, come è possibile che nella nostra società il 42 % dei giovani, che sono quelli che posseggono questi strumenti, rimangano disoccupati? L’Europa non si è neanche degnata di calcolare questi numeri e di provare a stimare quanti ce ne servono. Spesso le università americane non sono in grado di gestire questa richiesta clamorosa. Io sono orgoglioso del fatto che al nostro istituto negli Stati Uniti è stato chiesto di tenere dei corsi per i docenti delle università americane in data scienze, cioè in quelle branche della scienza che ci insegnano a gestire i dati.

ANDREA SIMONCINI:
Grazie al professor Rasetti. I tempi sono molto stringati ma è riuscito a darci uno spaccato decisamente affascinante di questa prospettiva. Ed ora passiamo ad un’altra frontiera di questo futuro che non immaginavamo, che è quello della robotica. La parola al professor Roberto Cingolani, Direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova.

ROBERTO CINGOLANI:
Non so quanti di voi abbiano la percezione del fatto che la nostra vita media, la nostra aspettativa di vita aumenta di tre mesi ogni anno, il che vuol dire che fra una trentina d’anni, il secolo sarà uno standard raggiungibile d’esistenza e non so, allo stesso tempo, quanti di voi hanno la percezione che questa cosa è vera solo per una ventina di Paesi nel mondo, mentre c’è un’enorme fetta del pianeta in cui la vita media non avanza. Tutto questo è vero perché la tecnologia, compreso il big data, compresa la rivoluzione digitale, ha permesso di simulare farmaci in tempi molto più rapidi della loro composizione chimica, di avere ospedali, macchine di diagnostica, di avere condizionatori, frigoriferi, lavatrici, l’igiene, la scuola, l’istruzione, tutto. Però è un fatto che è riservato a pochi, circa il 20 % della popolazione del pianeta. Nel 2050, saremo 9 miliardi, questo è un fatto abbastanza incontrovertibile, e avremo nei Paesi ricchi, quelli dove la vita media cresce molto, il 35% di over sixtyfive, quindi avremo il problema di avere circa un lavoratore attivo per ogni lavoratore in pensione. Altrove probabilmente assisteremo a flussi migratori molto peggiori di quelli che abbiamo adesso, che sono proprio un frutto del riequilibrio di un sistema termodinamico che non funziona. Se vi dicessero, senza essere laureati in fisica: c’è una bottiglia piena d’acqua, in un angolo la temperatura è di 100 gradi, tutto il resto è di 20 gradi. La vostra reazione sarebbe probabilmente quella di dire: no, prima o poi la temperatura si deve ridistribuire, la bottiglia deve arrivare a 40 gradi, a 50. Questo succede in qualunque sistema complesso, non solo in una bottiglia d’acqua: a maggior ragione in una società di 9 miliardi di abitanti che è molto sbilanciata. Oggi produciamo, grazie a queste rivoluzioni tecnologiche, a questi grandi beni tecnologici, tantissime cose, tantissimi prodotti e utilizziamo 2600 km cubi di acqua dolce ogni giorno. La maggior parte di questa è usata per la produzione industriale. Nei nostri Paesi occidentali consumiamo dai 250 ai 350 litri d’acqua dolce al giorno pro-capite. Il limite biologico per l’esistenza è 5 litri, in grande parte del mondo ci sono meno di 50 litri, in alcune parti meno di 20 litri. Allora è un grande bene? C’è una fregatura? C’è qualcosa che non funziona? Dobbiamo rifletterci.
Cinquant’anni fa, un’informazione viaggiava in circa tre settimane da un punto all’altro del pianeta. Oggi ci mette tre decimi di secondo. Questo ha generato la rivoluzione digitale di cui parlavamo adesso. Non so se vi siete mai chiesti da dove venga tutto questo, perché sembra che il software, gli algoritmi siano cose che crescono sugli alberi e basti annaffiare; in realtà tutto questo ha un origine fantastica. C’erano tre tizi un po’ autistici che nei sotterranei di Bell Lab, negli anni ’50, studiavano la resistenza di un oggetto assolutamente inutile che si chiama “germanio”, che è un materiale abbastanza inutile tuttora. E hanno scoperto che un pezzo di germanio può essere isolante o conduttivo a seconda di certe situazioni. Insomma hanno fatto una cosa molto furba, hanno preso un pezzo di germanio, gli hanno messo una corrente in questa direzione e poi hanno misurato la corrente da qua; quindi un campo elettrico, una pila collegata qui e misuravano la corrente a questi capi. E hanno visto che a seconda della pila, se