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SUSSIDIARIETÀ E… POLITICHE INDUSTRIALI. Il Rapporto della Fondazione per la Sussidiarietà 2015/2016
Partecipano: Massimo Carboniero, Presidente UCIMU-SISTEMI PER PRODURRE (Costruttori italiani di macchine utensili); Paola Garrone, Docente di Business and Industrial Economics al Politecnico di Milano; Giampaolo e Gianluca Seguso, Seguso Vetri d’arte – Murano dal 1397. Introduce Giorgio Vittadini, Presidente Fondazione per la Sussidiarietà.
SUSSIDIARIETÀ E… POLITICHE INDUSTRIALI. Il Rapporto della Fondazione per la Sussidiarietà 2015/2016
GIORGIO VITTADINI:
Buongiorno. Apriamo questo incontro come tutti gli incontri del Meeting di oggi, colpiti dalla drammatica notizia del terremoto di stanotte. Il nostro pensiero come Meeting va alle vittime e alle loro famiglie, desideriamo essere vicini a loro e disporci in questa giornata con ancor maggiore serietà. Quindi, raccogliamoci ora in un momento di silenzio associandoci alla preghiera del Papa di questa mattina. Continuiamo i nostri lavori che oggi hanno come argomento la presentazione del Rapporto sulla Sussidiarietà e politiche industriali che ha a che fare con l’ UCIMU e con Federlegno, perché è stato studiato, come vedremo, proprio su un campione che comprende queste imprese, oltre quelle di moda Italia e quelle dell’agroalimentare. Avremo quindi con noi la professoressa Garrone del Politecnico di Milano che ha curato questo rapporto, il dottor Massimo Carboniero, presidente dell’ UCIMU; Giampaolo Seguso, imprenditore nel campo dei vetri d’arte, il padre e poi il figlio che lavora con lui, Gianluca Seguso. Do la parola innanzitutto a Paola Garrone.
PAOLA GARRONE:
Buon pomeriggio e grazie. Nel mio intervento presenterò il Rapporto sulla Sussidiarietà di quest’anno, sussidiarietà e politiche industriali. Il tema del Rapporto è l’impresa e in particolare qual è il cuore dell’impresa, che cosa fa un’impresa diversa da un’altra, che cosa la rende unica. In questo intervento, condividerò con voi il percorso di ricerca che abbiamo fatto, i risultati che abbiamo avuto dall’indagine che abbiamo svolto con Giorgio Vittadini ma anche con degli studiosi dell’università di Bergamo, quindi Martini e Minole, in particolare, per arrivare a dire quello che abbiamo scoperto, che ha a che vedere appunto con il fattore umano, l’imprenditore in particolare come soggetto al centro dell’impresa. Sono due i punti di partenza, i motivi che ci hanno spinto a svolgere questa ricerca. Primo fatto, primo dato: quello che colpisce nel mondo dell’industria italiana, in particolare nelle imprese industriali, ma in generale nelle imprese italiane, è una grande varietà. Ci sono imprese molto diverse, evidentemente per prodotti, per tecnologie, per dimensioni, ma anche all’interno dello stesso settore. Imprese che producono prodotti, beni, servizi simili, con dimensioni simili localizzate anche nella stessa area, nello stesso distretto. Bene, scelte molto diverse e risultati anche molto diversi. Questo fatto, che è quasi un’osservazione banale per chi frequenta il mondo delle imprese, in realtà è in qualche modo assente o un po’ misconosciuto da molta parte del dibattito sui giornali e tra gli esperti del mondo dell’impresa. Spesso si tende a parlare della tipica impresa italiana e poi si disegnano le misure a sostegno della competitività delle imprese, le politiche industriali sono di tipo strutturale, quindi c’è la politica per la piccola, media impresa, l’incentivo per imprese che fanno parte di certi settori in declino, e così via. Noi abbiamo voluto andare a verificare, non solo in termini qualitativi ma anche in termini quantitativi, con uno sforzo di tipo statistico, che cosa c’è oltre questi dati di tipo strutturale. Il primo passaggio che abbiamo fatto è stata una verifica piuttosto semplice da un punto di vista tecnico-metodologico, prendendo un campione ampio di imprese, di quattro settori del Made in Italy che sono anche al centro per molta parte dell’economia italiana: il settore dell’abbigliamento, dell’arredamento, automazione macchine utensili, agroalimentari, in particolare l’ortofrutta, perché faremo un approfondimento su questi settori. Poi abbiamo lavorato in collaborazione con le associazioni d’impresa, UCIMU, Federlegno e altri due settori. Ma siamo partiti inizialmente dal quasi universo di queste imprese: basandoci su quelle per cui avevamo i dati, abbiamo cercato di capire quanto dei risultati di queste imprese veniva spiegato dalle classiche variabili di tipo strutturale tradizionale. Come misure delle performance dei risultati delle imprese, abbiamo utilizzato la variazione, la crescita o ahimè la diminuzione nel fatturato e nel numero degli addetti, da prima a dopo la crisi cosiddetta del 2009, abbiamo scomposto attraverso una tecnica statistica e abbiamo cercato di capire quanto questa variazione era dovuta al fatto che si apparteneva ad un certo settore. Ad esempio, le imprese dell’agroalimentare sono cresciute regolarmente e statisticamente in maniera significativa più delle altre, in termini di numero di addetti. O l’appartenenza ad una classe dimensionale: le piccole, medie imprese hanno regolarmente uno svantaggio, e così via. Quello che abbiamo visto in questa verifica è che in realtà le classiche variabili strutturali – il settore, la dimensione, la localizzazione geografica – spiegano poco dei risultati delle imprese, 4 e 12% a secondo dell’indicatore che utilizziamo. C’è un 96% e un 88% non spiegato. Allora, non escludiamo evidentemente che abbiano un ruolo circostanze