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TALENTO, LEADERSHIP E DEDIZIONE: COSA È ESSENZIALE PER FAR NASCERE UN’OPERA?
Organizzato da Compagnia delle Opere
Elia Bonacina, CEO Bonacina 1889; Alessandro Gilmozzi, chef stellato e presidente Ambasciatori del Gusto; Davide Rondoni, poeta. Modera Sergio Luciano, direttore Economy
L’incontro esplora le qualità umane che guidano progetti ambiziosi al successo: l’importanza di talento, leadership e dedizione, sono essenziali per dare vita a opere concrete, significative e funzionali. Un’occasione preziosa per trarre ispirazione da esperienze di successo, avvalendosi della partecipazione di personalità di rilievo in diversi ambiti.
TALENTO, LEADERSHIP E DEDIZIONE: COSA È ESSENZIALE PER FAR NASCERE UN’OPERA?
TALENTO, LEADERSHIP E DEDIZIONE: COSA È ESSENZIALE PER FAR NASCERE UN’OPERA?
Martedì, 20 agosto 2024
Ore 14:00
Arena cdo C1
Organizzato da Compagnia delle Opere
Partecipano:
Elia Bonacina, CEO Bonacina 1889; Alessandro Gilmozzi, chef stellato e presidente Ambasciatori del Gusto; Davide Rondoni, poeta.
Modera:
Sergio Luciano, direttore Economy
Luciano. E allora buon pomeriggio a tutti, e innanzitutto un grazie di cuore alla CDO per questa bellissima iniziativa, una rassegna di incontri e dibattiti all’interno di una grande famiglia, che scandirà i cinque giorni del Meeting, iniziato oggi con una serie di approfondimenti e di voli, nei quali saremo chiamati a essere presenti. Sono un giornalista, un amico della CDO, e ho veramente il privilegio oggi di introdurre, con trenta secondi, questo nostro incontro dibattito. “Incontro dibattito” è un modo un po’ formale di definirlo, però è questo, con tre personaggi su un tema tripartito. Partiamo dal tema: talento, leadership e dedizione. Cosa è essenziale per far nascere un’opera? Scherzando con gli organizzatori, dicevo: beh, tutte e tre le cose, fine del convegno, arrivederci, andiamo a prendere il caffè. No signore, non è così. Queste tre parole chiave, che incrociano la vita di tutti noi all’interno del sistema delle opere d’impresa, delle opere personali, delle opere familiari, sono tre parole tutt’altro che pacifiche in questa fase storica. Il talento, sì, il talento sì, ma viviamo in tempi in cui da più parti si sostiene che l’interpretazione “uno vale uno” tende a superare il concetto del talento, che è tipicamente personale. Leadership: stiamo assistendo a delle campagne elettorali un po’ inquietanti. Non parlo in questo momento del nostro Paese, ma parlo di Paesi molto grandi, molto importanti, campagne elettorali basate sull’insulto sistematico. La leadership si costruisce con gli insulti? Io credo di no, almeno la gente della mia generazione riteneva di no. E la dedizione? Chi non sa cosa è la dedizione, chi non vive di dedizione? Eppure la cultura YOLO, “you only live once”, è una moda, è un birignao, un modo di dire, oppure è un sentimento nuovo delle persone nei confronti dell’impegno, della fatica dell’impegno. Quindi nulla di banale. Vi presento i nostri relatori: alla mia sinistra, Elia Bonacina, CEO di Bonacina 1889, una bellissima storia aziendale che ci riassumerà prima di raccontarci le sue idee; Alessandro Gilmozzi, chef stellato, presidente degli Ambasciatori del Gusto, anche lui esponente di una famiglia imprenditoriale che ha saputo diversificare e crescere negli anni e nelle esperienze; e Davide Rondoni, un poeta, un affabulatore. Dicevo poc’anzi che ho sentito su YouTube un suo TED a Forlì, su entusiasmo e passione, e sono rimasto incantato, quindi credo che sarà molto interessante sentirlo anche adesso. Comincerei da Elia Bonacina. Allora, queste tre parole chiave: la tua esperienza imprenditoriale, un’esperienza particolare, in dieci minuti. Prego.
Bonacina. Grazie, grazie alla CDO, anche alla CDO di Como, a Nicola Orsi per avermi voluto qui. Io sono Elia Bonacina, l’azienda della mia famiglia è stata fondata da mio bisnonno nel 1889. Quest’anno festeggiamo 135 anni. Perché mi hanno chiamato qua a raccontare la mia storia? L’azienda storica ha lavorato con i più grandi maestri del design: Albini, Gio Ponti, Zanuso, Gaulenti. L’azienda fa parte integrante della storia del design italiano e internazionale. I nostri prodotti sono esposti al MoMA di New York, al Vitra Design Museum, al Philadelphia Design Museum. Purtroppo, tante volte, e questo è capitato anche a me, ci siamo scontrati col problema numero uno delle imprese in Italia e direi anche in Europa, che è il cambio generazionale. Oggi ho 33 anni, e sono entrato in azienda nel 2012, a 21 anni, con mia nonna che era stata una bravissima imprenditrice. Tra l’altro, nella nostra azienda di famiglia abbiamo una lunga storia di passaggi di consegna tra uomo e donna, e quindi è anche una bella azienda perché è stata costruita da entrambi i sessi, e si vede che non aveva fatto il cambio generazionale con mio padre. Quindi era una sfida un po’ ardua, perché dovevo scalzare mia nonna, che ormai aveva più di 80 anni, e dovevo un po’ “rubare” il testimone a mio padre e passargli davanti. Diciamo che il contesto erano 20 anni in cui la maggior parte delle testate economiche europee dicevano: “Piccolo non è bello, l’artigianato andrà a sparire, se non ti aggreghi non vai da nessuna parte, i fondi compreranno tutte queste piccole imprese, le metteranno insieme e si lotterà nel futuro solo con grandi dimensioni”. Io leggevo questo e dicevo: “E allora l’Italia cosa fa? La patria dell’artigianato, della piccola media impresa, la struttura ossea della nostra nazione fatta dalle PMI”. Sappiamo che le aziende che fanno più di un miliardo di fatturato le contiamo su due mani. E poi alla mia generazione, io sono del ’91, si diceva: “Andate all’estero, l’Italia non è un Paese per giovani, fare impresa è impossibile, le tasse sono alte e nessuno vuole andare avanti”. Nel 2012 avevo un’azienda con un’età media di 70 anni, tutti i dipendenti erano vecchi operai che erano stati riassunti perché non si trovavano giovani. Quest’anno, dopo 12 anni che sono alla guida dell’azienda, sono entrato con utili che non c’erano, l’azienda era in perdita, fatturato al minimo storico. In 12 anni il fatturato è cresciuto del 1200%, gli utili del 2000%, e l’età media oggi è di 29 anni. Quindi sono riuscito, un po’ da testardo, a fare tutte quelle cose che mi avevano detto che non si potevano fare. Sono riuscito a fare il cambio generazionale con mia nonna, mio padre ha accettato di lasciarmi andare avanti. Sono riuscito a far innamorare una nuova generazione. Dico operai perché ogni tanto quando dico artigiani qualcuno pensa che siano persone con partita IVA dentro l’azienda. In realtà sono artigiani perché per imparare a fare un nostro mobile ci vogliono tre anni. Quindi di scuola abbiamo l’accademia all’interno dell’azienda, ma sono dipendenti della Bonacina. Con il nostro bilancio ESG, il primo che abbiamo fatto cinque anni fa, siamo usciti nella parte più alta con il massimo dei voti perché abbiamo diversità culturale, diversità di genere, abbiamo un sacco di incentivi che abbiamo creato per avvicinare le nuove generazioni alla fabbrica. Io dico sempre che in Italia ci sono un sacco di super giovani ventenni che hanno voglia di lavorare nelle fabbriche, il problema qual è? Che quasi il 90% delle imprese in Italia, dati delle camere di commercio, di Confindustria, eccetera, ha il presidente o l’amministratore delegato che ha più di 75 anni. Quindi il tema è: come facciamo a far dialogare un ventenne uscito dall’università o un diciottenne che vuole entrare in produzione con un settantacinquenne che è quello che gli farà il colloquio? Sono persone di grandissimo valore, e il cambio generazionale avviene grazie a una generazione avanti che passa il saper fare a quella più giovane. Però il mondo ha accelerato talmente tanto per cui alla fine abbiamo dei valori e delle visioni differenti. Il mio compito è stato far riavvicinare le nuove generazioni all’impresa manifatturiera parlando un linguaggio simile, che è quello che parlano oggi le nuove generazioni. E lascio spazio, giustamente, perché la mia storia è lunghissima. Poi ne entriamo nel dettaglio.