era accesa o spenta, c’era conducibilità, cioè corrente che passava in questa direzione. Avevano inventato l’interruttore. Questo era il dito, e questo era quello che faceva passare la corrente. Questo interruttore era grande due centimetri e mezzo, e non serviva rigorosamente a nulla. Hanno vinto il Nobel, però non serviva a nulla. Cinquant’anni dopo è grande come una proteina. Qua dentro ci sono dei circuiti integrati grandi due centimetri quadrati che ne contengono un miliardo, perché siccome ognuno di questi interruttori è grande come una proteina, ce ne infilo quanti ne voglio in un centimetro quadrato. Un interruttore è noto perché fa acceso o spento, che dai tempi dei marinai – io vivo a Genova mio malgrado – vuol dire uno o zero, vuol dire codice Morse. Insomma, complicando un po’ di più vuol dire alfabeto, vuol dire processare le informazioni. Se io ho un miliardo di interruttori molto veloci che si parlano fra loro, ben coordinati, sono in grado di processare un sacco di sequenze di uno e di zeri, e quindi di processare informazioni in maniera estremamente rapida. Ecco perché i computer diventano sempre più veloci, i telefonini sempre più performanti, ecco perché facciamo miliardi e miliardi e miliardi di operazioni in poco tempo. Sapete quante operazioni fa un essere umano in un secondo? Il metabolismo cellulare di un essere umano equivale a dieci alla diciotto operazioni al secondo. Cioè un miliardo di miliardi di operazioni al secondo. La grande differenza è che io le faccio con un cervello che ha un volume di due litri e consuma quaranta volt e un pezzo di cioccolata, mentre il computer che deve usare Amazon o Google, i computer che devono usare per gestire più o meno le stesso numero di informazioni al secondo, sono grandi come questa stanza e vogliono dai trenta ai cento megavolt, quanto una città. Allora la tecnologia è un grande bene, ma è molto indietro ancora, molto indietro, è tremendamente indietro rispetto a quello che ha fatto l’evoluzione, e questo genera degli sbilanciamenti pazzeschi. Se il silicio fosse stato la giusta soluzione, noi ci saremmo evoluti verso il silicio, invece siamo acqua e carbonio, e non siamo più furbi dell’evoluzione, credetemi. Poi ognuno può credere che ci sia un grande architetto o che ci sia una teoria darwiniana, io non entro nel merito; sta di fatto che sia che ci sia l’architetto sia che ci sia la teoria darwiniana non siamo più furbi dell’evoluzione. E quindi la tecnologia ha moltissimo da fare, moltissimo. Ciononostante, oggi, che siamo ancora primitivi rispetto all’evoluzione, siamo arrivati ad avere delle performance di calcolo simile ad un essere umano, a dei costi energetici estremamente elevati. Ci si è aperto questo orizzonte pazzesco: tutti abbiamo due cellulari a testa con cui non ci facciamo rigorosamente nulla, perché se andate a vedere quanti megabyte scambiate seriamene col vostro cellulare, sono pochi, lo usate per fare foto e telefonate, mentre abbiamo in tasca un cervellino che potrebbe fare molto di più di quello che fa. Allora, siccome oggi, grazie a questi big data, a questi super computer, fare un genoma costa da cento a mille dollari, abbiamo la possibilità di allungare la vita dove è possibile. Però questo vale solo per certe persone, non vale per una grande fetta della popolazione del pianeta. Quindi, cosa deve fare lo scienziato? Intanto deve sviluppare un programma di scienze e tecnologia, supportato dallo Stato in cui vive, che ambisca a ridurre il gap tra quel 20%, la cui aspettativa di vita aumenta di tre mesi l’anno, e quell’80% la cui aspettativa di vita non aumenta. Ridurre il gap fra i due stati del pianeta non vuol dire abbassare chi sta meglio, vuol dire far innalzare chi sta peggio. E quindi mettere in piedi delle tecnologie cosiddette “twofold” o addirittura “multifold”, bivalenti o multivalenti, per rendere portatile la diagnostica e la farmaceutica, i materiali, la sostenibilità di certi materiali, il riciclaggio, la purificazione dell’acqua eccetera. Queste sono le grandi sfide. Sono sfide infinite, enormi, che si basano fortemente sulla aumentata capacità di calcolo, sulla capacità di analizzare immense masse di dati. Da sempre noi diciamo che scienza e coscienza devono andare insieme. Tutte queste cose di cui vi ho parlato sono dei grandi beni ma hanno rovesci pericolosi. E non