esterne fortuite che colpiscano un’impresa e non un’altra, ma evidentemente c’è qualcosa di più. Che cos’è questo qualcosa di più che spiega il risultato delle imprese? Delle variabili strutturali abbiamo già parlato, chi studia economia e management tende a sottolineare alcuni aspetti che potremmo dire sono meccanismi gestionali, meccanismi strategici, quindi una certa struttura finanziaria, un certo modello organizzativo, una certa scelta di diversificazione nei prodotti e così via. Ora, non escludiamo che questi aspetti possano evidentemente avere un ruolo, se pensiamo però a questo tipo di riflessioni fatte anche da molti studiosi importati, spesso si riferiscono tipicamente alla grande impresa quotata con proprietà diffusa di tipo anglosassone. Parlando in particolare del Made in Italy, delle piccole, medie imprese italiane, è interessante andare a capire che ruolo ha chi conduce quell’impresa, l’imprenditore o qualche volta un manager esterno anche alla famiglia magari proprietaria. E ci sono studi che vanno ad analizzare il ruolo di caratteristiche diremmo biografiche; l’età, l’istruzione. Proprio perché c’era un’ipotesi, che era la persona a fare la differenza, il fattore umano in senso pieno, ci ha interessato andare a vedere quello che come vedremo viene chiamato carattere, character, anzi, da Heckman, lo studioso a cui ci siamo più riferiti. Che cos’è il carattere dell’imprenditore, il profilo di personalità dell’imprenditore? E’ un insieme di comportamenti, attitudini, motivazioni, valori che lo descrivono come persona. In questo ci siamo riferiti in particolare a questo importantissimo economista del capitale umano che ha molto studiato i sistemi educativi, Premio Nobel nel 2000 dell’economia, Heckman. In questi ultimi anni ha molto lavorato sui fattori che spiegano anche la riuscita dei ragazzi, potremmo direi dei bambini, poi degli adolescenti, nella scuola, nell’attività accademica e poi nell’introduzione nel mondo del lavoro, mostrando l’importanza di quelli che prima chiamava “non cognitive skills”, cioè capacità non meramente accademiche, intellettuali, quelle che vengono misurate dal test tipo quoziente intellettivo e così via. Ma si è riferito a quello che gli psicologi hanno definito personalità, carattere, cinque grandi fattori che ormai sono classici molto misurati, con molti testi, tutta una serie di analisi fatte degli psicologi: la tendenza a cooperare, l’apertura alla esperienze di tipo diverso che possono essere culturale, estetico, intellettuale, l’estroversione, cioè una costante apertura verso le altre persone, verso il mondo esterno più che verso il sé, la responsabilità personale e quella che viene chiamata stabilità emotiva, una certa prevedibilità nelle reazioni e nell’umore. Heckman ha dimostrato che questi fattori, alcuni di questi fattori più che altri, all’interno di questa classificazione degli aspetti del carattere sono particolarmente importanti, non solo nello spiegare ma nel causare, ha dimostrato, con metodi econometrici, i risultati da un punto di vista accademico e anche professionale. Sono fattori abilitanti anche delle altre capacità, anche di quelle intellettuali, quindi sono una molla necessaria. Vengo adesso alla seconda e ultima parte di quello che volevo dire presentando quello che abbiamo fatto, proprio come la parte centrale del Rapporto sulla sussidiarietà. Una indagine fatta attraverso un questionario che ha coinvolto un campione di 380 imprenditori: in questo è stata fondamentale la collaborazione con delle associazioni di impresa, Federlegno, UCIMU, l’associazione della filiera agroalimentare e il sistema Moda Italia per l’abbigliamento, che ci hanno facilitato raggiungere gli imprenditori. Poi noi abbiamo intervistato anche i non associati, ma insomma, è stato veramente importante, un campione che rappresenta in termini anche di proporzioni legno, arredo, abbigliamento, tessile, automazione macchine utensili e agroalimentari e ortofrutta. 380 imprenditori a cui abbiamo fatto un’intervista telefonica, perché quello era possibile fare in circa 15 minuti, in cui siamo andati a richiedere una serie di cose e in particolare 27 domande, anche facendoci aiutare in questo dalla letteratura sul management e sull’imprenditorialità, che volevano catturare quegli aspetti del carattere: motivazioni, attitudini e comportamenti degli imprenditori. Domande sui risultati dell’impresa, chiedendo all’imprenditore come li valutava, poi abbiamo verificato che c’era una correlazione anche con i dati contabili, quindi rispetto ai competitori come valutava la crescita del fatturato nel numero dei dipendenti, i margini, la profittabilità, l’innovazione nei processi, nell’organizzazione, l’innovazione di prodotto, l’internalizzazione. Abbiamo anche fatto domande per controllare tutta una serie di caratteristiche dell’impresa e dell’imprenditore, per non fare poi correlazioni spurie o forzate o polarizzate. Vi dico qualche evidenza per poi arrivare al cuore. Gli imprenditori intervistati su quelle che sono le motivazioni del loro fare imprese, di fronte ad una serie di domande hanno indicato come assolutamente molto importante come motivazione, nella maggior parte degli intervistati, crescere come persona e imparare, soddisfare pienamente i miei clienti, dare lavoro, fare innovazione. Hanno avuto meno seguito altri aspetti, che pure possono essere importanti, continuare una tradizione di famiglia, ottenere un riconoscimento sociale, guadagnare un reddito elevato e così via. Altro esempio di queste 27 domande sul carattere, domande che