STORIE DI ISRAELE. Racconti del tempo di guerra

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Mishy Harman, fondatore, direttore e voce di Israel Story, il podcast più famoso d’Israele; Federica Sasso, giornalista, operatrice Rossing Center for Education and Dialogue. Introduce Mattia Ferraresi, caporedattore Domani

Mishy Harman è il fondatore e la voce di Israel Story, il podcast israeliano più ascoltato al mondo che da 13 anni raccoglie le straordinarie storie di israeliani qualunque. Federica Sasso è italiana, ma da anni vive a Gerusalemme, dove lavora per il Rossing Center for Education and Dialogue, una ong composta da Israeliani e Palestinesi impegnati a costruire una società più giusta e inclusiva. Insieme condivideranno la propria esperienza di vita e lavoro a Gerusalemme in questo tempo di guerra.

STORIE DI ISRAELE. Racconti del tempo di guerra

STORIE DI ISRAELE. RACCONTI DEL TEMPO DI GUERRA

Giovedì 22 agosto 2024 ore 19:00

Sala Conai A2

Partecipano:

Mishy Harman, fondatore, direttore e voce di “Israel Story”, il podcast più famoso d’Israele; Federica Sasso, giornalista, operatrice Rossing Center for Education and Dialogue.

Introduce:

Mattia Ferraresi, caporedattore Domani

 

Ferraresi. Buonasera a tutti, benvenuti, ben ritrovati.

Non si sente, mi dicono. Si sente? Benvenuti, buonasera. Si sente? Fatemi dei cenni, fate qualcosa. Riproviamo regia? Cerco di aggiustare… Buonasera a tutti, meglio adesso? Oh, fantastico, strepitoso.

Benvenuti a questo incontro che abbiamo intitolato “Storie di Israele: racconti del tempo di guerra”. Io mi chiamo Mattia Ferraresi, faccio il giornalista, lavoro per un quotidiano che si chiama Domani, e sono per dire la più grossa banalità, che però è sempre vera, sono molto emozionato perché ho di fianco delle persone, dei testimoni che io trovo veramente straordinari, incredibili, ma che hanno anche la caratteristica di essere per me dei volti amici, come spero lo saranno per voi alla fine di questo incontro. Ve li presento. Federica Sasso è una giornalista ed è operatrice al Rossing Center for Education and Dialogue. E Mishy Harman, che è suo marito, è co-fondatore e direttore di “Israel Story”, che è un podcast, non solo un podcast, ma il podcast più diffuso e conosciuto in Israele. Mishy e Federica vivono a Gerusalemme, Mishy è israeliano, Federica è italiana, è cattolica, Mishy è israeliano ed ebreo. Lo posso dire come una nota personale perché questa è la verità. Ci siamo conosciuti anni fa vivendo per un po’ di tempo nella stessa città. È stato un incontro fantastico perché ho incontrato l’umanità incredibile di due persone che mi hanno fatto scoprire, mi hanno aiutato a scoprire un mondo che adesso è dentro una enorme, tragica turbolenza, dentro la quale loro sono, vivendo a Gerusalemme, ma vivono anche con due prospettive diverse, due storie, due background diversi, allo stesso tempo uniti dal fatto che appunto sono sposati e stanno vivendo questa condizione incredibile dopo il 7 ottobre. Non devo spiegarvi perché la condizione che vivono è assolutamente peculiare. Da quell’incontro, allora in una bellissima festa di Hanukkah a casa loro, è nato un rapporto ed è nato il desiderio che potessero venire qui e condividere con noi la loro esperienza, innanzitutto come umana, personale, di vita, che contiene anche ovviamente il lavoro che fanno, che è quello di raccontare storie, incontrare persone, dare voce alle storie delle persone, cercare di capire, cercare di comunicare e far capire anche agli altri. E quindi vi pregherei di accoglierli con un grande applauso, perché è il modo migliore per iniziare questa conversazione. Poi avrete modo voi di raccontare, non voglio rubarvi le parole, raccontare chi siete, cosa fate. Io devo fare la domanda più ovvia, in un certo senso, ma anche inevitabile. Voglio chiedervi come è cambiata la vostra vita dopo il 7 ottobre dello scorso anno, in cui tante cose sono cambiate, in cui tutto è cambiato, e noi lo vediamo tutto sommato da qui, da questo lato, come una cosa che ci riguarda ma allo stesso tempo è anche lontana e non parte della nostra vita quotidiana. Mishy, perché non inizi tu?

Harman. Sì, grazie Mattia. Mi dispiace che non parlerò in italiano. So che anche il mio insegnante Cesare e anche mia moglie saranno arrabbiati con me, ma forse questi sono argomenti in cui è importante essere precisi, allora parlerò in inglese. Forse l’anno prossimo…

Ferraresi. L’anno prossimo a Rimini, come si dice “l’anno prossimo a Gerusalemme”

