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STORIE DI MANAGER, STORIE DI UOMINI E DI DONNE
Paolo Scaroni, Deputy Chairmain di Rothschild e Presidente AC Milan; Clara Gaymard, Co-founder Raise e Presidente Womens Forum. Introduce Samuele Rosa, Senior Economist al Fondo Monetario Internazionale.
Storie di manager, storie di uomini e di donne
Paolo Scaroni, Deputy Chairmain di Rothschild e Presidente AC Milan; Clara Gaymard, Co-founder Raise e Presidente Womens Forum. Introduce Samuele Rosa, Senior Economist al Fondo Monetario Internazionale.
SAMUELE ROSA:
Buon pomeriggio a tutti e grazie per essere presenti in grande numero a questo incontro che, secondo me, si rivelerà molto interessante. Devo dire all’inizio che quello che si dirà, le cose che impareremo, ascolteremo, i commenti e i giudizi che cercheremo di condividere, non riflettono l’istituzione per cui lavoro che mi ha gentilmente permesso di condurre questo dibattito. Io sono qua anima e cuore come Samuele Rosa. Voglio dare un contesto: abbiamo discusso anche ieri, all’incontro delle sette, con Zamagni, con il presidente di Legambiente, oggi parleremo di manager, uomini e donne, di storie: le imprese e il ruolo che le imprese e l’economia hanno nella società. Va capito che questo ruolo sta molto cambiando per una serie di dinamiche fortissime che attraversano la società globale. Abbiamo sotto gli occhi la sfida ambientalista e il fatto che in questi giorni una parte dell’Amazzonia stia bruciando. C’è una sfida importante anche alla democrazia e ci sono grandi incertezze riguardo al ruolo delle persone nella società. Pochi giorni fa, duecento aziende americane del Round Table Business Forum hanno pubblicato un documento in cui hanno detto: l’impresa – e sono imprese tra le prime quotate, sono le prime duecento, le azioni di queste imprese fanno parte delle borse mondiali – l’impresa non può solo riferirsi al profitto di brevissimo periodo. Per creare valore sostenibile, l’impresa deve preoccuparsi al suo interno, uno, delle condizioni di lavoro, due, del rapporto con l’ambiente, tre, con il territorio e quattro, dei portatori di interesse. É una cosa abbastanza nuova. Quindi, una visione più stakeholder che solo shareholder. Non hanno detto che il profitto non è importante, hanno detto che ci sono tanti criteri e quindi il manager deve gestirsi, di fronte ad una pluralità di obiettivi, in maniera oculata e al tempo stesso organica. E quindi, siamo qua adesso per parlarne: è un argomento impellente che sta crescendo di importanza e al tempo stesso di complessità, il ruolo delle imprese e dell’economia nella società e dell’uomo in essa. Siamo fortunati a parlarne con due relatori di grandissimo valore: alla mia sinistra, Lejeune Gaymard Clara, che è una figura molto importante del panorama francese e globale, come imprenditrice di alto livello e co-fondatrice di Raise, un fondo di investimento molto interessante che si occupa di progetti che hanno un alto dividendo sociale, e rispetto dell’ecosistema. Nonostante questo, è un fondo che risale al 2013 e ha ottime performance, e quindi dimostra l’importanza di collegare l’equità di tipo sociale anche all’ambiente; è collegato a performance importanti ed è membro del consiglio di amministrazione di diverse società. Di Paolo, che è qua alla mia sinistra, parliamo fra un attimo. Prima di entrare, di fondare questo fondo di investimento, Clara è stata presidente di General Electric in Francia. Prima di essere una top manager, ha avuto carriera importante nell’amministrazione francese e ha rappresentato come ambasciatrice la Francia in Egitto. Quindi, una carriera molto variegata che nasce dalla pubblica amministrazione, poi si confronta con imprese di altissimo livello e alla fine abbraccia appunto l’iniziazione di questo fondo di investimento molto particolare di cui parleremo. Paolo Scaroni: non penso che nel suo caso ci sia bisogno di dire tanto. Paolo ha sviluppato la sua carriera in diversi continenti, in diverse lingue, in diversi settori, dal vetro all’Eni all’Enel. Sapete che ha avuto questa particolarissima carriera, prima come amministratore delegato dell’Enel e poi dell’Eni, le due gambe di produzione e distribuzione di energia elettrica in un Paese che comunque è uno dei primi otto al mondo. Poi, per chi ama il calcio, penso che qua ce ne siano tanti, lui è presidente e amministratore delegato del Milan, è nel Cda del Milan e anche vicepresidente della Banca d’affari Rothschild. Quindi, anche Paolo ha lavorato in settori e continenti molto diversi, dall’impresa industriale alle imprese di produzione e distribuzione di energie elettriche di un Paese importantissimo in questo settore come l’Italia, alla Banca d’affari e adesso anche all’industria sportiva. Abbiamo un italiano di cui essere fieri, che ha portato le eccellenze italiane in giro per il mondo per le più grandi aziende a livello globale. Ci sono tante cose, il loro curriculum è enorme, dobbiamo per forza sintetizzare. Direi di cominciare. Innanzitutto, volevo dire che verso la fine del tempo che ci è dato, quando manca un quarto d’ora, vorrei, sulla base delle considerazioni che ci verranno offerte, che liberamente chiunque volesse fare qualche domanda venisse: ci si aiuterà con il personale che sostiene il Meeting, vi sarà passato il microfono, raccoglieremo tre o quattro domande e lasceremo che i nostri relatori rispondano. È veramente un grande piacere avervi qui con noi. Paolo, come descriveresti in essenza il percorso che ti ha portato a ricoprire questi incarichi così prestigiosi? Un italiano nel mondo di cui essere fieri. Non voglio una lista, voglio qualche punto importante che secondo te ha dato una svolta e un incremento alla tua carriera.