riguardavano di più l’identità dell’imprenditore: come si sentivano descritti come imprenditori. Ad esempio, molto condivisa è questa frase: “trovare nuove soluzione ai problemi è una parte fondamentale di me”, oppure “riunire una squadra, le persone giuste per lavorare nella mia azienda, per me è stimolante”. Che cosa abbiamo poi trovato, scoperto, in questo lavoro: quelle 27 domande le abbiamo raggruppate in alcuni indicatori sintetici che volevano misurare i fattori alla Heckman che dicevo prima. Domande come “ritengo molto valido interagire e collaborare con i fornitori, con i miei collaboratori, con i miei clienti”, oppure “tendo ad ascoltare l’opinione degli altri quando sono valide”, vanno a finire dentro l’indicatore “tendenza a cooperare”. E così altre domande singole. Queste 27 domande sono andate a confluire nei quattro fattori che vedete sulla prima colonna alla vostra sinistra nella slide. Tendenza a cooperare, apertura all’esperienza, responsabilità. Vedete anche omologazione, che è un fattore che noi abbiamo letto in negativo per il tipo di domande che potevamo fare e che abbiamo visto anche la letteratura ci suggeriva di fare: è un po’ il pendant negativo dell’estroversione alla Heckman. Che cosa significa? Qua dentro in omologazione confluiscono le risposte date a domande come: “perché hai fatto impresa?”. La risposta, se c’era un consenso, era per esempio: “seguire l’esempio di una persona che ammiro”, “ottenere riconoscimento sociale nella mia comunità”. Questo perché volevamo indicare aspetti che sono in qualche modo una tendenza ad adeguarsi ad un ruolo che mi viene richiesto dall’esterno. Bene. Qual è il risultato che abbiamo avuto? Il fattore del carattere, prima di tutto. Noi stiamo comunque controllando che impatto hanno avuto la dimensione dell’impresa, l’istruzione dell’imprenditore, così via. Ci sono molte altre variabili, alcune delle quali significative. Ad esempio, la proprietà famigliare ha un impatto positivo, così una serie di altre. Qua mi concentro però sulle variabili che descrivono il carattere. Il fattore che ha un impatto, una correlazione più pervasiva con i risultati è la tendenza a cooperare. Cioè, gli imprenditori che nelle risposte all’intervista si sono detti molto d’accordo con quelle domande che catturavano la tendenza a cooperare con clienti, collaboratori, fornitori, a interagire, ad avere scambi con altri, così via, sono quelli che in maniera regolare, statisticamente significativa, sperimentano o dicono di sperimentare nella loro impresa crescita del fatturato, margini nelle vendite, innovazione nei prodotti e nei processi, internalizzazione. Ad esempio, anche la responsabilità ha un impatto importante sulla crescita del fatturato, l’apertura all’esperienza, la presenza dei mercati esteri. Agisce invece come un freno quella che poi abbiamo chiamato omologazione, cioè questo riflettersi in qualche modo in un modello, un ruolo suggerito dall’esterno. Che cosa concludiamo, e con questo mi avvio proprio alle ultime battute, che cosa ci dicono questi risultati? Prima di tutto, che il carattere dell’imprenditore ha un peso non piccolo nello spiegare i risultati dell’impresa, ma non è il carattere o l’aneddoto sulla genialità dell’imprenditore in senso generico, sono alcuni aspetti più di altri. Ad esempio, un ruolo pervasivo della tendenza a cooperare, la responsabilità personale verso l’azienda come fattori propulsivi, positivi. Fattore di freno, l’omologazione, questa forma di conformismo. Che cosa ci suggeriscono questi risultati? Un primo fatto che è importante è ritrovare questa consapevolezza, cioè il soggetto che è l’imprenditore, la persona, ha un ruolo, e non è un ruolo secondario, qualcosa che si può dare per scontato, perché fa la differenza, può fare la differenza come i nostri risultati indicano. Non il carattere in senso generale, ma gli aspetti singoli che ho cercato di mettere in evidenza. Che cosa significa dunque il carattere? Parliamo di persone adulte, uomini e donne adulte, imprenditori. Come può essere sostenuto? Che cosa implica? Ad esempio, lavoro in università, penso alle Business School delle università. Che cambiamento richiede? Questi aspetti non sono secondari, eppure sono sostanzialmente dei grandi assenti – la persona, il carattere – nei nostri corsi. Oppure entrano in maniera un po’ surrettizia, soft style, insegnati in un certo modo. Che cosa alimenta nel tempo il carattere in persone adulte che hanno una responsabilità, che fanno una professione che può essere entusiasmante, ma molto sfidante? Relazioni, territorio, reti di impresa, associazioni. E anche sulle politiche pubbliche, c’è evidentemente tutta una serie di interrogativi. Le politiche possono ignorare che questo è un fattore decisivo nelle imprese, non si condannano all’irrilevanza, quindi, ad esempio, favorire questo confronto, questa circolazione di idee fra gli imprenditori, sulle esperienze che sono importanti. Evidentemente, c’è poi una sfida: come le misure, gli interventi possono andare a valorizzare, ad accompagnare questa varietà, questa unicità delle imprese che riflette poi appunto la persona, le persone che nelle imprese operano, in particolare quelle che le conducono, misure che sono di carattere generale, trasparente, ma che, se non hanno dentro anche almeno questa consapevolezza, rischiano di essere per l’appunto inefficaci, irrilevanti. Grazie.
GIORGIO VITTADINI:
Allora, dato questo rapporto, vediamo gli interventi che possono commentare la situazione. Innanzitutto, il dottor Massimo Carboniero, Presidente dell’UCIMU.
