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STORIE DI SPORT, STORIE DI VITA. Rassegna video a cura del giornalista TV Nando Sanvito.
Il potere dei senza potere: le Olimpiadi di Hitler del 1936.
Il potere dei senza potere: le Olimpiadi di Hitler del 1936.
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NANDO SANVITO:
Buongiorno a tutti. Le Olimpiadi del ’36, di cui abbiamo visto la sfilata inaugurale, hanno rappresentato una grande provocazione, duplice e di segno opposto. Da una parte il nazismo vi vede la grande occasione per convincere il mondo della sua superiore civiltà e vuole stupire tutti con la sua capacità organizzativa e dare una dimostrazione di potenza anche razziale coi suoi risultati sportivi. Beh, quello del vanto sportivo è una costante un po’ di tutte le epoche e di tutti i governi, anche ai nostri giorni. Ma nel ’36 è ovvio che sia un obiettivo anche dell’Italia fascista, del Giappone imperiale e dei democratici Stati Uniti, in chiave ideologica non meno interessati della Germania nazista all’esito sportivo sullo scenario di un evento che però ha lo scopo di rappresentare un’altra provocazione di segno opposto rispetto alle strumentalizzazioni politiche che i vari governi ne vogliono fare. Come prefigura, lo vedete, l’emblema di De Coubertine dei cinque cerchi che si intrecciano, lo spirito olimpico vorrebbe continuare ad essere un evento unificante i continenti e le nazioni dentro una sana competizione agonistica, vissuta come occasione di fratellanza tra i popoli e le persone. In questo contesto e su questo scenario si giocano le storie personali di atleti e dirigenti.
Tra i temi di propaganda del regime hitleriano impegnato a darsi una religione pagana, neopagana, c’è quello di presentare la Germania nazista come l’erede della cultura classica e la perfezione del corpo della razza ariana come la continuità con l’ideale di armonia degli scultori greci, anche se quando la regista fa il casting ad Atene tra i greci per scovare un modello fisico di questa perfezione da mettere davanti alla cinepresa l’unico che passa il provino è questo signore qui, che si scopre poi essere un emigrato russo.
La torcia olimpica è comunque invenzione di un tedesco e diventa ufficiale per la prima volta in questi giochi olimpici.
In dodici giorni la staffetta con la fiamma copre il tragitto da Atene a Berlino, poco più di 3.000 Km., per inaugurare l’olimpiade estiva il primo agosto.
E’ indubbio che in questo contesto neopagano e di idolatria del corpo umano gli atleti vengano considerati dalla Germania nazista come una sorta di semi-dei di cui si deve sfruttare il nettare per incrementare la razza.
Al punto che la Gestapo si inventa qualcosa di davvero singolare: gli atleti di sesso maschile di tutte le nazioni sono ospitati nel villaggio olimpico, ai margini di una base militare dell’esercito, villaggio olimpico isolato rispetto a Berlino e rigorosamente vietato agli estranei, specie alle donne.
La Gestapo però fa un’eccezione: distribuisce cioè dei permessi speciali ad un gruppo di donne selezionate con criteri estetici tra le insegnanti di educazione fisica, aderenti ad una organizzazione hitleriana e permette loro di accedere al villaggio per accoppiarsi con atleti di loro gradimento.
L’atleta prescelto è portato nel bosco, e ovviamente consenziente, si sente però chiedere prima dalla ragazza il tesserino di riconoscimento, di modo che in caso di gravidanza lei possa dimostrare l’origine olimpica del bambino e ricevere un’assistenza speciale da parte dello stato.
L’Olimpiade estiva di Berlino aveva però fatto le sue prove generali sei mesi prima nei Giochi Olimpici invernali a Garmisch-Partenkirchen in Baviera.
Questo è il trampolino, qui vedete come si preparavano gli sci allora. Il trampolino era forse la prova più popolare di quelle olimpiadi.
Questa è una pista di bob diventata famosa, perché si dice che abbiano sbagliato a costruirla, si è creata una specie di curva famigerata, la curva Baviera, dove sono accaduti incidenti di ogni tipo, e qualcuno purtroppo ci ha lasciato anche le penne.
Vediamo il tabellone elettronico, si fa per dire.
Ecco, questa è la famosa curva, vedete rischiano di uscire e vanno a sbatterci, saranno almeno una decina gli incidenti e ripeto qualcuno ci lascerà le penne.
Lo sci era un po’ diverso da come lo conosciamo adesso, non solo per i materiali. Questa era la discesa veramente libera.
Tra l’altro questi sono i sistemi di rilevamento, ricordo che ci fu uno sciatore egiziano che partecipò a queste olimpiadi, arrivò quando praticamente stavano tutti a casa, ci impiegò quattro volte tanto gli altri.
Hockey su ghiaccio: diventato famoso in una partita dell’Italia, un giornalista italiano scaglio una macchina da scrivere sulla testa di un arbitro.
Questo ve la siete persi: vela su ghiaccio.
Questo non è uno “stura-cessi”, anche se assomiglia; in realtà è un antesignano del curling. Bellissima questa immagine in controluce.
Bene, nonostante il successo numerico di 688 atleti per 17 gare, questa Olimpiade invernale registra una grave, doppia defezione; l’annosa controversia sul dilettantismo, come requisito indispensabile per poter gareggiare in una prova olimpica porta ad una drammatica rottura; se tu guadagnavi dei soldi per fare sport, venivi escluso ovviamente dalle olimpiadi.