Harman. L’anno prossimo in italiano. Mattia, grazie mille per averci invitato qui. È un grandissimo onore per noi essere qui. È un’esperienza incredibile essere qui al Meeting di Rimini. È qualcosa che non avevo mai visto prima. È una dimostrazione profonda di pace, di energia e di volontariato. È qualcosa che spero potremmo replicare in tutto il mondo e in diversi formati, perché è davvero qualcosa di incredibile. Grazie molte. Come hai detto, viviamo in quella che adesso è una zona di guerra ed è una nuova realtà per noi, per me, come israeliano, anche se tutta la mia vita è stata accompagnata dal conflitto e dalla violenza. Sono cresciuto in un mondo in cui si facevano battute con gli amici dicendo: “Magari l’autobus che si prende da casa per andare a scuola esploderà prima di arrivare a scuola”. Ma Federica mi fa capire che tutto questo è totalmente anormale. Adesso viviamo in una situazione ancora più anormale. E questa situazione pone moltissime sfide, perché si vede che la guerra esiste a tutti i livelli. Per noi, che siamo stati relativamente fortunati, viviamo a Gerusalemme, dove non ci sono combattimenti e non ci sono missili, non ci sono state infiltrazioni dal 7 di ottobre. Quindi, per noi, la guerra avviene più a livello psicologico: leggiamo le notizie e viviamo quella realtà. Ovviamente ci sono tantissime persone, sia sul versante israeliano sia su quello palestinese, per cui la realtà della guerra è molto più immediata. Ci sono persone che hanno perso i loro cari il 7 ottobre, o anche dopo quel giorno, o persone che sono state evacuate, che hanno dovuto vivere in albergo negli ultimi mesi perché vivevano vicino ai confini, al nord con il Libano o vicino alla Striscia di Gaza. E per non parlare dei palestinesi, soprattutto delle persone che vivono a Gaza, le cui vite sono state completamente stravolte negli ultimi mesi e che hanno sofferto davvero una violenza devastante in tutti i settori della vita. Tutto ciò che rende la vita ciò che è, la famiglia, la scuola, la casa, il territorio, è stato tutto stravolto. Quindi, diverse persone fanno esperienza della guerra in diversi modi. Ne parleremo in maniera più approfondita più tardi, ma negli ultimi trent’anni ho fatto questo viaggio di raccolta di esperienze, di storie in Israele. Il 7 di ottobre la natura di quelle storie è cambiata tantissimo. Stiamo cercando di riflettere e documentare le diverse esperienze di guerra da tutte le parti: dalle morti, dai sopravvissuti, dalle iniziative della società civile, tra le persone di Gaza, i palestinesi, i beduini, le persone di Gerusalemme, tutti i sotto settori della società israeliana e tutte le persone che vivono nella regione. L’ultima cosa che vorrei menzionare è che la devastazione è così diffusa da tutte le parti che è impossibile scappare da essa. Ci sono poco meno di 10 milioni di persone in Israele, ma 2 milioni di persone vivono a Gaza, e tutti sono stati colpiti dalla situazione: tutti avevano membri della loro famiglia, amici che sono stati uccisi o che sono stati presi in ostaggio. È davvero una situazione devastante. Noi siamo qua adesso in questo posto fantastico e parliamo di questa cosa, e allo stesso tempo ci sono persone che stanno vivendo concretamente questa situazione. Perdono la loro vita, perdono i loro cari tutti i giorni.

Ferraresi. Federica, prego.

Sasso. Quindi non ripeto, però grazie di averci invitati. Allora, io vorrei cominciare dicendo che quello che è successo il 7 ottobre e la violenza che il massacro del 7 ottobre ha innescato non ha aperto una nuova realtà, è stata un’esasperazione di una realtà nella quale noi stavamo già vivendo. Il conflitto era già presente, le tensioni sociali pure. Semplicemente è stato un evento che ha accelerato, forse ha fatto scoppiare una bolla, dietro la quale parte della nostra realtà era nascosta, ma tutto era già lì, i semi di questa violenza erano già lì. Posso dire che per me, da non israeliana e da non palestinese, il primo effetto sulla vita post 7 ottobre è stato percepire la paura fisica, è stato percepire dove mi colloco, chiedermi dove sto, come mi colloco in questa storia. Quindi, diciamo, gli effetti molto concreti rispetto alle prime settimane dopo il 7 ottobre. Noi due, entrambi, non abbiamo perso il nostro lavoro, per esempio. Come diceva Mishy, ci sono molti livelli in cui questa guerra e questa violenza toccano le vite di chi vive nella regione. Noi siamo tra i fortunatissimi, perché comunque abbiamo potuto mantenere il nostro lavoro. Dopo qualche settimana, gli asili e le scuole hanno riaperto. Quindi la prima reazione è stata quasi una sospensione della realtà. Tutto era molto calmo, Gerusalemme era calmissima. C’erano i razzi… Io sono nata in Liguria, in un paese di 6000 persone, non avevo mai sperimentato nulla di tutto questo, quindi per me c’era da un lato una reazione di stupore, di disorientamento, di paura, e allo stesso tempo, pian piano, la capacità di ritornare a vivere la quotidianità delle nostre giornate abbastanza velocemente. Gli israeliani sono veloci, forse, in questo: immediatamente tutto quello che è stato possibile riaprire è stato riaperto. Però, allo stesso tempo, come Mishy diceva, noi viviamo a Gerusalemme, che è divisa in Gerusalemme Ovest e Gerusalemme Est, e noi viviamo in un quartiere che è misto. Viviamo in una parte abitata da israeliani ebrei e israeliani espatriati, molti giornalisti, molti cooperanti, e poi c’è un’altra parte completamente palestinese. Quindi, per esempio, quello che noi abbiamo anche visto accadere è stato il modo in cui la città ha ripreso due velocità. Da un lato Gerusalemme ovest ha ripreso e dall’altro lato, i palestinesi di Gerusalemme est hanno vissuto una realtà completamente diversa. Io lavoro, appunto… forse dopo possiamo parlare anche delle…

Ferraresi. Accennalo però dai!

Sasso. La mia organizzazione interreligiosa è composta da ebrei israeliani e palestinesi, palestinesi cittadini di Israele, palestinesi di Gerusalemme Est, e poi ci sono io. Siamo ebrei, musulmani, cristiani di diverse confessioni, diversi rami dell’ebraismo. La nostra missione è quella di cercare di promuovere e di instillare il desiderio tra israeliani e palestinesi di poter vivere insieme, di condividere una società giusta, basata sull’uguaglianza in cui tutte le narrative, tutte le esperienze, possano avere uguale dignità e sentirsi accolto. Quindi lavoriamo nel sistema educativo e promuoviamo dialogo in spazi misti, cosiddetti “città miste” di Israele, posti come l’Università Ebraica, dove israeliani e palestinesi vivono, studiano, lavorano assieme. Quindi, la mia organizzazione, per esempio, dopo il 7 ottobre, ha reagito, abbiamo dovuto ristabilire un po’ quali sono le priorità in questa nuova realtà, cosa ci chiede oggi. Una delle cose che abbiamo fatto è stato, (noi non ci occupiamo di aiuto umanitario, facciamo educazione) però, per esempio, ci siamo mossi insieme ad organizzazioni di Gerusalemme Est per supportare la popolazione palestinese, perché c’erano dei bisogni fortissimi. Un sacco di palestinesi di Gerusalemme Est hanno perso il lavoro, avevano paura di uscire di casa, hanno subito perquisizioni, venivano costantemente fermati. Noi l’abbiamo visto anche nel nostro quartiere, Mishy mi raccontava spessissimo che vedeva persone fermate, perquisite, interrogate. Quindi, diciamo, anche questa è forse la ricchezza del mio lavoro: mi consente di vedere una parte e l’altra. E quindi, diciamo, la nostra piccola famiglia, la nostra piccola realtà è stata toccata in un modo, però quello che io ho potuto vedere col mio lavoro è stato appunto anche una realtà diversa.