PAOLO SCARONI:
Dunque, non voglio raccontarvi la storia della mia vita perché è lunga e noiosa, ma estraendo dalla storia della mia vita cercherei di dire quali sono gli ingredienti per una ricetta di successo nel management. Quindi, io parlo di management, di grandi aziende: come fa uno a percorrere tutta la scala per arrivare in alto? Allora, primo punto, distinguerei, per cercare di dare un po’ d’ordine a questo tema così vasto, tra il percorso professionale e quello umano. Il percorso professionale è molto semplice: bisogna essere eccellenti, frequentare le migliori scuole, parlare le lingue, lavorare mentre si studia, avere un curriculum vitae ricco di esperienze di lavoro. Dico sempre ai giovani che vengono a chiedermi consiglio: primo, guadagna la tua vita, fai quello che vuoi ma devi guadagnare, devi mantenerti perché mantenerti fa bene. Fai quel che vuoi: quindi, un percorso professionale che è fatto di impegno, di scelte, di studio perché, che se ne dica, quando voi andate nelle aziende i top manager sono tutti i primi della classe, vi assicuro che di asini a scuola che arrivano a fare gli amministratori delegati non ne ho mai incontrati. Quindi, bisogna essere bravi studenti, impegnarsi molto, lavorare, vivere esperienze, considerare che ogni passaggio della vita è essenziale per costruire un curriculum vitae che quando uno lo riceve, un potenziale datore di lavoro, dice: «Oibò! Questo è diverso, non è uno dei soliti. Guarda, è riuscito a lavorare mentre faceva l’Università, è stato un campione di tennis, ha qualche cosa che mostra una ricerca dell’eccellenza». Parlo naturalmente di uno studente, poi, quando uno entra nel mondo del lavoro, il primo lavoro deve essere una grande azienda-scuola, cioè deve essere una grande azienda che ti continua la formazione, perché se vai a lavorare alla General Electric, vi assicuro che ti forma, ti prepara, poi puoi fare un salto e andare in un’azienda piccola e media, ma il tuo primo passaggio, la tua prima formazione si fa nelle grandi aziende-scuola. Questo è l’aspetto professionale. Poi c’è l’aspetto umano. Perché voler fare il manager è diverso che voler fare il professionista; se vuoi fare il professionista, quindi, sei un avvocato, un commercialista, un architetto, sei tu che fai le cose e se sei bravo, le fai bene. Quando sei un manager, non fai le cose, le fai fare. Devi gestire delle persone che le fanno. Allora, gestire delle persone a fare qualunque cosa, compreso gestire l’organizzazione del Meeting di Rimini, richiede di avere centinaia o migliaia di persone, nel caso del Meeting di Rimini, motivate, felici di farlo, che capiscono perché lo fanno, che capiscono l’importanza del Meeting visto che siamo al Meeting, ma in un’azienda è la stessa cosa. E questa capacità di motivare, gestire le persone, premiarle o punirle, dire delle cose magari sgradevoli, è un ingrediente fondamentale del management. Se non sai fare questo, non sei un buon manager. Allora, come lo impari? Io credo che bisogna avere un’attitudine di interesse verso gli altri, devi avere un interesse verso le persone. Ogni volta che hai una persona davanti a te, devi guardarla negli occhi e cercare di capire che cosa lo motiva, di che cosa ha bisogno, che cosa è importante per lui. Se hai questa capacità, hai già fatto un passo in avanti notevole. Poi, naturalmente, la pratica conta molto, perché più lo fai più impari, però è essenziale per un manager gestire le persone. È vero in tutto, ricordatevi. La differenza tra una persona motivata e una persona non motivata è gigantesca. Quindi, se uno riesce a costruire un’organizzazione con persone motivate, che vanno al mattino in ufficio belle fresche e contente, pimpanti, il successo è garantito. Se non ha questo, è garantito l’insuccesso. Quindi, questo è l’ingrediente fondamentale.
SAMUELE ROSA:
Grazie mille. Clara. Vicino a me, la figlia di uno dei più importanti genetisti, Jerome Lejeune, che ha anche scoperto la causa della trisomia 21. Io, tra l’altro, per mettere il cuore sul tavolo, ho una figlia con la sindrome di Down, quindi mi commuove avere di fianco la figlia di un uomo che ha dedicato la vita per questi nostri fratellini, ed è anche la madre di nove figli. Io e mia moglie, che ne abbiamo solo sei, siamo pieni di ammirazione. Diceva prima Paolo dell’importanza per un manager di interessarsi alle persone per saperle motivare. E voglio andare su questa tema un po’ più profondamente nella seconda tornata di domande. Adesso chiederei a Clara: per passaggi fondamentali, raccontaci come sei arrivata, tra l’altro partendo dalla pubblica amministrazione – a volte si pensa sia un mondo così diverso – a coprire questi incarichi importanti, come uno dei manager di punta nel tuo Paese. Quali sono stati gli step, quali sono le considerazioni che, guardandoti indietro, dici: «Ecco che cosa è stato fondamentale per me per arrivare dove sono arrivata». Grazie.