bisogna scomodare la bomba atomica, cose grosse. Voi avete visto, l’undici settembre 2001, che un Boeing 737, che è un aereo civile, che non è stato pensato per uccidere, per fare male a nessuno, se utilizzato da un imbecille, diventa un’arma di distruzione di massa che ammazza tremila persone. Allora, io non credo che nessuno si sia mai posto il problema dell’etica dell’aeroplano da trasporto. Se io utilizzo un cuscino per soffocare un bambino, non mi venite a dire che c’è un problema di etica dei cuscini. Anche il cuscino ha la tecnologia, no? Memory fom, elastico, antibatterico. Allora, il punto è che noi dobbiamo dar tempo alla società di crescere in maniera sostenibilmente scientifica. Il tecnologo, il rinnovatore, il ricercatore, si comincia a formare a sei anni, con un programma di scuola che parte dai bambini. Non bisogna temere quello che non si comprende. Una società sana è una società che chiede, che chiede come funziona, che vuole capire quello che cavalca, quello che usa, quello che guida, quello che mangia. C’è tanta polemica sugli Ogm, no? Ma vi siete resi conto che la natura è tutta un Ogm? Tutto quello che c’è in natura è una modifica genetica, si chiama evoluzione, la natura ci ha messo di più, noi in certi casi acceleriamo, ma alla fine siamo tutti Ogm. Piuttosto che demonizzare, piuttosto che avere un niet culturale a priori, cerchiamo di capire, spieghiamo, confrontiamoci. Questa è una cosa che manca, a livello di divulgazione, di televisione, di scuola, di pubblico dibattito. Terzo punto e concludo. Esiste una tecnologia che risolve problemi. Poi esiste una scienza che non ha bisogno di problemi da risolvere: è il patrimonio mondiale, il patrimonio dell’umanità. Spesso noi sviluppiamo della conoscenza che oggi non serve, il transistor degli anni ’50, e abbiamo soluzioni a problemi che ancora non conosciamo. Poi, purtroppo, oggi, esiste una tecnologia di mercato che in realtà non è che sia così utile, spesso è una tecnologia che crea problemi. Ecco se io dovessi risparmiare, risparmierei su questa, perché va un po’ di moda, ma forse è meno importante di altre. Non è comunque che sia tutto questo gran male, purché sia chiaro che esiste una scienza che non ha bisogno di un problema e che esiste una scienza che invece deve risolvere un problema. Queste sono le due cose che noi dobbiamo perseguire come pubblico, come privato, come cittadini, come Stato, formando anche la classe di giovani, a partire dai ragazzini, che chiede anche perché e che ha un po’ di coscienza. La cultura scientifica, tecnologica e non, va metabolizzata. E qui concludo con una nota un po’ triste. Vi ricordate quel gruppo di radical chic, molto nutrito, che cinque, sei, sette anni fa diceva che la primavera araba, grazie ad internet, aveva trasformato le zone sofferenti del pianeta in oasi? Ecco andate a vedere cosa c’è adesso. Lungi da me dire che i dittatori che c’erano prima fossero meglio; però io ho tre figli, se io al mio figlio di sei anni gli faccio vedere un bel filmato di uno che guida un aereo su internet, e gli dico: ecco, questo è l’aereo, adesso decolla; probabilmente non gli è bastato vedere il filmato su internet, per imparare a guidare l’aereo. Questo per dire che i grandi scenari sociali, demografici, che hanno a che fare con l’organizzazione di sistemi complessi come la società, non si possono vedere su internet scimmiottando dei modelli e sperando che poi questi vengano trasferiti sic et simpliciter. La cultura di un popolo va maturata: facciamo tredici anni di scuola per arrivare a studiare la seconda guerra mondiale. Ci vorrà più o meno lo stesso perché un popolo capisca quanto è difficile gestire una democrazia. Questa è una grande responsabilità della tecnologia, è stato un grande errore di questo tipo di tecnologia. Siccome io sono stato, nel 1991, l’ autore del primo lavoro che dimostrava un transistor sotto i cinquanta nanometri, forse sono stato anche uno di quelli che ha dato il la a certe tecnologie. Un po’ di responsabilità me la prendo anch’io. Quel tipo di tecnologia ha aperto le porte a qualcosa di bellissimo ma di potenzialmente dannato; e siccome la coscienza non si insegna, serve un popolo, una cultura di civiltà, per cui si deve cercare, sin da quando i ragazzini sono piccoli, di far loro capire che ciò che è bello, può anche essere molto pericoloso.