Luciano. La leadership… perché sapete che soprattutto su una materia serissima come quella della parità di genere, quasi sempre in questi tempi poi c’è la domanda chiave: “Ti sei scontrata col soffitto di cristallo? C’è un soffitto di cristallo anche per i giovani in questo Paese, non c’è dubbio?” Non c’è dubbio, perché abbiamo delle abitudini mentali. Allora la domanda si impone: tu ti sei trovata in un’azienda familiare, perché il contesto era diciamo privato, però a 21 anni e in una situazione di crisi, per la serie “un capitano di 15 anni”, era il titolo di un libro di Jules Verne, credo, perché poi si rivelò un grande navigatore. Ma insomma, avrei avuto, non so, sei mesi di cagotto, come si dice in italiano, cioè… Come è andata?
Bonacina. Ma guarda, questa è una domanda interessantissima e che in dodici anni di lavoro… Poi noi lavoriamo molto anche con le università perché siamo un caso interessante. Il professor Micelli della Ca’ Foscari di Venezia, che tiene la cattedra di economia, ha definito quello che io ho fatto “la restartup di un’azienda esistente”. Quindi diciamo un modello da startupper applicato a un’azienda che già esiste. Lui è molto interessato a questa idea perché dice: “Questo è parte del futuro del nostro Paese”. Noi abbiamo un sacco di aziende che devono ripartire, quindi che devono essere restartuppate, o artigiani che lasciano la loro bottega e c’è bisogno che qualcuno impari il mestiere e vada avanti. Quella è stata la mia grande fortuna, essere entrato in azienda a 21 anni. Io gli artigiani li conosco molto bene, perché la mia famiglia fa questo da 135 anni. I migliori artigiani anziani che abbiamo oggi, che hanno veramente 72-73 anni, che continuano a venire in azienda e che abbiamo comunque riassunto, insegnano ai giovani. Ormai, diciamo, l’Academy la fanno… cioè il ventenne impara dal trentaseienne, però il trentaseienne chiede sempre consiglio al settantacinquenne. Ragazzi, è un problema di età perché questi super artigiani settantacinquenni hanno cominciato a lavorare a 12, 13, 14 anni. A 21 anni, 22, 23, erano già dei maestri, erano bravissimi, a 30 anni erano dei geni, a 40-75, formidabili. Oggi, per come si è evoluta giustamente la nostra società, tu non riesci a portare un giovane in produzione, in fabbrica, prima dei 20 anni. Quindi uno comincia a dire: “Ah, guarda oggi, 21 anni, 22 anni, che non sono capaci”. No, no, aspetta. Guarda che il super artigiano di due generazioni fa aveva cominciato cinque, sei, sette anni prima. Quindi qual è stata la mia forza? Che io ho cominciato a gestire l’azienda nella fase più bella, quella dell’incoscienza. A 21 anni niente mi faceva paura: dovevo aprire un nuovo stabilimento, riassumere, licenziare, prendere debiti, andare in giro per il mondo a cercare nuovo lavoro. Cioè, qualsiasi cosa mi proponevano o mi proponevo di fare, andava benissimo e ho fatto questo come un matto da 21 a 28, che è stata l’espansione più positiva e violenta dell’azienda perché ero pieno di energie. All’inizio avevo assunto anche dei manager magari per l’idea di dover colmare delle mie mancanze, magari di 50 anni, con cui poi non mi trovavo perché già c’era un gap. Il boost, quindi la spinta maggiore, è arrivata quando ho cominciato ad assumere tutte persone della mia età. Quindi io ho 33 anni, la mia direttrice finanziaria, la mia direttrice marketing, il mio direttore commerciale, il mio direttore di produzione, sono tutti trentenni come me. E quindi è lì che abbiamo inserito veramente una marcia differente. E io penso che c’è un’età per diventare grandi. Quindi, purtroppo, senza… c’è perché ho appena detto: lavoriamo tanto con le università, sono un grande fan della cultura, però bisogna capire chi deve fare cosa. Perché se portiamo troppo avanti l’età in cui uno deve cominciare a rischiare, è ovvio che diminuisce. Oggi, per amore del cielo, sono quello che a ventun anni ha fatto quelle cose lì, però a trentatré già rischio in un modo diverso rispetto a ventuno, a venticinque. Quindi oggi io assumo ventunenni, ventiduenni per tenere questa spinta in azienda, che arriva da chi è a quell’età, e bisogna saperli giustamente gestire ma anche lasciarli correre nella prateria, perché è il momento in cui vogliono fare la corsa più lunga. Questo, secondo me, è un tema fondamentale.