CLARA GAYMARD:
Grazie mille, Samuele. Mi dispiace moltissimo non parlare italiano. Ecco un peccato, un errore da parte mia, ma spero che la prossima volta, quando sarò invitata, sarò in grado di parlare italiano per capire perfettamente Paolo. Paolo comunque parla perfettamente francese, sediamo insieme in alcuni Consigli di amministrazione e mi scuso di essere così maleducata e di non parlare la vostra bellissima lingua che adoro. Per rispondere alla domanda, è difficile e facile contemporaneamente rispondere. Prima di tutto, mi diverte: perdonatemi se sorrido quando mi fai la domanda, come ho fatto? Come ho fatto per lavorare e contemporaneamente avere 9 figli? Non so se ti sei posto questa domanda tu stesso, come fai ad avere sei figli? Non sono sicura che mi faresti questa domanda se fossi un uomo. Dopo tutto, la prossima volta, quando vedi un uomo di una famiglia numerosa, prova a fargli la domanda e vedi che cosa ti risponde. Forse è una maniera un po’ provocatoria di rispondere, però la tua domanda è molto giusta e comunque molto importante. Perché? Perché sono profondamente convinta che non ci sia una contrapposizione tra vita personale e vita familiare. Come diceva prima Samuele, non siamo qualcuno di diverso quando siamo al lavoro o quando siamo a casa. O comunque, se siamo diversi vuol dire che c’è qualcosa che non va e il fatto di essere un’unica persona è una cosa che deve esistere sia al lavoro, sia a casa. In breve, quello che volevo dire è che sono convinta che le persone che sono qui in sala e che sono genitori e che hanno figli, e i figli che sono qui e che vorranno in futuro diventare genitori, capiranno quello che voglio dire perché sono cose molto semplici. E cioè, quando hai un bambino di cinque anni e lo devi fare andare a comprare il pane per la prima volta da solo, e deve attraversare la strada per la prima volta da solo per andare a comprare il pane, ovviamente si ha paura, ovviamente sei lì, stai dietro, lo guardi per intervenire se mai succede qualcosa e magari non guarda a destra e a sinistra prima di attraversare la strada. E tu sei lì. Però impari a dare autonomia ai tuoi collaboratori, a non lavorare al posto loro, impari semplicemente a delegare, che è una qualità fondamentale quando vuoi essere un buon manager. Quando a gennaio si pensa alle vacanze dei bambini che hanno due mesi di vacanza e invece tu hai solamente tre settimane, e quindi devi organizzare un soggiorno a Rimini, devi mandarli in colonia, ecc., allora ti fai la domanda: «Chissà dove sarà meglio mandarli in vacanza?». Impari ad anticipare e l’anticipazione è una delle qualità più importanti per essere un buon manager. Devi sempre essere un po’ avanti, devi sempre guardare più avanti degli altri. E impari anche ad organizzare per gli altri, non solamente per te stesso, in maniera tale che gli altri possano sentirsi bene e possano essere felici ed essere felici di lavorare. Quando per la prima volta chiedi a tuo figlio di preparare la tavola, oppure gli fai utilizzare un coltello, oppure lo fai cucinare per la prima volta, accetti che la cosa non sarà perfetta, il risultato non sarà perfetto. Però lo fai crescere e gli dai la possibilità di apprendere qualcosa che all’inizio non saprà fare bene, ma imparerà dal proprio errore. E quando sei manager, è estremamente difficile accettare il diritto all’errore, perché in una impresa c’è una responsabilità, devi dare dei prodotti ben fatti, dei servizi ben fatti ai clienti. Tuttavia, per questi collaboratori, bisogna accettare il fatto che non faranno bene subito la prima volta e la lista, l’elenco è estremamente lungo. Potrei chiudere con qualcosa che forse è la cosa più importante, la nostra vita nel quotidiano: un dolore, un lutto nell’esistenza, perché tutti abbiamo un momento difficile, una separazione lunga, oppure incomprensioni in famiglia, divisioni, opposizioni a livello familiare. Sono comunque momenti carichi di emotività, quando riesci a gestirli non pensando a te stessa, a quello che senti ma al modo in cui si può trasmettere e comunicare il meglio possibile quello che ti accade ai propri cari. Faccio un esempio classico, che comunque è sempre molto triste, la morte di un genitore oppure di un nonno in una famiglia: come accompagni i tuoi cari, come li aiuti a vivere questa prova? E così facendo, impari ad attraversare e superare le crisi in una impresa, che forse sono anche meno gravi o comunque meno importanti di queste cose che ci toccano personalmente, e comunque sono prove dell’esistenza. Però, si impara a fare in modo che le persone che ti circondano, i tuoi collaboratori, riescano a superare la crisi sapendo cosa fare e come farlo, e come tutti insieme sia possibile uscire dalla crisi, perché è come se si mostrasse loro un cammino, e questo cammino non sei tu ma è la tua direzione, la tua visione. Quindi, grazie, Samuele, di avere fatto questa domanda, anche se mi disturba un pochino perché la si fa sempre a me e non a mio marito. Ma credo che fondamentalmente essere genitori sia uno strumento straordinario per essere un buon dirigente, un ottimo dirigente e avere una apertura al mondo e una comprensione per gli altri. Adesso, per non essere troppo lunga, vorrei concludere. Bisogna anche capire una cosa che secondo me è fondamentale, e cioè che sicuramente siamo la prima generazione che deve imparare dai propri figli. Ovviamente, insegniamo tantissimo ai nostri bambini, ma loro ci insegnano il mondo di oggi. Prima di tutto, perché capiscono il digitale molto meglio di noi, ma soprattutto perché hanno una coscienza molto più chiara di noi del futuro del pianeta e perché hanno un senso di solidarietà fortemente sviluppato. E anche dell’ascolto nel confronto con gli altri, che è molto maggiore rispetto al nostro, che forse abbiamo perso nel corso degli anni, perdendo la nostra freschezza e la nostra gioventù.
SAMUELE ROSA:
Grazie mille perché, se domani sei qua e mi chiedi come essere padre di sei figli ti aiuta a fare un buon lavoro, posso riferirmi a tutto quello che hai detto: l’ho imparato ascoltandoti, ma è uguale.
CLARA GAYMARD:
Sono io che ti intervisto.