Ferraresi. Vi chiederei brevemente se volete di… , magari di raccontarci anche un attimo la vostra storia insieme, perché forse non so se è chiaro a tutti, ma diciamo, un matrimonio di questo tipo non è esattamente una cosa comune da trovare, e quindi questa è parte anche forse della incredibile ricchezza e bellezza della vostra prospettiva, che porta due punti di vista diversi che forse, credo, ma mi correggerete voi se sbaglio, è piuttosto una rarità o comunque non è una cosa comune. Sbaglio? Mishy, vuoi dire tu dal tuo punto di vista?

Harman. Sì, quando ci siamo sposati, la cosa più evidente era che non era chiaro se fosse mia mamma più sconvolta o la mamma di Federica che era più sconvolta, perché una sposava una cattolica e l’altra sposava un ebreo. Sono cresciuto in una casa ebrea tradizionale, dove non c’era nessuna possibilità, nessuna opportunità, nessun modo di poter immaginarsi di sposarsi con qualcuno che non fosse ebrea. Ho incontrato Federica, che era una giornalista italiana che era venuta a Gerusalemme, e devo dire che quando ci siamo visti la prima volta avevo sperato che dicesse che era ebrea, però mica se lo poteva inventare. Però ci siamo innamorati, e come vedete capirete perché. Ed è stata una vera e propria sfida, non è stato facile per la mia famiglia, non è stato facile per la famiglia di Federica, ed è veramente qualcosa di fuori dall’ordinario in Israele. Ci sono pochissimi matrimoni tra religioni, di fatto non c’è neanche una maniera legale per poter celebrare questi matrimoni. Io e Federica di fatto non ci siamo mai sposati in Israele perché non c’è la possibilità di avere matrimonio tra istituzioni religiose diverse, attraverso la Chiesa o il rabbinato o attraverso altre istituzioni. Chiunque dei miei amici ha sposato altre persone che erano ebree. Quindi c’era tutta una complicazione a livello burocratico. Israele ha la legge del ritorno che garantisce la cittadinanza automatica a tutti coloro che sono ebrei, ed è stata una delle leggi fondative dopo la creazione dello stato di Israele del ’48, proprio per attirare gli ebrei che erano in tutto il mondo. Ovviamente Federica non rientra in questa categoria della legge di ritorno, quindi abbiamo avuto un appuntamento al Ministero dell’Interno dove dovevamo andare a provare che eravamo di fatto sposati, abbiamo dovuto portare lettere di raccomandazione degli amici, foto di noi nel corso di tutto l’anno. Siamo stati poi intervistati in stanze separate con le stesse domande per capire se erano vere le cose che dicevamo. Alcune domande erano facili, come si chiama tua figlia, come si chiamano gli insegnanti di tua figlia, e altre più soggettive, come “chi pulisce di più in casa”, “chi fa più le pulizie a casa”. E poi alcune delle domande erano veramente offensive, quasi terribili. Quindi c’è questo aspetto burocratico, ma l’esperienza più di base di aver sposato Federica per me sta nel fatto che non abbiamo condiviso un percorso di crescita insieme. Quindi c’è tutta una serie di cose che vengono date per scontato. Per esempio vivere per me con una certa quantità di tensione, di violenza, e per Federica questa cosa non era per niente normale, quindi grazie a questa unione vedo la realtà in un modo diverso e riesco ad uscire dalla narrazione che io ho ereditato attraverso la scuola, i movimenti giovanili, il mio contesto domestico o familiare, i genitori, e quindi riesco a vedere le cose attraverso gli occhi, lo sguardo di Federica, che partono da una prospettiva più lontana, magari quasi un punto di vista di un turista o come se fosse un antropologo che viene a visitare, ad esplorare una nuova cultura. E questo mi permette di assumere una prospettiva che non credo che molti altri israeliani possano avere.

Sasso. La mia prospettiva è che al di là della differenza culturale, al di là della differenza religiosa, secondo me, in realtà, quello che ci tiene insieme sono i valori. Quindi, io dico sempre che, per esempio, il 7 ottobre per me è stato un momento in cui ho riguardato anche la nostra relazione con occhi diversi, anche perché la realtà richiedeva di fare delle valutazioni, richiedeva di prendere delle decisioni, di fare delle scelte, e ognuno arrivava con la propria cultura, con la propria esperienza. Devo dire che il fatto di potersi ritrovare in questo sguardo, lo sguardo dei valori, al di là del fatto che per me potesse essere più o meno normale il fatto di correre in un rifugio (in realtà noi non siamo mai corsi nel rifugio, Mishy non lo considerava come possibilità, e quindi siamo rimasti in casa) però, ecco, l’unione del nostro sguardo sulla vita, sulla realtà, del che cosa significa incontrare l’altro, è veramente, diciamo, riemersa anche in questa situazione. Io dico sempre che facciamo dialogo interreligioso in casa, dialogo interculturale in casa, e forse non è un caso che entrambi facciamo i mestieri che facciamo o che ci siamo scelti, perché abbiamo questa tensione. Ecco, penso che l’esercizio all’ascolto della narrativa dell’altro, in questa esperienza particolare che stiamo vivendo, sia veramente importante.