In effetti qui succede qualcosa di clamoroso: Austria e Svizzera che volevano schierare i maestri di sci alpino, quindi figure professionalmente retribuite per la loro attività sportiva, si vedono opporre il rifiuto da parte del Comitato Olimpico, e dunque queste due nazioni decidono di non iscrivere alcuna squadra alla gara di sci alpino. Una settimana dopo la chiusura di queste olimpiadi invernali, faranno man bassa di medaglie, soprattutto gli austriaci, ai mondiali di Innsbruck, ma qui restano fuori gli austriaci e tra gli illustri assenti delle gare di sci alpino anche il carinziano Heinrich Harrer, membro di formazioni paramilitari naziste, un mancato protagonista per la propaganda di regime, di un regime che tra i suoi obiettivi, aveva anche, ricordiamolo, quello di annettere l’Austria alla Germania. Heinrich Harrer diventerà poi famoso come alpinista, ma soprattutto per le sue avventure, prigionia, fuga e latitanza a cavallo della guerra, raccontate nel libro Sette anni nel Tibet, divenuto un celebre film con l’interpretazione dell’attore americano Brad Pitt.
L’esclusione dei maestri di sci austriaci e svizzeri contrasta con l’ammissione invece ai giochi di una star del pattinaggio artistico.
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Eccola qui Sonja Henie, norvegese, popolarissima, arriva a Garmisch dopo aver vinto le Olimpiadi del ’28 del ’32. La sua partecipazione viene contestata dagli Americani per i lauti guadagni che le sue esibizioni le avevano procurato in Norvegia, uno schiaffo al dilettantismo. Ma i dirigenti della Federazione Mondiale non vogliono privarsi della visibilità mediatica che questa donna di 24 anni dà al loro sport e la ammettono. Vince anche qui in un duello entusiasmante con la britannica Cecilia Colledge nell’ultima gara della sua vita. Poi lascerà lo sport, diventerà cittadina americana, si dedicherà alle esibizioni su ghiaccio e al cinema, come abbiamo visto, e verrà criticata in patria, si intende la Norvegia, perché nonostante favolosi guadagni, stimati in quasi 50 milioni di dollari, si rifiuterà sempre di aiutare la resistenza norvegese contro l’occupazione hitleriana del 1940.
Una storia ben diversa da quella di un suo connazionale, vero protagonista dal punto di vista sportivo, di questa Olimpiade. E mi riferisco, eccolo qui, lo avete intravisto, a Ruud Birger, norvegese anche lui, già oro olimpico quattro anni prima a Laked Placid, che qui si ripete e vince l’Oro nella stessa gara (abbiamo visto il suo salto). Il salto del trampolino è la gara più famosa non solo in Scandinavia ma anche in Germania. Birger, tra l’altro, vince anche la prova di discesa libera, quindi sia nel salto che nella discesa libera, nella combinata, dunque gareggia nelle due specialità. Ironia della sorte, il personaggio più rappresentativo di quell’ Olimpiade, appunto Birger, finisce per diventare un simbolo dell’ opposizione al Nazismo. Quando, infatti, la Germania invade la Norvegia, lui si rifiuta di gareggiare davanti ai nazisti, viene espulso dalla Federazione sciistica nazionale norvegese e quando nel ’43 partecipa a una gara clandestina viene arrestato e mandato in un campo di concentramento alla periferia di Oslo, dove rimarrà recluso per 18 mesi. La sua resistenza, il suo sacrificio vengono premiati dal destino quando, nel 1948, Birger viene inserito nella spedizione alle Olimpiadi di Saint Moritz. Ma come viene inserito? Semplicemente come accompagnatore della nazionale norvegese. Arriva a Saint Moritz, prova come ricognizione per la squadra norvegese la pista del trampolino e fa un salto incredibile. È la migliore di tutte le prove, migliore ovviamente dei suoi connazionali che invece erano lì per gareggiare. A quel punto decidono di iscriverlo alla gara, nonostante l’età, 37 anni, e lui riesce a conquistare la medaglia d’argento. Una rinuncia e un sacrificio in nome della dignità trovano sempre ricompensa nel cuore del destino. I suoi concittadini, a Kongsberg dove Birger è nato e si è spento nel 1998, gli hanno dedicato questa statua. Ma torniamo a quelle Olimpiadi invernali: il comitato olimpico internazionale nel novembre del ’35 fa un’ispezione preliminare agli impianti di Garmisch. Il presidente, il belga Henri de Baillet-Latour, resta scandalizzato dal clima antisemita che trova in questa parte della Baviera. Non ci sono solo i cartelli posti ai margini delle vie di comunicazione ad attirare la sua attenzione, simili a questo che recita che gli Ebrei non sono graditi in questa località, tra l’altro in prossimità di curve pericolose i cartelli stradali con i limiti di velocità recano, in questa parte della Baviera, la scritta ‘esenti gli Ebrei’, invitati dunque a schiantarsi sulle curve. Il presidente del CIO, il comitato olimpico internazionale, è scandalizzato soprattutto dalle scritte che ci sono fuori degli esercizi pubblici, tipo questo di uno studio medico dove si avvisa che non si curano e non si visitano Ebrei, oppure in questo negozio dove non sono ammessi gli Ebrei. Va tenuto conto che dopo il varo delle leggi di Norimberga, che discriminavano gli Ebrei, togliendo loro lo status di cittadini della stato tedesco, si era intensificata, soprattutto negli Stati Uniti, una campagna pubblica per il boicottaggio delle Olimpiadi. Vi aderivano tra gli altri figure di spicco del protestantesimo come il teologo Reiner Hubert. E il presidente del CIO chiede a questo punto un’udienza privata al Fuerer e dopo una trattativa serrata ottiene il sì di Hitler alla rimozione dei cartelli, che spariranno comunque solo a metà gennaio, solo qualche settimana prima dell’apertura dei giochi olimpici invernali, l’8 febbraio. In più il presidente del CIO ottiene l’assicurazione che anche la Germania schiererà atleti ebrei. In realtà si limita ad uno solo, per di più ebreo per metà, per i giochi invernali. Vediamolo eccolo qui. Si chiama Rudi Ball, hockeista, gioca per i diavoli rossoneri di Milano dopo essere fuggito dalla Germania a Saint Moritz in Svizzera nel ’33 a seguito dell’avvento dei nazisti al potere e delle prime leggi antiebraiche. In realtà questo Rudi Ball, non viene convocato ma il capitano e il più forte giocatore della nazionale tedesca annuncia che si rifiuterà di partecipare alle olimpiadi se non verrà inserito in squadra Ball, che è il più forte giocatore tedesco in circolazione. Sfortuna vuole che dopo un paio di partite Ball si infortuni e la Germania perda il suo, tra virgolette, uomo migliore. La Germania non salirà sul podio del torneo, come invece aveva fatto nella precedente olimpiade.
