STORIE DI CIBO E DI BELLEZZA

Storie di cibo e di bellezza

Partecipano: Mario Dupuis, Presidente Opera Edimar; Camillo Langone, Scrittore e Giornalista; Paolo Massobrio, Giornalista e Presidente Club di Papillon. Introduce Marco Gatti, Giornalista.

 

MARCO GATTI:
Benvenuti, la sala costringe molti amici ad essere fuori e li ringrazio fin d’ora del sacrificio. Il tema di oggi è storie di cibo e di bellezza e vi presento subito gli amici con cui discuteremo di questo tema. Camillo Langone, scrittore e giornalista, alla mia sinistra Dupuis che è il presidente di Ca’ Edimar che molti di voi già conoscono perché come Papillon abbiamo fatto una cena in compagnia, ma dopo ne parleremo e poi il presidente di Papillon Paolo Massobrio. Veniamo subito al tema perché oggi con Paolo presenteremo questa nuova edizione del libro che noi abbiamo voluto porre appunto nelle famiglie per riportare il gusto nelle famiglie. Ma partiamo subito dallo spunto del tema di oggi che è venuto quando Camillo Langone sul Foglio ha lanciato una provocazione che adesso vi leggo e poi cominciamo insieme a parlarne. “Ringrazio Paolo Massobrio perché con il suo I giorni del vino primo, mi ha fatto tornare la voglia di bere il frutto della vite, secondo mi ha fatto conoscere un episodio cruciale legato a Don Giussani. Una missionaria scrisse al grande educatore di sentirsi impotente di fronte alla sofferenza che la circondava. Altri le avrebbero risposto con vaghe parole, lui le rispose innanzitutto con soldi, ma non soldi per l’essenziale, soldi per il superfluo: ti mando questo denaro perché ti compri qualcosa che sia per te molto bello. Ricordati, perché tu possa continuare a dare agli uomini che incontri è essenziale che tu non perda il gusto del bello, anche il mio armadio adesso è felice, per la prima volta si sente capito”. Questo che è veramente, secondo me, uno dei passi fulminanti con cui Camillo c’entra sempre quello che ci appassiona, perché come voi sapete per noi essere adulti ed essere persone responsabili vuol dire essere appassionati del significato della vita. Allora io Camillo lo coinvolgerei proprio su questo tema, che è centratissimo con quello che sta a noi a cuore, il tema del gusto come bellezza. Oggi in un altro articolo molto divertente uscito su Libero, tu hai citato una frase di Stendhal in cui è detto che la bellezza è promessa di felicità. Camillo.

CAMILLO LANGONE:
Sì, è vero, quella frase di don Giussani però ecco, Stendhal va bene, ma don Giussani va meglio, in questo ambito, nell’ambito anche del significato della bellezza soprattutto. A me è servita questa frase un po’ per aiutarmi, perché appunto io sono uno sperperatore quindi insomma ho bisogno di giustificazioni, e un po’ perché c’è in giro l’idea che il Cristianesimo, il Cattolicesimo, sia pauperista, e sappiamo che il Vangelo, invece, consente entrambe le letture, cioè il pauperismo e il lussuosismo. Io tendo al lussuosismo, ma nella storia invece le eresie di solito hanno teso verso il pauperismo e ancora oggi diciamo tutti quelli che si lamentano della chiesa e del papa toccano sempre questo tasto. Insomma mi è piaciuta molto questa cosa di don Giussani, ci vuole un certo coraggio per dire queste cose, perché non mi sembra che ci sono oggi molti preti che dicono questo e invece fanno delle prediche estremamente retoriche sempre sulla sobrietà, su noi che siamo troppo ricchi e quindi ci sono poi i poveri che forse sono poveri perché noi siamo ricchi ed è una impostazione economista, economicistica un po’ medievale, perché sappiamo invece che la ricchezza di qualcuno non toglie la ricchezza agli altri. L’industria del lusso è una industria che dà molto lavoro e senza le persone che spendono e spandono anche in beni estremamente voluttuari e superflui non ci sarebbero gli stipendi per i lavoratori che producono questi beni. Quindi insomma è un discorso che è molto facile, è molto retorico scagliarsi contro le cose belle. Ecco, io essendo nato povero ed essendo rimasto tale, perché appunto con poca voglia di lavorare, insomma per mille motivi, mi disperdo molto, però ho sempre amato la bellezza, in modo anche eccessivo, in tutte le forme e quindi voglio dire è un problema perché la bellezza costa spesso ed è bello che don Giussani abbia rimarcato questo aspetto in realtà. Non è vero che costa sempre, ci sono delle bellezze che non costano, però nel nostro campo, nel campo del gusto, del cibo, del bere, del mangiare purtroppo la bellezza costa quasi sempre ma non sempre in termini economici, costa, può costare molto in termini di tempo, se uno non ha soldi può sempre fare della bellezza usando il proprio tempo. Io penso ad esempio al pane, una mia ossessione è il pane fatto in casa. Io abito a Parma, Parma è una città dove non esiste pane commestibile, dove all’interno del comune di Parma non viene prodotto pane commestibile, si può trovare del pane vagamente così, magari arriva del pane di Altamura, che anche lì non è che sia sempre buonissimo, comunque meglio, oppure c’è un pane di montagna perché nelle montagne di solito i pani sono leggermente migliori, insomma voglio dire è una tragedia. Magari se uno abita in Puglia non ha questo problema, però nelle nostre città del nord, in molte città del nord il pane è tremendo e allora uno gli viene da dire ma perché non ci sono delle persone che fanno il pane in casa? Ecco il pane in casa è una bellezza che costa pochissimo, cioè voglio dire costa dell’impegno, costa del tempo e io quando penso al pane in casa penso, sogno il pane fatto col lievito madre, con la madre e quando Stendhal dice che la bellezza è una promessa di felicità, che cosa c’è di più promettente di una cosa fatta da una donna con la madre? C’è un insieme di cose che sono veramente commoventi, quindi voglio dire esistono anche delle forme di bellezza indiscutibilmente sobrie, anche se la parola