Luciano. Grazie, grazie per ora. È una storia molto interessante per tanti risvolti. Sicuramente mi colpisce il tema della leadership, però vediamo le altre parole chiave. L’Alessandro Gilmozzi è in questo senso straordinario per tre-quattro pennellate che ho avuto la possibilità poc’anzi di raccogliere. E cioè il fatto che lui, alla fine, volesse fare lo scultore, che non è precisamente un mestiere da cucina, insomma, no? Anzi, diciamo che c’è gente che digerisce anche i sassi, ma quella è un’altra cosa…
Gilmozzi. Allora, come è andata? Innanzitutto grazie dell’invito a CDO, è veramente bello essere qui. Io parto un po’ dall’inizio così capite il mio percorso. Io vengo da una famiglia che fa ospitalità da 72 anni, siamo partiti nel 1952 con la mamma, il papà faceva l’imprenditore edile e quindi per dare lavoro alla mamma, il papà ha comprato il primo stabile ed è diventato uno degli alberghi storici di Cavalese. E da lì siamo partiti. Quindi io, da giovane, si andava a scuola, però bisognava aiutare in casa, e a me mi hanno messo in cucina all’età di 13 anni. Mi hanno messo in cucina e aiutavo. Chiaramente, vedendo i sacrifici che si fanno e il percorso che hanno fatto anche i miei genitori in questo lavoro, a me non piaceva. Quindi non ho fatto la scuola alberghiera, mi sono formato sul campo. Ho fatto l’Istituto d’Arte, quindi la mia idea era fare lo scultore o il falegname all’epoca, perché c’era ancora il libretto di lavoro e io avevo “falegname”, quindi un po’ anomalo. E in ogni posto dove andavo a formarmi su questa disciplina, dovevo sostenermi e l’unica cosa che sapevo fare era il cuoco. Dovevo andare in cucina, però era un po’ traumatico per me all’inizio. Poi sono arrivato al militare, e questa storia è bella come ti dicevo prima: sono arrivato al militare e mi hanno messo in cucina un’altra volta, e quindi mamma mia… Poi all’età di 18 anni mi hanno messo a fare il formatore, che non era proprio la mia vocazione all’inizio, e dico: vabbè, lo facciamo. Poi c’è stato un aneddoto importante nell’84, quando abbiamo fatto un campo estivo con il militare. Il colonnello mi dice: “Guarda che bisogna fare un banchetto per 1500 persone nel bosco”. Oddio, dico: “Nel bosco? E con cosa lo facciamo?”. Ah, mi ha detto: “Arrangiati col team”. E quindi ho costruito un gruppo di lavoro, ho cercato di organizzare il tutto, ho messo tutte le mie competenze, sia di cucina che di botanica, perché ho avuto la zia botanica e il nonno micologo, e quindi mi hanno dato queste nozioni che io vivevo da bambino sulla raccolta delle erbe spontanee, delle resine, su quello che un po’ faccio adesso e che ha costruito la mia identità. E abbiamo fatto questo banchetto per 1500 persone, e lì ho preso la mia prima, diciamo, stellina o medaglia, chiamiamola così. E da lì ho capito che era la mia vocazione e dico: vabbè, mi piace, andiamo avanti, cerchiamo di capire cosa vogliamo fare da grandi. Finito il militare, sono tornato in azienda e ho cominciato a costruire il mio percorso su quella che era la disciplina della cucina e a capire come interpretare il mio territorio in maniera intelligente, partendo dalla cultura di un territorio che era una cultura che si basava sulla sussistenza, sulla sussistenza di raccolta. Perché la mia valle era e tuttora è un popolo di raccoglitori, perché fin dal 1111, con la storia della comunità di Fiemme, si raccoglieva per sostenersi. Da lì ho fatto il mio percorso. Sono andato all’estero, chiaramente, a formarmi. In Italia, ho aperto il ristorante. Il papà mi ha detto: “Guarda, abbiamo preso l’ultimo pezzo di palazzo, è un vecchio mulino del ‘600, dopo averlo ristrutturato, mi ha dato le chiavi e mi ha detto: ‘Qui c’è il ristorante. Non andare più in giro, lavora'”. Però qui c’è il mutuo, quindi non ci hanno regalato nulla. E allora mi sono trovato all’età di 25 anni ad avere una responsabilità importante, a gestire la parte del food della mia famiglia. Poi, morto il papà, abbiamo formato un gruppo, abbiamo raddoppiato la sostanza. Adesso la mia famiglia, con i cugini e i parenti, abbiamo circa otto attività che contano quasi 200 dipendenti. Siamo separati, perché comunque sapete, nelle grandi famiglie ogni tanto succede qualcosa e bisogna avere l’intelligenza di separare determinate cose e portarle avanti, e adesso funzionano. Io mi occupo della parte food, come dicevo prima, e ho cominciato a pensare a come sviluppare questo percorso senza avere problematiche aziendali. Perché, come diceva lui prima, non è facile all’età di 25 anni cominciare a dire: sai, una volta c’erano le lire, quando hai un miliardo delle vecchie lire di debito devi cominciare a fare dei sacrifici e a fare un percorso importante. E quindi capire cosa vuoi dalla tua vita, capire come interpretarla, come far star bene i tuoi ragazzi che lavorano per te. Io non li chiamo dipendenti, li chiamo persone, perché non dipendono da me, ma siamo una squadra. Quindi ho creato questo format di formazione che tuttora ci dà soddisfazione, in modo tale che nessuno si faccia male, tutti siano contenti. Alle volte mi piace interpretare questo format come le grandi squadre di calcio o di pallavolo, perché parto sempre dall’armadietto. Se l’armadietto è a posto, tutto è a posto, perché c’è una formazione globale, il team ci crede. Io sono un po’ il coach che vi dà quella linea guida importante, da dare le soluzioni, perché ho fatto un percorso difficile, pieno di sacrifici. E tu dicevi prima: “leadership”, che è una parola chiave. La leadership è anche per me una responsabilità, una responsabilità che dobbiamo trasmettere ai giovani, che è il nostro sentiero. Perché comunque sono un uomo di montagna e per me ci sono i sentieri che arrivano alla vetta, e una volta che percorri quel sentiero in maniera consapevole arrivi alla vetta e sai gestire dopo la tua notorietà.
Luciano. Una domanda velocissima anche a te sul tema della dedizione. Grazie alla sincerità. Da ragazzo vedevo che c’era tantissimo lavoro da fare nel settore della mia famiglia e quindi avevo qualche perplessità, no? Alla fine poi quali conti hai fatto, sia personalmente da operatore, sia da imprenditore, col tema dedizione, che significa, ricordiamocelo, che è fatica anche, significa ore, significa tempo, significa dedicarsi. Come oggi? Come ridiresti quelle… come racconteresti quelle osservazioni che facevi da ragazzo?
Gilmozzi. Allora, le osservazioni che facevo da ragazzo chiaramente erano molto ampie, perché comunque ero giovane e vedevo i miei coetanei che si divertivano e io avevo un bel macigno da portare avanti. Diciamo che io, facendo sport estremi, ho messo in campo proprio quel sistema lì. Io facevo uno sport un po’ particolare, quindi dovevo…
Luciano. Dillo però, tutta l’aria no?
Gilmozzi. Facevo sled dog, quindi mi facevo trainare dai cani da slitta. Diciamo che non era facile. Quindi ho messo in campo la mia dedizione e la mia disciplina da coach, sullo sport ma anche su me stesso. Quindi mi sono dato delle regole, delle regole importanti. Non chiamiamolo protocollo, ma regole che ho trasferito alla mia parte organizzativa e imprenditoriale. E così ho pensato: cosa vuole il mio cliente, il mio ospite da quando entra a quando esce? Come posso fare per far star bene il mio ospite, ma far star bene anche il mio team? Ho cercato di darmi queste regole, queste importanti regole che per noi sono indispensabili, e da lì ho costruito tutta la mia base imprenditoriale.
