SUPER FOOD ALL’ITALIANA: ALLA SCOPERTA DEL PATRIMONIO ITTICO CERTIFICATO ALTO ADRIATICO

In collaborazione con Regione Emilia-Romagna. Partecipano: Duccio Campagnoli, Assessore alle Attività Produttive, Sviluppo Economico e Piano Telematico Regione-Emilia-Romagna; Corrado Piccinetti, Docente presso il Dipartimento di Biologia Evoluzionistica Sperimentale all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna; Daniele Tirelli, Docente per il corso di Pubblicità e Consumi alla IULM di Milano, Presidente di POPAI Italia. Introduce Stefano Girotti Zirotti, Vice Direttore Raisat Gambero Rosso Channel.

 

MODERATORE:
Mentre attendiamo l’arrivo al tavolo del professor Corrado Piccinetti, in qualità di esperto di biologia marina, introduciamo l’incontro di oggi in cui parleremo di pesce all’italiana, ma non voglio anticipare niente di ciò che uscirà nel corso di questo incontro o convegno. Sono nostri ospiti Duccio Campagnoli, Assessore alle attività produttive, che parlerà di un progetto specifico; il professor Daniele Tirelli che parlerà di una indagine di mercato sugli usi e consumi del pesce da parte degli italiani nelle nostre case e nelle nostre famiglie. Mi riservo soltanto due parole di introduzione per dire che sono vicedirettore del ristorante “Il gambero rosso”, ma anche un giornalista che ha fatto cronaca sino a qualche anno fa, prima di rintanarsi nel mondo dell’agro-alimentare. Allora mi viene spontaneo dire che di pesce, di pescato, se ne parla soltanto quando ci sono notizie cattive: l’Escherichia, coli nelle cozze a Napoli, il mercurio, i coloranti del salmone, il sequestro dei pescherecci di Mazara del Vallo. Invece il pesce è un mondo infinito, la stessa varietà dal punto di vista gastronomico che noi utilizziamo è soltanto una minima parte di esso. Si parla quasi sempre soltanto di sogliola, tonno, pesce spada, orata, branzino, trota, ma c’è una varietà molto più estesa e molto più importante di questo patrimonio. Quindi, non possono essere ignorate e distanti dalla realtà in cui viviamo la cultura del pesce, la consapevolezza del pesce, che non si può staccare neanche dalla consapevolezza del rispetto del mare, delle regole ambientali, intendendo con mare tutto ciò che porta acqua al mare, quindi fiumi, i piani urbanistici, i distretti industriali. Il pesce nella dieta significa anche lipidi essenziali, quindi dieta mediterranea e pesce sono un equilibrio non soltanto per il buongustaio, ma anche per ragioni di vita e sussistenza, perché i lipidi essenziali non riusciamo a fabbricarli col nostro organismo, vanno assunti con la dieta alimentare. Poi il pesce nell’immaginario comune vuol dire anche, lasciatemi parlare di suggestioni e di sogni, libertà e amore, rispetto della natura, vuol dire un pianeta incontaminato. Quindi perché parlare di pesce al Meeting? Perché parlare di un marchio e di tutela del pesce al Meeting? Secondo me è sicuramente appropriato, proprio per quel rispetto delle regole della natura e del creato che fanno sì che nel Meeting ci sia un punto di incontro, per mettere sul tavolo non soltanto il cibo, tre stellette, tre forchette, dal punto di vista della qualità organolettica, ma anche discutere il significato stesso del cibo come risorsa del creato. Ora per non annoiarvi troppo, lascerei parlare il professor Tirelli, che ha fatto un’importante indagine e che ci presenterà, con alcune slides, i nostri usi e costumi alimentari a tavola.

DANIELE TIRELLI:

Ecco, come potete vedere, abbiamo cercato di stimolare il vostro interesse adottando una iperbole che introducesse il nostro argomento: abbiamo titolato l’incontro “Super food all’italiana”. “Super food” è un termine che ormai va di moda fra gli esperti di marketing per indicare quei prodotti, spesso di origine industriale, che apportano dei benefici che gli alimenti normali generalmente non danno. Si tratta quindi di succhi di frutta potenziati, di bevande energetiche, di altri prodotti a base di carne o di pasta e così via. Noi abbiamo un “super food” che la natura ci offre in modo naturale che è molto vicino a noi, all’interno del mare Adriatico, su cui bisognerebbe aprire un dibattito culturale un po’ meno stereotipato e un po’ più ampio perché il mare Adriatico è qualcosa che abbiamo forse banalizzato, di cui crediamo di sapere un po’ tutto, mentre invece, come dimostra anche la ricerca, sappiamo abbastanza poco.
Faccio un passo indietro. Essendo reduce da un lungo viaggio, come tutti quelli che fanno un viaggio io non resisto alla tentazione di raccontarvi qualche cosa. E’ stato un viaggio particolare, perché io sono un esploratore particolare degli Stati Uniti e siccome sono stato sempre sulla costa, ho fatto frequenti e abbondanti mangiate di pesce. Devo dire che fortunatamente con me non c’era il dottor Tasseli, che è il mio maestro, perché altrimenti mi avrebbe posto dei veti oppure mi avrebbe scoraggiato, mentre invece io ho mangiato tranquillamente e abbondantemente, senza pormi troppi problemi. Qua in Italia invece seguo in maniera disciplinata le sue indicazioni, perché in fatto di qualità, insieme ad altri amici, è sicuramente un grande esperto. Cosa ho riportato da questa banale esperienza? Un fatto che peraltro conoscete e che io conoscevo già: la straordinaria e manifesta capacità di altre nazioni, non solo gli Stati Uniti, di vendere i propri prodotti e, in particolare nel nostro caso, anche il prodotto pesce. Sono capaci di venderlo non in quanto pesce, non in quanto prodotto in sé con i suoi attributi specifici, ma in quanto alimento che è occasione di divertimento, di convivialità, spesso anche di viaggi un po’ onirici e fantastici nel campo dell’immaginario alimentare. Quindi, chi riesce a vedere la slide, vedrà anche alcune indicazioni di questi luoghi. Ecco, le cose che io ho mangiato sono essenzialmente piatti super abbondanti di Cocky e Saint Jack, che da noi costano un occhio della testa e che invece in Florida ti danno a montagne; oppure filetti enormi, con delle impanature che farebbero inorridire un po’ i nostri gastronomi, ma che comunque in tanti luoghi costituiscono l’oggetto dell’alimentazione di gran parte della popolazione. Noi abbiamo un grande difetto in Italia: siamo sempre propensi a parlare dell’alimentazione dei VIP o dell’alimentazione degenere di alcuni strati sociali, e non ci occupiamo mai di quella che è l’alimentazione quotidiana di milioni e milioni di persone, cioè l’alimentazione che si svolge poi negli ospedali, nelle scuole, nelle università, nelle paninoteche, nei ristoranti, insomma l’alimentazione che comprende il cibo comune. Quindi va benissimo la cultura gastronomica dei grandi maestri della cucina, ma la vera qualità dell’alimentazione di un paese si misura nei luoghi di consumo di tutti i giorni.
Ora, vendere il pesce, come vendere tutte le altre cose, significa costruirvi un mondo e i luoghi che io ho visto, che ho potuto vedere in tante occasioni, sono ricchi di iconografia, di soluzioni anche semplici per costruire una sorta di favola attorno a quel che mangiamo. In certi casi anche noi siamo molto bravi, penso ad esempio che abbiamo costruito il pomodoro di Pachino senza che la gente sappia bene dove sia Pachino o come venga coltivato il pomodoro di Pachino. O anche la cipolla di Tropea. In noi c’è questa capacità artistica innata di creare il mito, non siamo mai capaci però di spingerlo fino in fondo affinché il lavoro di chi produce un’agricoltura, come in questo caso, nella pesca e di chi lo commercializza e lo prepara, venga valorizzato dalla soddisfazione finale del consumatore. Molto spesso non sappiamo unire il divertimento, a volte anche puerile e ingenuo, di tanti luoghi di consumo che costituiscono la filiera che porta dal prodotto grezzo al consumo finale, perché il soddisfacimento del consumatore non è solamente quello palatale. Prendete questo esempio di pensacola: è emblematico perché mi trovavo a riflettere, sapendo di dovere venire qua, sul fatto che stavo consumando pesce allegramente, in amicizia, in una baracca di legno dove, come vedete, viene valorizzata un’auto sgangherata e arrugginita che comunque crea una bella atmosfera. A Chiwest, la pensacola. Questa invece è la Crabhouse, il mito del granchio, e riflettevo sul fatto che in certi posti si costruisce una casa del granchio mentre invece se io proponessi qua a Rimini di erigere un monumento alla vongola o alla saraghina, mi riderebbero dietro perché non sarebbe degna di essere esposta alla pubblica osservazione. E a Chiwest, in questa sorta di giusta posizione tra barche vecchie e motori arrugginiti, consumavo quel genere di pesce che avete visto in precedenza pagando il giusto, però in un’atmosfera che lo valorizzava. C’è da noi qualcuno che si preoccupa, se vende il pesce, di ingaggiare qualche artista locale o costruire un gigantesco affresco o un trompe l’œil basato sul mito del mare della pesca d’altura. Tutti in genere riteniamo che la facciata bianca, magari anche un po’ elegantona, sia già sufficiente, che non ci sia bisogno di fare un mercato del pesce in questo modo. È invece importante fare didattica, ad esempio questo è il manifesto che illustra tutte le infinite tipologie di gamberi che vi offrono, e comunicare la ricchezza che viene offerta dal mare, ma soprattutto è importante costruirci attorno il mito.
Che cosa ci dimostra la ricerca? Lo vedremo con qualche dato, ma non voglio annoiarvi con troppe cifre, però vorrei far notare che in realtà questo nostro atteggiamento di grandi cultori della buona cucina, di estrema raffinatezza nello scegliere i prodotti, corrisponde poi a una base culturale assolutamente risibile. In fatto di pesce – ma posso dirvi anche in fatto di pere, mele, polli e altri prodotti che vengono dall’agricoltura – siamo enormemente ignoranti. Il 40% degli italiani sa distinguere, guardando la fotografia, una pera abate, che è la più comune, il 60% la chiama Kaiser o pera grassana, quindi immaginatevi che capacità ha di esprimere un giudizio quando vede che il cartellino della pera abate è di euro 3 o 4. Evidentemente l’informazione contenuta al punto di vendita è qualche cosa che viene mediata da una cultura assolutamente approssimativa. La stessa cosa accade per il pesce, cioè noi conosciamo pochissime qualità di pesce, ne confondiamo tantissime e le scambiamo nella maggior parte dei casi, senza essere in grado di operare una scelta che si basi su una cultura di consumo adeguata a quello che ci offre il mercato. Nel passato questo non era importante perché i nostri nonni e bisnonni mangiavano delle saracche, del pesce secco, con cui condivano la polenta e la scelta era molto limitata, cioè, non serviva che avessero un grande patrimonio di conoscenza ittica. Oggi, viceversa, una scelta razionale, che sta alla base di una spesa corretta, di quelle che sono le nostre risorse diventa importante. Pensate a che cosa vi può offrire l’ipermercato di Milano, di Bologna, di un’altra nostra grande città. Gli stessi operatori al banco o alla pescheria, molto interessante come categoria di vendita, danno per scontato che molti pesci siano conosciuti dai clienti e la loro decisione di acquistarli e metterli in vendita, o di proporli al pubblico, dipende da questa convinzione, che invece la nostra ricerca mette criticamente in discussione.
Prima di giugno mi trovavo a Torino a Italy, che penso sia una delle pescherie migliori in assoluto, e ho comprato una murena. L’ho raccontato in giro e sembrava impossibile che una persona come me si mettesse a mangiare un pesce strano come la murena, mentre in realtà la murena è un pesce conosciuto fin dall’antichità. Ma ecco, se io proponessi al grande pubblico una murena, non sarei in grado di fare comprendere al consumatore il perché della scelta di questo essere un po’ strano. La stessa cosa accade per pesci molto più comuni e molto più banali. Diciamo quindi che abbiamo a disposizione nel mare Adriatico, un mare estremamente pescoso e adatto anche alla itticoltura, un patrimonio che conosciamo solo in parte, e che è invece fondamentale per la nostra dieta perché tutti gli italiani, nella stragrande maggioranza e con pochissime eccezioni, riconoscono che una presenza del pesce all’interno delle proprie abitudini alimentari è indispensabile. Poi qualcuno non lo mangia, non riesce ad apprezzarlo e ne consegue che il vero obbiettivo che dobbiamo porci in futuro è imparare a vendere i nostri prodotti. Sembra una banalità, e infatti lo è, ma nel caso del pesce come nel caso del vino, dell’olio o di tante altre specialità, noi non sappiamo, come paese, vendere i nostri prodotti. Se girate in molte città americane o a Dubai, troverete anche delle specialità che molto spesso noi non conosciamo: certi formaggi, certi salumi, là dove si possono mangiare, certi vini che transitano però direttamente dalla piccola iniziativa dell’imprenditore locale fino al grande circuito distributivo.