Ferraresi. La cosa interessante, oltre alla vostra prospettiva personale di voi come famiglia, c’è anche quella professionale. Mishy accennava, lo dico io per contesto, al podcast che fa Mishy insieme a tutti i suoi colleghi. È un racconto bellissimo. Io, da quando l’ho conosciuto, ho iniziato ad ascoltarlo assiduamente, ed è stupendo perché ha la qualità proprio di voler cogliere delle storie: storie di persone, storie di incontri, storie assurde, bizzarre, strane, normalissime. Con questo sguardo che io trovo di grande purezza, per cui si incontrano nelle voci che Mishy ci fa ascoltare, non si incontra mai una dimensione ideologica o di forzatura o di voler dire certe cose, ma si incontrano persone. Questa è una qualità che ho apprezzato tantissimo quando ho iniziato a conoscere il lavoro di Mishy. Poi ci ha raccontato che dopo il 7 ottobre questo lavoro è cambiato: è iniziato a documentare le storie dentro la guerra, cioè, forse meglio, di persone dentro la guerra, perché sono rimaste storie di persone, non storie di guerra, diciamo, come le abbiamo lette più spesso sui giornali, racconti dei grandi fatti politici, militari, ma un altro tipo di storia, anche molto diversa nello stile rispetto a quelle che faceva prima. Vorrei chiederti, Mishy, se ci racconti un po’ cosa hai incontrato in questi dieci mesi e mezzo, in queste storie, incontrando queste persone. Immagino che non sia stato solo un’esperienza di sofferenza personale tua o vostra, ma immagino che tu abbia anche dovuto incontrare la sofferenza dell’altro. E quando dico altro, ho visto che tu hai intervistato e incontrato chiunque (israeliani, palestinesi, ebrei, arabi, musulmani) insomma tutto lo spettro che incontrate nella vostra realtà quotidiana, come ci avete accennato, perché anche il posto in cui vivete è fatto di tanti tipi di “altri”. Quindi, diciamo, la vostra realtà. Cosa hai trovato lì, se ci puoi dire qualcosa?

Harman. [0:27:43 Inizio] dicendo che i miei nonni si erano incontrati negli anni ’30 ed erano degli ebrei britannici di Londra e si erano incontrati a un dibattito. Il dibattito si svolgeva tra mio nonno, che era uno studente di diritto a Oxford e che era il responsabile dell’associazione studentesca sionista — sapete, i movimenti politici riguardanti la creazione dello stato ebraico — e stava facendo un dibattito con mia nonna, che era la responsabile dell’associazione studentesca anti-sionista. Mia nonna era anti-sionista non perché avesse un problema specifico con l’idea del nazionalismo ebraico, ma come tantissimi altri nazionalisti durante la guerra, non credeva nel concetto dello Stato Nazione. Non so chi abbia vinto quel dibattito all’inizio degli anni ’30, ma sarà sufficiente dire che mia nonna poi seguì mio nonno in Palestina nel 1940 e dedicò tutta la sua vita al servizio dello Stato di Israele come ambasciatrice, come membro del Parlamento, eccetera. I miei nonni vivevano di fronte a noi, dall’altra parte della strada, quando ero piccolo. Mia nonna arrivò a 99 anni, quindi ho avuto tantissimi anni di vicinanza con lei. Passavo quasi tutti i giorni con lei. E un giorno, quando aveva già compiuto i 90 anni, stavamo guardando la televisione ed eravamo nel mezzo della seconda guerra libanese (non so se lo sapete ma nel 2006 c’è stata una guerra tra Israele e Libano) e stavamo proprio nel mezzo di quel conflitto. Guardando la televisione, lei aveva già 95-96 anni, e a un certo punto dice: “Ma guarda che cosa strana. Noi viviamo a Gerusalemme, quindi le montagne del Libano stanno a nord. A nord ci sono le montagne che hanno alberi, vegetazione e animali selvatici. E gli umani hanno tracciato una linea lungo queste montagne e hanno chiamato una parte Libano e un’altra parte Israele. E guarda cosa succede: le persone da una parte di quel confine lanciano missili alle persone dall’altra parte, che per vendetta vanno con i carri armati, gli elicotteri, i caccia”. E cosa ci sta dicendo la televisione? La televisione ci sta dicendo che una persona ebrea dal lato israeliano di questa linea è colpita, la sua vita è stravolta, perde un membro della sua famiglia o la casa o una persona cara, e allora dobbiamo essere molto tristi perché fa parte di “uno di noi”. Ma quando succede a una persona dall’altra parte, dall’altro lato di questa linea tracciata, che a questa persona succede la stessa tragedia, non dobbiamo certo essere contenti, ne voglia il buon Dio, non è questo il messaggio, però si percepisce in maniera diversa perché non è “uno di noi”. Allora lei mi ha guardato e mi ha detto una frase che è rimasta con me e ha guidato tutto quello che ho fatto nel mio podcast “Israel Story”. Mi ha detto: “Non conosco questa persona, non conosco quell’altra persona, ma sono triste per entrambi, per le loro perdite, perché una persona è una persona come persona e il dolore è dolore come dolore”. E con questo ho creato il mio podcast “Israel Story”, proprio per trasmettere questo messaggio di comprensione della nostra umanità condivisa profonda. Perché siamo motivati tutti dalle stesse cose: dalla paura, dalla gelosia, dall’amore, dalla fiducia e da tutti i tipi di sentimenti che vanno al di là di chi siamo, del Dio in cui crediamo. Quando uno riesce a toccare questo tipo di umanità, a riconoscere queste storie, penso che uno diventa capace di raccontare una storia molto forte di cosa significa essere esseri umani.

Ferraresi. Ma c’è una storia che è rimasta con te, che… puoi pensarci se vuoi, ma pensa se c’è una storia in particolare fra queste che hai raccontato nell’ultimo anno che è rimasta con te particolarmente.