Luciano. Bene, uno spunto di riflessione sui giovani. Abbiamo parlato dei giovani, della dedizione. Abbiamo avuto 40 medaglie alle Olimpiadi, ed è un’età media molto bassa, celebrazioni no? Bipartisan. E dentro quelle medaglie c’è due cose: una dedizione pazzesca, sono sport che quasi mai pagano, e quindi nell’83% dei casi quei ragazzi sono aderenti alle squadre, si fanno dieci ore al giorno di vita, di sacrificio, vero? Per fare nuoto, per fare qualunque cosa. E la cosa curiosa è che, diciamo, questa realtà è dietro il successo, è acclamata, però poi quando arriva il brutto voto, papà, brutto voto, e vai dal professore e dici: “Come ti sei permesso di dare il brutto voto?”, no? È un mondo un po’ così. Fine del commento. Il talento è il fratello minore della genialità, no? Però ci vuole. E deve diventare… e deve diventare… C’è un microfono che non risponde? No? Sì? Adesso sì. Prima ricordavo che l’ho ascoltato in questa analisi, tra l’altro, tra entusiasmo e passione, categorie diverse dello stesso valore, forse una sintesi complessiva partendo dal talento, che è un talento nel caso tuo di poeta, di artista.
Rondoni. Intanto buongiorno e grazie per l’invito. Io non devo parlare di me, perché non so fare niente. Sono molto bravi, sono solo bravo a scrivere poesie. Tra l’altro, vengo da una famiglia non di artisti. Avevo uno zio che si chiamava Dante, però faceva il salumiere, quindi non ho imparato il talento artistico in casa. Però appunto non sono qui per parlare di me. Parto da questo spunto che tu hai detto alla fine sull’Olimpiadi, perché ho scritto un articolo recentemente su questo. È vero che sembra che il nostro Stato, in alcune cose, aiuti il talento dei ragazzi. Poi quello stesso Stato li mortifica, facendogli fare, non so se lo sapete, due volte l’esame per fare il magistrato. Lo so perché c’è mia figlia che lo sta facendo. Voi sapete che in Italia un ragazzo che vuole fare il magistrato o l’avvocato, che sono esami abbastanza impegnativi, siccome lo Stato non si organizza a sufficienza, uno lo dà una volta, poi siccome non gli dicono in tempo se è promosso o no, lo dà anche la seconda volta. Capisci che è uno Stato che mortifica. Oppure gli fa fare dei test di medicina farlocchi. Quindi c’è uno strano Stato che da una parte ti fa correre, saltare, tirare di fioretto, e dall’altra ti impedisce invece di sviluppare altri talenti. Però non voglio uscire dal tema, però per entrare nel tema, parto da una notizia che penso abbia colpito tutti voi: l’affondamento di quella bellissima barca al largo di Palermo dove sono morti due delle persone più ricche del mondo e la figlia di uno di loro. Perché parto da questo, che può sembrare una via lugubre? Ma è come un avvertimento che il destino a volte ci dà in modo strano. Perché che cos’è la vita se non un rischio? Perché senza la parola “rischio” sullo sfondo, è una parola che è tornata in quello che avete detto voi, senza la parola “rischio” sullo sfondo, tutte le altre parole – talento, dedizione – non si capiscono, diventano anche un po’ banali o un po’ di plastica. Tant’è vero che viviamo un momento in cui queste parole vengono usate anche in tanti contesti, ma in maniera plasticosa, diciamo, non hanno vita. Perché la vita è un rischio, non solo perché puoi essere l’uomo più ricco del mondo e morire come l’ultimo sfigato degli africani che cercano di arrivare in Italia con una barchetta del cavolo. La vita è un rischio anche in senso più profondo: puoi vivere la vita perdendola, cioè puoi vivere l’unica vita che hai – perché non c’è un altro giro – senza conoscere il senso della tua esistenza, senza investirla fino in fondo, senza godertela fino in fondo, in un certo senso. Allora il talento, parlo di questa parola alla luce della parola “rischio”, che non dobbiamo dimenticarci mai. Io penso che una buona parte della depressione della nostra epoca dipenda dal fatto che abbiamo dimenticato che la vita è un rischio. Perché se te lo dimentichi, poi la vita si spegne, diventa un accomodamento, diventa un provare a campare. Ma la parola “talento” indica innanzitutto il fatto che il talento è un dato, non l’hai deciso tu. Quindi la prima cosa che io lego al talento è la parola “umiltà”. Può sembrare strano, perché oggi il talento viene sempre visto come una sorta di esaltazione dell’ego. Il primo talento è il fatto che ti è dato, non lo decidi tu il tuo talento. Io, quando vado nelle scuole, racconto sempre a tutti i ragazzi che guardano i talent show, e ai quali gli insegnanti non raccontano la parabola dei talenti, questo ti fa capire la crisi della scuola italiana che andrebbe chiusa domani, non oggi, domani. Perché a tutti i ragazzi che guardano i talent show nessun insegnante racconta la parabola dei talenti. Il primo elemento è la parabola dei talenti: il talento tuo, non lo decidi tu, te lo trovi addosso e quindi devi essere umile nell’accoglierlo. Poi, perché il talento viva, ci vogliono altre due cose. Una, ci vuole la “téchne”, la messa in gioco. Téchne è la stessa parola che in greco vuol dire “arte”. Arte e téchne hanno lo stesso significato. Ci vuole l’arte, la messa in gioco, andare a bottega, imparare dagli altri artisti o tecnici del tuo campo. Non basta avere il talento. E anche per questo occorre umiltà: diventare qualcuno di più bravo. Come ho fatto io a 17 anni con Caproni, Luzi, gli altri grandi poeti italiani, a cui dicevo: “Cosa ne dici di questo sgorbio che sto scrivendo?”. E questo vale per tutte le arti, per tutte le composizioni. Poi occorre una terza cosa, molto importante, che ho visto accennata anche da quello che dicevano: cioè, il talento serve, la tecnica, la bottega, andare a bottega – cioè ci vogliono degli amici con cui imparare, dei maestri con cui imparare, altrimenti il talento ti muore in mano. E la terza cosa è la parola “ideale”. La voglio dire proprio qui perché siamo alla CDO: un criterio ideale, un’amicizia superiore. La parola “ideale”, per chi conosce le parole, è il mio mestiere, lavoro con le parole, è l’arte della parola. La parola “ideale” non è per forza uno sforzo di idee, un’immaginazione. Devo avere una grande aspirazione, devo avere un’idea alta. Invece la parola “ideale” viene dal greco “idea”, che deriva dal greco “orao”, che vuol dire “vedere”. Cioè l’ideale è qualcosa che vedi o che hai visto, che stai vedendo, che ti convince, ti persuade alla dedizione alla cosa a cui ti stai dedicando. Detto in altre parole, io quando ho deciso di