MODERATORE:
Sul vino e sull’olio facciamo anche qualcosa di buono.

DANIELE TIRELLI:

No! Facciamo delle “ottime” cose, ma è certo che nel confronto qualitativo, ad esempio con gli spagnoli, noi ci stiamo perdendo in larga misura, nel senso che il divario qualitativo non corrisponde all’effettiva presenza dei nostri vini nei circuiti internazionali, e molto spesso neanche il divario dei prezzi. Mentre invece sull’olio noi stiamo davvero raggiungendo l’eccellenza. Però è un altro dibattito.

MODERATORE:
Scusa, adesso non voglio andare fuori tema, però è il mio mestiere. Ci sono tante tipologie di olio in Italia e non è stato fatto un sistema comune. In Spagna si tende a fare un sistema comune del mercato dell’olio con un prodotto di inferiore qualità. Quindi nel pesce bisognerebbe cercare di capire la qualità e portare il livello verso l’alto insieme alla distribuzione, ma il meccanismo della Spagna con l’olio non mi trova proprio d’accordo.

DANIELE TIRELLI:
No, infatti non sto dicendo di fare quello che fanno gli spagnoli.

MODERATORE:
Era solo un inciso.

DANIELE TIRELLI:
Sto dicendo che la capacità di vendere la qualità è fondamentale. Noi non possiamo permetterci di vendere prodotti qualitativamente eccellenti che vengono valorizzati molto meno di prodotti scadenti. Consisteva in questo il mio discorso.

MODERATORE:
Marchi.