Harman. Non voglio dire che ce ne sono tantissime, non voglio cavarmela così, ma ecco forse… e magari non tutti in questo splendido pubblico conoscono bene la realtà di Israele. Allora cercherò di parlarvi di una storia che forse esemplifica quanto sia ingarbugliata la realtà, anche mescolata, in Israele. Qualche settimana fa abbiamo raccontato la storia di una donna ebrea religiosa che vive in un insediamento ebraico nel quartiere palestinese di Gerusalemme. Si tratta di un insediamento molto controverso, si trova in un quartiere che si chiama Sheikh Jarrah, forse ne avete sentito parlare. Due o tre anni fa, lei, questa donna, mandò i suoi cinque figli in varie scuole materne, in vari asili, e, ad esempio, questa donna fu accoltellata da una vicina di 14 anni. Questa teenager di 14 anni non era una terrorista, e per fortuna non la ferì gravemente, quindi questa donna si è salvata ma ovviamente, rispetto alle autorità israeliane, questa ragazza fu arrestata e portata in prigione. E poi quando è stato negoziato uno scambio di prigionieri per liberare degli ostaggi, questa ragazza è stata liberata ed è tornata a casa. La sua casa è proprio di fronte a quella della donna che lei aveva aggredito. E quindi vedete, c’è questa realtà davvero ingarbugliata, in cui abbiamo una vittima e la sua carnefice che vivono praticamente accanto. Questo per farvi capire quanto ogni questione sia personale e complicata.

Ferraresi. Federica, vorrei chiedere anche a te, attraverso il tuo lavoro ma anche attraverso l’esperienza diretta di essere a contatto con le storie che Mishy racconta e condivide, ma anche attraverso il tuo lavoro nello specifico, cosa hai incontrato in questo anno, diciamo, muovendoti nell’ambiente che ci hai brevemente descritto, sia personale che soprattutto professionale?

Sasso. Allora, io mi sento molto, molto fortunata perché, avendo un team di colleghi così eterogeneo, i nostri pranzi … Non tutti lavoriamo a Gerusalemme ma una parte di noi è a Gerusalemme e una parte in una città che si chiama Ramle, che è una delle città miste di Israele, che vuol dire che sono composte da una popolazione che non è principalmente ebraica, ma ha una maggioranza ebraica con una forte componente araba palestinese. Però, alcuni di noi sono a Gerusalemme e andiamo in ufficio tutti i giorni o quasi tutti i giorni e troviamo che questi pranzi, a partire dal 7 ottobre, siano stati veramente una forma di terapia di gruppo per tenerci sani di mente durante questi mesi. Quindi, diciamo, non ho magari una storia particolare così speciale come quella che ha appena raccontato Mishy, però, per esempio, io penso sempre a una mia collega che viene dalla città di Lod, che è un’altra città mista di Israele, che nelle prime settimane dopo il 7 ottobre, quando comunque Israele aveva già cominciato a bombardare la Striscia di Gaza, ha perso membri di tre generazioni della sua famiglia. E chiaramente è stata una cosa che ci ha scioccati, che ci ha colpiti, che ci ha addolorati, ma soprattutto io parlo di lei perché lei ha scelto comunque di continuare a lavorare con noi, di continuare a lavorare in un progetto misto, il progetto al quale lavora lei, lavora con gruppi di donne palestinesi e gruppi di donne israeliane. E quindi, dopo aver subito una perdita così forte, così immediata, lei comunque ha scelto di non abbandonare l’organizzazione. Ha fatto, secondo me, un gesto che nasce dalla sua esperienza sicuramente, ma nasce anche da una scelta consapevole di dire: “Questa per me è la direzione nella quale dobbiamo andare come società, quella di continuare a provare ad ascoltarci e a lavorare insieme”. Io credo che se non avessimo questa esposizione quotidiana al fatto che ci sediamo, mangiamo, parliamo, discutiamo, anche in maniera molto accesa — nel senso che non siamo tutti d’accordo sempre su tutto, abbiamo visioni anche su quello che sta succedendo e su come si esce da questa situazione, che possono anche essere diverse — però devo dire che la possibilità di parlarne, di confrontarci, di fare anche delle domande molto scomode, secondo me ci sta salvando, perché consente questo spazio di dialogo che invece, purtroppo, nella società si è estremamente ridotto. Immediatamente dopo il 7 ottobre c’è stato come un risucchiamento, perché la paura era talmente grande, domande come: “Se tu vivi vicino a me e appartieni… non so, se sei palestinese o se sei israeliano, ma tu cosa pensi del 7 ottobre?” Per esempio, una delle domande era: “Ma cosa pensi? Legittimi Hamas o no?” E tutte queste domande sono fortissime, perché poi vanno alla radice della propria identità, della propria storia, del proprio senso di legittimità nello stare lì. E c’è bisogno di una risposta, c’è bisogno di essere rassicurati, perché la paura di entrambi è fortissima. Quindi penso che, da un lato, se all’inizio per me è stato spaesante non essere una o l’altra cosa — io sono cristiana, ma non sono palestinese, non sono ebrea, ma sono sposata con un ebreo israeliano, vivo più nella società ebraico-israeliana che non nella società palestinese — quindi dove mi colloco? In realtà, questa per me è stata una grande… come dire, lentamente, dopo il disorientamento, ho riscoperto che forse la mia posizione può aiutare, può, come dire, ascoltare le due parti e riportare… non nel caso della mia organizzazione, perché tra di noi parliamo, però fuori non accade così facilmente, quindi… ecco, così.

Ferraresi. Rimango con te perché vorrei dire una cosa anche sul lato più negativo e anche più difficile da affrontare. Ripensavo, abbiamo avuto qua al Meeting il Cardinale Pizzaballa in un intervento, in dialogo molto bello, e ripenso non solo alle cose che ha detto in quest’occasione, ma anche a quelle che ha detto lui e tanti altri in questi mesi, anche a volte con un grandissimo realismo, anche segnalando e denunciando che insomma la sfiducia nell’altro, come questo seme di sfiducia che può diventare odio, è la questione, prima ancora delle grandi questioni militari, politiche. L’attacco… Tralasciando questo aspetto, che in questa sede non è il centro della nostra conversazione, mi ha colpito in questi mesi sentire i suoi interventi, come quelli di tanti altri, che insistevano proprio su questa dimensione personale, mettendo in guardia da quel seme di odio e di profonda estraneità verso l’altro che si è insinuato, che lui e tanti altri hanno proprio evidenziato come davvero il livello anche personale dentro il quale invece bisogna resistere, in un certo senso, resistere a questa cosa che sembra irresistibile. Io adesso parlo per me, ma noi vediamo questa situazione da lontano, per cui ne vediamo semmai degli aspetti visibili, appunto il numero delle vittime, i carri armati, i bombardamenti, la sofferenza, vediamo questo. Vorrei approfittare della vostra testimonianza invece per vederlo più a livello personale, umano, che è quello che invece voi incontrate tutti i giorni e noi no. Però anche per chiederti onestamente questo aspetto, avete vissuto questo aspetto in cui l’altro che un giorno era un vicino e il giorno dopo diventa potenzialmente un nemico o una presenza ostile?