Ai giochi estivi di Berlino invece i nazisti inseriranno nella scherma una donna di padre ebreo, Helene Mayer già medaglia d’Oro ad Amsterdam nel ’28 che, dopo le olimpiadi di Los Angeles del ’32, si era fermata a vivere in America. I suoi meriti sportivi sono indubbi ma anche il suo profilo, tra virgolette, politico è rassicurante per il regime nazista, Mayer infatti è di madre ariana e dunque cittadina tedesca a tutti gli effetti secondo le leggi di Norimberga, per di più rinnegava la religione ebraica; simpatizzante per il nazismo, le sue apparenze (alta bionda, occhi verdi) tradivano l’ariana a tutti gli effetti. A Berlino, lo vedete, conquisterà una medaglia d’argento nel fioretto (quella che sul podio fa il saluto nazista) e guarda caso sarà battuta in finale da una ungherese di razza ebrea, Ilona Elek. Anzi, tutto quel podio fu ebraico, anche la terza, l’austriaca Ellen Preis. Ma il vero scontro tra il comitato olimpico internazionale e il capo dello sport tedesco avviene attorno alla figura di questa donna che vedete in foto Gretel Bergmann, una delle più forti saltatrici in alto della Germania. Dopo le leggi razziali del ’33 viene espulsa dal suo club di atletica al cui ingresso era riportato il cartello ‘divieto di accesso a cani ed ebrei’. Si era rifugiata a Londra con la sua famiglia, l’anno dopo, ma alla vigilia dell’olimpiade di Berlino accetta di tornare in Patria a seguito di un invito formale delle autorità tedesche che fingono di cedere alla pressioni internazionali. Viene aggregata agli allenamenti della squadra nazionale e un mese prima dell’apertura dei giochi salta un metro e 60 eguagliando il record nazionale detenuto dalla sua compagna Elfriede Kaun. E’ proprio il suo stato di forma a preoccupare i dirigenti federali che vogliono evitare una imbarazzante situazione: vedersi assegnare sotto la svastica una medaglia d’oro conquistata da un’ebrea, sarebbe uno smacco incredibile per le euforie razziste ed antisemite del Terzo Reich. Cosa fanno allora? Hitler teme soprattutto il boicottaggio degli Stati Uniti d’America. Ma (vedete qui: questa è la Manhattan, la nave degli americani) i 310 atleti a stelle e strisce iscritti all’olimpiade sono ormai salpati da New York e sono ormai in viaggio, non si può più tornare indietro su una decisione presa al più alto livello e dunque i dirigenti federali nazisti possono fare il loro colpo basso. Comunicano per iscritto alla Bergmann, di avere rinunciato ad uno dei tre posti che spettano alla Germania per il salto in alto, a causa dei suoi scarsi risultati (aveva appena eguagliato il record tedesco) e la lasciano fuori dalla competizione. Ironia della sorte: da quella nave che abbiamo visto, un’altra donna, la campionessa olimpica in carica dei 100 metri dorso, quindi una nuotatrice, subisce l’esclusione ma per tutt’altri motivi. Eccola qui, Eleonora Coolman, nessuna discriminazione razziale nei suoi confronti, semplicemente passa i suoi giorni sulla nave degli americani a giocare a dadi coi giornalisti e a tirare l’alba bevendo ogni tipo di alcolico che passa al suo tavolo. All’arrivo al porto di Amburgo il boss del comitato olimpico americano la punisce con l’esclusione. Un appello firmato dalla maggioranza degli atleti americani non la riabilita. Si rifarà commentando l’olimpiade per un giornale e sfoggiando la spilla con la svastica d’argento regalatale a un ricevimento da un gerarca del regime nazista. Ma torniamo alla Bergmann: dopo l’esclusione dalla gara del salto in alto viene addirittura annullato il suo primato in quanto non cittadina tedesca per ragioni razziali, abbandona di nuovo la Germania e si trasferisce in America dove cambierà nome diventando Margaret Lambert.
Questa è Margaret Lambert in una foto recente, lei si dimenticherà volontariamente anche la lingua tedesca, al punto che anche quando, a mo’ di risarcimento, viene invitata nel ’99 in Germania per la cerimonia che intitola a suo nome un centro sportivo, vorrà al suo fianco un interprete. Solo nel 2009, cioè l’anno scorso, gli è stato restituito il record nazionale non omologato dalle autorità sportive tedesche.
Ma torniamo alla gara di salto in alto.
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Come avete visto, la gara viene vinta da un’atleta ungherese Ilona Elek, ironia della sorte, ma meglio sarebbe dire messaggio chiaro del destino, tolta di mezzo l’ebrea Bergmann non vince una tedesca ma una ungherese di razza e religione ebrea. Le due tedesche in gara finiscono una terza Elfriede Kaun e l’altra quarta Dora Ratjen.
Vediamo un salto di questa Dora Ratjen. Dora Ratjenè stata, durante i mesi di allenamento preolimpico, la compagna di stanza della Gretel Bergmann, l’atleta esclusa per motivi razziali. Una strana compagna di stanza, dirà poi la Bergmann, che pretendeva una stanza da bagno solo per sé e si rifiutava di fare la doccia con le altre. Eccola qua, osservatela bene, due anni dopo a Vienna vincerà l’oro agli europei con il record del mondo a 1 e 70. Ma mentre torna dall’Austria, dalla gara, in treno due altre atlete si accorgono che le sta crescendo la barba. La denunciano alla polizia, viene arrestata, privata del titolo, finirà dopo la guerra a lavorare come barista con un nome maschile.