SAMUELE ROSA:
Vedete che i nostri relatori mettono sul tavolo cose molto dense. Paolo parlava del fatto che un manager deve comunque conoscere, valorizzare, entrare – non lo ha detto in questi termini – in empatia con i suoi dipendenti per poterli mettere a frutto, per coinvolgerli. Clara ci ha detto che il manager è una persona e quindi che quello che uno impara nella vita è fondamentale per l’assunzione di responsabilità che poi viene ad avere nel suo lavoro. E questo mi porta al secondo tema di oggi, che è quello dell’impresa. Ribadisco quello che si era già accennato ieri, checché se ne dica secondo una vulgata molto semplificatoria, l’impresa non è solo lì per fare profitto, l’impresa ha una responsabilità sociale e questa responsabilità sociale sta crescendo. Per due motivi: uno, perché la nuova generazione, come diceva Clara, è molto più cosciente e questo è un modo positivo di vedere che siamo tutti parte di una casa comune e siamo collegati. Due, perché vi sono sfide enormi, la diseguaglianza, la tutela dell’ambiente, il rapporto tra azienda e territorio e quindi la capacità che l’azienda veramente ha di creare valore ha rilevanza anche dal punto di vista economico. Quindi, la mia domanda adesso per Paolo è questa: ma l’azienda è solo lì per far profitto o può prendersi cura della casa comune? Dunque, affrontare questo tema, cioè l’azienda che fa profitto o che ha delle finalità sociali, da italiano è sempre una impresa un po’ complicata, perché io sono abbastanza vecchio da ricordarmi l’epoca delle Partecipazioni statali in Italia, in cui si creavano carrozzoni che perdevano soldi, che venivano ripianati dai contribuenti per creare posti di lavoro, sviluppo, e così via. Quindi, quando si entra nella logica di dire, no, ma l’impresa non necessariamente deve fare profitto perché deve fare tante altre cose, comincio a sentirmi la pelle d’oca perché l’ho vissuta tutta l’epoca in cui si facevano questi discorsi fino in fondo. Ed è per questo che mi piace prendere una frase del creatore della corporative government del mondo, un signore inglese che si chiama Edward Cadbury, che è morto qualche anno fa e ha scritto il primo libro di corporative government. A un certo punto, affrontando questo tema, lui dice: “L’impresa ha il permesso, ha una licenza da parte della collettività, di esercitare il suo lavoro, occupare dei terreni, creare del traffico, fare tante cose fastidiose, perché alla fine sono cose che pesano sulla collettività per fare dei profitti e questa licenza ce l’ha nella misura in cui i benefici che lei dà alla collettività in cui opera sono superiori ai malefici che la sua presenza causa”. Quindi, c’è questa idea di dire: ti do il permesso di fare soldi nella misura in cui assumi persone, le paghi bene, rispetti l’ambiente, fai tutta una serie di cose che dovunque tu sei presente – immaginiamo un’azienda che abbia 30, 40 stabilimenti sparpagliati nel mondo -, i benefici che crei devono essere superiori al fastidio della tua presenza. Edward Cadbury fa un capitolo su questo tema e a me è piaciuto molto perché, invece di dire che non hai solo il profitto, dice una cosa ancora più importante: ti consento di fare profitto solo se tu soddisfi tutte queste altre esigenze che i tuoi share-holders, che le persone intorno a te, ti pongono. Quindi, questo dilemma di dire fin dove arrivo nell’interesse dello share-holder, non c’è nemmeno. La realtà è che l’interesse dello share-holder, quindi dell’azionista, è anche l’interesse di non vedersi revocata la licenza, perché se ti revocano la licenza non è certo nell’interesse dello share-holder. È sempre nell’interesse dello shareholder che la tua presenza sia gradita, apprezzata e non posta in discussione. Ed è quello che sta avvenendo di fatto. Molte imprese che non rispettano l’ambiente, che non rispettano le comunità in cui operano, hanno problemi drammatici nel sopravvivere. E quindi, le due cose vanno insieme, non sono in contraddizione.
SAMUELE ROSA:
Grazie mille. Questo mi porta a chiedere a Clara: hai fondato un fondo di investimento, Raise, che se non sbaglio ha una gestione di circa un miliardo di euro, più o meno, che si dà come scopo quello di sostenere start up e altri investimenti che abbiano comunque un alto ritorno sociale e di rispetto dell’ambiente. E uno direbbe: «Beh, se l’impresa si pone il problema degli investimenti, investono imprese che sono comunque votate al profitto, non importa in quale modo. Ma se tu cominci a complicarti la vita dandoti anche obiettivi di tipo sociale, le cose devono andare sicuramente male». Invece, si dimostra nel tuo caso che le cose vanno anche molto bene, e quindi, come hai fatto? La seconda domanda: quello che nasceva dal modello fordista diceva che il manager doveva semplicemente dire ai suoi sottoposti cosa eseguire. Dice anche qualcosa di un pochettino meno simpatico, di mettere lì uno scimmione che incute un po’ di paura perché tutti si faccia quello che si deve fare, eseguendo il compito senza fare tante domande. Un fondo di investimento così deve saper parlare con la gente, collegarsi con la loro capacità, con i loro talenti, quindi un’altra complicazione in più, l’ambiente e le persone. Come è fatto?
CLARA GAYMARD:
Beh, non so se andrò contro quello che è appena stato detto, ma l’obiettivo di una azienda non è proprio solo quello dei profitti. L’obiettivo è raggiungere dei risultati. Immaginiamo che io faccia delle poltrone ma lo faccia in perdita: è ovvio che non posso andare avanti con l’attività di produzione e vendita, è ovvio che lo devo fare in modo redditizio. Ma il mio obiettivo rimane produrre poltrone, quello che cerco di fare è produrre delle buone poltrone o comunque fornire un servizio che funzioni. Penso che un dirigente d’impresa o un fondatore d’impresa sicuramente ha una visione, un progetto, desidera offrire un servizio oppure ha voglia di produrre qualcosa di particolare. Evidentemente, se lo farà bene, genererà dei profitti, e ovviamente lo deve fare seguendo una visione, con una vera capacità creativa, anche una buona capacità esecutiva. Per coniugare tutto questo, deve circondarsi di collaboratori, uomini e donne, che capiscano la sua visione, il modo di produrre, di fornire i servizi. Quindi, il primo elemento è il team. Un’azienda senza un team non può esistere, non si possono fare i prodotti migliori del mondo senza un team, non avrà futuro, non potrà andare avanti. Il cuore di un’azienda sono gli uomini e le donne che la costruiscono, la fanno andare avanti, è il cuore pulsante. Quindi, un manager che la dirige in pratica deve dirigere questa dinamica intorno a questa visione perché l’esecuzione funzioni bene. Il cuore di un’azienda sono gli uomini e le donne che la compongono, affinché i collaboratori, come diceva Paolo, arrivino