MASSIMO CARBONIERO:
Grazie, professor Vittadini, un buon pomeriggio a tutti voi anche da parte mia. Vi porto naturalmente i saluti di UCIMU, Sistemi per produrre, l’associazione italiana dei Costruttori di macchine utensili, robotomazione e tecnologie ausiliarie che ho l’onore di presiedere. Sono lieto di essere qua tra voi oggi al Meeting per l’amicizia tra i popoli, specialmente in un momento dove il rapporto tra i popoli sta attraversando una fase di difficoltà e di incertezza. Ne parlo anche come imprenditore che, essendo spesso all’estero, sente questa preoccupazione presente non solo tra noi imprenditori italiani ma imprenditori in parecchie parti del mondo. Ciò nonostante, dobbiamo reagire, dobbiamo essere positivi ed è proprio con questo spirito che UCIMU sistemi per produrre ha inteso prendere parte alla stesura di questo Rapporto sulla sussidiarietà per il 2015-2016. Non mi voglio addentrare specificatamente su questa ricerca, cosa che ha fatto in maniera egregia già la dottoressa Garrone, però voglio evidenziare come dal mio punto di vista sono due gli elementi importanti che vengono sottolineati da questo studio. Il primo è naturalmente l’importanza dell’imprenditore o del manager dell’azienda, con la sua personalità, con la sua caratterizzazione operativa. Però è un imprenditore e manager diverso, un imprenditore e manager nuovo. Manager aperto, un imprenditore aperto al dialogo con l’estero, al dialogo con i propri collaboratori, con i propri fornitori, con i propri clienti e anche con l’ambiente che lo circonda. Diciamo che è un imprenditore responsabile anche del territorio e della sua azienda. Diciamo che è un imprenditore che sta anche incominciando a diventare altruista. E questo è un aspetto molto importante perché abbiamo visto proprio da questo studio che gli imprenditori che hanno queste caratteristiche hanno dei risultati aziendali migliori rispetto ad altri. Questo lo si spiega sicuramente da questa capacità imprenditoriale, perché non si spiegherebbe come mai aziende che operano nelle stesse zone, con lo stesso prodotto e con la stessa dimensione, possono avere risultati diversi. Il nostro settore delle macchine utensili e dell’automazione, è formato più che altro da piccole e medie aziende e quindi il secondo aspetto che trovo molto importante di questa ricerca è far capire come queste aziende hanno bisogno, per poter rimanere competitive in un mercato globale molto importante e molto difficile da gestire in maniera positiva, anche di aiuti esterni. Quindi di sussidiarietà. Questa sussidiarietà oggi viene data dalle associazioni che fondamentalmente hanno due tematiche operative. La prima è quella di fornire dei servizi, delle consulenze, della formazione a tutte le imprese associate negli argomenti strategici operativi: parliamo di internalizzazione, parliamo di innovazione, di finanza, di rapporto scuola-impresa e di organizzazione di fiere. Il secondo, a mio giudizio, altrettanto importante, è fare fattore comune di tutte le esigenze delle singole aziende per portare a livello nazionale delle richieste di politiche industriali utili allo sviluppo del settore stesso. Questi sono due aspetti molto seguiti in UCIMU, dove da tanti anni ci stiamo attivando, e penso anche in maniera positiva, anche perché la nostra associazione è stata creata ben 71 anni fa, nel 1945, da imprenditori lungimiranti che hanno messo la sussidiarietà a favore delle aziende al centro del loro operato, ed è un settore che negli anni è diventato sempre più importante, tale da diventare un settore economico di eccellenza della nostra economia. Siamo da anni nei primi posti come volume di produzione a livello del mondo. Nel 2015 abbiamo confermato il quarto posto dopo Cina, Giappone e Germania. Siamo da anni nei primi posti al mondo come volume di export, abbiamo confermato anche nel 2015 il terzo posto dopo Germania e Giappone. Abbiamo più di 400 imprese di oltre 32.000 addetti e un fatturato vicino agli otto miliardi di euro.
Le nostre aziende sono tutte aziende dove c’è una grandissima tecnologia, dove ci sono grandissimi standard qualitativi e una capacità di creare dei prodotti personalizzati in base alle specifiche esigenze del cliente. Io vorrei ora illustrarvi un brevissimo video istituzionale della nostra associazione.
Video.
Volevo solo accennarvi alcuni esempi di attività di sussidiarietà che la nostra associazione ha fatto in questi ultimi anni. Un primo che ritengo anche un esempio lungimirante e antesignano, è stato quello della fine negli anni ’70 di aprire dei centri tecnologici in nazioni in via di sviluppo. Nei primi anni ’80 abbiamo aperto dei centri tecnologici in Cina, in Brasile. Questi centri tecnologici erano sì formati da macchine utensili italiane, quindi era anche un motivo DI promozione delle nostre macchine utensili in questi Paesi in via di sviluppo già negli anni ’80. Però in questi centri veniva svolta un’attività di formazione molto importante all’utilizzo delle macchine utensili a favore dei giovani tecnici, dei giovani ingegneri di quei posti: cinesi, brasiliani. E questo secondo me è stato un discorso molto importante perché abbiamo aiutato a crescere questi tecnici a casa propria. Ed è un aspetto che, voi sapete benissimo, stiamo discutendo ogni giorno, perché con i problemi che stiamo vivendo con le immigrazioni, proprio l’aiuto a far crescere questi Paesi in via di sviluppo a casa propria, dal mio punto di vista, risulta essere molto, ma molto importante. Naturalmente questi centri tecnologici sono aumentati nel corso degli anni e gli ultimi due centri che abbiamo aperto sono stati, circa quattro o cinque anni fa, in Messico e in Russia. E portiamo avanti non solo la promozione delle nostre macchine ma diamo formazione e istruzione ai tecnici giovani che vivono in quelle nazioni. Quindi, penso che come esempio di sussidiarietà sia molto importante. Un altro aspetto molto importante è quello che noi facciamo a riguardo della politica industriale. UCIMU, nel suo piccolo o nel suo grande che sia, è stato protagonista di molti interventi da parte della politica industriale italiana. Vi accenno i soli due ultimi di questo ultimo anno: il discorso del super ammortamento, il 140% che, voi sapete, è a vantaggio di chi investe in tecnologia e automazioni, e il fatto di rinnovare la vecchia Sabatini, con la possibilità quindi per le aziende che vogliono investire in macchinari di potersi pagare questi macchinari, non subito ma con il lavoro, nel corso di cinque anni. Questo ha permesso al mercato italiano di ricominciare ad essere positivo, ed è da tre anni che abbiamo numeri positivi anche sul mercato interno. Anche perché vivevamo una cosa distonica dal mio punto di vista, che voglio condividere con voi: le aziende italiane che producono macchine utensili sono il top tecnologico a livello del mondo, ma fornivano questa tecnologia fuori dall’Italia. Ad esempio, la mia azienda fattura il 75% fuori dall’Italia, con il rischio, da italiano, che i nostri competitors stranieri, utilizzatori delle nostre macchine utensili, avessero il meglio della tecnologia, e invece in Italia rimanessimo con una tecnologia obsoleta o vecchia. Fortunatamente, questi interventi hanno rovesciato questa problematica. Speriamo oltre tutto che il super ammortamento sia prorogato anche per