ANDREA SIMONCINI:
Ringrazio davvero anche Roberto Cingolani, per l’incisività con cui ha completato questo grande panorama che questa sera sta emergendo. Adesso, solo parzialmente cambiando il tono, chiedo di intervenire a Maximo Ibarra, che è Amministratore Delegato di Wind Spa.

MAXIMO IBARRA:
Buona sera a tutti! Io vorrei partire con un piccolo video, per cui ruberò due minuti alla mia presentazione con un video che parla di tecnologia ma soprattutto di persone.
Direi che di tecnologia potremmo parlare anche giornate intere. Io partirei con il dire che la tecnologia, o i vari campi della tecnologia, stanno vivendo uno sviluppo esponenziale, ed è esponenziale perché il costo della tecnologia oggi è decisamente ed enormemente più basso rispetto a quello che poteva verificarsi cinque anni fa. Basti immaginare anche il costo di una stampante 3D, piuttosto che la capacità di immagazzinamento di dati di uno Smartphone. L’altra caratteristica di questa tecnologia è che converge, quindi ogni singolo ramo non procede più lungo un binario unico, aumentandone ulteriormente la capacità di espansione e di sviluppo. Quale tipo di mondo ci troveremo di fronte? Se pensiamo alla medicina, tutti noi potremo fare anche una sorta di auto-diagnostica: con lo smartphone – potremo scattare una foto di un neo e mandarla a un medico che sta da qualche altra parte. Non che questo sostituisca la capacità di un medico di poter fare una diagnosi, perché sappiamo perfettamente che la realtà non è soltanto una realtà asettica, scientifica, ma molto dipende anche dalla persona e dalla sua personalità, carattere, emozioni che ovviamente cambiano molto spesso la diagnosi. Nel campo della robotica: le robo-cars, il fatto che addirittura un’auto possa venirti a prendere quando vuoi andare al cinema senza che tu debba parcheggiare. Questo sicuramente è il sogno di tutti. Le applicazioni sono ovviamente gigantesche. Ogni tanto mi piacerebbe essere uno scienziato per poterci lavorare sopra. Non sono uno scienziato, mi appassiono di tecnologia, però è chiaro che cerco di capire gli impatti di questa tecnologia sulle aziende. E i rischi: recentemente negli Stati Uniti hanno fatto uno studio per cui immaginano che questa crescita esponenziale della tecnologia possa portare, all’improvviso nei prossimi anni, un numero significativo di unemployment aggiuntivo; addirittura si parla, non mi ricordo se nei prossimi dieci o nei prossimi vent’anni, di due miliardi di disoccupati in più. Questa è una minaccia importante, però, come dicevamo prima, mancano data scientist, mancano persone che sappiamo gestire questa tecnologia e quindi questa maggiore disoccupazione durerà solo per un tempo limitato. Si parlava prima dello smartphone, oggi lo utilizziamo veramente per fare pochissime cose, domani potremo chiedere al nostro smartphone veramente di tutto, e questo smartphone potrà darci delle risposte. Le opportunità sono gigantesche. Però, per poter gestire questo scenario radicalmente diverso, dobbiamo partire dalla formazione dei bambini che dovrà essere molto più olistica rispetto a quella di oggi. Cosa intendo per olistico? Intendo che non basta imparare delle skill, perché non è possibile non conoscere quali sono le infinite prospettive del big data, non sarà possibile immaginare un bambino, un ragazzino, un adolescente, una persona che frequenta un liceo, che non sappia maneggiare gli strumenti del social digital. Questo sicuramente farà parte del bagaglio di un qualsiasi percorso o processo formativo. Olistico significa non soltanto sviluppare la capacità intellettiva e le skills, ma anche le capacità naturali dell’uomo, la possibilità di poter avere un maggior quoziente non solo intellettivo, ma anche emozionale, la famosa intelligenza emotiva, l’intelligenza sociale, quella che mette le persone in contatto le une con le altre, quella che poi alla fine stimola la creatività, la curiosità. Se voi pensate a come sono fatte oggi le scuole, come sono fatte le materne, come sono fatte le università, capite immediatamente che sono tutte all’insegna del nozionismo. Si ricevono delle informazioni, si imparano queste informazioni, ma non si creano gli algoritmi per metterle in correlazione, è come se l’essere umano di fatto non fosse capace di costruire per se stesso degli algoritmi che gli permettano di essere una persona molto più completa. Credo che sulla formazione dovremmo fare tutti un investimento gigantesco. Ce ne rendiamo conto noi all’interno dell’azienda, perché come azienda di telecomunicazioni, noi alla fine diamo tecnologia e la mettiamo a disposizione di tantissime persone, di milioni di persone. Anche noi abbiamo delle difficoltà nel capire che cosa possono fare i nostri clienti con questa tecnologia. Abbiamo capito che sostanzialmente per vivere una grande giornata e per fare grandi cose non basta solo la tecnologia. Però sicuramente la tecnologia è importante e centrale. Anche noi siamo certe volte un po’ spiazzati dal fatto che il contesto economico cambia, dal fatto che non conosciamo i nostri competitor. Se io penso alla mia azienda, se penso a tutte le aziende di qualsiasi settore, al modo in cui debbano fronteggiare il futuro, beh è chiaro che avremmo bisogno di persone diverse. Queste persone bisogna formarle da piccole, con una formazione molto più sofisticata rispetto a quella di oggi, non solo tecnologica, molto umana. E quando parlo di umanità, e con questo concludo, credo che dobbiamo fare tutti uno sforzo gigantesco nel cercare di portare i nostri ragazzi, i nostri bambini, ad avere una visione etica, radicalmente diversa da quella di oggi. La tecnologia può prendere una direzione o un’altra nella misura in cui l’etica diventa l’epicentro di un percorso formativo. Recentemente ho letto un libro sul concetto di meaningfullness: ognuno di noi fa un lavoro, ognuno di noi fa un’attività, per ricevere in cambio uno stipendio. Provate a immaginare invece un essere umano che svolge un compito pensando a quello che può essere il vantaggio per la società che è intorno a lui. Ecco questo è il concetto di meaningfullness, un nuovo concetto di etica, che deve sicuramente essere centrale in qualsiasi percorso formativo, perché è quello che permette di creare nella società delle persone migliori, in grado di gestire la tecnologia in uno scenario assolutamente positivo. Grazie mille.