motivati al mattino, contenti. Significa che bisogna relazionarsi con queste persone su quello che bisogna fare, le mansioni da eseguire, ma anche sulla loro carriera, i loro sogni, le loro ambizioni. A volte, quando è necessario, bisogna anche affrontare gli eventuali problemi personali che possono avere. Un altro aspetto è molto importante: la loro visione dell’azienda. Perché, indipendentemente dal loro livello gerarchico o dalla loro posizione nell’azienda, hanno sicuramente una visione che probabilmente è diversa dalla tua e che, però, può dare degli spunti. L’Italia è un paese di mari e monti. Chi vive vicino ai monti, come me, per esempio, che vivo nella Savoia, sa che quando si osserva una montagna, a seconda del punto di vista, non necessariamente la si riconosce, perché si può vedere un solo versante. Quando si è dirigenti di un’azienda, spesso si vede un solo versante e quindi, se non si ascoltano i propri collaboratori, per vedere tutti i versanti della montagna, si può perdere di vista qualcosa, non cogliere delle tappe, oppure si possono generare anche delle incomprensioni. E capite bene che, se continuo questa metafora, allora arrivo a parlare anche dell’ambiente: non ci sono solo montagne ma ci sono anche laghi, praterie. E per capire tutto questo ci vuole un’intelligenza collettiva. L’azienda è il luogo dell’intelligenza collettiva. Ed è anche un luogo di benevolenza. Penso che ci si è dimenticati, in un certo senso, da troppo tempo, anche con l’instaurazione di processi e di strutture organizzative “alla Ford” – non solo per produrre automobili ma affinché gli uomini siano come dei soldatini – di questa natura. Quando cinque anni fa abbiamo creato il Raise, siamo partiti dall’idea che l’universo della finanza è sempre stato considerato quello meno generoso del mondo: i finanzieri in generale hanno questa nomea e la finanza non è conosciuta come un mondo generoso. Ci siamo detti semplicemente dall’inizio che il 50 per cento dei nostri profitti sarebbe andato ad una fondazione per aiutare gli imprenditori. 50 per cento e non 5, e non 10. Le persone ci hanno detto: «Ma voi siete pazzi, è un’idea che non può stare in piedi!». Abbiamo cominciato in due, oggi siamo in 40, abbiamo più di un miliardo di euro, investiamo in private equity, taglie medie, nell’immobiliare e quindi anche nel settore delle aziende sociali, nel venture. L’anno scorso abbiamo raccolto più di 1 miliardo e abbiamo generato più di due milioni di euro per questa fondazione che aiuta le startup. Devo dire che il nostro convincimento dell’inizio era molto semplice: questa generosità di riversare il 50 per cento dei nostri profitti si basa sull’idea di darli a qualcuno che ci insegnerà qualcosa, li si dà a degli imprenditori che creano startup che senza di noi non sarebbero esistite, perché questi giovani imprenditori sono giovanissimi e non hanno i mezzi ma hanno conoscenze che noi non abbiamo e soprattutto hanno una visione di intelligenza sul mondo di domani che noi non abbiamo. Abbiamo potuto imparare tantissimo e, oltre a questo, quando al mattino si va in ufficio, si ha la fortuna di dire: «Ce l’abbiamo fatta». Contemporaneamente, si consente ad una startup di diventare una bella azienda, si prova un doppio orgoglio, non solo per noi ma soprattutto per il fatto che questo talento che abbiamo è servito a nutrire altri talenti. Vorrei fare anche qualche esempio di impresa che abbiamo sostenuto. Una si chiama “Nature & Découverte”: è un’azienda che vende prodotti di vario tipo per il grande pubblico; vent’ anni fa i dirigenti, in particolare uno, Antoine Lemarchand, ha deciso di creare una fondazione per l’ambiente versando il 10 per cento dei suoi utili. Adesso questa fondazione è internazionale, è appena stata comprata da Fnac e abbiamo accompagnato questo percorso negli ultimi anni. Un’altra azienda, piccolissima, una startup che è stata creata da una donna che vive in un piccolo villaggio in Bretagna, cos’ha fatto? Si è resa conto che per le donne c’erano un sacco di prodotti non adatti alla loro salute. Mi spiego meglio: ha deciso di lanciare una gamma di prodotti di assorbenti in cotone biodegradabile, e ha deciso sin dall’inizio di dare una parte dei suoi prodotti gratuitamente ad associazioni che si occupano di donne svantaggiate. Il suo contabile le ha detto: «Ma è un’idea folle! Bisogna prima avere degli utili per poter dare gratuitamente una parte della produzione così…». E cos’è successo? Le clienti che decidono di acquistare, ad esempio, dei prodotti che non nuocciono alla loro salute, quando apprendono che una parte degli utili dell’azienda consentiranno a donne svantaggiate di avere accesso agli stessi prodotti di così alta qualità, cosa fanno? Ne acquistano di più. Questo è stato un motore di sviluppo per questa azienda. Se guardiamo le giovani generazioni che fondano startup, vogliono risolvere problemi sociali. Per loro, l’obiettivo non è ottimizzare o massimizzare gli utili; vogliono avere il maggiore impatto sulla società, si pongono queste domande: «Come posso far sì che quello che faccio consenta agli altri di vivere più felici, di soddisfare i propri bisogni essenziali?». Ebbene, credo che ci siano dei manager in questa sala e credo che abbiano la stessa motivazione che ho appena citato. Ma ci si scorda di dire che la generosità è un motore economico. Anche voi qui a Rimini, e mi rivolgo a tutti i volontari, siete qui, evidentemente dedicate il vostro tempo e denaro, anche Samuele è un esempio di questo impegno. Voi create una dinamica economica, non solo perché gli hotel e i ristoranti lavorano magari di più, ma anche chi è qui si nutre, le persone qui si nutrono, credo che qui siano nate tantissime aziende grazie agli incontri tra giovani e meno giovani, perché sono fermentate delle idee. Rimini stessa vede questo evento che esiste grazie a tremila volontari. È un motore economico! Dovremmo ricordarci, quando siamo nelle nostre aziende oppure quando lavoriamo semplicemente, che la generosità non è semplicemente un atto che dimostra il fatto di essere un buon cristiano o un buon cittadino, ma è un vero e proprio motore economico perché consente ad altri di avviare la propria attività. Questo sostegno è qualcosa che dà un beneficio a tutta la società, non a noi direttamente. E un giorno anche noi ne trarremo frutto. È questa la condizione che ci ha portato a creare il Raise e siamo davvero orgogliosi della crescita veloce che abbiamo avuto, del grande successo: ne siamo ancora più orgogliosi perché è stata la scommessa folle, totalmente pazza, di coinvolgere tutto un team di persone. Devo dire che abbiamo avuto successo meglio e più velocemente di chi fa dei private equity tradizionali, con fondi di investimento concentrati solo sulla massimizzazione degli utili.