Un caso, il suo, di ermafroditismo. Era stata registrata femmina all’anagrafe, solo qualche anno dopo la sua nascita si accentueranno i caratteri maschili della sua sessualità. Ovviamente tutti pensate a un caso recente e simile, riproposto dalla sudafricana Caster Semenya, lo ricorderete, il caso esplose ai mondiali dello scorso anno proprio a Berlino, tra l’altro, 73 anni dopo quella vicenda. Ma in quella olimpiade del ’36 si ignora un altro caso analogo, eccola qua Stanisława Walasiewicz, nome difficile per questa atleta polacca dell’atletica leggera, trasferitasi sin da piccola a vivere con la famiglia negli Stati Uniti di cui prenderà, però, la cittadinanza solo nel ’47, a guerra finita, ed è meglio conosciuta col nome americano di Stella Walsh. Eccola qua, arriva a Berlino da campionessa olimpica in carica dei 100 metri piani ma si farà battere da una americana. Fa anche il lancio del disco, del giavellotto, salto in lungo. Nel 1980, durante una rapina a un centro commerciale di Cleveland, rimane coinvolta in una sparatoria, raggiunta da un proiettile e uccisa. L’autopsia sul suo cadavere rivela la presenza di normali organi genitali maschili e quindi scopre lì che Stella Walsh in realtà era un uomo. E a proposito di 100 metri l’atleta più atteso e popolare di quella olimpiade è sicuramente questo signore: James Cleveland Owens detto Jesse, perché a scuola, il primo giorno, interrogato dalla maestra, pronuncia solo le iniziali del suo doppio nome, J C, e da allora diventa per tutti Jesse. Corre qui a Berlino quando non ha ancora compiuto 23 anni.
Vediamo la sua gara sui 100 metri.
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Si è detto che le 4 medaglie d’oro conquistate a Berlino da questo atleta di colore finora sono state il miglior schiaffo dato alle teorie naziste della superiorità della razza ariana e in fondo è vero. C’è qualcosa di provvidenziale nella figura di quest’uomo dell’Alabama, discendente da schiavi impegnati nelle piantagioni di cotone. Il padre, contadino mezzadro, lascia il Sud e porta la famiglia a Cleveland nell’Ohio dove a 18 anni nel ’31 Owens sposa la sedicenne Minny Ruth Sullivan, (ecco il momento della benedizione paterna) sua compagna di scuola, da cui l’anno dopo ha una figlia, Gloria. Questa è la casa di famiglia degli Owens nell’Ohio. Quando corre, Owens, ha dunque già una figlia di quattro anni e viene preceduto dalla fama di autentico fenomeno dell’atletica mondiale perché (intanto stiamo vedendo la finale dei 200 metri sempre di Berlino) l’anno precedente, nel Michigan, nonostante una caduta dalle scale poco prima delle gare, nello spazio di tre quarti d’ora Ownes stabilisce 4 record del mondo 100 e 220 yards, le 220 a ostacoli e salto in lungo con 8 e 13 (misura che ci vorrà un quarto di secolo per essere battuta da un altro americano, Boston, nel ’60). La Germania nazista vincerà più di tutte le altre nazioni in quella olimpiade, ma in quello stadio olimpico l’inno tedesco suonerà solo cinque volte, contro le 13 dell’inno americano e quasi sempre sul podio più alto ci sarà un afroamericano.
Ma Jesse Ownes non fa proclami ideologici, anzi nella sua semplicità non ha paura di raccontare verità scomode. Quando qualcuno lo vuole strumentalizzare sottolineando che il Fürer si era rifiutato di stringergli la mano, disarma tutti smentendo tonnellate di articoli di giornale e di saggistica sull’argomento. Scrive nelle sue memorie: quel giorno, dopo essere salito sul podio del vincitore, passai davanti alla tribuna d’onore per rientrare negli spogliatoi. Il cancelliere tedesco mi guardò, si alzò in piedi e mi salutò con un cenno della mano e io feci altrettanto. Più comica la descrizione dell’incontro ravvicinato tra i due dopo la gara di salto in alto, come c’è l’ha raccontata Arturo Maffei, l’italiano che arrivò quarto a quella gara di salto in alto, scusatemi di salto in lungo, stabilendo con 7 e 73 un primato italiano, quello di Maffei, che pensate ha resistito poi per 32 anni. Racconta Maffei: “nel corridoio, sotto la tribuna, quello che portava agli spogliatoi, arrivò da destra il capo dei tedeschi, cioè Hitler, con il suo stato maggiore. Salutò un tedesco, Longer, medaglia d’argento, che era il suo pupillo, poi andò davanti a Ownes e gli fece il saluto a braccio teso, alla maniera nazista. Proprio nel momento in cui l’americano gli stava tendendo la mano per stringergliela. Allora Hitler cambiò e tese lui la mano per stringerla ma intanto Ownes, correggendo il suo primo atteggiamento si era portato la mano alla fronte per il saluto militare. Questione di secondi, le mani, per questo frainteso procedurale non si incontrarono e Hitler passò oltre congratulandosi con gli altri protagonisti della bella gara”. Conclude Maffei: “andò proprio così, alla Ridolini”. Quindi un episodio proprio comico.
Ma lo stesso Ownes racconta un’altra storia interessante: al rientro in patria, dopo le imprese di Berlino, viene accolto, come vedete, trionfalmente a New York con una sfilata ad auto scoperta sulla 6^ Avenue tra due ali di folla, ma nelle sue memorie confida tutta l’amarezza e delusione per non essere stato voluto alla Casa Bianca, dove il Presidente degli Stati Uniti si rifiuta di riceverlo. Perché? Lo capiamo da queste confuse immagini dei notiziari americani dell’epoca: Il Presidente Franklin Delano Roosewelt sta votando. Si era infatti in campagna elettorale, si votava in settimane diverse a secondo degli stati e Roosewelt voleva farsi rieleggere. Per guadagnarsi il consenso degli stati del Sud, dove la segregazione razziale verso i neri era profondissima, si era ben guardato da una mossa potenzialmente impopolare, quale farsi ritrarre accanto a Jesse Ownes.