è brutta, che non richiedono grosso dispendio. Un’altra mia battaglia, anzi forse una delle mie battaglie principali in questo campo è la battaglia pro lambrusco contro lo champagne; non è che ce l’ho con lo champagne, non è solo il mio patriottismo no, io ce l’ho anche con lo spumante cioè in generale tutto il metodo classico, non amo il metodo classico che poi fondamentalmente fa sapere di lievito, non di lievito madre ma di altre cose insomma tutti i vini che vengono prodotti in questo modo. E sono vini quasi sempre abbastanza costosi, perché il metodo classico è costoso intrinsecamente, insomma ci vuole o il signore che fa così tutti i giorni oppure adesso ci sono anche delle grandi macchine che fanno così a macchina, però costano tanti soldi, comunque è un impegno economico notevole, quindi sono bottiglie che non possono mai costare poco. Io sono un lambruschista invece, sono un lambruschista e amo molto l’autoclave, la volgare autoclave, che poi volgare tanto non è perché anche le autoclavi costano. Le autoclavi sono delle cose dove avviene la fermentazione a temperatura controllata, l’andata in pressione di questo vino meraviglioso e io quando parlo di lambrusco però parlo di lambrusco di Sorbara il più delle volte, sono un estremista, quindi il lambrusco più estremo cioè il lambrusco più chiaro, il lambrusco più acido, il lambrusco più citrino, quello più capace di domare lo zampone, cioè il lambrusco di Sorbara. Ecco il lambrusco di Sorbara è un altro esempio di bellezza che non è estremamente impegnativa dal punto di vista del portafoglio, perché il lambrusco di Sorbara, anche nelle sue versioni migliori, ha delle cifre che sono abbordabilissime. Quindi esiste veramente anche una bellezza abbastanza portabile, abbastanza accostabile. Però effettivamente c’è la preoccupazione che invece tante forme di bellezza sono estremamente inavvicinabili. Io sono qui che parlo di cose molto pratiche, perché odio la filosofia, l’astrazione e quindi tendo a parlare sempre di cose da mangiare e cose da bere. Negli ultimi tempi io ho scritto molto di ristoranti, ho cominciato un po’ di anni fa, poi a un certo punto mi sono stufato perché i ristoranti li ho visti sempre più brutti o forse ero io che girandone tanti mi sono rovinato il palato e gli occhi, perché ho alzato troppo i miei parametri. Insomma quando uno conosce i migliori cuochi italiani poi, dopo, tutti gli altri fanno pena, insomma è un po’ un dramma effettivamente. Allora mi sono reso conto che la ristorazione italiana non è del livello che dovrebbe essere, non è al livello della nostra arte, della nostra cultura, della nostra storia, della nostra lingua, non è a livello del nostro passato come tanto del nostro presente. Soprattutto la nostra ristorazione non è al livello di quello che sono gli ingredienti dei prodotti enogastronomici che vengono prodotti in Italia. Io devo molto a Paolo Massobrio, perché io sono molto pigro, ho la bicicletta non ho la macchina, vado solamente in treno, quindi posso venire a Rimini ma già Ravenna è un po’ più scomoda. Insomma, non mi muovo moltissimo volentieri, se non a Milano, Firenze, Bologna, Roma, quindi per me Massobrio è stato fondamentale perché mi ha fatto scoprire tantissimi produttori e i produttori purtroppo sono sempre nei posti più sperduti: in cima alle montagne, nelle valli remote, sulle isolette e quindi conoscerli personalmente lo può fare solo lui, perché ha una macchina grossa, insomma è sempre in continuo movimento. Ecco lui mi ha dato questo grosso aiuto. La cosa bella, la cosa più bella ancora è mangiare e bere laddove le cose si producono con il produttore che te ne parla, però mi accontento anche di farlo a casa mia, dove io vivo appunto negli agi, circondandomi di cose belle e di queste cose molto buone che bevo e che mangio, cose che in un ristorante difficilmente entrano o comunque non entrano in un modo cosi massiccio, perché nella ristorazione c’è un problema, innanzitutto c’è un problema di costi. I ristoranti, l’alta ristorazione penso che oggi in Italia sia quasi tutta alla canna del gas o comunque molti ristoranti hanno chiuso, molti stanno per chiudere, altri sono in perdita, altri devono fare altri lavori, catering, banchetti, per andare avanti. Hanno infatti dei costi mostruosi, di tutti i tipi: affitti, personale, tasse, eccetera eccetera, e quindi voglio dire ci sono anche dei grandi ristoranti che risparmiano sulla materia prima. Questa è una cosa un po’ tremenda ma è così. E poi dopo ci sono gli ambienti appunto, lo dicevo prima a Paolo Massobrio. Paolo è un fumatore di sigaro cosi come anch’io ogni tanto e mi trovavo qualche sera fa a Trani, bellissima città, sul porto di Trani, in uno dei più bei palazzi di Trani, palazzo Telesio, dove hanno costruito dentro un ristorante, all’ultimo piano sulla terrazza, che ha una delle più belle viste del pianeta credo, del porto di Trani, della cattedrale. Però purtroppo ha quella specie di ombrelloni, di robe così, che un pochino costringono magari l’aria sotto… Insomma, nella mia tavola qualcuno ha cominciato a fumare la sigaretta, però eravamo all’ultimo piano, su una terrazza insomma, e ci hanno subito detto di spegnere o magari andare a fumare in un’altra zona della terrazza, perché altrimenti i vicini avrebbero potuto protestare. Ecco, voglio dire, è tutto cosi impegnativo e faticoso in un ristorante, invece uno a casa propria fa quello che vuole; ormai l’ultimo ridotto della libertà individuale è la propria casa, però forse se uno sta nel giardino potrebbe arrivare nel giardino del vicino non lo so, uno deve stare un po’ al chiuso forse; il problema è che uno deve stare al chiuso e quindi ecco, nei ristoranti, io non mi trovo più tanto bene, vi vedo soltanto difetti, estetici, i quadri. Io non sono mai stato da Aimo e Nadia, che è un ristorante famoso di Milano, dove ho capito che potrebbe