DANIELE TIRELLI:
Esatto, stiamo parlando di marchi ma soprattutto di conoscenze e capacità di dominio dei canali distributivi che noi affrontiamo imprenditorialmente su un fronte sparso e mai con una coalizione, non lobbistica ma perlomeno di immagine, che serva a dare una impronta qualitativa a un prodotto comune. Ma nel caso del pesce, che è un prodotto difficile perché non si può esportare e sarebbe meglio consumarlo freschissimo immediatamente, noi dobbiamo risolvere due problemi. Primo come consumatori, nel senso che dobbiamo conoscere meglio il patrimonio che abbiamo, e secondo come clienti, nel senso che dobbiamo dare il giusto valore al prodotto qualitativamente più valido. Non sappiamo comprare e la nostra ricerca, adesso i numeri sono tanti, dimostra che anche i criteri più elementari di freschezza non sono patrimonio del responsabile d’acquisto, anche del componente maschio della famiglia, perché molto spesso il pesce è qualcosa che viene acquistato dalla componente maschile. Abbiamo fatto vedere, a oltre duemila consumatori, fotografie di pesci appena pescati e poi degli stessi pesci lasciati invecchiare per cinque giorni: purtroppo nel caso delle seppie la maggioranza degli intervistati ha scelto il prodotto più vecchio e puzzolente. Ovviamente non si sentiva l’odore perché l’indagine non lo consentiva, ma questo ci fa capire che al di là della retorica gastronomica, la nostra capacità nostra come cittadini, come consumatori, di distinguere il buono da ciò che non è buono è davvero molto scarsa, e fa parte anche questa di una piccola fettina dell’educazione civica su cui si torna a porre l’accento. Di pesce ne consumiamo abbastanza poco in realtà rispetto ad altri paesi, ne consumiamo 22/23 chilogrammi annui per famiglia, il che significa grosso modo otto chili a testa, se prendiamo le persone entro fasce di età adulta. Ci piace molto perché il 68% degli italiani dice che il pesce in genere ha degli attributi gustativi superiore alle altre carni, cioè superiore ad esempio al pollo che viene giudicato insipido, molto monotono e ripetitivo. È difficile che uno di noi dica che ha mangiato un buon pollo perché per noi il pollo è sempre uguale. Oggi una persona normale dice di avere mangiato un pollo, però difficilmente dice di avere mangiato un pollo straordinario. Riguardo al pesce invece c’è ancora un riconoscimento di divari di qualità. Ma la qualità della carne di pesce sottintende tantissime varietà e quindi l’aspetto gustativo che io posso avere da un branzino, da un cefalo, da un pesce azzurro, da una anguilla è radicalmente diverso rispetto a quello che può darmi la famiglia dei polli, ruspante o non ruspante. Come? Perché ci sono tante varietà. Allora voi capite che il capitolo relativo al pesce, nel nostro libro ideale di gastronomia, è ancora troppo ristretto, e purtroppo tende ancora di più a restringersi in virtù di quello che è il peso che ha il pesce surgelato, il pesce confezionato, il pesce che viene servito nei canali della ristorazione moderna, che è sempre uguale a se stesso: la platessa e così via.
Noi abbiamo di fronte un patrimonio gustativo, oltre che nutritivo, davvero enorme, abbiamo una palette di gusti che difficilmente riusciamo a valorizzare. Il marketing però, e questo è un po’ l’oggetto della nostra discussione, può fare miracoli perché se in Italia si è cominciato ad apprezzare un alimento che era totalmente estraneo alla nostra cultura gastronomica secolare, come il sushi o altre forme di pesce crudo, noi possiamo fare la stessa cosa, e questo credo sia l’obiettivo che tutti ci prefiggiamo, anche con il nostro pesce azzurro, che viene giudicato a torto gustativamente inferiore. Il gusto, e questo è il messaggio, non è qualcosa di innato, ma è il risultato finale di un lungo processo culturale. L’amaro è un gusto che si apprezza solo in età avanzata perché istintivamente noi rifiutiamo l’amaro, eppure arriviamo a bere degli amari, o addirittura farci i risotti con il radicchio amaro di Treviso e così via. Quindi il concetto che il pesce azzurro sia un pesce di serie B è un concetto sbagliato, il pesce azzurro non è ben valorizzato perché non c’è un processo culturale di valorizzazione adeguato. Se si è riusciti a fare il miracolo di avere i fast-food a base di sushi nei centri commerciali, noi possiamo fare un altro piccolo miracolo, ci auguriamo, cioè rendere il nostro pesce dell’Adriatico un alimento molto più comune, conosciuto e apprezzato che non oggi.
Ci sono degli aspetti ambigui. Ad esempio, il grande problema per il pesce, al di là dell’essere giudicato adatto a bambini ed anziani, cosa che non accade per nessun altro alimento, riguarda la pulizia e la capacità di manipolarlo. Il pesce, si dice, puzza ed è un alimento diverso dagli altri, ma questo rifiuto nella cultura moderna della vita quotidiana di tutti i giorni viene enfatizzato oltre misura. Quindi questa tendenza a comprare un pesce che ha perso la sua personalità, perché adesso viene fornito in termini di filetto, o sfilettato, in qualche maniera privo di quegli attributi che lo fanno riconoscere – perché non c’è più la testa, non ci sono più le pinne – è sicuramente un elemento di modernità non condannabile, perché è pratico, ma che non deve però incidere sulla nostra capacità di distinguere i diversi attributi del prodotto di base. Il pesce ci sembra ancora troppo caro: l’88% degli italiani ha un concetto di pesce come alimento caro. Questo è una distorsione psicologica che gli esperti di marketing conoscono benissimo: se voi fate un’indagine per dire quali siano i prodotti più importanti nel paniere di spesa delle famiglie, vedrete che viene menzionato nei posti alti della classifica lo zucchero. Questo è un vecchio residuo ideologico, per cui lo zucchero è considerato un bene di primaria necessità, e anche la pasta è un prodotto secondario. Si è fatta molta enfasi sui rincari di pasta mentre io ricordavo in diversi articoli che la pasta pesa lo 0,003, cioè il tre per mille dei nostri consumi. Quindi anche un incremento del 20% si aggira nell’ordine dei decimillesimi. Lo zucchero pesa lo 0,0001, e se si dice che è rincarato lo zucchero, la gente si spaventa. Il pesce invece non è caro.

MODERATORE:
Insomma, diciamo che questo dato potrebbe essere un po’ interpretabile. Il pesce è caro, se tu fai una proporzione, dipende poi dove lo compri e che cosa compri. Il mercato del fresco aiuta a fare in modo che sulle tavole ci sia un pesce sempre meno costoso, da un punto di vista dei servizi, della filiera, però ci sarebbe da discutere su quest’aspetto del caro o non caro.

DANIELE TIRELLI:

In termini di prezzo io sostengo provocatoriamente questo: il prezzo immaginato di un pesce comprato alla Coop o comprato da Carrefour è, nel dichiarato, molto più elevato di quello che è in realtà perché oggi orate, branzini, o altri prodotti di itticoltura…

MODERATORE:

Alla produzione non è caro, è chiaro, alla cooperativa dei pescatori non è caro, ma questo vale un po’ anche per il pomodoro, il cui prezzo aumenta alla distribuzione. E’ la conservazione del prodotto, che richiede un aumento del prezzo, sicuramente.

DANIELE TIRELLI:
Certo. Però, se noi andiamo oltre certi criteri di qualità gastronomica, andando a vedere il mondo della grande distribuzione, ci accorgiamo che altri prodotti che vengono giudicati nell’immaginario degli italiani prodotti a basso prezzo, come ad esempio la mortadella, spesso hanno un prezzo unitario, in termini di porzione giornaliera di consumo, che è equivalente o a volte superiore di quell’immaginario. Certi giornalisti – scusatemi, non voglio attaccare i giornalisti, però è un vezzo – dicono: “Gli italiani dovranno tornare a mangiare pane e mortadella”. Io continuo a ricordare che ci sono delle mortadelle che costano moltissimo.

MODERATORE:
Io sono nato a Bologna e la mortadella la mangio volentieri. Però sul fatto che il pesce non sia caro, non sono d’accordo. Bisogna chiarire meglio quello che stai dicendo, io che ho capito lo faccio apposta. Alla produzione il mare, ovviamente, non costa niente: il pesce lo peschi, te lo trovi lì, quindi è chiaro che è un valore nel calcolo del prodotto che azzeri, però il peschereccio, la benzina e tutto quello che ne consegue, ha un costo. Poi io non so quanto arrivi di quel guadagno al pescatore, però in effetti in Italia il pesce è più caro che in Portogallo, Spagna, Grecia o Gran Bretagna.

DANIELE TIRELLI:
Su questo posso essere d’accordo, anche se i confronti per medesime tipologie sono sempre diversi perché varia la qualità, la natura del pescato e così via, ma sarebbe un altro dibattito. Cioè, io sostengo che esistono degli evidenti paradossi, per cui la gente compra del pesce, ritiene che sia caro, lo accompagna con del vino che costa dieci volte di più e quindi il prezzo percepito, il prezzo psicologico, è molto diverso dal prezzo reale. È questa la ragione per cui, nonostante si dica che il pesce è caro, i pescatori non sono degli straricchi che pescano per hobby. No?

MODERATORE:
Poi sentiremo l’assessore alle attività produttive in merito.

DANIELE TIRELLI:

Tuttavia gli italiani dicono che piuttosto che prendere un pesce di cattiva, di dubbia qualità, preferiscono rinunciare, o mangiarne un po’ meno, ma spendendo di più. Quindi per il pesce, sulla qualità non si transige. Se voi pensate a quello che accade a molte altre merci, questo si rivela essere un grande vantaggio, perché nessuno si mette a discutere sulla qualità del latte, ad esempio, sulla qualità del pollo o molto spesso anche sulla qualità della carne di manzo. Le nostre reali conoscenze in questo campo sono assai limitate. Nella nostra cultura il pesce non rientra da nessuna parte e vi mostrerò alcuni dati che sono abbastanza impressionanti. A 2200 persone sono state fatte vedere delle immagini molto realistiche di pesci molto comuni. Solo il 47% di noi riesce a riconoscere un’orata, solo il 54% un branzino. Se noi parliamo dei saraghi o di altri pesci meno comuni, queste percentuali scendono drammaticamente. Cosa significa? Significa che all’interno di un mondo che valorizza certi prodotti, che possono essere, come dicevo prima, la cipolla di Tropea, il lardo di Colonnata, la spalla cruda di Soragna e così via, per la quale si creano presidi, punti di riferimento, circuiti gastronomici specializzati, il pesce invece oscilla sempre tra questo immaginario di altissimo livello e una capacità di riconoscerlo che è estremamente bassa. Non abbiamo chiari i criteri in base ai quali giudicare la freschezza del pesce, ad esempio il colore delle branchie o gli occhi o tutti gli altri criteri che ci vengono insegnati, ma che non fanno parte del patrimonio comune delle persone che poi si avvicinano al mercato.
Cosa dobbiamo fare, allora? Noi dobbiamo innanzitutto aumentare la conoscenza del grande patrimonio dei nostri pesci costieri e pelagici. Non è un compito impossibile, perché se noi chiediamo a una persona comune quanti pesci conosce, vedrete che il suo patrimonio è estremamente ristretto; se noi chiediamo quante marche di abbigliamento conosce, o quanti tipi di automobile, o quanti calciatori, vedrete che la capacità di memorizzare questi nomi è enormemente più alta. Allora la vita dei cittadini di domani sarà una vita essenzialmente fondata su processi di consumo. La società americana è una democrazia di consumo, così è stata chiamata perché il meccanismo del consumismo è la base, il collante che tiene insieme etnie diversissime tra loro e stati lontanissimi tra di loro, perché l’obiettivo comune è comunque assicurarsi uno standard di vita che, al di là di ogni considerazione, sia progressivamente crescente e soddisfacente per tutti. La nostra vita futura sarà una vita essenzialmente di consumatori, le questioni riguarderanno il consumo. Avete visto che nel giro di due anni il dibattito si è spostato immediatamente sulla capacità di crescere e di consumare. Destra e sinistra dicono che dobbiamo stimolare i consumi. Pensate a quanti dibattiti abbiamo fatto sul problema che gli italiani vivono al di sopra dei loro mezzi e quante disquisizioni ideologiche sono state messe in campo. Quindi, consumare è bene, consumare in maniera spontanea, senza porsi eccessivi problemi, è un fatto di civiltà, un fatto che regola anche i rapporti fra le industrie.