ANDREA SIMONCINI:
Grazie, la parola ora al professor Pammolli, al quale chiediamo un punto di sintesi.

FABIO PAMMOLLI:
Penso che ci sia un punto, che ha toccato Roberto Cingolan in modo molto lucido, che rivela un aspetto del dualismo che stiamo analizzando. Io sono abituato, come esperienza personale, fin da quando partii con una valigia di cartone per andare negli Stati Uniti, a Boston, al MIT, a considerare positiva la ricerca tecnologica, come fonte di scoperte, di crescita dell’individuo, di opportunità, di libertà. C’è tutto un aspetto, anche esistenziale, che mi porta a dare un’accezione, una connotazione positiva. Tuttavia ci sono degli aspetti che dobbiamo affrontare. Quando Aristotele dice che il mulo, il cavallo, l’uomo vivono a lungo perché non hanno il fiele, pone un problema, conosciuto come induzione, che procede per enumerazione, dove l’istanza è quella di raggiungere una legge universale, una generalizzazione, partendo dall’enumerazione di ciò che si scopre nell’esperienza. Provocatoriamente mi viene da dire che è questo il problema, che poi Hume riformula, dopo che Bacone aveva introdotto il nuovo metodo, come uno dei limiti insuperabili dell’induzione, come l’impossibilità di passare all’universale partendo dall’enumerazione dei particolari. Ebbene questo problema non è logicamente risolto dai big data, dall’analitica. Il problema di ciò che osserviamo con le nostre rappresentazioni, con la nostra teoria, con gli occhiali con i quali noi guardiamo la realtà, non è un problema che si supera soltanto aumentando la capacità complicazionale. Rimane ferma la tensione tra Aristotele e Hume. Rimane fermo il punto di capire quale inferenze sono possibili. Quando parliamo di frontiera di evoluzione dell’hardware, noi stiamo comunque parlando di una frontiera di evoluzione dell’hardware artificiale, che non è riuscita a replicare quello che l’evoluzione naturale ha costituito in quell’oggetto, in quell’insieme di neuroni che costituiscono il nostro hardware. Anche qui una riflessione. Io rimango non annichilito, ma estremamente umile, perché ritengo che la soluzione delle relazioni tra livello logico delle computazioni, livello logico del nostro pensiero e il livello fisico dell’hardware in cui si svolgono queste computazioni, rimanga ben lungi dall’essere risolto. A meno che noi in questa sede vogliamo accettare per definizione che siamo delle stringhe di sequenze binarie. La conseguenza naturale sarebbe, infatti, quella, con tutto quello che ne consegue in termini di rilevanza della dimensione trascendente, nei termini di cosa c’è al di là della scelta razionale, perché ogni scelta razionale è sempre riconducibile ad una macchina di Turing. Sono problemi che da un lato ci dicono quanto stiamo andando avanti nell’esplorazione delle fondamenta della materia, della computazione, delle inferenze che siamo in grado di fare sulle grandi strutture di dati; dall’altro che sono problemi che non abbiamo ancora risolto. Questi ci accompagneranno per tutta l’evoluzione della nostra specie. Da un punto di vista individuale e della società, le parole contenute sia nella Charitas in Veritate, sia nella Laudato si’, parole di ampio riconoscimento, anche dove si rilevano delle dimensioni critiche, del nesso tra ricerca scientifica e tecnologica e libertà, responsabilità ed essenza della natura umana, le ritengo di natura fondamentale. Se non perdiamo il senso dell’umiltà e di una esplorazione continua, che Paul Ricoeur avrebbe tradotto in termini di ermeneutica del testo della vita, il dubbio, il conflitto delle possibili contraddizioni, il fatto che possiamo avere delle ipotesi scientifiche tutte apparentemente fondate per quanto diverse, mi portano a dire due cose. La prima è che siamo, quando parliamo di tecnologia, ad un intersezione tra individuo, società, istituzioni e comunità che porta a parlare di un oggetto più complesso. Dobbiamo riflettere sul fatto che quando parliamo di sofismi, quando parliamo di relativismo pratico – qui cito la Evangelii Gaudium -quando parliamo di riduzione e parcellizzazione dei saperi, quando parliamo anche di riduzione dell’intrapresa scientifica e tecnologica a un calcolo di convenienza di breve periodo, che tutto frammenta e tutto riduce a un beneficio immediato, noi stiamo riflettendo sul fatto che dobbiamo cercare una connessione tra alcune