anche non piacermi come tipo di ristorante, perché su internet ho visto le foto della sala: i quadri più brutti che abbia mai visto nella mia vita cioè dei quadri, una specie di informale, un po’ di quelle cose sgocciolate, un po’ così che sembrano anche un po’ vomito. Ma è mai possibile, ma perché non ci metti delle vecchie stampe, delle vecchie foto, delle padelle di rame come si mettevano nelle trattorie? Cioè una roba tranquilla, che non ti fa pensare, cioè che ti lasci concentrare sul cibo. L’altro dramma degli ultimi anni sono gli schermi televisivi, che sono ovunque e non c’è più un bar, cominciano anche a entrare nei ristoranti, però nei bar ovunque, anche nei bar più belli, a Parma in piazza Garibaldi, tutti i bar della distesa, tutti, nessuno escluso hanno quattro o cinque schermi. Sei circondato dagli schermi come un Truman Show e uno dice ma perché? Io voglio qui parlare con la persona con cui sono, guardare il passeggio, guardare la piazza, no! devi guardare il telegiornale, la partita, la pubblicità. Ma che roba è e quindi insomma invece a casa mia non c’è la televisione dove mangio e quindi il problema non si pone. Quindi la bellezza per me non è solo armonia e promessa di felicità, è, come dice un grande filosofo conservatore inglese Roger Scruton, è lo stare a casa nel mondo, la sensazione di stare a casa propria nel mondo, lo stare bene nel mondo. Tu sei nella bellezza quando stai bene nel luogo in cui stai e dove lui parla di un luogo, un ambiente che ti restituisca, rifletta, i valori in cui credi. Io per esempio che sono contrario alle televisioni, non voglio essere circondato da televisioni, meno che meno quando pago per stare in un posto, così la musica troppo alta, la musica sgradevole ecc. ecc., io voglio che un luogo rifletta le cose in un cui credo, le cose che io amo. Questa è un po’ l’idea della bellezza che ho, senza arrivare ad un idea di bellezza che con queste cose c’entra un po’ meno, che è un idea di bellezza che è legata più all’arte; l’idea della bellezza come qualche cosa che ti mette in soggezione, perché si dice che la bellezza rende umili, la bellezza rende riverenti. Perché il vandalismo? Il vandalismo è tipicamente diretto verso le opere di vera arte, perché nessuno va a distruggere quei quadri lì, no, cioè ci si scaglia contro la pietà di Michelangelo, ci si scaglia contro delle cose, perché il vandalo non è mica scemo, il vandalo capisce l’arte, la bellezza è facilmente comprensibile come tale, parla a chiunque. Il vandalismo si esercita sempre verso le cose belle, perché la cosa bella ti può mettere in crisi, perché noi siamo brutti, vediamo una cosa bella, che schifo! anche tu! Che invidia anche tu devi essere brutta come me! C’è un po’ questo atteggiamento, oggi nel mondo c’è moltissima invidia. Io vedo che la politica è mossa dall’invidia, la politica, cioè il ragionamento politico, spesso è basato sull’invidia e c’è questa voglia di affondare le cose, di far affogare le cose nel fango e anche la bellezza spesso è osteggiata, perché la bellezza è problematica, perché ti può dare, a una persona di un certo tipo di può dare la sensazione di amicizia del mondo ad altri, può dare una sensazione di inadeguatezza e quindi uno dice no, io voglio portare questa roba al mio livello, voglio portare il mondo al mio livello e quindi voglio sporcarlo un po’ e questo è un po’ un atteggiamento comune, un atteggiamento molto frequente insomma. Invece io propendo per un mondo bello e a volte solipsisticamente, narcisisticamente, egoisticamente mi tendo a rinchiudere in un mondo bello, ma in un mondo molto privato, mentre mi rendo conto che a volte è necessario anche uscire fuori, vedere cosa succede e cercare di costruire una bellezza pubblica, una bellezza condivisibile. L’ultima cosa che mi viene in mente, un’ultima cosa: qui siamo di Comunione Liberazione, liberazione magari non mi viene in mente nulla in questo momento però, comunione… Una cosa estremamente brutta, che per me è una cosa brutta ma è anti-comunionale, è quel fenomeno delle tovagliette americane, le tovagliette singole, le tovagliette in uso anche in grandi ristoranti, dove tu non hai la tovaglia intera ma hai la tovaglia singola. La tovaglia singola è chiaramente qualche cosa di protestante, perché tutto ha un senso, tutto ciò che esiste ha un senso e anche un significato, quindi anche la tovaglietta; quella tovaglietta lì vuol dire delle cose, vuol dire che non c’è, che si perde il senso di condivisione, perché è nata come tovaglietta per mangiare da soli in quei luoghi che sono stati fotografati, anzi no dipinti meravigliosamente da Edward Hopper, che è quel pittore delle solitudini newyorkesi. Voglio dire: è la gente che mangia al bancone ognuno solo con se stesso, con i propri pensieri, ecco già quella tovaglietta lì che sembrerebbe innocua, sembrerebbe insignificante, una moda così come tante altre stupidaggini che corrono, quella tovaglietta lì, oltre a essere per me abbastanza brutta, ma non è il brutto estetico, è un brutto di senso, ti dà la sensazione di divisione, non di comunione, ma di divisione, perché tra la tovaglietta tua e quella del altro c’è uno spazio, come se non si condividesse più la stessa cosa, lo stesso momento. Quindi, voglio dire, io che perversamente guardo in ogni luogo, in ogni situazione vedo questi difetti, queste cose, queste brutture e do’ loro un significato che a volte, forse, può sembrare eccessivo. Quindi cerco una bellezza che deve essere una bellezza condivisa e la bellezza condivisa esige una tovaglia completa, quelle belle tovaglie che cadono a terra, quelle belle tovaglie che tutti hanno, avevamo, abbiamo nei cassettoni. Ecco bisogna usare queste tovaglie, bisogna costringere i ristoranti a usare queste tovaglie. E a mettere meno parole inglesi nei menù, perché trovo spesso “lime”: io mi innervosisco moltissimo, è