il 2017, perché è giusto che anche le nostre aziende manifatturiere italiane possano avere il top della tecnologia dal punto di vista produttivo. Un ultimo aspetto interessante che volevo condividere con voi, che riguarda l’aspetto di sussidiarietà, è stato l’impegno di UCIMU di raggruppare aziende con progetti comuni. Un progetto molto interessante che fa parte delle reti di impresa. È una delle poche reti di impresa italiane che va molto bene oggi all’estero, è il fatto di aver unito nove aziende nel settore della macchina utensile, tra cui anche la mia azienda, e avere formato una società in India, a Pune, il centro dell’Automotive indiano, che ci permette, anche con un costo molto relativo, perché siamo nove aziende riunite, di far conoscere i nostri prodotti, di organizzare Meeting e presentazione della nostra produzione, di partecipare a tutte le fiere indiane con stand comuni, tali da poter entrare in questo mercato, anche molto difficile, in maniera economica e premiante. Vi dicevo appunto che la mia azienda è stata fondata nel 1951 da mio padre, quindi risponde appieno a quello che ha prima spiegato la professoressa Garrone, è un’azienda famigliare, dove è in atto non solo il passaggio dalla prima e dalla seconda generazione, in quanto io ho già preso in mano le redini dell’azienda nei primi anni ’90 – mio padre ha novant’anni -, ma sta già entrando la terza generazione. Mio figlio si è da poco laureato e sta entrando anche lui in azienda. Un’azienda che da sempre ha molto puntato sulla tecnologia, ha sempre molto puntato sulla internazionalizzazione, infatti abbiamo una piccola azienda in Germania. È una azienda che ha molto creduto nel rapporto diretto con i propri dipendenti. Io ho 100 collaboratori, con cui riesco ad avere quasi sempre un rapporto diretto, li conosco tutti per nome e cognome e cerco di condividere con loro i nostri obiettivi aziendali e di gratificarli. Naturalmente, se questi obbiettivi aziendali vengono raggiunti. Diamo molta attenzione alla formazione interna e anche al fatto di essere un riferimento per tanti giovani periti e ingegneri che vengono a fare stage formativi presso l’Omera. Non vi nascondo che metà dell’ufficio tecnico dell’azienda è formato da ingegneri, giovani o ex-giovani, che sono venuti a fare lo stage proprio nella mia azienda. Volevo solo farvi l’ultimo esempio di sussidiarietà che riguarda la mia famiglia. Anche perché è un esempio, oserei dire, attuale, era anche nella stampa veneta della settimana scorsa. Mio padre ha novant’anni: una persona normale di novant’anni è già fortunata ad arrivarci ed arrivarci anche bene, dovrebbe pensare a passare bene e in maniera tranquilla la sua vita. Bene. Lui, invece, settimana scorsa ha creato una Fondazione e ha coinvolto altri imprenditori, quattro o cinque, per salvare un importantissimo centro di formazione diretto e posseduto dalle Camere di Commercio, che è il centro culturale del Veneto, importante sia per il vicentino che per altre parti. Voi sapete che, in base alle regole del nuovo ordinamento, le Camere di Commercio hanno dovuto ridurre molto i finanziamenti a favore dei centri di formazione. E quindi, la Camera di Commercio, insieme alla Provincia e al Comune, ha dovuto lasciare questo centro importantissimo di formazione che ha 60 di vita, non potendo più finanziarlo e quindi non potendo più portare avanti quei progetti che coinvolgono la bellezza di 60 dipendenti. Mio padre, che è stato per anni Presidente, è riuscito a convogliare altri imprenditori per sostituirsi, nell’aspetto della sussidiarietà, al pubblico, da privato. Adesso, alla bella età di novant’anni, naturalmente aiutato da persone molto più giovani di lui, cercherà di portare in maniera privata questo importante centro di formazione. Volevo chiudere il mio intervento perché mi interessava il passaggio che io ritengo più interessante di questa ricerca, che è proprio nelle conclusioni, quando si parla del ruolo dell’imprenditore. “Si dice che la storia industriale conosce soprattutto l’imprenditore padrone, con tendenze che oscillano da un rapporto paternalistico a una certa autoreferenzialità riguardo le competenze: questo modello padronale è in gran parte superato, così come è superata anche l’idea che il profitto sia il movente più esclusivo delle attività imprenditoriali. La presente ricerca ci rende evidente che di fatto esiste un connubio fra la passione imprenditoriale, che riguarda un prodotto e un servizio, e un senso di responsabilità, che riguarda il buon fine da perseguire per l’impresa e per le persone ad essa collegate. E’ proprio attraverso la riscoperta e la tematizzazione di questa responsabilità che avviene un superamento del ruolo circoscritto e fissato su di sé. Si tratta finalmente di mettere la propria persona a servizio dello sviluppo dell’impresa e di acquisire tutte le conoscenze e le competenze necessarie per poter vivere all’altezza delle sfide che si pongono”. Ne consegue una propensione al dialogo con i collaboratori, clienti e fornitori e anche una formazione personale o con interlocutori esterni che non ha altro criterio se non lo sviluppo, la crescita sostenibile e duratura dell’impresa per il bene di tutti. Il profitto, ci mancherebbe, è uno strumento indispensabile da curare con la massima attenzione ma proprio esattamente in quanto strumento senza il quale l’impresa non può crescere. Questo è il nostro modo di agire, il mio modo di agire, grazie anche all’aiuto di uno staff professionale di altissima qualità, è il modo di agire ogni giorno della mia azienda, é il modo di agire anche della mia famiglia, grazie all’importante supporto di mia moglie Stefania. Grazie a tutti per la cortese attenzione.
GIORGIO VITTADINI:
Giampaolo Seguso.
GIAMPAOLO SEGUSO:
Buonasera a tutti, per me è una buona sera, ringrazio per la vostra presenza e per l’opportunità che la Federlegno Arredo ha dato a noi, un padre e un figlio, di parlare dallo stesso palco, mi sembra straordinario. Ma Venezia presenta anche di queste pazzie e io ringrazio nella persona del Presidente della Federlegno. Il mio sarà un intervento che è un racconto di vita, una testimonianza. Vi devo confessare che qui metto qualcosa che non avevo previsto nel mio dire, che sarà un dire del cosa più che del come: il messaggio vostro del Tu permanente mi ha fatto venire in mente un fatto accaduto più di trent’anni fa. Per circostanze straordinarie ho avuto l’Abbé Pierre a casa mia. Quando se n’è andato, ci ha detto, lo dico in italiano: “Tu non devi essere credente, tu devi essere credibile”. E ha aggiunto: “perché il credente scivola nell’essere il maestro, il credibile è solo un testimone”. Questa sera voglio essere testimone. Vi leggo una poesia. Si passa dal vetro, che è il mio mondo, il vetro artistico di Murano, al passaggio generazionale e io voglio leggere una poesia per il passaggio generazionale:
“l’emozione della scoperta mi penetra in ogni angolo del mio corpo, non è per la nuova primavera, già molte ne ho vissute, la vita la giusta vita è sempre luce del mattino e della sera. Oggi ho riconosciuto il frutto maturo dei miei figli, frutto completo pieno di sapore, il passo del loro cammino è convincente per il sorriso, guardo e ascolto, posso gioire con la mia sposa, fummo maestri ed ora non più, grati a Dio, il compito è compiuto”.