Quello – ha ricordato Ownes – mi ha ferito molto più che la mancata stretta di mano di Hitler.
Insomma il successo di Ownes aveva spiazzato i nazisti, tanto quanto una buona fetta dell’opinione pubblica americana, a riprova che c’era sì un abisso di sistema politico tra la democrazia americana e la dittatura nazista, ma forse a livello culturale le differenze non erano poi così nette. Basta qualche foto per capire il peso della segregazione razziale della società americana, non solo del Sud. Vedete, alla fontana bisognava andare separati, così come al cesso e così sui bus c’erano due ingressi, uno per i negri e l’altro per i bianchi, così come nelle sale d’aspetto che erano separate, così nelle scuole si era separati e così nei cinema, vedete. La discriminazione dei neri, nei luoghi pubblici e sui trasporti, nel voto, nell’accesso all’università, all’esercito, non era dunque diversa da quella per gli ebrei nella Germania nazista. Anzi, anche altre popolazioni erano toccate da questa sorta di apartheid: un gruppo isolato di immigrati giapponesi, principalmente agricoltori, arrivò negli Stati Uniti nei primi 30 anni del ’900, arrivando a creare in California una comunità di 245.000 persone e suscitando le reazioni politiche di alcuni stati americani che introdussero delle leggi discriminatorie nei confronti della popolazione di origine asiatica, on il consenso dell’opinione pubblica infastidita dal successo economico di questa intraprendente comunità e lo intuiamo da queste foto: casa vietata ai giapponesi. E nei negozi qui dicono I’m in America…
L’attacco militare giapponese alla base americana di Pearl Harbour nelle isole Haway, nel ’41 provocò la reclusione in campi di concentramento di almeno 100.000 persone di origine asiatica, giapponesi in prevalenza cittadini americani a tutti gli effetti, rei di potenziale minaccia alla sicurezza nazionale per via della loro origine.
Questo è il campo di concentramento di Manzanar e questo è l’interno di una baracca.
Cambiamo scenario e andiamo alla seconda parte. La diffidenza e la discriminazione compongono un substrato comune ad Europa ed America a prescindere dal sistema politico in uso, spesso poi finiscono per fungere per copertura o da pretesto per altre situazioni, come vediamo da questa vicenda che finisce per coinvolgere indirettamente anche Jesse Ownes e denunciata qualche anno fa da questo signore. Questo signore si chiama Marty Glickman, per una ventina d’anni nel dopoguerra è stato radiocronista prima e telecronista poi delle squadre di football e di quelle di basket. Per capire la sua denuncia dobbiamo fare un passo indietro. Come si stabilisce in America, tutt’oggi, chi deve andare alle olimpiadi? Attraverso una prova che si chiama trials e che nell’atletica ha luogo tre settimane prima del debutto olimpico. Bene, succede che nello stadio Downing, nuovo di zecca, nell’isola di Randall vicino a Manhattan, ci siano i trials anche dei 100 metri.
Vediamo l’immagine di quei trials, ricordiamo che i primi tre avevano diritto di difendere i colori statunitensi nella gara di Berlino, quindi i primi tre vanno di diritto a fare i 100 metri. Non c’è ancora il fotofinish e in un primo momento la classifica ufficiale è indiscutibile per i primi due piazzati, ma comincia il giallo su chi è arrivato terzo. (Sapete che non si poteva fare il fermo immagine come lo facciamo noi adesso, perché le immagini andavano sviluppate in pellicola e quindi erano disponibili dopo molti giorni). Inizialmente al terzo posto viene classificato proprio Marty Glickman, il signore che abbiamo visto prima in foto, e che appartiene al New York, ha la maglia nera lo vedete, ma poi la classifica ufficiale viene cambiata e Glickman finisce addirittura quinto. Si comincia a vociferare che la classifica finale sia stata redatta sotto le pressioni dell’allenatore, che in tal modo avrebbe voluto favorire i suoi uomini californiani. Dopo altre traversie e siluramenti da parte degli allenatori, Glickman denuncerà: “il potente presidente del comitato olimpico statunitense faceva parte del movimento politico First America, che proponeva una politica isolazionista ed aveva simpatie per il nazismo. Dello stesso movimento faceva parte anche il vice-responsabile del settore velocità che, come abbiamo visto, era proprio l’allenatore dei due californiani scelti.
Quindi sia il presidente che il vice-tecnico per interessi personali, uniti a convinzioni politiche, fecero pressioni sull’allenatore per escludere noi due dalla staffetta. Infatti sia io che Stoller eravamo gli unici due ebrei della delegazione americana”.
Questa è la versione di Glickman. Per la cronaca, come stiamo per vedere, la staffetta americana vince la medaglia d’oro con 39 e 8 davanti alla sorprendente formazione italiana e alla Germania. Quello che non si vede è che la temibile squadra olandese viene squalificata perché in un cambio di staffetta cade il testimone e chi lo fa cadere è questo atleta che vediamo nella foto. Si chiama Martinus Osendarp, è il bianco più veloce, nella finale dei 100 metri conquista la medaglia di bronzo dietro i 2 americani Owens e Metcalfe ed è bronzo anche sui 200 metri. Lo vedete sul podio. Bene questo signore, qualche anno dopo aderisce al partito nazifascista olandese e durante l’occupazione tedesca si arruola nel commando delle squadre speciali naziste, le SS, che sfruttano la sua velocità di corsa per gli inseguimenti nelle strade di Amsterdam ai membri della resistenza. Verrà arrestato alla fine delle guerra, condannato a 12 anni per il sequestro di 26 persone, 10 delle quali non sono state più trovate. Sconterà la pena fino al ’52 quando, su pressione del capo dello Sport olandese, viene mandato a lavorare nelle miniere. “Ho solo eseguito ordini” – ripeterà in successive interviste da uomo libero, nessun pentimento.