rimasto Enrico Brizzi, il grande Enrico Brizzi, a scrivere “limetta”, perché l’agrume, quell’agrume lì si chiama limetta, ha un nome italiano, ha un nome latino e questo è un altro elemento. E poi c’è questa anglofonia ovviamente che poi viene scritta molto male ortograficamente, perché è piena di errori sempre, no? e loro vogliono fare i moderni e scrivono “appetizer” e sbagliano le pi, le ti, le zeta, perché è sempre così, casca poi l’asino; voglio dire quando tu vuoi fare qualche cosa che non sei capace di fare, poi sbagli completamente. Ecco io cerco la trattoria forse che non c’è più o che soltanto Massobrio conosce, perché lui frequenta il Monferrato, la Langa in modo più determinato di me, oppure la casa privata dove si ritrova con gli amici a bere delle cose molto buone in un ambiente bello. Rimini, io ho notato la cosa grave del mare, del mare Adriatico: ecco perché è in crisi il turismo balneare. In Italia è in grossa crisi, perché non si vede il mare, non c’è rapporto con il mare, cioè il mare non è percepibile ma anche non solo in riviera adriatica, anche nel Tirreno: i migliori ristoranti sono lontani dal mare. Se c’è un ristorante bello, vista mare, si mangia male e questa è una cosa tremenda. Ad esempio a Viareggio c’è un ristorante molto buono che si chiama Romano, da Romano, e però potrebbe essere Sesto San Giovanni, è molto nell’interno, uno stanzone lungo senza finestre, un luogo orribile, e perché invece nella meravigliosa passeggiata mare di Viareggio non c’è un posto bello? Quindi il problema dell’Italia è anche quello che mancano dei posti veramente belli dove si mangia bene e dove si abbia un rapporto con il mare. La vista mare è stata un po’ abolita da tutte quelle file di cabine, recinzioni, stabilimenti balneari multipiano, muri, palazzine, alberghi; non si vede il mare e poi quando si vede si mangia male. Vorrei assolutamente che almeno ci ricordiamo questo: riportiamo la bellezza al mare, perché se noi guardiamo la riviera di Rimini è abbastanza terrificante. Perché la gente deve andare a Torre Pedrera, spendendo soldi stando lì quindici giorni? Non c’è motivo, bisogna che questi posti vengano riportati alla bellezza, non dico originaria, ma ci vogliono le dune, ci vogliono le pinete, no? Come fanno in costa azzurra. In costa azzurra hanno tolto tutto, a Saint Tropéz hanno tolto tutto, mi hanno raccontato, e adesso stanno tornando le dune, voglio dire la gente fa il bagno lanciandosi dalle dune, è un’altra cosa voglio dire, no? Ecco bisogna tornare alla bellezza nel cibo, ma anche nel turismo, perché altrimenti qui non verranno più neanche dal Kazakistan, a Viserba e Viserbella, perché il turismo è sempre più svogliato, il turismo della riviera romagnola, a parte chi ha la casa come dire da generazioni, la gente non ha più tanta voglia, appena uno ha un po’ di soldi se ne va all’estero. Invece noi dobbiamo portare la gente di nuovo in Romagna e bisogna dargli delle cose buone ma anche delle cose belle.

MARCO GATTI:
Grazie Camillo, e parto proprio da una delle tante provocazione piccanti che ha fatto Camillo per introdurre Mario perché, proprio sul tema della tovaglietta, l’ultimo, che è un tema che a noi è molto caro, nel senso che quella tovaglietta è veramente un simbolo di quella solitudine che noi vogliamo distruggere ed è di fatto ormai una sorta di contro-bandiera di quello che è invece il nostro concetto del gusto, quello per cui abbiamo fatto, appunto, anche “La cena in compagnia”. Abbiamo inventato questa iniziativa che quest’anno ha avuto appunto poi come terminale proprio l’opera di cui è a capo Dupuis. Per noi il gusto è un fattore di redenzione e quello che fate voi di fatto è questa espressione. Raccontaci cosa state facendo da quelle parti di Padova.

MARIO DUPUIS:
Grazie, a dire il vero quando Paolo mi ha telefonato dicendo che mi invitava al Meeting di Rimini a un incontro dal titolo “Storie di cibo e di bellezza” non è stato così immediato per me capire perché, perché di solito mi chiamano quando si parla di accoglienza, di carità, di queste cose. E proprio per questo, essendo un tipo un po’ testardo, ho accettato la sfida, abbiamo accettato la sfida con alcuni amici di raccontare di noi attraverso questa angolatura nuova, nuova, per cui vi leggo il testo che abbiamo preparato insieme. In un’intervista a Renato Farina pubblicata esattamente otto anni fa, il 22 agosto 2002, don Giussani affermava che, dopo la poesia e la musica, il gusto per la bellezza si esercita negli uomini sul cibo e sul vino. L’uomo è soddisfatto quando fa esperienza di questo gusto per la bellezza, e non può non venirmi in mente allora quello che ricordava sempre don Giussani qui al Meeting di Rimini nel 1985: “il pericolo maggiore che possa temere l’umanità non è una catastrofe che venga dal di fuori, non è né la fame né la peste, invece quella malattia spirituale, la più terribile, perché il più direttamente umano dei flagelli che è la perdita del gusto di vivere”. Si può vivere, si può avere anche la voglia di vivere, ma aver perso il gusto del vivere, perché si è smarrito come lo scopo del vivere, che il vivere non è consumare un tempo breve o lungo che è dato, ma il vivere è una strada, un cammino verso un destino. Quando guardo un ragazzo che arriva a casa nostra, a Ca’ Edimar – è una casa, a dire il vero ormai è un villaggio un po’ complesso, comunque sostanzialmente per noi una casa, dove abitiamo con un gruppo di famiglie e accogliamo ragazzi in casa con noi o che vengono durante il giorno – dicevo quando guardo un ragazzo che arriva a Ca’ Edimar guardo una creatura chiamata al suo destino, non guardo un disadattato. Un destino che per lui è qualcosa di ancora sconosciuto, un enigma, qualcosa che non si può amare, toccare, vedere, presentire, eppure sono vivaci, eccome se lo sono, anzi dire vivaci è un eufemismo, ma se incroci i loro