MODERATORE:
Il debito per il consumo è ormai all’ordine del giorno!

DANIELE TIRELLI:
Consumare di più non lo dico io, lo dicono tutti.

MODERATORE:
Il marketing dice questo. Ma riprenda la questione del consumo consapevole.

DANIELE TIRELLI:

Consumare di più è lo slogan di coloro che devono pagare dei dipendenti, che non li vogliono licenziare. Dico che il dibattito è passato dal “consumare meglio, consumare meno” al “consumare di più”, perché adesso sia destra che sinistra dicono che l’Italia non cresce, che deve consumare di più. I primi dicono di avere detassato gli straordinari per stimolare i consumi, i secondi di avere preso, col precedente governo, certe misure per stimolare i consumi. Vedete come è cambiato il clima. Però consumare non è un atto degenere: che sia più o meno o meglio, deve essere un atto consapevole. Se il consumo è consapevole e libero, ci sarà chi consuma il fast-food e chi lo slow-food, la cosa importante è che lo faccia essendo dotato di un minimo di cognizioni.
Allora, chi deve dare queste cognizioni? Mi avvio a concludere perché ho già preso troppo tempo e ho visto che sono stato un po’ provocatorio. Le cognizioni devono essere date dalle istituzioni per quel che compete a loro. La regione ci ha coinvolti perché nel loro progetto c’è l’intenzione di far conoscere la stagionalità del pesce. Alla domanda “Quando si raccolgono le mele?” vi assicuro che la stragrande maggioranza degli italiani non ha idea di quando si raccolgano le mele, perché ce le ha sempre. C’è la “Melinda”, e qualcuno pensa che la raccolta avvenga in febbraio, qualcuno in marzo. Il pesce ha una stagionalità? Io lo chiedo alle persone comuni e loro mi guardano con gli occhi sbarrati perché pensano che il pesce stia dentro il mare e basti andare e pescarlo. Invece il pesce ha un ciclo di vita, e nessuno lo sa. Quanti sono coloro che mangiano crostacei, bivalvi, eccetera, e però ignorano la reale struttura organolettica? Molti pensano che il colesterolo sia presente nelle sarde, che sono grasse, e che non sia presente all’interno delle vongole! Le altre cose importanti sono le misure a salvaguardia dell’ambiente. Io che sono tra i più ignoranti, sto imparando adesso un sacco di cose perché mi descrivono quale nuove normative vengono introdotte per la pesca. Mi ha colpito molto quella del comignolo, che deve essere rivolto in modo tale da non lasciare andare dei residui di fuliggine dentro alla stiva dei pescherecci dove viene messo il prodotto. Ma chi è che immagina una cosa del genere? Mi è stato detto che i cani non sono ammessi. Io ero abituato sempre a pensare al pescatore che si portava il cane, e infatti immaginavo già uno spot pubblicitario che dicesse “No, tu non puoi venire”, perché effettivamente questa è una di quelle cose che la persona comune non immagina, a cui non presta attenzione. Ci sono tante cose buone che sono state fatte dalle istituzioni, su cui noi gettiamo la croce ogni giorno. Se vogliamo, l’unica critica che possiamo fare è che queste cose buone spesso le istituzioni non sono capaci di valorizzarle, perché il marketing è una parola sconosciuta, credo, agli enti di stato. Mi si dice, e verrà ribadito, che noi possiamo controllare la qualità del prodotto ittico e dell’ambiente in cui vive. Ecco, il mare Adriatico, e qua si unisce un discorso che andrebbe molto oltre, si vende nel suo insieme, cioè non vendo solo il pesce dell’Adriatico, vendo anche l’acqua, che dai nostri intervistati risulta essere un po’ torbida, bassa, quindi un’acqua che non è come quella immaginata della Sardegna o dei Tropici. Questo si riflette sulla qualità del pesce stesso. Se il consumatore poi vedesse le river-plates, cioè le paludi da cui vengono pescati i pesci in certe altre zone, si renderebbe conto che il pesce sceglie di vivere nelle acque che gli sono più consone, non nelle acque che noi immaginiamo nei documentari.

MODERATORE:
Il perché ce lo spiega Piccinetti.

DANIELE TIRELLI:
Allora, questa è la conclusione, le iniziative che uniscono serietà nella tutela del patrimonio ittico adriatico a una nuova e decisa attività di marketing sono la chiave di volta per creare nell’immaginario popolare quello che la natura ha creato nei fatti, cioè un super-food a portata di mano. Credo che sia stata data anche la possibilità di assaggiare il nostro prodotto locale, che poi locale non è, perché noi stiamo parlando di tutta la sfera dell’alto Adriatico, sebbene per noi italiani l’Adriatico sia fatto solo dalle spiagge riminesi. Nessuno pensa che dall’altra parte del mare esistono invece coste rocciose e ambienti totalmente diversi. Quindi la capacità di vendere l’ambiente, di vendere il mito ancor più del prodotto, è qualche cosa che deve entrare nella cultura delle prossime generazioni di consumatori, ovviamente, ma anche e soprattutto dei produttori. Per fare questo, le imprese singole che si battono contro un fenomeno di mercato molto complesso sono destinate ad essere sconfitte. Ho un’esperienza abbastanza lunga da sapere che i consorzi italiani hanno avuto molti meriti, ma anche tantissime carenze perché certi prodotti, che vanno dal prosciutto crudo al parmigiano reggiano o al pecorino romano – e chi più ne ha più ne metta – oggi risentono di questo vuoto che noi dobbiamo, credo, responsabilmente, colmare. Sono discorsi non da specialisti, sono discorsi che dobbiamo avere la capacità di tradurre nella vita e nelle scelte di tutti i giorni. In fondo, se ci pensate, gran parte dei programmi televisivi e delle rubriche giornalistiche sono dedicate alla alimentazione, e la gente si presta a quella che io chiamo porno-gastronomia perché si svolge dietro un tubo catodico, dietro un tubo di vetro: nessuno sente l’odore, nessuno assaggia quel prodotto e tutti lo mangiano. Si fanno dotte disquisizioni mentre io non ho neanche la possibilità di comprarlo perché non mi dicono chi lo vende, dove, come, quando, e quindi tutto questo grande interesse per l’alimentazione non si traduce in un miglioramento effettivo della nostra vita di tutti i giorni.
Quindi ricominciamo a pensare al consumo, alla valorizzazione dei nostri prodotti, perché effettivamente può consentire a noi tutti italiani, almeno su questo versante, di vivere ogni giorno un pochino meglio di quanto facciamo quotidianamente.

MODERATORE:
Grazie. Tirelli ha ricordato cose fondamentali, al di là della politica polemica sui consumi e i buoni consumi, che comunque sono dati inevitabili delle regole del mercato in cui viviamo. Mi ha fatto sorridere sapere che la vita inizia con il dolce, all’età del bambino, e finisce con l’amaro, e spero che questo non sia un atteggiamento simbolico in generale nell’economia del paese. Ad ogni modo la prima domanda che può sorgere è: ma che nazionalità ha una sogliola? E’ italiana, è della ex Yugoslavia, è albanese, se parliamo di pesce dell’Adriatico? E visto che il pesce ha una sua emigrazione, un suo tragitto, credo non abbia una nazionalità italiana, o una caratterizzazione emiliano-romagnola, o marchigiana. Siccome il professor Piccinetti è docente universitario in Emilia Romagna e presidente, credo, dell’istituto di Fano, quindi ponte fra due regioni, e forse mi può rispondere: che nazionalità ha la sogliola di cui stiamo parlando?