Io sono un uomo che ha più di settant’anni di età ma che ha seicento anni di storia, cosa significa? La mia dinastia nel vetro di Murano è presente da sei secoli, è una bella responsabilità, è un divertimento, è essere famosi senza nessun merito. Il vetro artistico, così diciamo noi, è il mio mondo, nasco da quel mondo e sono un segugio. Il buon D’annunzio ci disse 120 anni fa: “Ah, un segugio della buona razza!”. Spererei. E detto questo, voglio anche dare un’informazione, le fornaci di Murano non sono state sempre a Murano, erano anche a Venezia: nel 1291 sono state costrette a trasferirsi da Venezia all’isola e così hanno creato l’isola del vetro, nel 1291. La nostra data è postuma è 3 maggio 139, e adesso vi devo chiedere scusa perché vorrò usare anche qualche termine veneziano. La fornace in veneziano – non tutto il complesso che fa la vetreria -, la “fornasa par no altri” è semplicemente il luogo dove c’è il forno, i magazzini, gli uffici e quant’altro, tutto. Perché la fornace è dove c’è il forno che si chiama “cason”, la casa al maschile, ma di dimensioni grandi. Mi ha fatto riflettere moltissimo che per secoli sia stato così, ma ho capito perché. Il “cason”, se è la casa della famiglia dei vetrai, diventa la loro casa, diventa il loro territorio sacro, diventa veramente sacerdotale, il loro lavoro. Penso che tutti avranno visto lavorare i vetrai, c’è sempre un gruppo di tre, quattro, cinque persone, il maestro, il servente, forse due garzoni, a seconda delle necessità. Ma sul quel terreno, su quella terra sacra, tutto si forma come fosse una danza: il garzone va e torna, va il servente. Io voglio chiamarlo rito, e poi c’è l’immediatezza della gerarchia, una cosa rara, perché se il servente dice: “Maestro, ma perché non si fa così?”, l’altro gli risponde: “fao ti”, “no so bon”, “sta sitto”, chiuso: la gerarchia è fatta. Dopo questo, c’è anche la necessita di seguire le regole della natura, il vetro non può essere manipolato come vogliamo noi, deve avere la giusta temperatura, avere le cose corrette, andare dentro il fuoco, dentro al forno. E’ necessario perciò c’è una danza prestabilita dalla natura e io lo chiamo rito, come ho detto. E poi, lo straordinario è che c’è anche l’altare, il fuoco che diventa altare per la nostra gente che lavora all’interno. In un luogo sacro, creano e danno valore a se stessi. È importante quello che sto dicendo, “danno valore a se stessi”, si sentono uomini. Detto questo, c’è qualcosa di straordinario: quando è fatto, l’oggetto si deve mettere nel forno di raffreddamento, dove può stare uno, due, tre giorni. Ha quindi la necessità di essere atteso. L’attesa, chi oggi ha voglia di attendere? Invece è una virtù, l’attesa, e nello stesso momento in cui il forno di raffreddamento si apre per cogliere gli oggetti che vi sono dentro, si è assolutamente sorpresi, in modo positivo o negativo, se il vetro si è rotto o è rimasto intatto, ma quello che non c’è assolutamente da considerare, che non esiste, è la meraviglia. Ogni volta che uno di noi estrae un oggetto di vetro da quel forno, la meraviglia appare, nulla era simile a quando noi l’avevamo fatto. E la meraviglia è quello che ci fa dire che dobbiamo giocare, in senso buono, con la bellezza. Detto questo, preciso che la squadra del lavoro che si fa a Murano si chiama “piazza”. Infatti, noi a Murano diciamo: “quante piazze ti ga?”, cioè, quante unità produttive tieni? E’ la capacità di vetreria. Ma la piazza, avete mai notato che a Venezia ce n’è una sola e si chiama San Marco? Ci sono molti, molti spazi larghi ma sono tutti campi, unica è la piazza san Marco, l’unica piazza che esiste a Venezia, perché? Perché la piazza è il cuore della città e per i nostri vetrai la piazza è il cuore del fare vetro, è dignità. Poi vorrei velocemente dire quanti modi ci sono per fare il vetro: io ne ho nominati quattro. “Io l’ho fatto” è il più comune di tutti, “lo fato mi”. Il secondo dice “noi l’abbiamo fatto”, cioè la squadra, la piazza. Il terzo modo è ancora la piazza ma con la N maiuscola, la piazza esistente è il passato che ci hanno consegnato. L’ultimo è quello che preferisco, poi mi spiego, è il vetro che si è fatto da sé. Gli uomini devono dialogare con la materia e far sì che la materia possa non essere violentata e deve essere così perché si riesca a comunicare, a renderla accondiscendente alla nostra volontà. Racconto un piccolo aneddoto. Quattro o cinque anni fa ho avuto una squadra: dopo una settimana che di lavoro, il maestro viene da me e mi dice: “Giampaolo, allora siamo bravi!”. No, è bravo il vetro! È magia. Dalla magia del vetro c’è un’altra magia accanto a noi, Venezia. La città Venezia, fatta dalle mani di Dio e dalle mani degli uomini. Venezia ha educato i miei occhi, anzi, no, ha educato gli occhi di tutti, la mente, il cuore, per poi assaporare la bellezza. A me ha offerto solo l’armonia del silenzio, il silenzio che diventa pensiero, il pensiero dell’acqua che con le sue onde fa riconoscere lo scorrere del tempo, che nel tempo è diventata ispirazione, credo, con le sue onde a far riconoscere lo scorrere del tempo. Credo che tutto abbia seminato in me la poesia che nel tempo è diventata ispirazione per opere in vetro sulle quali incidere i versi della poesia fonte del progetto, e così fare diventare vetri con l’anima. Oppure, da corpi a persone. O, come dico io, battiti di mani e di cuore. Questo fatto della poesia unita al vetro è stato importante per me, ha sciolto il mio complesso paterno. Essere figli di Archimede Seguso è stata la cosa più difficile della mia vita. Inoltre, lo scrivere poesie e fare vetro sulla poesia, questo gesto di novità ha sciolto mille interrogativi, anche per il passaggio generazionale tra me e i miei figli. Perché? Perché il