occhi, se lasciano che il loro sguardo incroci il tuo, se accettano di incrociare il tuo sguardo come faccio spesso io toccando con la mano il più delicatamente che posso la loro faccia che guarda a terra, se accettano di incrociare il tuo sguardo, questa vivacità disordinata sfugge e affiora una tristezza che non riescono a togliersi di dosso. E l’assenza di questo gusto per la bellezza la trascinano inevitabilmente su come trattano la realtà, la casa, la loro stanza, se stessi e gli altri, su come e cosa sono abituati a mangiare. Mancano loro delle regole? Credo sia inutile rispondere. E allora io e gli altri che vivono con me a Ca’ Edimar ci diciamo: ecco, siamo chiamati a condividere ciò che hanno iniziato in loro il padre e la madre mettendoli al mondo, un cammino verso la scoperta di un destino buono per sé; semmai cammineranno zoppicando, con una parte di sé che non funziona proprio bene, ma nessuno può togliere loro di dosso il gusto del vivere, che nasce dalla coscienza che siamo fatti tutti per un destino buono. Ca’ Edimar è venuta su non per fare una predica su queste cose; per fortuna che in loro la disponibilità ad ascoltare prediche è ridotta a zero e questo ci facilita ma anche ci sfida. Cà edimar è venuta su per condividere questo cammino, con lo stesso metodo con cui il primo uomo che è venuto al mondo solo per questo scopo ha condiviso questo cammino degli uomini, di me, di te e di ognuno di loro. Questo uomo è Gesù, e che cosa ha fatto Gesù? Ha tratto dalla sua smemoratezza l’uomo che incontrava per la strada, introducendolo attraverso la sua compagnia alla verità di sé. Io ci sono, perciò sono voluto, è questo che fa commuovere il cuore dell’uomo, è soltanto così che uno può avere il gusto del vivere, tanto che diceva sempre Giussani conversando, se un giornalista avesse chiesto agli apostoli: ma chi è quest’uomo che seguite, per cui avete lasciato casa, mogli figli? Non avrebbero saputo dire che era il figlio di Dio, cioè l’origine e lo scopo del cammino umano, del destino. Ma che comunque era un uomo con cui era bello e vero stare insieme. Che non ti faceva più barare con questo desiderio di gusto del vivere e lo tirava fuori dal tuo io fin al punto, al punto in cui non potevi non dire: ma chi sei? Carrón all’incontro dell’Associazione Italiana dei Centri Culturali, nel febbraio scorso, diceva: spesso a molti di noi manca la curiosità di scoprire ciò che di vero, di bello c’è in tutti gli aspetti del reale. A me colpisce sempre, continuava, quello che dice Giussani, che il problema della vita non è un problema di intelligenza, è un problema di attenzione, e l’attenzione è quell’apertura al reale così totale che diventa vera intelligenza. Questa capacità di prendere coscienza del reale secondo tutti i fattori, che non esclude nulla e sorprende l’accadere sempre di nuove cose e altre ancora, avere gli occhi sgranati alla totalità è possibile soltanto all’interno di questa esperienza. Qualcuno che ti prende e ti spalanca, che ti fa aprire gli occhi, come abbiamo visto oggi nell’incontro alle tre con Rose e i suoi amici. Ca’ Edimar è possibile perché da duemila anni è possibile il gusto del vivere e da lì il gusto per le cose, per la realtà. Che questo gusto del vivere riaccada nel cuore dell’uomo che non desidera altro, attraverso qualcuno che ti prende e ti spalanca, ti fa aprire gli occhi e ti fa nascere la stessa domanda che aveva proprio Edimar, il ragazzino brasiliano a cui è intitolata la nostra casa, quando sentendo la poesia brasiliana che diceva: “dopo aver guardato a lungo il cielo in cerca di te, i miei occhi da scuri che erano sono diventati azzurri”, disse: “un giorno anche i miei occhi diventeranno azzurri”. Nel mentre ai nostri ragazzi si fanno vedere squarci di cielo azzurro, cioè li si introduce al gusto del vivere, attendiamo che in loro nasca questa domanda: “i miei occhi diventeranno azzurri?” E siamo sicuri che questa domanda nasce, perché in chi l’ha seguito, da Giovanni, Andrea e gli altri duemila anni fa, fino a Giussani, fino a Carrón, fino a ognuno di noi, se segue, questa domanda e la sorpresa della risposta sono una certezza di esperienza. Se mai non è da noi e con noi che nasce; vanno via a volte prima che sia sorto in modo così evidente questa domanda e questo rende ancora più gratuito e libero il nostro dedicarci a loro; ma se hanno visto il cielo azzurro, se hanno visto con noi il gusto per la bellezza come segno del gusto del vivere, questa domanda prima o poi accade. In questa educazione al gusto per la bellezza a Ca’ Edimar non poteva mancare la cucina e l’arte di fare il pane. Così ci ritroviamo una scuola di cucina e una scuola di panificazione, senza che noi le progettassimo a tavolino; ma cominciamo a capire perché è avvenuto, perché era logico che avvenisse; del resto, le verità più grandi sulla vita Gesù le ha dette mentre era a cena con i suoi, allo spezzare del pane o mentre sfamava con pochi pani, pochi pesci, più di cinquemila persone. La sfida della bellezza nel gusto di cucinare, di fare un pane buono, di fare addirittura arte attraverso il pane, come si vede da questo prodotto qui sul tavolo, nasce tutta da qui; e vengono da noi ragazzi che se gli insegnassimo solo a fare una pasta con il sugo e una bistecca ai ferri, sarebbero già contenti. Non sono esigenti, perché non hanno tirato fuori tutta la loro esigenza umana, ma quando sono sfidati a cucinare alla grande e a gustare quello che hanno cucinato e a vedere come lo gustano gli ospiti che ormai a centinaia e centinaia all’anno vengono da noi, allora è un’altra cosa; altro che accontentarsi di risultati mediocri, tanto sono ragazzi difficili; così la cucina di Ca’ Edimar è stata insignita del piatto d’argento dall’Accademia della Cucina Italiana, unico ente cultural gastronomico riconosciuto dal Presidente della Repubblica, fino a vincere il premio