CORRADO PICCINETTI:
La nazionalità della sogliola è l’alto Adriatico, perché la sogliola è uno di quei pesci meravigliosi che ha un ciclo biologico particolare. Le sogliole grosse, quelle da 25-30-35 centimetri, si trovano in genere da ottobre fino a febbraio fuori le coste dell’Istria, e sono pescate dai nostri pescatori di Grado e Marano, mentre quelli di Caorle già non ci arrivano più, ma sono pescate anche dai pescatori dell’Istria a tre o quattro miglia dalla costa. Pescano i riproduttori. Le uova galleggiano, quindi vengono in superficie, sono trasportate dall’acqua e la corrente da quella parte va verso la costa italiana, ed ecco che allora raggiungono il golfo di Trieste, gli girano intorno e si fanno tutto il golfo di Venezia. Però nel frattempo crescono, viene fuori un pesciolino che nuota sempre in superficie e non ha niente a che vedere con quello che si trova sul fondo, continua a crescere e dopo un mesetto è arrivato quasi a un centimetro. C’è uno strano aspetto biologico che ha del fantastico, cioè che un occhio gira dall’altro lato. Quando l’occhio fa la migrazione lungo il muso del pesce e raggiunge l’altro lato, la sogliola, da pesciolino che sta dritto, si mette su un fianco e dai due occhi che guardano sopra è costretta a andare sul fondo. Lunga poco più di un centimetro entra nelle lagune venete, nelle valli del delta del Po, e cresce lì. Siccome nasce a gennaio-febbraio, cresce e rimane lì fino ad agosto-settembre. A novembre la soglioletta raggiunge i 18 centimetri e comincia a scendere spostandosi parallelamente alla costa di mezzo miglio, un miglio, scendendo sempre più giù. Fin dove arrivano queste sogliola? Nascono fuori dell’Istria, quindi alto Adriatico, ma girano e continuano a scendere fino alle Tremiti. Però fanno molto veloce perché ne abbiamo seguite alcune, marcandole con un bollino sulla schiena, che fanno degli spostamenti di trecento-quattrocento chilometri in un mese. Poi si allargano pian piano e dopo due anni ritornano un’altra volta sulle coste dell’Istria. Noi in Adriatico però ne abbiamo due tipi: ce un’altro tipo che fa un giro diverso e parte dalle coste dell’Albania per arrivare fino alle coste del medio Adriatico, per poi ritornare giù di là. Quindi noi abbiamo il medio Adriatico, l’Abruzzo tanto per dire, dove ci sono due tipologie di nazionalità di sogliole.
Ma queste sogliole sono uguali o sono diverse, hanno lo stesso sapore oppure no? Io, essendo anche un appassionato consumatore di sogliole, vi posso dire che i gusti sono diversi, e poi se uno ci sta attento ci sono parecchi fattori. Ma il vero problema, quello più importante, è indicare a qualcuno le caratteristiche di un pesce, perché il pesce dell’alto Adriatico è diverso, non è identico a quello del Tirreno. Quali sono allora le caratteristiche? Esistono delle differenze e sono forti, ma soprattutto determinano il sapore del pesce che mangiamo. Innanzitutto il sapore dipende dalla specie, ma questo lo sappiamo tutti: è evidente per tutti che quando mangiamo un piccione, un pollo o un fagiano, gustiamo tre sapori diversi perché sono tre uccelli diversi anche se sono tutti uccelli.

MODERATORE:
Posso interromperla?

CORRADO PICCINETTI:
Certo.

MODERATORE:
Siccome questa affascinante storia della sogliola migratrice l’ho imparata da lei una delle ultime volte che ci siamo incontrati, quest’estate casualmente un amico tornato dalla Croazia mi ha detto: “Ho mangiato una sogliola fantastica in Croazia, mica come quelle che si mangiano lì a Cesenatico”.

CORRADO PICCINETTI:
Questa è una cosa che condivido, anche perché bazzicando un po’ il mondo dei pescatori, in qualunque posto voi andate, dalla Sicilia alla Liguria, dall’Adriatico del nord a quello del sud, i pesci del posto sono i migliori sempre e comunque perché c’è una tradizione, un’abitudine a un certo sapore, a un certo gusto e di conseguenza un’ottima conoscenza del modo in cui prepararli nel migliore dei modi.

MODERATORE:
Ogni scarafone è bello a mamma sua!

CORRADO PICCINETTI:
Esatto! Però io dico: il sapore del pesce dell’alto Adriatico, questo è un problema fondamentale, da che cosa dipende? Dipende dalla specie, e una specie è diversa da un’altra. Ora, mentre noi siamo abituati al fatto che un agnello abbia un sapore diverso dal vitello, per i pesci alle volte facciamo differenza, mentre una sardina è un pesce diverso dalla sogliola ed è normale che abbiano un sapore diverso. Però se noi prendiamo la stessa specie, per la stessa specie da che cosa dipende? Perché questi due tipi di sogliole hanno due sapori diversi? Perché in alto Adriatico la salinità dell’acqua è minore. Cosa vuol dire la salinità dell’acqua? Vuol dire la concentrazione salina che c’è anche all’interno del pesce. Quindi perché una trota in genere ha un sapore diverso da quello dello sgombro o di un altro pesce che vive in mare? Perché la trota, vivendo nell’acqua dolce, ha una concentrazione salina interna molto bassa, mentre lo sgombro, vivendo in acqua salata, ha l’interno più sapido, saporito. Allora se in Adriatico abbiamo una salinità minore, la sogliola che vive in alto Adriatico avrà una salinità diversa, sarà più dolce e il suo sapore meno forte rispetto a una sogliola pescata nel Tirreno o nel canale di Sicilia, dove c’è una differenza ancora maggiore. Questo è il primo aspetto che noi consideriamo.
Il secondo aspetto è ciò che il pesce mangia, quale specie e quali organismi, e quanto ne mangia. Ecco che allora abbiamo due fattori: in alto Adriatico noi abbiamo l’Adige, il Po, il Reno, tanti fiumi che portano l’acqua dolce che si trasforma in fitoplancton, zooplancton, nutrimento: l’acqua è ricchissima. Dicevo prima che l’acqua non è quella bella trasparente, ma questa è una caratteristica del nord Adriatico come diceva anche D’Annunzio “Verde l’Adriatico”. Il verde infatti è dato dal fitoplancton, da organismi che stanno in sospensione – si arriva a centomila, duecentomila organismi unicellulari in un litro d’acqua. Questi sono mangiati da tutta una serie di altri organismi che incominciano la catena alimentare. Questo passaggio nella catena alimentare determina una ricchezza. Più ce n’è, più un pesce mangia e diventa grasso. Grasso vuol dire morbido, tenero e con un sapore caratteristico. La sogliola, che non filtra l’acqua, mangia tutti quegli organismi come vongolette, piccoli anellidi gasteropodi che ci sono sul fondo, ingrassa, cresce ed ecco che abbiamo la sogliola dell’Adriatico del Nord che è particolarmente delicata. Uno dice poco salata, però abbastanza grassa, con una carne morbida, tenera. Perché sono famose le sogliole dell’Adriatico rispetto a quelle del Tirreno? Perché le sue caratteristiche dipendono dalla ricca alimentazione che questa ha avuto in quel determinato tipo di fondale.
Poi c’è un altro aspetto che determina il sapore: l’età. Tutti noi sappiamo che un vitello, un vitellone, un bue o un toro hanno sapori diversi come carne. Così col pesce: pigliate un nasellino piccolo e pigliate un nasellino mezzano o uno grosso, quello grosso ci sembra sappia di baccalà, in genere ci piace poco e lo paghiamo di meno. Quello piccolino è troppo piccolo e quindi si presta solo a certe cose e non ha quasi sapore. Quello mezzano è quello che ha un sapore non troppo accentuato, rimante sempre delicato, ma ha la carne. Quindi con l’età cambia il sapore e la qualità organolettica non è la stessa.
Un altro aspetto che io credo sia fondamentale è la freschezza. Noi non ci rendiamo conto perché oggi è uno degli aspetti più emarginati del gusto. Chiunque di voi sia un pescatore sportivo va a pescare lo sgombro, i paganelli, quello che vuole. Il pesce anche meno buono, pescato, portato a casa, mangiato due o tre ore dopo, ha un sapore particolare. Aspetta il giorno seguente e già avrà meno sapore, tre giorni dopo non ha più un gusto particolare perché ha perso molte caratteristiche e qualità organolettiche. Questo noi ce lo dimentichiamo quasi sempre oggi perché non si ha la tracciabilità dal momento della cattura, della pesca; cosa che uno vorrebbe avere invece perché si può comprare delle sardine o delle alici appena pescate quando ritorna la barca, andando al porto con mezza cassetta e andarsene a casa a mangiare. Se poi il pesce è la saraghina è perfetto, perché fresca è il massimo, ha un gusto inimitabile. Se voi mangiate le sardine due giorni dopo, forse potete anche buttarle vie perché hanno un odore forte, poco apprezzato. Questo non perché uno l’abbia conservata male ma proprio perché perde. Una volta gli antichi dicevano: “Il pesce ha 24 qualità. Ogni ora ne perde una”. Quindi man mano che passa il tempo perde di sapore e la freschezza è per questo fondamentale. Noi dobbiamo puntare a far sentire alla gente il sapore del pesce fresco, qualunque specie gli piaccia.
Prima si accennava all’aspetto della stagionalità. Perché la stagionalità è importante? Perché, come tutti gli altri animali, i pesci hanno un ciclo riproduttivo. Pensate che per produrre le uova il pesce, ad un certo momento, non abbia bisogno di energia? Perciò prima della produzione di uova accumula del grasso e quindi, al suo interno, ha una concentrazione di lipidi, di grassi molto più alta. Poi, al momento della riproduzione, usa il grasso per fare le uova e dopo la riproduzione è molto più magro. Ci sono poi delle variazioni. Lo sgombro da un 12% di grassi, prima della riproduzione, finisce con un 3% dopo. È come quando uno mangia una bistecca: quella con il grasso bianco ha un sapore diverso da quella magra.