grandi direttrici di sviluppo della nostra società e le traiettorie di ricerca. Dobbiamo trovare un processo e un fondamento, una legittimazione del lavoro di ricerca. Su quali basi? Non ritengo che il problema sia la scienza o la tecnologia, non ritengo che le fondamenta di questo relativismo pratico siano intrinsecamente una proprietà della scienza e della tecnologia, ritengo che siano una proprietà di ciò che postuliamo o ipotizziamo o vogliamo vedere nelle istituzioni che governano la scienza e la tecnologia. Se noi ipotizziamo che la scienza e la tecnologia possano essere risolte nel dualismo tra stato e mercato, stiamo riportando nella lettura della scienza e della tecnologia la nostra incapacità di leggere la ricchezza del tessuto sociale, identitario, valoriale, di responsabilità, di comunità che invece andiamo a postulare quando parliamo di lavoro. Tutta la nostra riflessione sulla sussidiarietà, sull’importanza che l’individuo sia calato in una comunità che sia al tempo stesso una comunità di scienziati e di tecnologi, che sappia affermare un principio di ricerca consapevole e responsabile, ma che sia anche un individuo calato nella propria famiglia, nella propria società, nella propria scala di valori, questo fa sì che ci sia uno spazio per pensare che non tutto sia una macchina di Turing riducibile a una sequenza. Inoltre, quando noi parliamo di una disuguaglianza introdotta dalla tecnologia e dalla scienza, non stiamo parlando di una diseguaglianza introdotta dalla tecnologia e dalla scienza. Per definizione l’esplorazione, la scoperta sono un’identità locale definita in modo finito. Quando c’è una scoperta, quando l’esploratore arriva e scopre qualcosa, c’è lui. Adesso ci possono essere molti esploratori che arrivano con più o meno la stessa velocità a una stessa verità o ad una stessa ipotesi. Ma la tecnologia, la scienza genera intrinsecamente delle asimmetrie. Noi non conosciamo la crescita economica senza la generazione di asimmetrie. Il problema è poi trovare dei meccanismi di redistribuzione che attraverso la meritocrazia, attraverso la responsabilità, ma anche attraverso la condivisione, portino a un riassorbimento di questa asimmetria. Non è un male della tecnologia, è un male del fatto che le istituzioni che governano, ad esempio, il sistema di welfare a livello globale, non sono in grado di indirizzare la ricerca, o non lo fanno, verso le grandi direttrici di sviluppo dei Paesi. Monica Maggioni prima ha ricordato un passaggio in cui papa Benedetto XVI richiama l’importanza delle buone strutture. Penso anche io che le buone strutture aiutino. Le buone strutture nel nostro Paese, nel campo della scienza e della tecnologia, debbono riuscire a rendere più partecipato e più condiviso il processo di responsabilità degli individui e degli scienziati. L’ IIT di Roberto Cingolan rompe esattamente un modello lineare, questa è una mia libera interpretazione, che dissocia ricerca fondamentale da ricerca applicata, rompe la mitologia che la ricerca fondamentale va da una parte e che poi ci sia il problema del trasferimento tecnologico. Noi invece abbiamo, purtroppo, un sistema di enti di ricerca e di università che si pongono pienamente in un modello lineare, in un modello in cui i docenti non sanno fare più i docenti, perché hanno perso la referenza, non hanno più un riferimento esterno, hanno una semantica senza riferimento e degli enti di ricerca che, in nome della ricerca applicata, non fanno ricerca. Io credo che da questo punto di vista vada fatta una riflessione dove le buone strutture vengano chiamate al servizio di una riorganizzazione del nostro sistema e credo che ci sia moltissimo da imparare da quello che l’IIT ha portato al nostro Paese. Ultimissimo punto, don Giussani, il valore di esperienza: io credo che invece di parlare in astratto di biotecnologie e di categorie, che poi sono molto poco, noi dobbiamo pensare all’esperienza e al vissuto di quei ricercatori che trovano delle possibilità di esplorazione e di crescita nel momento in cui fanno il biotecnologo e il biologo molecolare. E’ lì che dobbiamo cercare di costruire un percorso educativo con uno spirito di responsabilità, dove la libertà responsabile non è vissuta come un vincolo alla libertà, ma è un principio ordinatore, una stella polare che deve guidare la nostra vita come uomini. Grazie.