Sasso. In questo, credo che il mio radicamento nuovo in questa regione, in questa parte del mondo, mi abbia aiutato dopo il 7 ottobre. Non avevo traumi pregressi. Per esempio, nel nostro palazzo, poiché abitiamo in un quartiere misto, c’era una famiglia che abitava nel nostro condominio e poco dopo il 7 ottobre, nei fine settimana, questa famiglia se ne andava e ci dicevano: “No, no, magari andate a visitare degli amici fuori da Gerusalemme perché qui può diventare pericoloso, l’abbiamo visto in passato”. Io invece questa cosa non l’ho mai sentita, non l’ho mai provata nel senso che avevo paura perché il 7 ottobre è stato un momento così pazzesco. Quello che è successo in quelle ore, in quella mattina, era una cosa fuori dalla possibile immaginazione di chiunque, al di là di come sia stato possibile, non vogliamo entrare nel perché o nel come. Però il dato di fatto è che il livello di violenza che si è raggiunto è qualcosa di inimmaginabile. Per cui c’era una paura immediata. Però quando incontravo i miei vicini di casa, per me erano comunque sempre i miei vicini di casa. Ho portato mia figlia al parco giochi la mattina dopo e non mi è sembrata una cosa strana. Quindi forse questo mio sguardo mi ha consentito di andare al di là delle categorie e di cercare di prendere le misure in una maniera scevra da stereotipi, etichette, eccetera. Secondo me, ritornando al mio lavoro, sono profondamente in accordo con quello che dice il Cardinal Pizzaballa: il livello dell’incontro e del persona-persona è veramente quello da cui dobbiamo ripartire ed è anche il lavoro che fa la mia organizzazione. Siamo in un momento di grande sfiducia, è importante ricordare che il trauma è in corso, non è ancora finito niente; entrambe le due parti stanno ancora soffrendo, ognuna con dimensioni che possiamo guardare in una maniera o nell’altra, se guardiamo solo al numero delle vittime, se guardiamo ad altre dimensioni. Questo trauma sta ancora continuando. Allo stesso tempo, probabilmente, ci ha richiesto ancora di più di sforzarci di continuare a guardare l’altro, perché altrimenti questa spirale ci avvita e ci separa, portandoci sempre più lontani. Quello che mi dà fiducia è il fatto che il campo di quello che chiamiamo “peace building” o “shared society”, che probabilmente in italiano è una società inclusiva, è proprio un settore, cioè in Israele e Palestina ci sono delle organizzazioni che si occupano di questo, questo settore è vivo, anzi, è veramente molto attivo, non è andato in frantumi nonostante tutti gli ostacoli. Anche la mia organizzazione non lavora con i palestinesi del West Bank, noi lavoriamo solo all’interno di Israele, esatto, e a Gerusalemme est. Però anche le organizzazioni che lavorano con israeliani e palestinesi insieme incontrano molti più ostacoli, ma anche queste organizzazioni stanno lavorando, hanno adattato i loro programmi, e questo secondo me è un elemento di speranza, di fiducia nella mia piccola interpretazione personale. Questo è legato al fatto che queste organizzazioni esistono da molto e la fiducia tra le persone le tiene in piedi. Chi ha lavorato insieme, chi ha incontrato le storie dell’altro prima, sceglie oggi di dire: questa è l’unica strada, o viviamo insieme, o non viviamo; o si sceglie la vita insieme, o non si va da nessuna parte. Questo è il grande motore che ci spinge, non perché vediamo delle luci o delle cose, anzi, è veramente molto difficile continuare a lavorare in questo momento, però penso che non ci sia altra via, e i miei colleghi, così come tanti altri in Israele e Palestina stanno scegliendo di farlo, e questo è importante.

Ferraresi. Grazie.

Harman. Vorrei anche dire che i7 ottobre non è arrivato dal nulla. Per lungo tempo abbiamo vissuto in un contesto di occupazione, in un contesto anche di lotta armata e questo ha reso davvero la vita delle persone difficile su entrambi i fronti. Il fronte israeliano è quello più forte. Ci siamo forse illusi di vivere in una certa stabilità anche a causa del controllo militare e del fatto che il controllo militare sui palestinesi è elevato. Il 7 ottobre ha fatto esplodere una bolla. Ma abbiamo amici e colleghi, come ad esempio Rami, che verrà qui domani e persone come Rami e molti altri che per molto tempo hanno lavorato in questo universo, nel senso hanno cercato di unire le persone della regione, e bene, persone come lui e noi tutti sono consapevoli di questo sentimento. Il 7 ottobre ha reso tutto esplicito in un modo orribile, che è costato la vita di migliaia e migliaia di persone su entrambi i fronti, ma ripeto, non è nato dal nulla. Questo ha innalzato sicuramente la paura delle persone che temono per la loro vita. Ad esempio, per darvi un piccolissimo elemento che vi faccia capire meglio tutto questo, posso dirvi che il 7 ottobre, nel nostro edificio, tutti i nostri vicini, essendo ebrei, avevano un gruppo WhatsApp, una chat, e il 7 ottobre unanimemente, ebbene, noi siamo affittuari, ma unanimemente hanno deciso di licenziare la persona palestinese che aveva pulito le scale negli ultimi 25 anni perché avevano paura e l’hanno rimpiazzata con una persona ebrea. Questo rappresenta bene la paura. I nostri vicini sono molto aperti mentalmente, hanno amici palestinesi, sono molto liberali, ma erano impauriti. Ci sono persone che sono state massacrate nei loro letti con bambini. Ma, Mattia, credo che uno dei nostri problemi maggiori sia il fatto che forse in realtà non ci conosciamo così tanto, così approfonditamente; forse non sentiamo a fondo il dolore dell’altro, la sofferenza, non conosciamo a fondo le storie dell’altro. Anche i media sembrano schermare il mondo dell’informazione da quello che sta succedendo a Gaza. Forse sapete più cose voi di quelle che sappiamo noi in Israele, non si vedono immagini di distruzione o di corpi, di cadaveri, immagini di morte che invece vedete qui. E ci si chiede perché i fanatici e assassini, come i membri di Hamas, riescano a prosperare a Gaza. Ci sono molte motivazioni per questo, ma una di queste è che le persone a Gaza non hanno interazione con gli israeliani o anche con gli ebrei. Diciamo che al di là del contesto di soldati e eserciti, si può dire lo stesso dell’altra parte. Anche noi forse non abbiamo una comprensione completa e c’è solo una piccola percentuale della popolazione che ha colleghi, amici palestinesi. La stragrande maggioranza della popolazione israeliana semplicemente non conosce l’altra parte. Viviamo insieme ma non parliamo le lingue reciproche. Questa è una realtà surreale. In una realtà del genere, in cui non si può umanizzare il proprio vicino e tutti quelli che vivono intorno a te, è facile convincersi che gli altri siano i cattivi.