MODERATORE
Però sono quei grassi essenziali, si diceva prima, quei lipidi che servono per essere antiossidanti.

CORRADO PICCINETTI:
Io sono un po’ particolare perché sono abituato a stare molto a contatto con i pesci. Io preferisco mangiare il pesce non perché sia una medicina e fa bene: questo è evidente, ha gli antiossidanti, gli Omega3 però io non dico alla gente di mangiare il pesce perché 200 grammi alla settimana di una certa specie fanno bene, ma semplicemente perché è buono da mangiare. Lo potete preparare come volete perché le specie commerciali che abbiamo noi nell’Adriatico sono un centinaio. Poi ne abbiamo trecento o quattrocento che non sono molto frequenti e quindi la gente non le utilizza, però ci sono. Ma questo è tutto un altro capitolo. Perché noi dobbiamo pescare e portare a terra solo quelle sette specie, o cinque come diceva l’indagine, che il consumatore conosce? Io catturo le altre e devo buttarle via perché nessuno le vuole. Io ieri ero in mare, sono andato a pescare e ho preso quei pesci nastriformi rossi che qui da noi chiamano galere, dei pescetti che una volta si davano al gatto. Voi non avete idea di che razza di brodo fa questo pescetto rosso appena pescato, anche se bruttino. Se volete fare un risotto a base di pesce prendete questo, lo tagliate con una sforbiciata, la pulizia è immediata, la testa e l’intestino sono attaccati. Lo prendete e lo buttate direttamente nell’acqua: ci fate un brodo che è una base perfetta per il risotto. Se poi vi piace semplicemente un brodino leggero e delicato, lo potete fare anche così: ci mettete un po’ di riso e prezzemolo alla fine e ne viene un ottimo brodo di pesce. E quello è un pesce che oggi viene buttato via! Il pescatore non lo può vendere. Questo cosa vuol dire? Bisogna riflettere sull’economia del mondo della pesca, perché se un pesce non viene utilizzato il pescatore lo butta via ed è un ricavo in meno per lui. Perciò deve scaricare i suoi costi solo sulla sogliola, il calamaro, lo sgombro e altre specie classiche.

MODERATORE:
Ti faccio una domanda semplice: qual è il pesce afrodisiaco, visto che si parlava di porno-gastronomia?

CORRADO PICCINETTI:
Dunque, qui la domanda richiede una risposta abbastanza complessa. Ossia, in genere vengono considerati afrodisiaci quelli che ti danno un grande quantitativo di energia di immediato utilizzo. Evidentemente le ostriche e i molluschi in generale, anche dei mitili per esempio. Su questo la Regione Emilia Romagna ha un vantaggio: è stata la Regione che per prima ha incominciato a fare gli allevamenti di mitili in mare aperto. E come regione siamo quelli che, da Cattolica fino a Goro, abbiamo vivai di mitili in mare in tutti i comuni. Ognuno produce un migliaio di tonnellate. Siamo diventati esportatori di mitili che quindi è diventata una ricchezza. Crescono in otto, nove mesi proprio perché hanno da mangiare quell’acqua che, anche se non ha un bellissimo colore, è ricca e lo fa crescere. Crescono velocissimi. La nostra concorrenza commerciale, penso a chi ha allevamenti di ostriche a Olbia o in Sardegna o a La Spezia, ci mette due anni per arrivare a taglia commerciale. Noi in otto mesi ci arriviamo.

MODERATORE:
Aspetto torbido non vuol dire colibatteri.

CORRADO PICCINETTI:
Questo tipo di ambiente è ricco, che il pesce sia afrodisiaco o meno dipende. L’ostrica e la cozza sono dei prodotti che noi abbiamo, che vivono nelle nostre acque. Perché non li valorizziamo? Ci sono dei progetti che la Regione Emilia Romagna ha fatto, nell’ambito di una collaborazione internazionale, per sviluppare dei banchi di ostriche. Ad un certo punto, ecco il collegamento, consumo vuol dire anche turismo con le sue attività. Voi immaginate una pensione di Rimini o di Cattolica dove vengono servite delle ostriche. Il prezzo di produzione delle ostriche non è così grande, si tratta solo di produrne il quantitativo che uno vuole e oggi si può fare. La pensione può tranquillamente dare una dozzina di ostriche a settimana ai clienti col prezzo della pensione. Ma questa non è una caratterizzazione da mettere in risalto anche in un’offerta turistica del domani? Uno direbbe: “Guarda, quanti sono che oggi ti danno l’ostrica”. E invece non c’è. Eppure c’è l’associazione albergatori e ristoratori di Cattolica che sta portando avanti questa iniziativa e la regione sta creando dei banchi. Noi infatti abbiamo dei banchi naturali molto ampi che si possono aiutare a crescere facilmente, fa parte di quegli organismi che sono tipici di questa zona dell’alto Adriatico. Ad un certo punto si possono identificare questi prodotti che qualitativamente si differenziano dagli altri come l’ostrica. Ma l’ostrica coltivata in uno stagno francese non ha lo stesso sapore di un’ostrica adriatica. Noi abbiamo l’ostrica piatta, quella tonda; loro invece hanno l’ostrica conca lunga. Queste hanno due sapori diversi: del tipo francese noi ne abbiamo in alcune zone, però le consideriamo infestanti quasi perché non sono un gran che da mangiare, non hanno lo stesso sapore e lo stesso profumo di un’ostrica. Anche lì c’è tutta un’educazione da sviluppare, un marketing da fare, però noi abbiamo già dei prodotti. Allora bisogna rivedere l’attività della pesca collegata alle attività produttive, al commercio e a tutto il resto. Bisogna metterli in filiera tutti quanti.

MODERATORE:
Apriamo il capitolo sulla tutela dell’ambiente: a livello di tutela dell’ambiente siamo proprio sicuri che quell’acqua che dici tu sia quella naturale e che non ci sia qualcosa da fare per migliorarla?

CORRADO PICCINETTI:
Siamo sicuri. Anche perché questi tipi di impianti sono fatti ad una distanza di due miglia, due miglia e mezzo. Due miglia e mezzo sono quasi 4 chilometri abbondanti. Quattro chilometri è una diluizione tale che tu ci puoi buttare quello che vuoi. Oggi abbiamo una normativa che impedisce di buttare in mare un sacco di cose che prima erano permesse e consentite. Oggi quello che arriva al mare, non è acqua distillata, però è un’acqua che rappresenta il lavaggio di quello che ci può essere a terra, ma che comunque, rispetto agli anni passati, è notevolmente migliorata come qualità. Questo è stato il motivo per i coliformi che ha portato le mitilicolture, ecco dove l’Emilia Romagna è in vantaggio rispetto gli altri. Noi non abbiamo la laguna veneta, l’interno della laguna. Noi i mitili li alleviamo in mare aperto dalle due miglia in fuori. Noi abbiamo tutti questi vivai con mitili, ostriche, tutto quello che vogliamo. Inoltre abbiamo le vongole.

MODERATORE:
Ho capito che la varietà è molto più ampia di quella che, dicevamo prima, c’è sul mercato. Ho capito che c’è uno spazio per i consumi, ho capito che esiste anche la porno-gastronomia con qualcosa di afrodisiaco in Romagna. Ma perché bisogna prendersi il disturbo di andare a fare un marchio a un pesce? Perché certificare il pesce che non ha confini, che vive nel mare dove non c’è un ispettore tutto il giorno che guarda la filiera e la tracciabilità. E poi come si fa, perché è importante fare questa fatica?