dedicare la mia vita alla cosa più triste apparentemente, ma più bella e più povera del mondo, che è la poesia – che non guadagna un euro, fai la fame per tutta la vita – perché l’ho fatto? Perché ho incontrato degli uomini, Mario Luzi, Attilio Bertolucci, Franco Loi. Ho visto degli uomini per cui quel modo con cui loro vivevano questa cosa mi è sembrato interessante. Questo è l’ideale. Non è una proiezione mia mentale, è che ho visto qualcuno. Ho visto qualcosa che mi ha convinto che dedicarsi all’arte, magari ci perdi nel conto in banca, ma può essere importante per te e per gli altri. Ho visto come facevano loro. Questa è stata la mia prima grande bottega. Per questo la parola “ideale” è altrettanto importante quanto la parola “talento”. Io credo che ci sia in giro un sacco di ragazzi, e me lo faceva ricordare prima l’amico Bonacina, un sacco di ragazzi che magari hanno del talento ma poi non trovano un ideale, cioè non trovano un adulto che vive quel talento in un modo interessante. E allora si spegne il talento, oppure uno pensa a pararsi il culo e a fare la vita tranquilla. Credo che per questo la parola “talento”, se la si separa dalla parola “ideale”, perda di significato e diventi anche un po’ ambigua, come nei talent show, usata in maniera da egotismo stupido. La dedizione dipende da questo: perché sai che la vita è una, che è a rischio in tutti i sensi, e allora nella vita ti dedichi a qualcosa. La partita è importante. Se la dedizione è dedicarsi a salvarti il culo, nel senso più banale del termine, non lo fai. Ti dedichi con grande interesse, con grande passione. E appunto, la passione deve essere l’entusiasmo, perché la passione vuol dire ciò per cui sei disposto a soffrire. L’entusiasmo vuol dire “in theos”, sei preso da un dio per cinque minuti e ti viene l’entusiasmo. Ti viene l’entusiasmo per quella ragazza, ti viene l’entusiasmo per quel lavoro, ti viene l’entusiasmo per quell’idea. La passione invece è che per quella ragazza sei disposto a soffrire tutta la vita. “Passior”, dal latino. O per quell’idea sei disposto a soffrire tutta la vita. C’è una differenza tra le due cose, però tutta la passione la metti con dedizione. E anche qui è un problema di umiltà, torno a questa parola, perché la dedizione è un problema di umiltà, sapendo che la partita è una, che non c’è un altro giro, che la vita è un rischio, che ti è data. E dentro questo grande orizzonte del rischio, che è l’orizzonte più grande della vita, allora diventi interessante. Sennò sono tutte parole che oggi vengono usate in 5000 convention di imprese, tutte allo stesso modo, ne avrete partecipate anche voi, tutte plasticose, tutte finte, e che soprattutto non muovono nulla.
Luciano. Grazie. Allora, volevo dire una cosa di metodo. Se in platea qualcuno ha delle curiosità e vuole fare una domanda, credo che l’ultima parte del nostro incontro potrebbe essere quella adatta ad accogliere qualcuna delle vostre domande. Però, intanto che metabolizzate questa opportunità, volevo sottoporre a tutti e tre uno spunto di osservazione. Che è un, come dire, un avversario. Qual è il comune avversario di questi tre valori? Talento, dedizione e leadership. Il comune avversario di questi tre valori è la distrazione, la non concentrazione. Perché per esercitare il talento ci vuole dedizione, per carità, e anche la leadership è qualcosa con cui fare i conti e non far finta di niente. Noi viviamo nella società della distrazione, perché il portato culturale, psicologico, addirittura neurologico della rete è una cosa che stiamo ancora misurando. Allora, alle vostre diverse esperienze, accomunate però dall’impegno, dal talento, dalla leadership di ciascuno di voi, cosa viene in mente sull’antidoto a questo veleno che insidia l’espressione del talento, la manifestazione della dedizione e l’affermazione della leadership, quando merita di essere affermata? Secondo me è un tema da toccare, perché oggi abbiamo la fortuna di essere in un ambiente pieno di giovani e queste domande se le pongono, vivono queste esperienze e però hanno attorno a sé tanti segnali fuorvianti.
Gilmozzi. Sulla tua domanda, a me viene in mente una cosa importantissima, come diceva il maestro. Il talento va coltivato, bisogna fare un percorso di formazione, ci sono degli studi da fare, va studiato, va praticato ogni giorno. E parlo del mio lavoro. Ogni giorno devi praticare, non dico la stessa cosa, però essere portatore della tecnologia che tu impari e quindi essere consapevole che devi arrivare alla perfezione, anche se la perfezione non esiste mai, perché comunque devi continuare a studiare. Quindi quello che io dico sempre anche ai miei ragazzi è che la mia responsabilità di leadership è una responsabilità di far loro capire che quel percorso è lungo, non ci sono scorciatoie. È una cosa importante da trasmettere: non ci sono scorciatoie per arrivare proprio alla fine, a gestire il tutto. Tante volte arrivano ragazzi che ti dicono: “Ah, ma io l’ho visto su YouTube”, che è quella distrazione di cui parlavi. E dico: “Ok, l’hai visto su YouTube, bellissimo, però dobbiamo farlo, no?”. Quindi c’è tanta pratica da mettere in atto. È bello vedere il video, è bello vedere tutto, però alla fine, se non hai la pratica, la dedizione e non fai quel percorso… Posso portare un esempio che faccio a casa: io chiedo ai ragazzi giovani di fare un percorso da me di due anni, in modo tale che cerchino di capire tutte le partite. E dopo, se vogliono rimanere, facciamo un altro progetto in modo tale che si formino ancora di più. Se vogliono andare via, cerco un posto dove possano formarsi ulteriormente, ma è importante che loro capiscano che possono. Poi, se hanno il talento, quella è una fortuna, se hanno l’umiltà, ancora meglio, perché comunque stanno con i piedi per terra e ascoltano. La parola chiave è anche ascoltare, è una cosa importante. Poi c’è la fortuna. Tanti sono fortunati, tanti no, magari cambiano lavoro, però generalmente in un periodo come questo, che è tutto fast, tutto veloce, cercare di far capire questo ai ragazzi secondo me è la cosa più importante che dobbiamo fare noi. Poi la fortuna… Io sono stato fortunato ad avere una compagna che mi ha lasciato fare quello che volevo, e quindi anche quella è una fortuna che ringrazierò sempre.
Non è una fortuna, l’hai scelta bene. Non è proprio una fortuna, l’hai scelta bene. L’ho scelta bene. Non è che te l’hanno mandata a casa con Amazon.
E quindi questo è il mio punto di vista.