Ferraresi. Avete mai pensato di andarvene, di interrompere, di uscire da questa situazione?

Harman. Federica ci pensa tutti i giorni.

Sasso. No, non abbiamo mai pensato veramente di andarci. Quello che secondo me passa nella mia testa è che io leggo questa realtà con gli occhi di un’italiana, di qualcuno che non è abituato a questo livello di violenza. Dico sempre agli amici: quando andavo al liceo, mia madre non si è mai preoccupata che io non tornassi a casa perché l’autobus fosse esploso. Credo che questo, forse, sia un esempio estremo, ma è rappresentativo del livello di tensione, del livello di difficoltà, soprattutto dopo il 7 ottobre. Dopo il 7 ottobre ho pensato di andarmene per un po’, ma in realtà non ce ne siamo andati, siamo rimasti lì. E io penso che adesso quello è il posto dove vogliamo stare. È difficile. Due cose ho imparato vivendo a Gerusalemme in questi anni. Una è che così tante realtà sono vere allo stesso tempo. Forse la vita a Gerusalemme è un condensato di quella che è la vita ovunque, ma lì le contraddizioni sono così forti che non si può far finta che non ci siano. Le tante verità sono davanti alla faccia e quindi, o accetti che sono tutte vere e coesistenti, o non si può vivere. Da un lato, magari, c’è una parte di me che dice: “Ah, però se potessi riportare tua figlia in Liguria, sarebbe più tranquillo”. Però, allo stesso tempo, c’è così tanta ricchezza lì e questo è il posto dove lei è nata, dove viviamo, dove lavoriamo, dove siamo circondati da persone meravigliose. Quindi, secondo me, nella mia testa c’è un ping pong che si attiva ogni volta che diventa più teso e pericoloso quello che ci circonda. Però, in realtà, no. Non conosciamo nessuno. È una conversazione che ha luogo tra gli amici ebrei israeliani, non tra gli amici. Gli accademici stanno partendo, c’è un editoriale, oggi su Haaretz, che dice proprio che se questa ondata di cervelli che se ne sta andando continuerà, il paese collasserà. È una conversazione. Anche tra i palestinesi, io lavoro con le comunità cristiane e tutti i leader religiosi sono allarmati. Lo sono da anni, forse in maniera più forte da 5-6 anni, forse 10. Questa cosa esiste, perché il discorso dei cristiani e dei palestinesi è legato anche all’occupazione, non solo al 7 ottobre, chiaramente. Però, personalmente, noi per ora siamo lì.

Ferraresi. Mishy, voglio sentire anche la tua prospettiva su questo.

Harman. Ho una persona felice, ho una splendida moglie, abbiamo una bellissima bambina e sono davvero circondato da persone straordinarie. La realtà è che la vita in una zona di guerra e in Israele è contraddistinta dalla precarietà. Non è sicura. Razionalizzando, si potrebbe pensare che non ha senso crescere un bambino in un contesto violento. Ma allora uno potrebbe chiedermi perché lo fai. Ma a questo punto c’è un’altra domanda, quella più profonda, che riguarda l’identità di un individuo. È difficile rispondere, ma io sono nato a Gerusalemme, mio padre è nato a Gerusalemme. Non sono una persona religiosa, quindi il mio legame con Israele, con Gerusalemme, non si basa sul credere in Dio. Io stesso non ho una filiazione politica o un amore particolare per l’autorità, non sono d’accordo con le scelte del governo, però mi sento radicato. Mi sento parte di questa terra e si tratta anche di una questione di lingua, di profumi, di suoni, di luoghi, di paesaggi, di come sono gli alberi nel tardo pomeriggio. Tutto questo è ciò che rende una casa la tua casa. Ci sono associazioni di israeliani che si sono ricollocati, che si sono trasferiti in Valsesia, in Italia. Ci sono realtà che ti consentono di mantenere una cultura altrove, anche le tradizioni linguistiche e musicali. Però, ci si può davvero continuare a sentire a casa? Non credo, perché quando sei radicato in un luogo, la tua identità, il tuo senso di appartenenza, di identità e anche di scopo nella vita è legata a quel luogo. Forse sono ingenuo, penso ancora che la missione della mia vita, della mia generazione, dei miei amici, sia quella di rendere Israele il luogo in cui vogliamo vivere e non il luogo che è adesso.

[0:57:41 ……………..] ha anche detto, appunto, ha parlato dell’esperimento americano come di uno degli esperimenti più grandi della cultura umana moderna, l’ha detto Paul Kahn, e io provo la stessa cosa rispetto a Israele. Israele, anche se è un esperimento che è riuscito e potrebbe essere un luogo straordinario, e, per certi versi, è già così. Penso che ci sia stata una svolta pericolosa, in una direzione sbagliata. Ma persone come me, se abbandonassero il paese, lascerebbero quel luogo abbandonato a se stesso, in preda alla distruzione, nelle mani di leader irresponsabili. Quindi, invece, bisogna che la voce della ragione prevalga.