passaggio è stato riconosciuto non tanto come passaggio di azienda, anche se burocraticamente avviene, ma in realtà una consegna da persona a persona, da talento a talento. L’uomo rimane cardine per procedere nella manifattura e nelle identità, e si rende evidente il proprio DNA che significa novità e fedeltà. Ed è la persona che può riconoscere nel procedere, grazie alla nobiltà della materia che trattiamo, il continuo contagio dell’umano con il divino. Un confronto così intenso che il limite riconosciuto porta ad una necessaria scelta di umiltà. Dico umiltà, sì. Se dovessi dare un titolo alla meraviglia di questo nostro racconto, potrebbe essere che la creatura si scopre creatrice. Ed è accettabile e convincente, questo, perché il nostro quotidiano ha e vive sempre la meraviglia della nostra città Venezia, questa è la nostra magia. Il 4 Luglio scorso, e così finisco, sul Corriere della sera, il cardinale Scola ha rilasciato una sua intervista da cui riprendo alcune righe: “La struttura finanziaria, economica, tecnocratica e burocratica è diventata così pesante da schiacciare la creatività che viene dal basso”. Vorrei ripetere quanto scritto come mia conclusione due volte, è breve. Una da osservatore e uno da protagonista. Come osservatore, concludo: “Dal mio basso”. E aggiungo, con grande senso di verità, che la manifattura del Made in Italy ha uno spessore inimmaginabile per storie, per cultura, per capacità, per indole, per creatività, per generalità. E la creatività per sua natura ha bisogno di libertà, di aria fresca, di sentirsi fanciulla per sognare ed andare oltre. Solo così la creatività si alimenta, vive, diventa gioia e gioco. A quel punto, è indistruttibile, proprio per legge di madre natura. Chi deve ascoltare, ascolti. Grazie.
GIANLUCA SEGUSO:
Innanzitutto grazie dell’invito e grazie per averci voluto qui. Quando ho ricevuto la telefonata, mi sono chiesto perché: sussidiarietà e politica industriale. Mi sono risposto cercando di capire meglio, nel Rapporto che è stato redatto, quali fossero le caratteristiche, in particolare quei big five che vi diceva prima la dottoressa Garrone: la tendenza a cooperare, il senso di responsabilità che in un certo senso è l’abilità di rispondere, l’estroversione, l’apertura, l’esperienza e la stabilità emotiva. Io credo che, probabilmente, la capacità di adattarsi a un cambiamento, quindi di riuscire ad agire in un contesto che cambia, in particolare in questi ultimi dieci anni, sia una caratteristica abbastanza necessaria. E così forse anche la stabilità emotiva. E sono andato alla ricerca di un’altra definizione, di un termine che mi sembra particolarmente attuale e somiglia un po’ a quel dolcificante che gli imprenditori si trovano a mettere nel caffè al mattino, quando si svegliano. Sono andato a prendere la definizione di resilienza. In psicologia, la resilienza è la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di organizzare positivamente la propria vita dinnanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando stabili, sensibili alle opportunità positive che la vita offre senza alienare la propria identità. Sono persone resilienti, quelle che, immerse in circostanze avverse, riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente la contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria esistenza e perfino a raggiungere mete importanti. Ho voluto partire da qui perché, l’ha detto prima papà, la nostra famiglia fa vetro a Murano dal 3 Maggio 1397. Sono 23 generazioni. Siamo una famiglia che fa vetro a Murano da 23 generazioni. Io e i miei fratelli siamo la ventitreesima: che cosa significa essere la ventitreesima generazione? Significa una cosa banale, che ce ne sono state 22 prima e quindi non abbiamo merito, era già fatto, ci siamo trovati qua. Ecco l’altro termine che mi è saltato agli occhi sui big five. Che cosa accade? Che se ti senti all’interno di una famiglia, diciamo nel nostro settore un po’ nobile, alla ventitreesima generazione, ti senti diverso, ti senti migliore degli altri, degno di rispetto diverso, forse. Fino a un certo punto. Fino al punto in cui ti rendi conto che non hai quel merito. Quindi, qui il paragone di cui parlavamo prima è: “Ma ho una responsabilità!”. Qual è il ruolo che devo giocare in questa staffetta? Che questa responsabilità sia stata messa – per lo meno per me, per noi – sotto una sfida importante negli ultimi dieci anni non è banale. Adesso faccio un passo indietro. Prima ho detto chi siamo, ma chi sono io? Io sono Gianluca, ho 45 anni, sono in azienda da 25, condivido una vita con mia moglie Marika da 20, abbiamo 4 figli, sono il primo di 4 fratelli: Pierpaolo, Gianandrea, Maria Giulia. Da 7 anni, più o meno, ma il 7 mi piace, ho scoperto un sapore nuovo. Si leggeva sui giornali questo aspetto della crisi, del cambiamento: la recessione. È come quando leggiamo, con il titolo del giornale, una catastrofe che porta un numero di morti. Quando leggiamo quel numero, è quasi ininfluente, non ci rendiamo conto del peso, perché che siano 100, 10, 1, nel momento in cui sei tu quell’uno, o uno vicino a te, ha un peso diverso. Ho come la sensazione che esista questo paradigma per cui – e lo dico a denti stretti, perché ho qui i miei figli e anche i miei nipoti, che vanno dai 13 ai 2 anni – non esiste percorso formativo senza sofferenza. La sofferenza è quasi quel paradigma che sembra assurdo ammettere, è un elemento necessario per la vera comprensione. E’ come la paura. La paura va a braccetto con il coraggio. È l’incosciente, che non ha paura. Nel momento in cui ci siamo trovati in questo tragitto ad affrontare un cambiamento radicale, ci siamo posti, di giorno in giorno, di circostanza in circostanza, alcune domande. E i momenti di sconforto non sono pochi. I momenti di sconforto sono forse i momenti in cui ci si trova a confrontarsi da soli con quegli interrogativi cui non sai dare una risposta vera. E mi torna in mente un insegnamento, una frase che mi è stata detta più o meno quando avevo l’età del mio grande, 12, 13 anni. Mi si diceva: “Occupatene!”