DUCCIO CAMPAGNOLI:
Intanto vorrei darvi una notizia molto importante. Se ascoltando Tirelli, o il professor Piccinetti, vi sta venendo l’appetito e il desiderio di pesce, potrete trovare, appena finiremo questo incontro, un po’ di questo pesce dell’Adriatico presso il punto di ristorazione organizzato dal Meeting e vedrete, anche sopra il capannino che mette a disposizione questo pesce, e speriamo sia certificato davvero, un piccolo marchietto. E io voglio esibirlo il marchio del prodotto certificato alto Adriatico perché l’idea di dare un marchio di qualità è nata qui a Rimini non più tardi di quattro anni fa. E’ nata qui perché Rimini è un po’ la capitale dell’Adriatico, oltre tutto organizza a febbraio una grandissima manifestazione europea mondiale dell’alimentazione col prodotto pesce. E’ nata a Rimini anche con l’incontro del Meeting perché proprio il professor Tirelli, assieme al professor Piccinetti, disse: “Qual è il posto nel quale si incontrano tante persone e famiglie italiane con i loro ragazzi, ragazze, giovani, persone di tutte le età che vogliono star bene sobriamente, vogliono vivere un incontro entusiasmante e vogliono magari, assieme a tutti i punti di ristoro, avere anche la possibilità di mangiare, non a un prezzo esorbitante, qualche cosa di buono e che dia l’idea di un cibo sano?”. Ecco che allora proprio qui in fiera è cominciato quell’approfondimento, con qualche test sul grande pubblico del Meeting, che ha portato all’idea che sul prodotto pesce, nonostante sia naturalmente ben noto e radicato nelle tradizioni di ciascuno, ci fosse ancora molto da fare e che si potesse lavorare su questo, che è il punto di partenza del discorso cha avete sentito oggi. C’è in realtà una voglia anche da parte delle famiglie di avere una dieta più sana. Dentro questa dieta cresce l’attenzione, la volontà di consumare il pesce.
I dati, i numeri delle ricerche del professor Tirelli, ci dicono che in questi anni cresce anche il consumo di pesce da parte delle famiglie. Naturalmente cresce soprattutto il consumo di pesce, non direttamente il consumo di quello fresco, e cresce soprattutto il pesce di importazione. Questo perché esiste la necessità di far crescere la quantità di prodotto pesce a disposizione delle famiglie, quello dei mari che circondano il nostro paese, perché certamente bisogna far crescere la conoscenza di questo bellissimo prodotto che ancora non è adeguatamente conosciuto. Ecco allora che proprio qui al Meeting è nata questa scommessa, di poter lavorare per produrre uno strumento utile a dare più conoscenza e garanzia di qualità e sicurezza del pesce. La regione Emilia Romagna ha costruito un percorso per mettere a punto il marchio di qualità del prodotto certificato dell’alto Adriatico. Come si fa un marchio di qualità del prodotto Adriatico? Sono stati messi a punto dei disciplinari, cioè delle regole che riguardano la modalità in cui il pesce deve essere pescato, come deve essere trattato, come debbono funzionare tutti i percorsi che dal mare lo portano ai mercati ittici, alle pescherie e poi ai punti di ristorazione, ai punti di vendita. Quindi il marchio di qualità è innanzitutto un marchio di tracciabilità del prodotto, che consente, come avviene anche in altri settori, di riconoscere tutto il percorso che il prodotto ha svolto. Voi trovate, nel certificato che dà conto del marchio di qualità del prodotto alto Adriatico, la riga nella quale si dice qual è la specie ittica di cui stiamo parlando, da quale barca è stato pescato, da quale zona di cattura, in quale data di cattura, eccetera. Quindi un marchio innanzitutto di riconoscibilità e di tracciabilità. Avete sentito che per fortuna il pesce non ha troppi confini e io credo che questo sia una qualità di questo prodotto. Credo che, tutto sommato, questi confini non dovremmo averli troppo neanche noi esseri umani. Non vogliamo quindi fare la triglia o la sogliola dell’Emilia Romagna, che poi deve diventare diversa e magari guardare con sospetto la triglia e la sogliola del Veneto oppure delle Marche. Non vogliamo marcare, come nostra proprietà e possesso esclusivo il pesce dell’Emilia Romagna. Il nostro marchio semplicemente dice che è la Regione Emilia Romagna che rilascia questo marchio di certificazione di qualità. E’ un’assunzione di responsabilità che l’Ente Regione ha voluto assumere dandosi questo strumento. E devo dire che ce lo siamo dati assieme già ad altre due regioni dell’alto Adriatico, quali il Friuli Venezia Giulia e il Veneto, con le quali abbiamo costruito una politica per la pesca assieme anche alle altre regioni dell’alto Adriatico, innanzitutto sloveni e croati.
Il professor Piccinetti ci ha ricordato che la vita della sogliola adriatica è una vita avventurosa che comincia in Croazia, fa turismo sulla nostra costa e qualche volta rimane. Insomma è un pesce che si diverte, gira molto, vede persone, cose. Quindi è molto importante avere una traccia politica per la pesca che non sia fatta semplicemente per piccoli pezzi di mare. Per questo abbiamo organizzato assieme al Friuli e al Veneto un incontro con le regioni dell’altra parte dell’Adriatico, Croazia e Slovenia, per immaginare un distretto di pesca nell’alto Adriatico nel quale fare delle politiche comuni. Oltre al tema della qualità c’è anche il problema di far crescere la quantità di prodotto. E’ necessaria una pesca responsabile, altrimenti accade che viene limitata la possibilità di sviluppo del prodotto. Qui c’è una discussione da fare. Bisogna dire che le politiche di pesca europee a volte risentono un po’ troppo del punto di vista della pesca dei mari del nord, della pesca oceanica fatta di grandi imbarcazioni e grandi quantità. Da qui ne deriva che gli strumenti e le indicazioni della pesca europea rischiano di essere quelle di diminuzioni di sforzo di pesca, e questo può penalizzare la nostra attività. A nostro parere una cosa da fare è aiutare la riproduzione delle specie ittiche e creare delle zone di riproduzione. Ne abbiamo create qui nell’Adriatico attraverso determinate realizzazioni che consentono di avere zone di riproduzione, e quindi si può pensare ad accrescere qualità e quantità del pesce. Si possono fare cose importanti per mettere a disposizione dei consumatori un prodotto di qualità per la loro dieta e la loro salute.
Concludo con una considerazione che ciascuno di noi, o perlomeno quelli delle mie dimensioni, hanno avuto modo di fare, cioè ogni volta che ti presentano la dieta che dovresti fare, ti spiegano che c’è bisogno di tanti alimenti, ma tu vedi anche l’elenco delle calorie e delle capacità nutritive dei vari alimenti, perciò, ad esempio, vedi che una bella, nutrientissima, stupenda salsiccia di Romagna vale 550 calorie e ha un valore nutritivo pari a quello invece di una altrettanto straordinaria sogliola che però di calorie ne ha 100. Bisogna davvero mettere a disposizione delle persone la possibilità di una correzione della nostra dieta alimentare. Bisogna mettere a disposizione le proprietà molto importanti che tutti gli esperti hanno riconosciuto al prodotto pesce: ricco di sali, vitamine e tante altre cose importanti. Quindi il dovere di pensare ad un’alimentazione più sana e più sicura è anch’esso parte di una politica di impegno e responsabilità da portare avanti. Ecco perché diciamo “Occhio al marchio”, per conoscere di più ed essere in qualche modo più amici di questo nostro bel pesce dell’Adriatico.

MODERATORE:
Mi sembra che sia stato spiegato molto bene il concetto e anche che per arrivare ad ottenere quel bollino non c’è una procedura automatica, ma ci sono dei controlli, c’è un organismo certificatore. C’è tutta una serie di passaggi che devono essere rispettati. Una cosa su cui stavo riflettendo è che in Italia, per chi si occupa di gastronomia, salta agli occhi che col tempo i marchi di tutela di valorizzazione sono passati da valore aggiunto che sta ad identificare un’area, una tradizione, una serie di saperi e di sapori, a marchi del campanile. Cioè si è scoperto che la fama del Brunello di Montalcino, che era un fazzoletto di terra per il vino, ha fatto sì che la gente dicesse “Io sono di Montalcino”, e si sono creati dei fenomeni di campanilismo, orgoglio e identità. Quindi, da un’origine del marchio inteso come valore aggiunto industriale a tutela di un business, si è degradati verso una simbologia dell’identità. Invece non è che l’Emilia Romagna dice “La sogliola è mia”, ma garantisce a chi compra che è stato fatto uno sforzo per assicurare che quel cibo è sano, genuino e certificato. Non è la stessa cosa.

DANIELE TIRELLI:
Non è la stessa cosa, esatto, perché i consorzi, i marchi sono stati creati in anni in cui non esisteva un sistema mediatico. I primi marchi DOP sono stati fatti negli anni in cui non venivano comunicati attraverso la stampa. Oggi invece abbiamo un sistema mediatico che può fare di un piccolo fatto, come una produzione locale, un elemento che colpisce l’immaginazione pubblica, e allora è chiaro che nascono questi marchi spesso troppo frequentemente. Non perché non ci siano valide ragioni per il produttore ma perché la capacità di memorizzare, di ricordare, di selezionare, da parte di noi tutti, è sempre molto scarsa. Il marketing ci insegna che dobbiamo dire poche cose ripetutamente perché vengano memorizzate. Però il marchio oggi ha un significato molto diverso dal passato perché, mentre nel passato serviva a tutelare coloro che possedevano una tecnologia e una tradizione, cioè veniva fatto per difendere il produttore, oggi il marchio, dal punto di vista sociologico, ha un valore diverso perché, se ci pensate, noi come consumatori siamo completamente e quotidianamente colpevolizzati. Anche prima a certe mie frasi che erano un po’ dissonanti si diceva: “No! Consumare meno, consumare responsabilmente”, cioè io come consumatore, ogni volta che devo consumare qualcosa, mi devo porre il problema dell’ozono perché creo un buco, perché c’è una tribù dell’Amazzonia che sparisce per via del mio intervento, perché vado ad inquinare, perché l’acqua non è sufficiente. Ogni oggetto e ogni atto di consumo porta con sé un senso di colpa, in particolare in Italia, dove abbiamo un ambiente cattolico per retaggi che tra l’altro sono superati, abbiamo una mentalità anticonsumistica. Ma questo è vero anche in altri paesi per cui il politically correct o l’ecologically correct è un fenomeno ormai globale.
Il marchio in fondo è una scorciatoia che mi consente come consumatore di essere in regola sia con l’ambiente sia con la qualità, e questo per quanto riguarda sia l’ambiente esterno che l’ambiente interno, cioè la salute e tutto il resto, perché il marchio significa che un determinato prodotto è, a detta di un garante credibile, un prodotto qualitativamente controllato e anche collettivamente responsabile.