Vediamo quest’altra impressionante storia.
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La fortissima staffetta tedesca, che in batteria aveva stabilito il nuovo record del mondo con 46 e 4, arriva con 8 metri di vantaggio all’ultimo cambio, ma al momento del passaggio tra Marie Dollinger a Ilse Dörffeldt il testimone cade e le americane vincono. Tra le americane che vincono questa staffetta c’è questa donna, Elisabeth Betty Robinson, è un monumento per l’atletica mondiale. Per lo sport spunta come un fungo: una mattina di fine inverno del ’28, all’età di 16 anni, mentre va a scuola rischia di perdere il treno che ha già iniziato la sua corsa. Con uno scatto prodigioso, riesce a saltare sul treno in corsa. Affacciata al finestrino c’è un insegnate della sua scuola che nel corridoio dell’istituto le fa un test cronometrato. Pensate, corre la sua prima gara all’aperto appena quattro mesi prima delle olimpiadi del ’28 e già al debutto stabilisce il nuovo primato del mondo. Non sorprenda questa precocità, solo in quell’anno vengono ammesse le donne alle olimpiadi per cui il reclutamento ha poca storia. La Robinson viene spedita sulla nave per Amsterdam con la delegazione americana, anche se ha corso solo 3 gare ufficiali nella sua vita.
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Bene, cosa c’entra questo video con la storia di Elisabeth Robinson che vi stavo raccontando?
In questo clima culturale, che è ben documentato da questo documentario, dai film che giravano nelle sale cinematografiche inneggiando all’eliminazione di chi era portatore di handicap, Elisabeth Robinson, che vince nella gara dei 100 mt. alle Olimpiadi di Amsterdam e viene osannata dai media americani che le organizzano delle parate nelle principali città americane, mentre sta tornando a casa su un biplano pilotato dal cugino, si schianta vicino a Chicago. I primi soccorritori pensano che sia morta, la portano all’obitorio; in realtà, la donna è ancora viva, anche se in gravissime condizioni, con una commozione cerebrale, un braccio schiacciato, una gamba rotta. Rimane in coma sette settimane, le occorrono due anni di riabilitazione prima di poter tornare a camminare. Eppure Elisabeth Robinson vuole a tutti i costi tornare a correre, ma non può più flettere completamente il ginocchio sinistro. Questo le impedisce di accovacciarsi ai blocchi di partenza e deve così dare l’addio alle gare di sprint; però c’è una gara nello sprint dove si può correre anche senza flettere il ginocchio: è la staffetta.
Solo la prima frazionista deve flettere il ginocchio ai blocchi di partenza, le altre ricevono il testimone in piedi. Dunque Elisabeth Robinson va a quella Olimpiade da portatrice di handicap e vince quella staffetta 4×100.
Mi piace pensare al risvolto culturale, al messaggio che il destino ha voluto dare con l’esito di quella gara nell’Olimpiade che doveva celebrare il mito nazista della razza perfetta; in quel clima culturale che abbiamo visto, di odio nei confronti di chi era diversamente abile, la Germania viene sconfitta da una staffetta in cui a correre c’è una portatrice di handicap. Attenzione: le teorie sulla selezione eugenetica che abbiamo visto crudelmente emesse da questo video, sono state applicate dai medici nazisti, ma erano nate nella civile America.
Molti stati americani approvano leggi per la sterilizzazione eugenetica mediante vasectomia, per malati mentali, delinquenti recidivi, alcolizzati, appartenenti a gruppi etnici ritenuti pericolosi per la razza bianca; sono almeno quindici gli stati americani che nei primi anni del ’900 fanno questo; ma pensate, in Europa sono andati avanti fino al 1976, pensate, in Svezia sono stati sterilizzati, fino agli anni ’70, 230mila tra handicappati, malati mentali, a-sociali, persone cioè socialmente marginali. Anche delinquenti, minoranze etniche, indigeni di razza mista, prostitute, furono sottoposti a questo trattamento, sia in America che in Europa, imputati di pesare sull’assistenza pubblica e di essere portatori di malattie o stili di vita dagli alti costi sociali. Ma non scandalizziamoci: ai nostri giorni, nei nostri civili e democratici paesi, l’aborto o la selezione eugenetica degli embrioni, quale immane strage a livello numerico stanno provocando? Altro che gli 80mila di Hitler. Guardiamo questa immagine: chi è questo bambino? Lo riconoscete? È Hitler, esatto. Anche lui è stato un essere fragile e indifeso come tutti i bambini e il destino, con una delle sue solite fantasiose rivincite, ha fatto sì che la sua casa natale in Austria, a Braunau sul fiume Inn, per un certo periodo in tempi recenti, funzionasse come sede di un’organizzazione per l’assistenza ai disabili. Abbandoniamo ora l’atletica e lo stadio olimpico per spostarci a Doeberitz, vicino al villaggio olimpico, per un’altra disciplina.
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Questa è una prova di cross nel concorso completo a squadre di equitazione, dove la Germania conquistò la medaglia d’oro. La squadra tedesca vince anche la gara di salto a ostacoli e fra i tre che salgono sul podio, c’è un ufficiale dell’esercito che da lì a pochi anni sarà due volte involontario protagonista di due episodi che hanno fatto storia.
Questo è l’attore americano Tom Hollander e in questa foto impersonifica, nel film Walkiria, il colonnello Hainz Brandt; proprio lui è la medaglia d’oro della gara di salto a ostacoli.