Bonacina. Il suo intervento è stato molto interessante perché, diciamo, oggi viviamo in un mondo di stereotipi e quindi sono quelli che ci rovinano, perché lo stereotipo ti crea un percorso mentale che ti sembra obbligato da fare, quando in realtà sei tu che devi creare il tuo e devi anche capire, come diceva lui, qual è il tuo talento, che ti è stato dato, ti è stato donato, come lo devi sviluppare, a chi ti devi affiancare. E che la sofferenza fa parte del percorso, che il disagio, tutte quelle cose negative che cerchiamo di far sparire, in realtà sono il carburante verso l’alto. Perché, diciamo, quel… io dico, quel famoso ritornello che dice: “Tempi difficili creano uomini forti, uomini forti creano tempi facili, tempi facili creano uomini deboli”, eccetera. Questa è molto interessante, ma ti fa capire che è un circolo, no? Quindi lo vediamo nell’impresa, come vediamo la famiglia, o l’imprenditore che ha grande successo e poi dice: “Io ho sofferto per arrivare qua, allora ai miei figli o ai collaboratori nascondo tutta questa sofferenza, non gliela faccio vedere”, e poi l’azienda crolla. Siamo ancora su questo stereotipo che non abbiamo capito che le difficoltà fanno parte della vita e lo faranno per sempre. Come dicevi anche tu prima della barca: non è che se sei miliardario e sei sulla barca da 85 metri non può affondare. Se uno capisce bene questo, vive con serenità il percorso della vita e si aprono molte più opportunità. Altrimenti sei sempre lì a cercare di evitare la sofferenza, a capire se faccio quel passo, cosa mi può creare, e diventa tutto un loop malato, mentre vivere è proprio affrontare la vita, anche col fatto che, io dico sempre, la vita ti dà spunti quotidianamente, se tu li sai accogliere positivamente ti porteranno sempre su un percorso nuovo. Questo almeno è quello che io cerco ogni giorno, perché sennò se devo percorrere strade già battute da altri, sto percorrendo il percorso di qualcun altro. Creare il proprio percorso va proprio in quella direzione. Penso che quello che abbiamo detto tutti e tre in modo diverso poi si sia collegato a questo concetto che secondo me è molto, molto interessante e che è quello che stanno cercando i giovani oggi, perché li abbiamo talmente dopati di stereotipi che giustamente uno dice: “Ma cosa devo fare?”. Perché prima il percorso era più chiaro, anche se magari poteva non essere condiviso da tutti, parlo come società, però il percorso era chiaro di quello che uno doveva fare. Invece oggi, avere queste… diciamo, io sono magari in montagna come lui, o in Brianza come sono io, e mi danno segnali di una vita che dovrei percorrere come un’americana a Washington. Devo capire che c’è una totale differenza. Quindi chi sono, dove sono, qual è il mio territorio, quali sono le mie opportunità. Poi io apprezzo anche quello che prende e va a Washington a percorrere quel percorso, però penso che le nostre storie parlino di persone che hanno capito chi erano, dove stavano e cosa dovevano fare in quel territorio. Secondo me la parola “territorio”, “nazione”, “cultura nostra”… Io dico che noi in Italia siamo una civiltà che ha 2000 anni di storia rispetto al resto del mondo. Lui dice: “Ho conosciuto i poeti, ho deciso di fare il poeta”. Ha visto una cosa molto profonda, ha capito in quel momento. C’è stato un click, che non è che lui ha visto la fine della sua vita, ma ha capito bene qual era il suo percorso, capito? E questo penso sia molto difficile per i giovani oggi: accendere questo, e la leadership è quella che ti guida, no?
Rondoni. Giusto. Infatti, se posso correggere la parola che tu hai usato, hai usato la parola “distrazione” come problema che può svuotare queste parole. Io la sostituirei con un’altra. Poi non è la mia idea, ma è un’idea di due grandi intellettuali del Novecento: uno è Pasolini e un altro è Peguy, che la dice 50 anni prima. Il pericolo della nostra epoca non è la distrazione, quella c’è sempre stata, diciamo che fa parte della vita che ti distrai. Il vero problema sociale che loro vedevano già è invece l’astrazione, non la distrazione. Cos’è l’astrazione? È il fatto che per decidere nella vita, invece che partire dall’esperienza che stai facendo, da quello che tocchi, da quello che vedi, da quello che ti viene incontro, dalle occasioni, dalle circostanze, dall’odore, dalla pelle, dagli occhi, invece che decidere su questa base, decidi sulla base di un’idea astratta, che molto spesso travesti da sogno, che è molto differente dall’ideale. Il sogno è un vagheggiamento, l’ideale è una cosa che vedi. Oggi noi siamo completamente dentro l’epoca dell’astrazione, di cui, se mai, i social sono una conseguenza, e chi se ne frega. Ma l’astrazione nasce molto prima, per esempio nasce – scusate se lo dico perché mi occupo di questo – nasce nel linguaggio, nelle parole che usiamo, o meglio che ci fanno usare. Faccio due esempi brutali così ci intendiamo. Intanto io ho un carattere abbastanza brusco, gli amici che mi hanno invitato lo sanno. Io non ho mai sentito una donna dire: “Aspetto un embrione”. Aspettano tutti un figlio dopo il secondo giorno che lo sanno. Poi vai nel linguaggio pubblico, è chiaro che dire “uccidiamo 5000 figli” farebbe un brutto effetto, e allora fai diventare la parola “scientifica”. È un esempio, scusate, un po’ brutale, ma per capirci. Oggi, fra l’altro, viviamo in un’epoca dove la pressione sul linguaggio da usare è fortissima, come mai in nessun’altra epoca. Siamo in un’epoca totalitaria, bisogna saperlo. Anche se ti lasciano andare libero a votare, siamo in un’epoca totalitaria. Certe parole non puoi dirle, certe parole non si dicono, certe cose non si fanno. Ed è potentissimo questo. Allora, l’astrazione nasce già dalle parole che usiamo. Per questo ci vuole qualcuno che oltre a fare le imprese, oltre a fare le cose belle che fanno loro, lavori con le parole, cioè ci lasci delle parole. La poesia, l’arte, in generale il parlare artistico è una composizione, così come comporre un piatto, comporre un’impresa, è sempre un sforzo di composizione, che è il contrario della morte, che è la decomposizione. Poi ci sono opere che durano molto, la Divina Commedia è da 700 anni che c’è, non so quali altre imprese in Italia ci sono da 700 anni, penso nessuna, forse qualche banca nemmeno. Però ci sono opere che hanno un rapporto col tempo diverso, non è che è meglio o peggio, però sono tutte opere. Ogni tanto c’è un’opera… e lo dico qui, che siamo al meeting: il meeting è nato da uno che non ha mai fatto niente apparentemente, si chiama Don Giussani, che ha sempre parlato però, non ha avuto paura di dare la vita, come diceva lui, per alcune parole. Lo ricordo bene, diceva: “Io darò la vita per alcune parole”. E cosa ha lasciato quest’uomo nella vita di tanti? L’esempio, ovviamente, e alcune parole. Parole della concretezza della vita, non dell’astrazione. Oggi invece siamo completamente ricattati dall’astrazione, su tutti i campi, compreso quello imprenditoriale, che infatti dà modelli, dà stereotipi. Io dicevo: “Sai cosa c’è dall’altra parte? E funziona”. Questo credo che sia la lotta contro l’astrazione, e quello che ci riguarda oggi, perché… ed è una lotta che si fa con le parole, con gli esempi, con le opere. Dicendo a uno: “Guarda, invece di guardare là”. In questo senso, i ragazzi di oggi, torno su questo tema che è molto importante, conosco tanti che scrivono di poesia per vari motivi. Sono ammalati da una furia analitica. Sono intelligentissimi, analizzano continuamente e non decidono mai. Questo perché? Perché gli hanno messo in testa l’idea che la realtà la sistemi con la testa. Se la sistemi nella tua testa, funziona, è il principio dell’astrazione, come il politically correct: se usi le parole giuste, la realtà è buona. Non è detto. Questa è l’idea che mangi la vita con la testa, oggi è fortissima. Per cui vedi ragazzi, anche talentuosi, con una capacità analitica feroce quasi, che non prendono mai una strada, non cominciano mai un tentativo, non rischiano mai. E perché? Non è che sono scemi né cattivi, è perché sono figli dell’epoca dell’astrazione. E questo è il male con cui dobbiamo combattere. Non è recente, Peguy ne parlava nel 1910, Pasolini nel 1950. Quindi dobbiamo anche essere umili nel capire quello che ci troviamo di fronte: non è un problema che nasce con noi, è un problema che nasce da molto prima.