SAMUELE ROSA:
Faccio una domanda un po’ provocatoria ad entrambi, dopo direi di prepararsi davvero in maniera molto libera a fare domande. Quello che hanno detto è fonte di grande provocazione. Dire «Non sei un bravo manager se non sai capire il valore di quell’altro di fronte a te» oppure «senza dono l’economia non si muove», significa vivere in un altro mondo, sono asserzioni abbastanza provocatorie. Su questo e altro, vorrei aprire il tavolo per fare qualche domanda. Abbiamo parlato bene, Paolo, prima del contesto globale. Tu ci hai detto: «Fate esperienza in queste grandi aziende, sono scuole di vita, sono scuole di formazione permanente che poi ti permettono di realizzare qualcosa, magari anche in un realtà più piccola che aiuti a crescere». Il contesto globale come scuola di vita, in questo mondo che è così connesso, dove i cambiamenti toccano tutti subito. L’abbiamo capito. Adesso farei una domanda da un altro punto di vista. Ma un italiano, che cosa può dire a questo contesto globale? Chiederò a Clara fra un attimo, spostando il livello: e un europeo, cosa può fare l’Europa, che a qualcosa deve pur servire, per aiutare che questo modo di fare impresa sia reso visibile, sia sostenuto? Grazie.
PAOLO SCARONI:
Dunque, questo tema su che cosa può fare l’Italia è sempre un po’ delicato, per cui vorrei trattarlo in modo superficiale, nel senso che le imprese italiane dimostrano ogni giorno di essere una presenza efficiente e capace nel mercato globale. Le nostre imprese esportano: io sono veneto, vi assicuro che i veneti, gli emiliani o i lombardi – parlo degli imprenditori – in questi giorni sono tutti belli, felici e contenti perché le loro imprese vanno bene e vanno bene perché esportano: l’esportazione in questo momento è il drive dell’economia italiana. Anzi, la nostra bilancia commerciale per la prima volta da tanti anni è ampiamente positiva, che vuol dire che esportiamo più di quanto importiamo, quindi non avrei complessi nel dire che gli imprenditori e le imprese italiane, nel mercato globale, il loro spazio se lo sono ritagliato. Poi, certo, il mercato globale è perennemente una minaccia, perché tu produci una cosa, il giorno dopo nasce un’impresa in Vietnam che ti fa concorrenza, devi continuamente essere attento, competitivo, innovatore, con una presenza sul mercato. Nulla è garantito: ma se c’è una cosa che in Italia va bene in questi anni, è l’esportazione, quindi non penso che dobbiamo avere nessun complesso, almeno per questa parte dell’Italia. Tutto un altro discorso, ma non voglio aprire questo tema, è quello che avviene nel nostro Sud in cui l’esportazione non cresce, e già ce n’è sempre stata poca: non cresce, non ci sono le imprese, ma questo è un tema che ci trasciniamo sulle spalle nella nostra repubblica dal dopoguerra, e sul quale non vediamo miglioramenti. Ma le imprese italiane non hanno nulla da temere nel competere nei mercati globali. Nulla.
CLARA GAYMARD:
È una domanda che richiederebbe almeno un’ora, un’altra conferenza. Per rispondere, potrei dire molte cose sul ruolo dell’Europa nel mondo, ma il punto più importante è la cultura, la cultura europea e la cultura rappresentata dalla diversità europea, che ha un’unità ma al contempo una diversità straordinaria. Anche in Italia, non c’è un’unica cultura italiana ma c’è una cultura che è l’insieme di tutte le cucine, le culture, le arti, le epoche delle varie regioni. Ed è uno strumento fondamentale oggi: vorrei citare un aneddoto, anche per consentire al pubblico di fare delle domande. Ho lavorato per dieci anni per un’azienda americana, General Electric: all’epoca era estremamente fiorente. Quello che mi colpiva era il fatto che i dirigenti americani non avevano cultura, avevano una cultura in materia di business, di impresa, di processi, di organizzazioni, di logistica. Quando ad esempio andavamo in Cina e i cinesi rispondevano un sì, capivano che era solo un sì, ma non era solo un sì perché i cinesi rispondono di sì anche quando la loro risposta magari è no. Quando andavamo in Africa, gli africani guardavano, osservavano e poi magari dicevano: «Sì, lo faremo domani». Gli americani ci credevano, ma se si conosce un po’ la cultura africana si sa che domani può essere dopodomani o non si sa quando, diciamo che non è oggi. Con questo, intendo dire che la forza della nostra civiltà europea è la sua storia, la sua cultura. Ebbene, rispetto a quello che diceva Paolo poc’anzi, per quelli che sono giovani, ancora studenti, siate orgogliosi delle vostre radici, della vostra cultura. È ovvio che non siamo gli unici Paesi sul pianeta, ma siate sempre curiosi della cultura dell’altro, perché più si è radicati nella propria cultura, più si è aperti alle altre culture, si è disposti a conoscerle, si è curiosi: quella dell’India, della Cina, del Vietnam, dei Paesi che si andranno a visitare. Perché davvero avete la fortuna di essere in un Paese che ha radici culturali profondissime: la vostra cucina è famosa in tutto il mondo, così come la moda, le automobili. Paolo l’ha detto: le aziende italiane sono leader a livello mondiale e anche gli italiani oramai sono ovunque nel mondo. Quindi, c’è un pezzo di Italia ovunque nel mondo e grazie a questo davvero voi potete conoscere e capire al meglio le culture altrui, capire l’altro, mettervi al suo posto e non semplicemente capire la sua lingua ma che cosa è importante per lui oppure qual è il suo modo di comunicare. Ebbene, sono davvero degli assi nella manica che uniscono tutti noi europei perché, anche noi, per capirci tra italiani e francesi, anche se siamo molto vicini, abbiamo bisogno di ascoltarci, di rispettarci, di sapere che siamo anche diversi. Ed è questa differenza che è la nostra forza.
SAMUELE ROSA:
Mi ricorda quell’immagine interessante di papa Francesco dove dice che la comunità globale non è una sfera, dove tutte le differenze sono piallate, in italiano un po’ gergale, ma è un poliedro dove ognuno ha la sua faccia e sa dove sta rispetto agli altri e si rapporta perché avere la faccia vuol dire rapportarsi pure agli altri. E posso confermare che sapere da dove si viene è un enorme valore per poi andare in giro per il mondo e conoscere gli altri. Quindi, adesso vorrei veramente passare il microfono a lui. Alzate le mani chi vuole fare domande, voi del Meeting, ne raccogliamo quattro per cominciare. Diteci chi siete.