Dalla storia dello sport entra in quella con la S maiuscola, quando nel 1943, durante una visita di Hitler sul fronte russo a Smolensk, un generale – Henning von Tresckow -, all’interno di una confezione di due bottiglie di liquore Cointreau, piazza un ordigno che avrebbe dovuto esplodere in volo e uccidere Hitler. Le bottiglie vengono omaggiate proprio a un ignaro Heinz Brandt con l’incarico di consegnarle a un colonnello amico del von Tresckow, come pagamento di una scommessa persa.
Vedete il momento della consegna…della cassa, appunto a questa medaglia d’oro, che era stato medaglia d’oro in quella disciplina.
Bèh, ma il detonatore bloccato da una patina di ghiaccio, formatosi per la bassa temperatura della stiva del velivolo, non funziona e nessuno si accorge dell’attentato. Ben diverso è quello che succede nel luglio del ’44 ad opera del colonnello Claus von Stauffenberg: in questo caso la medaglia d’oro olimpica Heinz Brandt gioca, seppure ancora involontariamente, una parte decisiva.
Vediamo l’episodio di von Stauffenberg interpretato da Tom Cruise.
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Bene, quell’attentato a Hitler provoca quattro morti, nove feriti gravi, Hitler sarà tra gli undici feriti lievi e si salverà, provocando il fallimento del colpo di stato militare ordito da von Stauffenberg e da un gruppo di ufficiali dell’esercito tedesco conosciuto appunto come “operazione Walkiria”. L’attentato avviene nel giorno in cui è prevista la visita di Mussolini a Berlino. Mentre è al potere, Hitler subisce quindici attentati orditi da cittadini o militari tedeschi per farlo morire, tutti falliti.
In questo caso Hitler viene salvato da tre imprevisti:
la decisione di spostare la riunione da un bunker sotterraneo, dove gli effetti dell’esplosione per la compressione dell’aria sarebbero stati ben più devastanti, a una baracca a pianterreno;
2) dalla decisione di anticipare di mezz’ora la riunione, per cui von Stauffenberg riesce a preparare solo uno dei due chili di esplosivo;
3) soprattutto – e lo vediamo da questo grafico – dal fatto che nei pochi minuti intercorsi tra l’uscita dalla riunione di von Stauffenberg e il momento dell’esplosione, la medaglia d’oro olimpica, il colonnello Heinz Brandt, segnalato col numero 4, per avvicinarsi al suo generale Adolf Heusinger, contrassegnato col numero 2 e al Fuehrer che ha il numero 1, sposta, allontanandola come avete visto, la valigetta di von Stauffenberg contenente l’esplosivo.
Questo spostamento farà sì che lo scoppio abbia meno efficacia sul corpo di Hitler, protetto anche dal massiccio tavolo in legno di quercia.
In seguito all’esplosione Heinz Brandt viene amputato di una gamba e muore il giorno dopo all’ospedale; senza saperlo ha salvato la vita a Hitler che comunque morirà suicida nove mesi più tardi.
Ma non varrebbe la pena raccontare quell’Olimpiade se non ci fosse di mezzo un’altra storia, l’ultima che vi voglio proporre oggi, quella che chiama in causa questo ragazzo di 23 anni nato a Lipsia ma residente ad Amburgo. Chi è? Ce lo racconta lo stesso Jesse Owens nella sua autobiografia: “Quando venne il momento per le prove del salto in lungo – questo è Jesse Owens che racconta – allibì nel vedere un ragazzo altissimo che saltava quasi 8 mt. in allenamento. Seppi che era un tedesco, Lutz Long e mi dissero che Hitler l’aveva tenuto in serbo per la vittoria nella gara di salto. Pensai che se Long avesse vinto, questo sarebbe stato un altro appiglio alla teoria nazista della superiorità della razza germanica.
Mi ritirai un poco in disparte, sferrai un calcio di rabbia al terreno, a un tratto mi sentii una mano sulle spalle; mi volsi e mi trovai a guardare negli occhi azzurri e affabili, l’alto campione tedesco di salto in lungo. Si era qualificato per le finali alla prima prova; mi diede una forte stretta di mano”.
Jesse Owens è nervoso in questo momento, perché le qualificazioni del salto in lungo coincidono con le batterie dei 200 mt. piani che lui corre. Distratto dalla contemporaneità dei due eventi, Owens rimedia due salti nulli nei primi due salti di prova; il primo addirittura pensa che sia ancora un allenamento; se avesse sbagliato anche il terzo e ultimo salto, sarebbe stato eliminato dalla finale; proprio lui che deteneva il record del mondo. Chiunque avrebbe tirato un sospiro di sollievo nel vedere estromesso l’avversario più temuto, ma Lutz Long non era uno sportivo qualunque e masticando un po’ di inglese si avvicina di nuovo al campione dell’Alabama suggerendogli di staccare nel salto, almeno una ventina di centimetri prima della linea di battuta. E per aiutarlo a realizzare questa strategia di estrema prudenza, appoggia una maglietta a fianco della pedana all’altezza del punto ideale di stacco che lui suggerisce a Owens. Owens riesce col suo ultimo salto a qualificarsi per la finale. Vediamo come va a finire.
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Commenta lo stesso Owens con queste parole: “Nel suo ultimo salto Lutz aveva superato il suo stesso primato e questo mi spinse ad ottenere il massimo delle mie possibilità. Mi ricordo che nell’istante in cui toccai terra dopo il mio salto finale, il salto che stabilì il primato olimpico – c’è un errore nella traduzione italiana – di 8.5, Lutz mi fu a fianco per congratularsi con me. Nonostante Hitler ci fulminasse con gli occhi dalla tribuna a non più di un centinaio di metri, Lutz mi strinse fortemente la mano e la sua non era certo la stretta di mano di uno che vi sorride con la morte nel cuore. Si potrebbero fondere tutte le medaglie e le coppe d’oro che ho e non servirebbero a placcare in oro a 24 carati l’amicizia che sentii per Lutz Long in quel momento”.