per il miglior primo piatto – lo devo dire in dialetto veneto: el bigolo pavan col ragù de anatra e radecio bianco variegà de lusia – al festival regionale delle scuole di ristorazione, noi, ultima scuola in mezzo a grandi colossi o a riscoprire il menù di Galileo in occasione del 4° centenario delle prime osservazioni astronomiche galileiane a Padova o il menù dei Carraresi, in cui siamo andati a riscoprire come si mangiava durante la signoria medievale dei Carraresi a Padova, tra il 1300 e il 1400. Per questo, con l’aiuto dei nostri ragazzi, a settembre sorgerà a Ca’ Edimar una cena di gala dove saranno serviti i piatti come erano allora. Due antropologi, Peter Faber e George Armelagos affermano: “tutti gli animali mangiano, solo l’uomo cucina”. Cucinare non è appena in funzione del mangiare, è creare e nel creare accade, e questo io l’ho visto, una scoperta di sé; quando ho saputo che la giuria aveva assegnato alla classe terza della nostra scuola di cucina il premio per il miglior primo piatto, il mio pensiero è andato subito agli squarci di umanità, a volte feriti, di ognuno di quei ragazzi e di quelle ragazze che all’inizio del percorso formativo hanno un interesse quasi zero. Il cammino educativo con questi ragazzi parte dal fatto che è possibile un modo di impegnarsi con la realtà, con la vita che ha dentro una possibilità nuova, di conoscenza di sé stessi; e proprio nelle settimane in cui si preparavano alla gara, guidati dai loro maestri di cucina e di sala, abbiamo detto spesso loro che è nella vita, in quella trama di avvenimenti, di incontri che provocano la coscienza, che l’uomo prende in considerazione quello che veramente è. Sembra paradossale, ma cucinando tu puoi prendere in considerazione quello che veramente sei. Fare scuola di cucina sta diventando per loro, in proporzione alla libertà con cui ognuno decide di mettersi in gioco, una trama di incontri, di suggerimenti, di provocazioni, di richiami, di correzioni, di sguardi; una sfida tesa a ridestare la bellezza della loro umanità, fino al gusto del cucinare e del mangiare; sul bere dobbiamo stare più attenti. Grazie al gusto e alla sua principale caratteristica, quella di sorprenderti, quella di rompere all’improvviso, facciamo memoria con loro di qualcosa di sconosciuto, ma che apre a una conoscenza nuova; attraverso questo linguaggio c’è la possibilità di educare; così un sorbetto al limone buono ci costringe a dire che è limone di Sorrento, ci fa scoprire il suo golfo e magari una canzone e il popolo che la canta, la sua storia e così via; inizia un nuovo modo di conoscere la geografia, la storia, le tradizioni. Questa è la sua seconda caratteristica, il gusto non rimanda a sé, non si esaurisce in un “che buono”, fosse solo per il desiderio di ritrovarlo, esso mette in movimento; insomma, nel gusto c’è la possibilità di intravedere un percorso umano possibile, sperimentabile per sé, il gusto è il frutto dell’umano operare, del lavoro, della dedizione. Così si spiega loro come nascono i grandi vini, i grandi piatti, storie di uomini, storie misteriose di uomini convertiti, che scorgono altro dentro la natura delle cose, che si arrendono al mistero che fa le cose, dentro un ordine, perché un pomodoro per insalata non è quello che si usa per il sugo; e sono incuriositi quando vengono a sapere che la storia ha affidato a un monaco il segreto del grande champagne, appunto Dom Perignon. A loro occorre essere seri, dominati dal desiderio di conoscere il destino per cui ogni cosa è fatta e così lentamente uno scopre un ordine e un modo di affrontare gli impegni prima assolutamente impensabile e sconosciuto. Ecco cosa c’è dietro un buon piatto preparato dai ragazzi. E la stessa cosa – e finisco – è con l’arte del pane, il desiderio che il pane che si produce ogni giorno a Ca’ Edimar, per imparare a farlo diventi un bene per tutti, anche per chi è talmente povero che si accontenta del pane raffermo o di quello che sembra plastica molle. Così con l’aiuto della Fondazione Antonveneta è nato il pane della solidarietà, con cui ogni giorno collaboriamo all’antica tradizione di carità che i frati di Sant’Antonio e la Caritas diocesana portano avanti: il pane dei poveri, esperienza che il prossimo anno continuerà, grazie anche al contributo che il Club Papillon ha voluto darci quest’anno in occasione della Cena in Compagnia. E così è per il pane artistico, con le sue innumerevoli forme, che può rendere più bella una tavola in occasione della Pasqua o del Santo Natale.
Di scoperta in scoperta, di bellezza in bellezza, il gusto della bellezza aiuta nel cammino al gusto del vivere. Auguro che, a chi ti introduce a questo gusto ritrovato del vivere, tu possa dire: ma chi sei tu che mi hai fatto scoprire di che cosa e per che cosa sono fatto? Da 2000 anni questa domanda può essere fatta a una presenza, dentro a dei luoghi di vita, a tavola e non più al vento. Grazie.

MARCO GATTI:
Chi ci introduce a questo gusto del vivere? Per noi di Papillon è stato sicuramente Paolo che con Silvana hanno rischiato proprio su questo spunto, su questa suggestione che, negli anni in cui nacque Papillon, era una delle suggestioni più lontane perché, se noi oggi siamo qui, è indubbiamente frutto di un cammino, un cammino che è partito da molto lontano, dal momento in cui questo gusto della vita sembrava essere ormai destinato a un’emarginazione dal quotidiano che invece tu hai combattuto e noi combattiamo da sempre. Qui al Meeting sei arrivato con un decalogo e la sfida, che poi potrete anche ritrovare allo stand, parte con questo decalogo, in cui quell’ordine di cui parlava Mario è centrale e quell’ordine poi ha un terminale nella famiglia, che è poi il motivo per cui adesso è diventato ed è questo libro, che ci accompagna 365 giorni al gusto, visto che tre volte al giorno, come tu ripeti sempre, col gusto ci si ha a che fare.