Bonacina. È verissimo, io concordo pienamente perché noto tantissimo nei giovani che vengono dalle università milanesi da noi in azienda questo fattore di dover analizzare tutto al millesimo prima di partire. Tu dici: “No, ma guarda che sei in Brianza, sei nella terra dove si fa l’incontrario”. Io è vero, quello che lui dice, ho fatto quello che ho fatto perché comunque davanti a me ho sempre avuto esempi di imprenditori brianzoli con la terza elementare che gestivano un’azienda di 700-800 dipendenti, e quella è la realtà. Non ti serve la laurea alla Bocconi, non ti serve averlo già fatto, perché è partito facendolo, come si diceva da noi, “fan dai man”. Allora, io ero già una generazione che era un po’ contaminata così, quindi dicevi: “No, aspetta, non devo guardare quello che fa da Iman con la terza elementare, perché non ce la farà più nel futuro”. Invece, quello che ancora oggi fa girare è questo. Concordo, è verissimo, ed è un grande male, perché sono bravissimi, come dici tu, ma si fermano tutti. Sono lì sullo start e poi, se non li spingi, non entrano nel concreto, perché gli manca quell’1% che chiude la partenza.
Gilmozzi. Verissimo, verissimo, e posso fare anche un esempio. Arrivano magari dalle scuole di alta formazione e analizzano una semplice ricetta, quando magari è codificata da vent’anni, e quindi dici: “Ma scusa, no, perché dobbiamo andare ad analizzarla? Mi fa piacere”. Allora gli faccio sempre l’esempio e prendo come spunto una frase di Velasco, che penso conosciamo tutti. Lui dice: “Ma se devi analizzare una cosa concreta, devi cominciare dall’acqua”. E quindi dalla formazione. Quindi l’acqua la mettiamo su ed è a 26 gradi, poi a 30, 40, 50, finché arriva a 90, finché arriva a bollire, è sempre acqua. Però dopo a 100 gradi è vapore, quindi non è più acqua, ha una trasformazione. Quando arrivi a spiegarmi questo, allora analizziamo.
Luciano. Se è germinata qualche domanda, mandiamo un microfono in platea. Però c’è anche un piano B. Non è che dovete sentirvi troppo… alla fine ce l’hanno sempre tutti, poi non la fanno, se ne vanno alzandosi dicendo: “Cacchio, dovevo farla”. Se si alza una mano, magari un amico della regia può consegnare un microfono, o io stesso. Allora, io consegno il mio microfono prima evitando di cadere, che sarebbe un bel fuori programma. Ecco, volevo chiarire una cosa molto importante, credo nella vita, anzi fondamentale.
Il rischio? Certo, rischiamo tutti i giorni, anche attraversando una strada. L’importante è che ci vada bene, altrimenti saremmo tutti morti, oltre che falliti.
Quindi il tema del rischio e dell’opportunità… Come si fa a rischiare? Qualche altra domanda?
Buongiorno. Volevo chiedere a Bonacina se mi fa un esempio piccolo ma pratico di qualcosa che lei ha fatto e che ha cambiato l’andamento della sua azienda. Cioè, andavamo così e io poi ho preso questa decisione.
Grazie. Cominciamo con queste?
Bonacina. Va bene.
Luciano. È chiamato in causa direttamente. Prego.
Bonacina. Io ho fatto una cosa che cerco di sintetizzare velocemente, ma che è il vero cambiamento che ho fatto nella nostra impresa. Allora, io credo che noi in Italia siamo… non è che credo, noi in Italia siamo i produttori numero uno al mondo di qualsiasi cosa che sta sotto la voce “qualità”. Cioè, voi ovunque andate nel mondo, nelle migliori industrie, anche da Apple, Google, Amazon, trovate pieni di italiani che hanno portato svolte incredibili sulla qualità. Siamo tra i primi cinque produttori al mondo di mobili, primi cinque produttori al mondo di macchinari per il packaging, e possiamo andare avanti così in un sacco di settori dove c’è l’eccellenza, ci siamo noi. L’unica cosa è che noi abbiamo questa grandissima cultura del saper fare con le mani cose incredibili e con la creatività, ma poi purtroppo demandiamo la vendita. Quindi spesso, rispetto ai francesi con cui ci paragoniamo sempre, noi facciamo un olio d’oliva pazzesco e poi lo vendiamo a distributori che lo imbottigliano e lo vendono. Quindi è difficile, se tu pensi, trovare un brand di olio italiano super prestigioso che viene venduto in giro per il mondo. Però poi, quando vai a New York, nei supermercati di grande qualità, vedi l’olio italiano a 25 dollari al litro. Poi parli con chi ha fatto quell’olio e ti dice: “L’ho venduto a 0,79 al litro”. Allora, sostanzialmente, la maggior parte delle imprese in Italia, un po’ più conosciute, fa franchising, cosa che io odio. Nel nostro settore le migliori aziende, quelle più grandi come Poliform, Molteni, B&B, Poltrona Frau, quando andate nei loro negozi a Parigi, Londra, Milano, non sono di proprietà dell’impresa, sono franchising. Hanno trovato un investitore locale che l’ha aperto, poi gli mettono il marchio, tutto, i prodotti, il setting come se fosse italiano, ma quelli non stanno vendendo Made in Italy, perché sono francesi, inglesi, eccetera, che hanno cercato di acquisire quella cosa lì. Noi che, nel creare il prodotto, ci mettiamo dietro una storia, un saper fare, una creatività, una cosa incredibile, poi perdiamo il 50% di quel valore nella distribuzione. Io, il primo anno di lavoro, ho girato l’Italia e il mondo, andando in questo sistema tradizionale, no? Per quello che dico: siamo schiavi degli stereotipi. Tutto il settore vendeva coi rivenditori, coi franchising. Ho detto: “Allora dovremmo vendere anche noi così”. E mi accorgevo, conoscendo bene anche i prodotti degli altri marchi, che quando chiedevo ai commerciali – per esempio, mi ricordo una volta, ero a Los Angeles e vedo un divano di un marchio italiano fatto in pelle con una pelle primo fiore, bellissima, a 6 centimetri, lavorata in botte all’anilina – e gli dico: “Scusi, al venditore, ma questa che tipo di pelle è? Che pelle è?” E