La sorte dei due dopo quella gara sarà molto diversa; la carriera agonistica di Owens dura pochissimo; ha bisogno di sfruttare economicamente la sua enorme popolarità e diventa un fenomeno da baraccone gareggiando per denaro: lo vediamo contro cavalli, veicoli a motore e altre attrazioni da spettacolo simili.
Naturalmente viene subito espulso dall’associazione Atleti Dilettanti, e nel giro di un anno, dopo Berlino, la sua carriera di atleta è già finita.
Darà il nome a una catena di lavanderie a secco che, però, nel giro di qualche anno falliscono lasciandolo pieno di debiti. Riuscirà comunque a risollevarsi, anche economicamente.
Il suo rivale nel salto in lungo, Lutz Long, nel frattempo è diventato avvocato, si sposa nel ’41, e l’anno dopo vede nascere suo figlio.
Ma poche settimane dopo il lieto evento gli arriva, nella casa di Amburgo, la cartolina-precetto, e deve arruolarsi in fanteria con il grado di Sergente Maggiore.
Un anno più tardi, nell’Aprile ’43, viene destinato a una divisione, la Goering, esattamente in Sicilia, a contrastare il previsto sbarco degli alleati.
La sua zona di azione è nel catanese. Quei mesi di guerra tra la Sicilia e il sud dell’Italia, sono stati documentati, come sapete, dalle immagini dei cineoperatori al seguito delle truppe americane, diventate fra l’altro un famoso film-documentario di John Huston.
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Questi erano i superstiti della battaglia di San Pietro, nella valle dell’Iri, al confine tra Lazio, Campania e Molise.
In un altro San Pietro, San Pietro Clarenza, nel catanese, nell’ospedale da campo allestito dalle truppe inglesi, arriva il corpo di Lutz Long ormai privo di vita, quattro giorni dopo lo sbarco in Sicilia degli alleati.
Subisce la stessa sorte di migliaia di suoi connazionali, ma anche di italiani, americani, inglesi e canadesi che in quei giorni, in seguito allo sbarco in Sicilia, lasciano sul campo molti morti (molti anche per le errate valutazioni dei loro comandi), seppelliti in fosse comuni nel cimitero di Ponte Olivo vicino a Gela.
Negli anni ’50 la Croce Rossa internazionale ritrova i resti di Lutz Long, questo saltatore in lungo tedesco, e li trasferisce nel cimitero militare germanico di Motta, Sant’Anastasìa, dove sono sepolti 4500 soldati tedeschi morti in Sicilia. Tra cui anche Lutz Long.
Eccola qui la sua lapide.
Pensate, nel dopoguerra Owens rivela di aver ricevuto una lettera da Lutz Long prima di morire e la legge, recita così: “Mio caro amico Jesse, dove mi trovo sembra che non vi sia null’altro se non sabbia e sangue. Io non ho paura per me, ma per mia moglie e il mio bambino, che non ho mai realmente conosciuto e lui non ha mai realmente conosciuto suo padre. Il mio cuore mi dice che questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo. Se così dovesse essere, ti chiedo questo: quando la guerra sarà finita vai in Germania a trovare mio figlio e raccontagli di suo padre, e raccontagli anche che neppure la guerra è mai riuscita a rompere la nostra amicizia. Tuo fratello Lutz”.
Nel ’51, al seguito della tournè europea dei giocatori di basket, o meglio dei giocolieri del basket, gli Harlem Glob Trotters, Owens arriva ad Amburgo e va a cercare il figlio di Long.
Eccolo in un’immagine degli anni ’60.
Owens va anche al matrimonio del figlio del suo rivale, e allo stadio di Berlino rivive con lui il racconto di quel 4 Agosto del ’36, dove due ragazzi che non si erano mai visti, divisi da una bandiera, da una lingua, da un sistema politico, da una ideologia, da una competizione, diventano amici solo perché la loro umanità prevale con semplicità su tutto il resto.
Non siamo di fronte a eroi o a martiri laici che fanno qualcosa di eccezionale, di eclatante, restano anzi quello che sono, figli del loro tempo: vedete Owens sul podio fa il saluto militare, Lutz Long fa il saluto nazista.
Non ci sono clamorosi gesti di protesta, non ci sono sul quel podio i pugni levati al cielo alla Black Power come successe alle Olimpiadi di Città del Messico del ’68 da questi due atleti americani di colore.
Ma la sfida, che involontariamente lanciano ai limiti di quella cultura che li voleva non solo avversari ma nemici di razza e di idee, la sfida è la loro amicizia: aver interpretato cioè quell’evento da uomini leali con le esigenze più profonde e autentiche della loro natura umana; pur dentro l’agonismo di una competizione sportiva, vivono quell’evento olimpico non come occasione di sopraffazione dell’altro, ma come spunto di incontro e arricchimento vicendevole.
Tanto che sfida il tempo: vedete le nipoti Marlene e Julia Vanessa Long: a distanza di tre quarti di secolo quell’amicizia continua.
Di quell’Olimpiade più che le medaglie e i record, è questo che ci commuove, è questo che ricordiamo, è questo che resta: che insegnamento questa amicizia.
Václav Havel, quando veniva internato nei manicomi della Cecoslovacchia comunista per dissenso, definiva come “il potere dei senza potere che mette in crisi ogni potere” la lealtà con noi stessi, con il nostro cuore. Nessuno può impedirci questa lealtà, che mette in crisi non solo ogni potere ma anche le nostre meschinità, perché ci costringe a non accontentarci di niente di meno e a misurare l’asticella del nostro record non sui nostri limiti ma sul destino per cui siamo fatti.
Ogni giorno, ogni istante.
La replica di questo incontro la faremo al Villaggio Ragazzi mercoledì alle 18,00 e ricordo che martedì e giovedì, sempre alle 15,00, farò vedere altre storie.
Grazie.
(Trascrizione non rivista dai relatori)