PAOLO MASSOBRIO:
Bene, grazie per la partecipazione numerosa. Io scrivo con grande orgoglio su La Stampa, che è un quotidiano che amavo fin da bambino e sognavo di scrivere un giorno su La Stampa e oggi scrivo su La Stampa. A un certo punto, una volta un mio collega su La Stampa, dove io parlo ai miei lettori ormai da quindici anni, ha scritto un articolo lunghissimo, dicendo che la Chiesa nella storia aveva ucciso il gusto. Allora io ho detto: voglio rispondere. Ho telefonato al direttore, ho detto: guarda, anch’io voglio scrivere un articolo sul gusto, ma voglio documentare una cosa diversa e per farlo sono andato in un monastero, un monastero in alta montagna, uno di quei posti che solo io posso raggiungere e ho chiesto al padre priore di cenare con lui, di pranzare con lui; lui ha consentito, ha detto: guarda, qui nel monastero noi non mangiamo insieme, c’è un buffet, i monaci si servono, quindi mangeremo insieme io e te. Allora, quando siamo stati uno di fronte all’altro ho detto: scusa, ma un mio collega ha detto che la Chiesa ha ucciso il gusto nella storia e lui mi ha risposto: sì, è vero, perché nell’’800…ecc., ecc, e ha cominciato a fare un’analisi. E io sono andato via e ho detto: ma la Chiesa che ho incontrato io non è questa cosa qua e poi questo monaco, che io stimo, mi ha fatto un’analisi, non mi ha raccontato un’esperienza. Io ho da raccontare un’esperienza della Chiesa che mi ha incontrato e che mi ha fatto incontrare il gusto. Ecco, noi siamo qui a parlare, siamo qui al Meeting e sempre lo ricordiamo, perché don Giussani è quella persona, anche nei miei riguardi, che mi ha invitato a non censurare nulla, a non censurare nulla del desiderio, dell’interesse e della passione. Addirittura nell’intervista che è stata ripubblicata su Repubblica dice: la serietà nella vita è la passione, la passione per il significato. Allora noi abbiamo fatto questo tentativo. Il Club di Papillon è un movimento di consumatori, che vuol dire semplicemente stiamo insieme per capire che significato c’è in fondo al gusto, a una cosa buona, che ci interpella varie volte al giorno e l’abbiamo lanciato qui al Meeting nove anni fa e qui al Meeting – mi ha colpito quello che diceva Camillo, quello che diceva Mario – ci sono stati alcuni passaggi fondamentali. Un passaggio fu il primo anno che ci radunammo con i delegati dei Club di Papillon e Giorgio Vittadini, che in realtà ha voluto che facessimo questa cosa per tutti, disse: guardate che voi sarete un fattore polemico dentro la società. E io me ne andai senza capire e dissi: ma come, noi ci occupiamo di tagliatelle e vino, quale polemica…no…ma chi ci attacca. Tornato a casa un giornalista mi ha attaccato dicendo: ma c’era bisogno di qualcuno che ci parlasse del significato delle cose? E andò giù pesante. E allora capii che cosa voleva dire Vittadini, cioè che quando si pone qualcosa che ha a che fare col significato, scuote, scuote la coscienza, non lascia tranquilli; è proprio l’invito che ci fece don Giussani: vi auguro – quando venne qui al Meeting – di non stare mai tranquilli. La bellezza non lascia tranquilli, ti chiama, ti scuote, ti fa muovere, ti fa essere serio, non ti fa censurare, ti interpella. Poi sempre qui al Meeting Polaris, un sociologo francese, disse che le coppie oggi, quando vanno al ristorante, non ordinano più la stessa cosa, ma ordinano cose diverse e qualche anno dopo Meluzzi Alessandro disse esattamente la cosa che hai detto tu della tovaglia: la tovaglia unisce, la tovaglia è il simbolo della comunione, la tovaglietta divide. Sembra una cosa…no…ma, come tutte le cose, nella vita, se si mette una sabbia di diversità che diventa col tempo omologazione, appiattimento, diventa perdita del gusto. Questo chicco di sabbia non è come il sale che dà il gusto alla vita, il chicco di sabbia incrippa, se finisce dentro un meccanismo lo incrippa, non va più avanti, non è più armonico. Bèh, sempre qui al Meeting, il primo convegno che feci, fu con uno storico, Leo Moulin. Era il 1992 e il titolo del Meeting era “America, Americhe” e noi parlammo del gusto in America. Quando andammo a cena con Leo Moulin, io e Silvana, lui mi disse: io sono felicissimo perché ho incontrato una cosa, che è l’esperienza cattolica, che non censura nulla, dove ho incontrato le cose più buone. Nessun’altra religione è come la religione cattolica, che ti fa incontrare le cose buone. Io ricordo che da allora con Leo Moulin diventammo amici e ci scambiammo diverse lettere nel tempo. Perché ho raccontato questo? Perché è incredibile come il carisma di don Giussani sia una continua fonte che fa fiorire iniziative, creatività; quello che hai raccontato tu è clamoroso, noi non ci conosciamo, ci conosciamo per nome, non ci siamo mai frequentati; quest’anno, quando ho saputo della tua opera ho detto: vogliamo che diventi anche nostra e l’abbiamo fatta nostra con l’iniziativa che hai tu ricordato, ma tu sei arrivato alle stesse cose a cui siamo arrivati noi…no…alle stesse…non conclusioni, perché non si conclude nulla, è tutto aperto, ma alla stessa esperienza; per cui anche tu potresti andare da quel monaco a dirgli: non mi interessa l’analisi, mi interessa raccontarti la vita adesso, la ragione della vita adesso. Bèh, qui è entrato in questo momento Renato Farina che fece la famosa intervista a don Giussani; pensate i segni della vita! Renato gli stava raccontando di cosa faceva suo figlio, che è un collaboratore di Papillon e si occupa come noi di raccontare il cibo e il vino e don Giussani gli rispose con quella sottolineatura che tu hai ricordato. Io aprii Libero e quel giorno, dopo un anno, mi trovavo con i delegati dei Club di Papillon. Cioè, questa cosa che io non pensavo potesse nascere, nasceva dopo un anno e quel giorno in cui avevo indetto la riunione, uscì quell’intervista di Renato con quell’inciso che ci accompagna sempre, che dice esattamente