lui mi risponde: “This is leather”, cioè questa è pelle. Io dico: “Sì, ma che tipo di pelle è?” “Leather”, cioè pelle. “Ah, ok”. Quindi, il secondo anno di lavoro, ho preso questa scelta folle, che è poi quella che ha portato al successo. Ho licenziato, nel senso che ho smesso di lavorare con tutti gli agenti che avevamo, che nelle loro borse avevano 10.000 marchi. Ho smesso di lavorare con tutti i rivenditori e ho creato una squadra di sales manager interni, quindi venditori diretti dell’azienda, che andassero a vendere direttamente allo studio di architettura, che era il cliente del rivenditore, nei vari paesi del mondo. Così noi abbiamo tagliato l’intermediario, che si beccava la maggior parte del margine. Perché poi, se noi pensiamo a questo su scala nazionale, noi facciamo 2000 miliardi di PIL, ma probabilmente ne facciamo 4000, gli altri 2000 sono in giro per il mondo perché vendiamo le nostre macchine, i nostri mobili, i nostri vestiti, ad altri a sconto 50 e poi loro rivendono a prezzo di listino. Quindi questo è stato il grande cambiamento e, ovviamente, così noi abbiamo portato il vero Made in Italy, ogni dettaglio, ogni punto qualitativo, e abbiamo garantito al cliente finale di sapere veramente cosa comprava nel profondo. Questo è stato il vero cambiamento cardine, poi ce ne sono tanti più piccoli, ma questo è il vero cambiamento. Oggi uno può comprare il nostro prodotto solo direttamente tramite il personale della Bonacina. Abbiamo aperto la nostra sede negli Stati Uniti, quindi le nostre varie sedi, però piuttosto non facciamo un mercato se non lo possiamo fare direttamente, perché sennò si perderebbe troppo valore. Io penso che ci mettiamo tanto cuore, tanta sofferenza, tanto ragionamento a fare qualsiasi prodotto in Italia di Made in Italy, che sia food, furniture, fashion, qualsiasi cosa, che poi perdere il 50% di quel valore sia economicamente che intellettualmente è veramente una cosa che non possiamo permetterci di fare.
Luciano. Perdere l’identità significa perdere l’identità. Parliamo di rischio, che è l’altra…
Gilmozzi. Ma il rischio è sempre imprenditoriale, questo si sa. Però secondo me fa parte anche di quell’incoscienza avuta dalla visione. Quando hai una visione e cerchi di percorrere quel sentiero, come dicevo prima, visionario, perché vuoi arrivare a far capire ai nostri ospiti, a quelli che vengono a trovarci, che comunque dietro una persona c’è una visione data magari da quella che è la cultura e il territorio. E quindi quello ci sarà sempre, ce l’avremo tutti i giorni. Ma se non hai una visione, è come non far nulla. Se io non avessi la visione di arrivare a un certo punto, che ormai è diventata quella di lasciare un segno incisivo ai nostri ragazzi, che poi porteranno avanti questa cultura che è millenaria, e quindi il rischio ci sarà sempre.
Luciano. Rischio in senso positivo, rischio-opportunità, rischio-opportunità. Davide?
Rondoni. Si potrebbe rispondere così, per usare un’immagine. Perché Romeo si arrampica rischiando di rompersi l’osso del collo sul balcone di Giulietta? Per amore. Cioè, il rischio è sempre collegato a qualcosa a cui sei attaccato più che a te stesso. Questa è la differenza che anche Leopardi diceva tra l’amor proprio e l’amore di sé. Se sei talmente attaccato a te, non rischi. Ci vuole qualcos’altro che valga più di te, per cui rischi. Altrimenti, il rischio per te stesso sarebbe poco, al limite ti pari il culo. Il rischio invece di salire sul balcone di Giulietta, di fare il magistrato come Falcone, Borsellino o il nostro Livatino, per cui rischi la vita, lo fai per qualcosa di più grande. Io, così faccio lo spot, oggi alle 7 parlo di San Francesco, che ha fatto un’opera che dopo 800 anni c’è ancora. Quest’opera su cosa è stata fatta? Sul fatto che lui pensava ci fosse qualcosa di più grande di sé, di molto più grande di sé, l’Altissimo, come dice. Questa dinamica che vale per il santo, vale anche per l’imprenditore e anche per l’artista. Perché uno non fa le cose perché pensa di valere lui. Questo egotismo, che è una delle malattie della nostra società, ferma il rischio. Guardate, lo dico perché siamo in un’epoca dove ci vogliono convincere che la salute è il massimo valore della vita. Cioè, abbiamo deciso che Falcone e Borsellino sono due coglioni, perché non hanno pensato solo alla salute. Tre anni che ci dicono questa cosa martellante. Il problema della vita è durare di più. Abbiamo deciso che la vita di un ottantenne vale più di uno di cinque anni? Quando l’abbiamo deciso? Perché abbiamo deciso che dare la vita per una cosa più grande è da scemi? Attenzione, siamo in un’epoca totalitaria su questo. Il problema della salute, che non è il problema dei vaccini o non vaccini, sui quali ci hanno fatto discutere a caso per un anno e mezzo, ma il problema di dire che la salute è tutto, è vergognoso. Perché vuol dire che nella vita non c’è niente che vale più di te stesso. Questo è un principio totalitario. Perché tutti i grandi imprenditori non pensano solo alla salute, pensano a portare un valore. Quando lui parlava della pelle, che sembrava parlasse di una donna, c’è qualcosa che lo innamora. Se noi perdiamo questo e pensiamo che la salute sia tutto, il rischio, l’impresa, l’arte, ma anche la giustizia e anche la santità non ci sono più. Che dirvi?
Luciano. Abbiamo raggiunto il nostro tempo, peraltro senza sforzo e senza regie particolarmente vincolanti. Potremmo andare avanti a lungo, ma non è corretto. Quindi una sola cosa volevo dirvi, e non vi sembri piaggeria: per lavoro quante volte ci capita di organizzare e moderare… raramente capitano tre fuoriclasse come questi qui. Grazie. Grazie del vostro contributo e grazie delle idee che ci avete regalato. Grazie a tutti.