DOMANDA:
Lorenzo Carnovali di Milano. Io avevo due domande. La prima riguarda come uno affronta delle difficoltà che può incontrare durante il proprio percorso lavorativo. Nel senso che magari è una società e un lavoro che richiede una certa prestanza, devi sempre essere al top: volevo chiedervi quanto nella vostra esperienza questa cosa ha influito, quanto magari il vostro team vi aiutato o che cosa vi ha aiutato ad uscire da un momento, se c’è stato, di difficoltà. E poi la seconda: come, e se si può presentare una società italiana che riguarda appunto un’idea d’innovazione ecc.
DOMANDA:
Buongiorno, intanto, grazie ai due ospiti, ci hanno veramente incantato. Mi chiamo Zamagni, mi occupo di ricerca nel settore della finanza. Parafrasando la frase di Oscar Wilde che dice “non è ciò che non sai a metterti nei guai ma ciò che pensi di sapere”, voi manager, imprenditori, come la vivete questa cosa? Non è ciò che non sai a metterti nei guai ma ciò che pensi di sapere. Io, per lo meno, questa la vivo, insieme ai miei illustri colleghi ricercatori nel settore della finanza e questo ci fa venire i brividi tutti i giorni perché tutto quello che poi sappiamo è quello che finora, per lo meno nel mondo finanziario, è andato di traverso. Penso che concordano i miei due colleghi qua, giusto?
DOMANDA:
Davide Belluschi di Como. Faccio una domanda un po’ più leggera. Più che altro, presidente, volevo chiedere, dal punto di vista manageriale, restando nell’ambito economico e collegandolo anche alla società Milan, secondo lei cos’è mancato negli ultimi anni e qual è la ricetta, quali sono le priorità su cui ripartire? Lei si sveglia al mattino e dice: «Su che cosa devo puntare per far tornare grande il Milan?».
SAMUELE ROSA:
Vedo che state prendendo sul serio il fatto di fare domande vere. Clara, che cosa ti ha aiutato ad uscire da momenti di grande difficoltà senza scoraggiarti?
CLARA GAYMARD:
Aspetto che prima Paolo risponda sulla squadra del Milan, credo sia la domanda più importante. Io sono francese ma sostengo il Milan. Beh, tutti abbiamo difficoltà nella carriera professionale, conosciamo i momenti nella vita in cui ci sembra di aver compiuto gli errori più terribili, ci si sente in difficoltà e a volte ci si vergogna anche magari del modo in cui ci siamo comportati, ci si vorrebbe seppellire. Non ho tempo di raccontarvi gli aneddoti personali ma quello che salva è lo humor e l’autoironia, accettare di ridere anche dei propri errori, dirsi che non è la fine del mondo. É ovvio che a volte, magari, si è agito male, ci si è comportati male, ci si può essere anche messi in ridicolo, ma bisogna in un certo senso cercare di andare oltre dicendosi che gli errori in fondo sono forme di apprendimento e quindi bisogna imparare dai propri errori. Quando si parla di team, di squadra, quando si è un dirigente, bisogna accettare di parlare di questi errori, bisogna dirsi: «Ho toppato, che cosa avrei dovuto fare diversamente?». E anche dare loro fiducia: non è perché voi siete il capo che siete infallibili. Ci sono momenti in cui anche un capo può fare delle cose non al meglio e quindi bisogna anche avere il coraggio di parlarne e di scusarsi, e poi di ricominciare e tutto sicuramente andrà meglio. Rispetto alla citazione di Oscar Wilde, penso che sia una frase di grandissima attualità, perché davvero il nostro universo oggi funziona con regole che risalgono al dopoguerra, obsolete. Le nostre istituzioni, organizzazioni, il nostro modo di pensare, sono ancora basati su metodi che risalgono all’era prima del digitale, dei social media, delle questioni ambientali, della facilità con cui oggi possiamo essere trasversali, possiamo condividere conoscenze. È un tema cruciale, impressionante. Con mia figlia ho scritto un libro su questo, Bisogna che parliamo, Il faut qu’on parle!. Parla di organizzazione, consumi, democrazia, ambiente. Le nostre democrazie si basano ancora solo sul sistema del voto che risale a un paio di secoli fa, c’era solo quel modo. Ebbene, oggi vedete che ci sono modalità incredibili, possiamo comprare un biglietto aereo, dare subito un feedback. Bisognerebbe cambiare nel senso di dirsi che dobbiamo disimparare, in un certo modo, ritrovando una certa innocenza. Oggi credo che questa innocenza sarebbe il modo migliore per reinventare nuovi modi di agire, di fare impresa. Purtroppo non ho tempo per sviluppare questo punto, ma se guardate le aziende che hanno avuto successo, prendiamo Airbnb, il suo fondatore non ha mai avuto un hotel, non ha mai gestito delle camere o attività correlate; oppure, se prendiamo un’azienda che fa del bricolage, Mano mano, è stata fondata da persone che non avevano esperienza in quel settore; ma anche il fondatore di Uber non ha mai guidato un taxi. Quindi, bisogna avere anche l’innocenza di un approccio diverso in questo senso, se si vuole trovare una via di riuscita. Che cosa penso di questa frase: come rimettersi in discussione? Ebbene, noi dirigenti, ma in generale esseri umani, nella nostra vita, dobbiamo accettare di rimetterci sempre in discussione, consci del fatto che si possono avere valori, principi ma le certezze non esistono, in un certo senso. Con Mariodille, la mia amica che mi ha accompagnato, spesso ridiamo perché magari, quando facciamo una grande affermazione che sembra una dichiarazione definitiva – tipo: «ah sì, io farò sempre così» -, poi la vita fa sì che ti succeda qualcosa che contraddice proprio quella grande frase. Ma adesso aspetto la risposta sul Milan.
SAMUELE ROSA:
Però, Paolo, magari vorrei che anche tu ci dicessi la tua sulla domanda del nostro amico Paolo Zamagni: il pericolo, il nemico è ciò che si crede di sapere.