ANDREA SIMONCINI:
Grazie davvero a Fabio Pammolli che ha fatto una riflessione estremamente lucida, come sempre, ma anche con dei punti di novità che varrebbe molto la pena sviluppare. Io sottolineo solo un punto. Tutti hanno detto che è grandiosa la possibilità che ci troviamo davanti, che è inedita, che è come una nuova invenzione della stampa. Ma tutta la ricerca e la tecnologia non potrà risolvere la questione fondamentale che è il soggetto, il soggetto che si trova ad usare questa tecnologia, il soggetto che viene potenziato da questa tecnologia, ma che non può essere sostituito da questa tecnologia. Noi non possiamo demonizzare scienza e tecnica, ha detto Pammolli, perché sono parte dell’animo dell’uomo, ma forse quello che noi spesso demonizziamo, e a ragione, è una certa immagine, una certa costruzione che di esse è stata fatta. Dunque c’è un bivio e al centro di questo bivio c’è la persona. Mi permetto solo di fare un’osservazione prelevandola dalla mia competenza specifica. C’è una scorciatoia in tutto questo che sono le regole. Aumentando o precisando il sistema di regole pensiamo di poter arrivare a risolvere questi problemi. Io penso che sia una scorciatoia, perché può solo allontanare la questione. C’è invece un problema di educazione della persona. Il Papa parla di una “ecologia integrale”, intendendo proprio questo: è di un sistema di relazioni di cui abbiamo bisogno, nulla potrà sostituirlo. Una relazione che desti quel desiderio, quella invidia del bello e del nuovo che è il fattore che ci ha portato qui, che ci ha portato ad arrivare a queste conquiste.

Data

24 Agosto 2015

Ora

19:00

Edizione

2015

Luogo

Sala Neri CONAI
Categoria
Incontri