. Ero studente delle medie, studiavo poco, “non te ne preoccupare”. Questa cosa mi ha accompagnato, mi ha messo nella condizione di riuscire a guardare, ben supportato da quei pezzi del puzzle che ci stanno intorno e che sono la famiglia, mia moglie in prima linea, i collaboratori, le persone di fiducia, le persone che al tuo fianco, ti fanno sentire la loro presenza. E di avere la forza di reagire e immaginare un cambiamento: la capacità di apertura che diceva la professoressa, l’adattarsi al cambiamento come caratterista indispensabile. Sarebbero tante le cose che mi farebbe piacere dire: sicuramente non è il luogo e non ho il tempo. Però la caratteristica necessaria di una impresa e di un imprenditore, soprattutto in questa Italia che è ricchissima di forti identità, cha ha una straordinaria capacità, è innanzitutto acquisire la consapevolezza di quello che abbiamo e di quello che siamo, aprirsi ad una condivisone di valori, di senso di appartenenza. E questa sensazione si è tradotta e trasformata in un cambiamento che abbiamo fatto in azienda. Il cambiamento che abbiamo fatto all’interno è stato aprirci, raccontarci – si dice storytelling, marketing culturale -, non tanto per raccontare quello che facciamo, il vetro, e in un certo senso neanche come lo facciamo, ma il perché. Il perché si fa e qual è l’obiettivo che si vuole raggiungere. Quindi, tornando all’aspetto di sussidiarietà e di politiche industriali, non so se il mio intervento, il mio contributo abbia un senso coerente o un valore, però mi piace dire una cosa: credo che sia indispensabile nel gruppo di lavoro riuscire a identificare uno scenario di riferimento futuro, possibile, condiviso, riuscire ad avere quella capacità di co-protagonismo con chi ci è al fianco che io definisco, in un certo senso, fare una azienda, raggiungere una azienda bella, sì, e con un ragionevole guadagno. Una azienda bella. Bella dentro e bella fuori. È una missione affascinante, straordinaria, il periodo che si è vissuto assomiglia un po’ ad una guerra, dove gli edifici non vengono distrutti ma i morti ci sono comunque. E questa è una responsabilità per noi. Io mi sento imprenditore di generazione a metà, dobbiamo traghettare quelli che verranno dopo di noi, i giovani che si affacciano al mondo del lavoro e che, sì, hanno l’opportunità di essere quella generazione post guerra che ha la possibilità di ricostruire però con una struttura, una consapevolezza e una robustezza psicologica non indifferente. Quindi, mi auguro di riuscire, insieme alle persone che guidano l’azienda con me – i miei fratelli Pierpaolo, Gianandrea, Maria Giulia -, a lasciare un segno che possa dare l’opportunità di riflettere. Come gesto specifico, noi abbiamo fatto una cosa un po’ di anni fa, abbiamo chiamato la Seguso Experience e abbiamo aperto l’azienda a tutti, concorrenti, colleghi, clienti, l’abbiamo fatta visitare e ci siamo messi nella condizione di raccontarla, per vedere se una contaminazione positiva di idee può essere un pezzo della ricetta di un’Italia eccellente nel mondo, capace di fare cose straordinarie. Ho cambiato completamente il tipo di discorso che volevo fare ma spero di non essere andato fuori tema. Vi ringrazio dell’invito e dell’opportunità, perché mi ha messo nelle condizioni di riflettere meglio rispetto a quello che ogni giorno facciamo con passione ed entusiasmo. Se qui c’è qualche giovane, vi dico: concentratevi nel vostro talento, cercate di capire per cosa o in cosa vi sentite di distinguervi, e seguite quella cosa con passione. Non c’è terremoto e non c’è maremoto che possa metterci di fronte allo sguardo della disperazione e impedirci di attraversare qualunque tipo di ostacolo. Vi ringrazio.
GIORGIO VITTADINI:
Il rapporto è ben strutturato e ha le sue ragioni, ma gli interventi di Carboniero e dei Seguso ci hanno fatto vedere che l’impresa non è veramente questo luogo dove l’egoismo dei singoli cerca l’utilità contro i fornitori, contro i clienti, contro i dipendenti. È creatività, è poesia, è intelligenza, è carattere. Soprattutto queste imprese che portano il bello, la creatività, l’intelligenza, l’innovazione non standardizzata, non possono nascere se non c’è dietro una persona a tutto tondo. Una persona a tutto tondo che quindi ridefinisce l’idea di impresa. Quando abbiamo fatto l’incontro con Sapelli, l’altro giorno, sui 70 anni della Repubblica, dicevamo: oggi un termine che non può essere codificato e insegnato in modo meccanico e standardizzato è proprio la parola impresa. Perché impresa deve riprendere il suo significato. Impresa è una impresa, è un io che osa, che va al largo e che fa una sua impresa, ognuna diversa dalle altre, in cui la standardizzazione, la descrizione analitica, se pretende di chiudere questa esplosione di umanità, non la descrive. Perché certo, ci vuole un bilancio, ci vuole un utile, ci vuole un fatturato, ma questi sono come segni di qualcosa che è invece l’uomo, il prodotto, l’intelligenza di capire che cosa ha bisogno l’altra gente, il formare qualcuno che con lui fa questa avventura, questa impresa, il saper scegliere le cose che gli servono. Io penso che in questa rivisitazione del tu ci sia anche la rivisitazione di quel Tu che, come veniva detto prima, è il tu collettivo del modo con cui uno produce, costruisce ricchezza, fa benessere. Se riusciremo a uscire dagli schemi che ci hanno chiuso per anni, forse potremo anche ricostruire un benessere dopo la crisi. Grazie.