PAOLO SCARONI:
Guardi, io non so niente. Come manager, non so niente. Chiedo sempre alla gente che lavora con me cosa pensano loro, ed è vero: normalmente, la capacità del manager non è di sapere più degli altri ma di sapere chi sa. Il tema è capire chi sa e chiedere a chi sa di dirti cosa devi fare. Adesso, voi parlate di Milan – sapevo che non sarei riuscito ad evitarlo -, ma banalmente io inizio gli incontri dicendo: «Premesso che di calcio io non capisco un tubo, spiegatemi voi». Faccio così nel mondo del petroli, dell’energia elettrica, perché il segreto del manager è estrarre dalla gente che lavora con lui quello che sanno, non dare lezioni. Poi, lezioni di che cosa? È chiaro che ciascuno nel suo settore sa molto più di te. Quindi, l’arte del management non è dimostrare che sai ma prendere da chi sa il meglio. Questa è la mia idea. Passiamo al Milan, perché so che questo è un tema che non riesco ad evitare. Non vorrei sembrarvi venale ma è tutta questione di soldi. Perché il Milan non va bene? Il Milan fattura 200 milioni e il Real Madrid 700. Cosa vuol dire? Che il Real Madrid può comprare migliori giocatori e pagarli di più. Quindi, quando uno dice: «Ma io fatturo 100 milioni, come faccio a fatturarne magari un miliardo, in modo che compro più giocatori e li pago di più?», ha davanti a sé due montagne da scalare contemporaneamente. Una prima montagna è quella dei risultati sportivi, perché se perdi tutte le partite non vai da nessuna parte. E una seconda montagna è di risultati economici: devi avere un buono stadio, devi cercare dei buoni sponsor, devi vendere i tuoi diritti televisivi più che puoi, devi andare a prendere la tua Fundbase nel mondo e cercare che sia ricettiva dei tuoi prodotti, di quello che vendi, per aumentare il fatturato. Apro una parentesi: il Milan è nel mondo, la Juventus, il mondo non la vede nemmeno, nel senso che il Milan è una squadra mondiale perché ha vinto sette Champions League, la Juventus è una squadra italiana perché vince tanti scudetti. Poi, tanto di cappello, sono stati bravissimi, ma devi riuscire a vendere i tuoi prodotti a chi tifa Milan in Indonesia, in Thailandia, in Brasile. Certo, se non vinci più Champions League, in Indonesia, in Thailandia, in Brasile non hai più tifosi del Milan. Quindi, hai due montagne da scalare contemporaneamente, cosa che cerchiamo di fare. Ma mi stupisce, io che sono un neofila del calcio (anche se per la verità sono stato presidente del Vicenza calcio, tanti anni fa, ma non sono un esperto), vedere espertissimi che leggono la Gazzetta dello sport dalla prima parola all’ultima tutte le mattine, e non sanno cos’è il fair play finanziario: vuol dire che non è più possibile che un mecenate metta un miliardo e compri i giocatori; i giocatori li puoi comprare solo se fai profitti. Quindi, fare profitti non è facile, è questa la grande sfida che abbiamo di fronte.
SAMUELE ROSA:
Io sintetizzo due aspetti che sono stati evidenziati. Abbiamo chiesto a Paolo cosa vuol dire essere manager e lui ha detto: innanzitutto bisogna avere la capacità di stimolare domande. Abbiamo chiesto a Clara quale attitudine avere per stare di fronte a questo nuovo mondo che ci interroga e lei ha detto: soprattutto – e mi ha sorpreso molto -, bisogna avere la capacità di recuperare una certa innocenza. E quindi riprendo queste due cose perché ci si chiedeva all’inizio: qual è l’aspetto umano? Come centrare l’uomo all’interno di questo grande gioco che è l’economia, un gioco di grandi opportunità, molto affascinante e che certe volte spaventa? Paolo ci ha detto: bisogna saper porre delle domande. E quindi, per porre delle domande bisogna avere delle questioni che ti interrogano. Le domande nascono perché c’è qualcosa che ti stimola, una specie di fuoco, e avere persone che di fronte alla realtà economica sanno tenere a mente e nel cuore questioni e aspetti di coesione sociale, l’impatto con l’ambiente, la crescita delle persone, è importante. Per porre questioni, bisogna avere uomini. Per avere una certa innocenza, bisogna avere due cose: un grande ottimismo, una grande stima di questo mondo nuovo che ci viene incontro che – lei dice – i giovani sanno leggere e da cui bisogna imparare. Seconda cosa, non bisogna avere paura di sbagliare, anzi, sapere che sbagliando – non è un modo di dire – si impara. Perché la realtà, non la verità, che è una cosa grande di cui siamo sempre in cerca, più grande di noi, ma la realtà cioè il dato che è di fronte a noi, ha sempre un elemento di crescita. E se non sei come un bambino innocente che sa porre domande e sa ripartire sempre, ti perdi questa grande occasione. Se l’economia è anche questo, c’è da essere ottimisti, vero? Un grande applauso ai nostri amici. Mi corre l’obbligo di fare un annuncio: Clara e Paolo sono qui, si direbbe “con il cuore in mano”, cioè a titolo gratuito, come tutto quello che qua vedete. È sorretto dallo sforzo e dal lavoro di mani di volontari. Quindi, volevo ricordare che il Meeting è e rimane un evento del tutto unico. Da 40 anni è sempre l’esito sorprendente e nuovo del contributo di tanti: dai volontari, dai donatori ai relatori qua su questo palco, ai curatori di mostre, agli artisti, fino ai visitatori che la vivono. Ognuno regala al Meeting qualcosa di sé. Grazie a questo, da 40 anni mostre, incontri, spazi dedicati ai bambini, ai ragazzi, allo sport, sono offerti gratuitamente a chi vive la settimana del Meeting e a chi lo segue da casa in ogni parte del mondo. Ecco perché le nostre donazioni sono importanti, sono decisive. Non importa quanto si dona, è un semplice gesto di responsabilità, cioè rispondere a qualcosa di bello, alla costruzione di questo luogo unico perché possa continuare ad esistere. A questo scopo, troverete in giro delle postazioni “Dona ora” caratterizzate dal cuore rosso. Le donazioni dovranno avvenire unicamente ai desk dedicati dove troverete i volontari che indossano la maglietta rossa con la scritta “Dona ora”. Grazie mille per la vostra attenzione e buon Meeting!
Trascrizione non rivista dai relatori