Ferraresi. Come ultima cosa, prima di salutarvi, volevo chiedervi un pensiero finale su questa idea della speranza. Quello che vediamo, almeno da qui, è che anche fare una scelta di rimanere dove si è (e avete spiegato bene che ragioni ci sono per rimanere dove uno è cresciuto) però per rimanere in una situazione che, vista da qui, sembra insolubile, abbiamo avuto l’impressione che il 7 ottobre non vada letto come un evento nuovo, ma come l’accelerazione o l’esplosione su una scala mai vista di un conflitto già esistente. Allo stesso tempo, forse serve una vera speranza per decidere di rimanere. Penso a vostra figlia piccola, anche al futuro e quindi non solo vostro, personale, anche di chi viene dopo di voi su cui avete responsabilità. Mi chiedevo se, immagino sia dentro i vostri pensieri, le vostre conversazioni anche, se c’è una speranza, se si può affermare una speranza dentro il contesto che ci avete raccontato dove ci sono tante cose drammatiche, tante ferite ma anche cose che ci testimoniano la positività e la bellezza della realtà, dell’altro, dell’incontro con le persone che ti stanno accanto. Volevo chiedervi un ultimo pensiero su questo. Fate voi.

Sasso. Per me si collega molto a quello che dicevamo prima: non vedo un’altra strada. Non c’è un altro modo di vivere insieme. Mi sembra che la storia ce lo insegni. Durante uno dei raduni delle organizzazioni di sinistra, c’è stato un incontro con Yuval Noah Harari circa un mese e mezzo fa [1:01.01 dice:] “Abbiamo già provato tante volte a fare la guerra, abbiamo visto che non funziona. Perché non proviamo, in fase sperimentale, dopo tanti tentativi falliti, a essere ostinati sulla via della pace e del dialogo?” Credo che sia un gesto che viene fatto con grande razionalità in questo momento. Nascondersi dietro i muri, nascondersi dietro la tecnologia, pensare che la dominazione dell’altro o la violenza sull’altro siano la strada per andare avanti mi sembra che non abbia funzionato. Credo che ci siano tanti individui, sia in Israele che in Palestina, che sanno che non funziona e che cercano di lavorare, a loro modo, in una direzione ostinata e contraria. La vedo così e la sento così, anche perché non è la mia storia. A volte guardo le notizie italiane e dico: “Caspita, come potrei essere utile in Italia”. Però è diventata anche la mia storia. Ho scelto che diventasse la mia storia. C’era un ragazzo americano, ebreo americano, che ha fatto uno stage nella nostra organizzazione per un paio di mesi e l’ultimo giorno, durante uno di questi pranzi “salva vita”, ci ha detto: “Sapete, penso che voi stiate già vivendo in questa stanza quello che questo posto potrebbe essere”. Ed effettivamente è vero. L’ha detto in un modo che ci ha lasciato tutti un po’ così, ma è vero. Penso che da queste relazioni si sprigioni un’energia vitale molto forte, anche perché è una luce che si accende in una situazione di grande confusione e di grandi domande, non solo oscurità ma confusione interiore. Quindi forse sono le relazioni che, in questo momento, fanno da motore. Aggiungo una piccola cosa che non ha a che fare con la tua domanda, ma ci pensavo prima, quando riflettevamo sulle parole del Cardinal Pizzaballa, una cosa che sento molto (perché le persone quando parlano con me si sentono libere di esprimere la loro opinione, sia che siano pro-Israele o pro-Palestina) io penso che una cosa che è molto importante e che si riflette sul modo in cui viviamo sul campo è anche il modo con cui il mondo si schiera rispetto a questa situazione e in quanto lo schierarsi per ci appunto si definisce per una parte o per l’altra, in realtà sia estremamente deleterio e in maniera amplificata anche per noi perché contribuisce profondamente alla disumanizzazione dell’altro, che, subito dopo la violenza fisica, è la cosa più tremenda con cui dobbiamo avere a che fare. Chi sta fuori, chi ci tiene a questo posto, per le più svariate ragioni, forse un modo per aiutarci è quello di non schierarsi, ma di schierarsi per la vita, senza schierarsi per gli uni o per gli altri, per una ideologia o religione o qualunque cosa.

Harman. Rispetto alla speranza, credo che non pensiamo ad altro, perché vivere in un contesto del genere è quello che ci guida. Questa è la verità. È anche la cosa più importante da dire. Nessuno va da nessuna parte. I palestinesi e gli israeliani rimarranno dove sono. Per poter continuare a vivere, dobbiamo imparare a vivere insieme, rispettandoci e ascoltandoci reciprocamente. Ripenso a una frase di mia nonna: “La sofferenza è sofferenza, una persona è una persona”. Dobbiamo trovare il modo per aprire i nostri cuori e capire che è questo che dobbiamo iniziare a fare se vogliamo continuare a vivere. Credo che questo sia il desiderio di tutti e riguarda tutti, su tutti i fronti. Questo è il pensiero più speranzoso che posso esprimere in questo contesto.

Ferraresi. Prima di passare ai saluti e ai ringraziamenti, devo leggervi questo avviso di servizio, che però non è di servizio, soprattutto alla luce delle parole che abbiamo ascoltato. In questo particolare momento storico, dove sempre più incognite ci fanno chiedere come è possibile costruire dialogo e pace, non potevamo non sentirci provocati e riaccesi da quanto ci ha detto il Cardinale Pizzaballa nel suo intervento all’incontro inaugurale. Per questa ragione, il Meeting devolverà parte delle donazioni raccolte nel corso di questa settimana per l’emergenza in Terra Santa. Tenetelo bene a mente quando incontrate le persone a cui potete fare una donazione. Ringrazio infinitamente e immensamente Federica Sasso e Mishy Harman per essere stati qui con noi.

Data

22 Agosto 2024

Ora

19:00

Edizione

2024

Luogo

Sala Conai A2
Categoria
Incontri

Allegati