MODERATORE:
Scusa, una precisazione. Quando si parla di marchi DOP, IGP, DOC E DOCG, va considerato che non è detto che quel prodotto sia migliore o peggiore di un altro. Cioè un salame felino DOP non è detto che sia più buono, a livello di gusto, di quello che non è marchiato. Però approfitterei di Piccinetti: qual è la griffe, qual è il Valentino, il Dolce & Gabbana, l’Armani del pesce?

CORRADO PICCINETTI:
È molto soggettivo: per qualcuno una sardina. Prova a farti un bel sughetto con le sardine fresche, è la fine del mondo. Uno dice: “Ma la sardina costa 2,3 euro al chilo, è un pesciaccio”. Oppure la saraghina scottadito: da noi è famosa perché veniva pescata con la sciabica, pescata e mangiata 20 minuti dopo che era stata presa. È la fine del mondo, il pesce in assoluto più buono che c’è: morbido, delicato e con tutto l’aroma della freschezza. Un altro dirà: “A me piace il rombo, la rana pescatrice, il san pietro, lo scampone quello grosso, l’aragosta” e paga un mucchio di soldi. E’ soggettivo il discorso. Ecco perché io dico che il pesce è qualcosa che permette a tutti quanti di avere le proprie scelte, quindi è giusto che ognuno conosca le specie della sua zona perché, conoscendole, sa come trattarle, sa come cucinarle, come prepararle. Però non esiste qualcosa che sia assoluto.
Alle volte parlavo con dei vecchi pescatori di pesciacci che oggi noi non guardiamo nemmeno, mentre per loro sono i migliori in assoluto perché li pescano, li tirano su e se li mangiano un quarto d’ora dopo: ci credo che sono i migliori in assoluto. E lui dice che questi non li cambierebbe nemmeno con un’aragosta. Perché? Perché effettivamente la freschezza è la più importante delle caratteristiche organolettiche. Ma la freschezza è anche il motivo per cui, ad un certo momento, la gente deve venire sul territorio vicino al mare a mangiare il pesce. Altrimenti lo possono mangiare a Milano, a Londra, dove vogliono. Pigliano un pesce congelato.

MODERATORE:
Corrado, volevo fare una domanda al pubblico e se qualcuno vuole rispondere bene, sennò mi rispondo da solo. Secondo voi il pesce è meglio cucinato e mangiato in casa propria o in un buon ristorante di vostra fiducia? Cioè, esiste un gusto nel cucinare il pesce, al cartoccio, ai pomodori, sulla griglia con gli amici, c’è un rituale nel cucinarlo che vale di più del prodotto già desarcofacizzato, cioè senza lisca di Jacovitti, già sfilettato? Esiste ancora questo gusto di fare il pesce alla griglia in compagnia degli amici o non esiste più?

RISPOSTA DAL PUBBLICO:
Il gusto del pesce non è solo cucinare il pesce, secondo me, ma anche pulirlo in anticipo, prepararlo insieme a qualche altro componente della famiglia. Questo è il bello del pesce: la festa.

MODERATORE:
Posso confermare. Era una domanda della nostra ricerca e il 70% degli intervistati dice che preferisce mangiarlo a casa, quindi anche la garanzia del ristoratore è qualche cosa che accettiamo ma in realtà vorremmo il pesce buono, fresco garantito e, secondo me, a casa.

DANIELE TIRELLI:
Se permetti, per concludere questo incontro, io direi che i nostri gentilissimi ascoltatori meritano un piccolo premio che consiste in questo: tre consigli per l’acquisto o per il lavoro del pesce dati da due persone che davvero se ne intendono e che dicono anche un po’ del valore di questo consorzio del prodotto certificato. Quindi pregherei il dottor Tasselli, che è il responsabile del servizio di economia ittica della regione Emilia Romagna, di darci non tanti ma tre consigli per riconoscere sicuramente il pesce più fresco. Tasselli è anche il rappresentante di una grande azienda di distribuzione di pescato della nostra regione, l’Azienda Adler, che aderisce al consorzio del pesce certificato dell’alto Adriatico.

MODERATORE:
Aldo: tre consigli.

ALDO TASSELLI:

Io darei un consiglio: quando andate in pescheria e fate l’acquisto del pesce, come diceva Corrado Piccinetti, fatelo prendere per la testa e guardate dove va la coda. Perché? Perché in questo momento voi vedete che sono già più giorni che ha perso il “rigor mortis” e quindi è un pesce vecchio. Mentre invece l’occhio, le branchie, e anche la lucentezza della livrea, possono essere manipolati. L’unica cosa che non puoi manipolare è il “rigor mortis” che mantiene per un certo periodo in cui c’è la freschezza. Quindi deve essere bello rigido.
Secondo consiglio: quando andate in pescheria non fatevi dare il pesce nel solito modo perché loro vi prendono sempre il pesce di sotto, quindi sopra c’è il bel pesce fresco e pulito e per voi prendono sempre quello sotto. Poi vi chiedono se lo volete pulito, così va di là, ve lo seziona e non vedete più neanche quello. Quindi vi hanno buggerati tre volte. Quindi fatevi dare il pesce che è davanti e quello sotto ditegli che se lo può tenere. Questo è un altro consiglio perché il commerciante deve vendere e per vendere fa il proprio interesse. D’altronde lui ha del pesce da tre, quattro, anche cinque giorni che sistema col ghiaccio, gli dà del pigmentante e vi fa sempre vedere le branchie con l’occhio che viene addirittura fuori, quasi esoftalmo. L’esoftalmo è una malattia in cui l’occhio viene fuori dall’orbita. Quindi vi dico di avere queste premure se volete mangiare il pesce.
Noi speriamo che con questo marchio siate in grado di riconoscere nelle pescherie e anche nei ristoranti un pesce buono, che non sia una fregatura. Perché ho detto che non sia una fregatura? Perché la certezza assoluta non la si può dare. Noi cerchiamo di darvi qualità attraverso un prodotto biologico garantito, andando a fare le ispezioni. E come ha detto il mio amico Corrado andremo anche assieme. Mentre lui parlava, voi mangiavate vero? Vi faceva venire voglia di mangiare? È una sua caratteristica quella di unire la scienza alla pratica, anche se si parla di pratica gustativa, e infatti è un ottimo cuoco e anche buongustaio, non vi può tradire. Proprio per questo dobbiamo seguire i suoi consigli, e state tranquilli che noi andremo a fare le nostre ispezioni e andremo a mangiare.

MODERATORE:
Cosa fanno le imprese che aderiscono al Consorzio del Prodotto Certificato dell’Alto Adriatico?

ANDREA DONATI:

Più che altro cercano di valorizzare l’operato dei pescatori, perché i pescatori fanno veramente un lavoro straordinario: non solo pescano il pesce con una certa cura ma lo portano a terra in modo tale che sia ben presentabile e lo sistemano perché possa essere valorizzato sui banchi delle pescherie e nei ristoranti stessi. È vero quello che ha detto il dott. Tasselli, cioè che una lavorazione buona permette che ci sia il “rigor mortis”, la compattezza del prodotto, una qualità straordinaria da poter gustare sulle nostre tavole. Un’altra cosa importante su cui stare attenti, quando si va a vedere il prodotto fresco, è che il pesce abbia una specie di vischio perché quando è appena pescato crea una sostanza vischiosa. Perciò, oltre al “rigor mortis”, è importante vedere questa specie di bava intorno al pesce, che è una sostanza protettiva che emette naturalmente, un muco. Perciò più muco c’è più il pesce è fresco. Valorizzate anche questo aspetto. Se poi vi permette di toccarlo, guardate l’attaccatura delle squame perché più sono attaccate, più sono difficili da togliere e più il prodotto è fresco, appena pescato. E comunque, occhio al marchio!

MODERATORE:
Occhio al marchio. Grazie e mi raccomando la grigliata di questa sera nel padiglione dell’Emilia Romagna.

Data

28 Agosto 2008

Ora

15:00

Edizione

2008

Luogo

Sala Mimosa B6
Categoria
Incontri