quello: di non censurare nulla della bellezza che c’è in questo mondo, perché tutto ci ricorda, come mi ha ricordato Carrón scrivendomi un biglietto per questo libro che gli mandai, l’origine, che è l’anti-edonismo. Allora, io concludo perché non ho molto da dire, dicendo del lavoro che ci sta più a cuore: il lavoro che ci sta più a cuore è comunicare, al nucleo educativo più importante che è la famiglia, questo gusto per la bellezza, questo gusto per la vita. Ogni anno noi raduniamo venti persone, venti autori coi quali ragioniamo: come possiamo portare il gusto dentro la famiglia, come possiamo aiutarci? E raduniamo la nonna, come la mamma che ha appena avuto un bambino, raduniamo l’artista come l’architetto che sa arredare la casa, quello che sa dirci come coltivare un fiore e quello che sa dirci come fare l’orto sul balcone. E poi facciamo questo libro e corriamo per arrivare al Meeting, perché sia pronto per il Meeting, perché lo vogliamo presentare a voi, alla gente del Meeting. Si intitola Adesso, perché se non ci decidiamo adesso, subito di portare il gusto e questa esperienza dentro la vita, non lo faremo più. Adesso, adesso curiamo il posto a tavola, adesso insegniamo ai nostri figli che cos’è una stagione che ti porta quel prodotto lì, adesso mettiamo la tovaglia, adesso facciamo queste cose, perché la vita, l’esperienza è adesso, non si può rimandare, non si può far l’analisi, bisogna viverla. Vi dico solo due cose che in questa quarta edizione nuova di Adesso mi rendono orgoglioso: 1) è che i Santi che vengono raccontati, non sono messi come nelle…ecco…è entrata in questo momento la più grande, suor Maria Gloria Riva. Stavo parlando di lei, la cosa che mi rende più orgoglioso è che il santo viene sempre descritto da una personalità religiosa e non è che ripete o copia, ecc., mette la sua esperienza. Bèh, suor Maria Gloria Riva, alla quale noi siamo molto legati perché come ci ha spiegato l’arte lei io non l’avevo mai sentita spiegata da nessuno, ha fatto i santi in questa edizione e di molti raccontando l’origine del nome oppure legandolo a qualcosa che ha a che fare con l’arte. E poi un’altra cosa che mi rende pieno di orgoglio è di aver coinvolto, bèh qui abbiamo Gabriele Criscioli che è un autore che ci racconta come conservare gli alimenti, perché il problema è lo spreco e noi siamo contro lo spreco, che è un elemento che c’è in questo decalogo. E allora perché sprechiamo? Perché non sappiamo conservare. Un’altra cosa che ho voluto coinvolgere si chiama Lucio Sotte, un professore, è un dietologo ma si occupa di dietologia cinese; ho voluto coinvolgere lui perché in Cina c’è una concezione della medicina e della dietologia che tiene conto di tutto l’uomo nella sua interezza, esattamente come lo tenevano in conto i monasteri benedettini nei loro saperi mille anni fa. Noi pensiamo di sapere tutto perché abbiamo Internet, pensiamo di essere la società del progresso, invece siamo la società dell’implosione, dove sappiamo meno di mille anni fa, perché non abbiamo il giudizio per capire le informazioni che arrivano da Internet. Ma il giudizio lo capisci solo dalla tradizione, da questa tradizione che ci arriva. Per cui non si può fare l’analisi, perché la tradizione è sempre l’esperienza, trarre dal passato ciò che rende viva la vita adesso. Questo noi vogliamo raccontare, lo sforzo di questo libro, di quello che raccontiamo qui è trarre dal passato ciò che può rendere viva la vita insieme ad esso; e quindi noi ci sforziamo di fare questo. Il libro poi deve essere molto bello, i quadri d’autore sono sempre di un autore diverso; questa è un’amica che vive in una casa a Varigotti, dove da una finestra dove don Giussani guardava il mare, lei ha iniziato a dipingere e quest’anno ha voluto fare dei quadri appositamente per illustrare ogni mese di Adesso. Concludo dicendo che, proprio per non stare mai tranquilli, io ho sempre parlato, anche nell’ambito di consessi importanti come l’Expo 2015, che ha a tema “Nutrire il pianeta, energie per la vita” e anche in questo decalogo che presentiamo al Meeting, di un punto di partenza cui ha accennato prima Dupuis, che è l’ordine; ma questo punto di partenza l’abbiamo percepito dal 10° capitolo de Il senso religioso; l’ordine dentro cui si svolge tutto, dentro cui capisci l’origine, l’ordine anche alimentare, perché se non segui l’ordine alimentare che segue le stagioni, vivi nel disordine alimentare e quindi le patologie di questo secolo. Bèh, quest’anno, dopo due anni che ripetevo queste cose, finalmente qualcuno mi ha attaccato pesantemente: non bisogna parlare dell’ordine, perché l’ordine nella storia ha portato rivoluzioni, non c’è un ordine, tutto è relativo e allora qui ho capito cosa voleva dire quello che diceva Vittadini: che è una battaglia, è una battaglia perché l’ordine c’è; il gusto non è una cosa per ricchi o per poveri, è una cosa che c’è, che ci è data. Questo bisogna però affermarlo, perché altrimenti tutto è relativo e quindi diventa relativo anche il posto a tavola, diventa relativo mangiare insieme in famiglia, diventa relativa la famiglia, appunto. Diventa relativo tutto, diventa tutto povero, tutto sempre più lontano dal suo significato; invece noi vogliamo stare su questo lavoro e vi ringrazio perché chi si associa a Papillon, chi ci scrive, chi si mette in barca con noi in questa grande avventura, lo fa per darci uno scossone, per dirci: attenzione, aiutiamoci, stiamo attenti. Come hai fatto tu coi tuoi ragazzi, come fai tu Camillo quando scrivi un pezzo e ci risvegli con coraggio, a volte; come fai tu Gloria, quando insegni l’arte. Ecco, il significato del nostro lavoro e di questa presenza al Meeting è esattamente questo. Vi ringrazio per essere venuti.

MARCO GATTI:
Solo una cosa: in questi giorni al Meeting, c’è lo stand di Papillon, lì potrete acquistare e associarvi a Papillon, ma acquistare anche Adesso. Adesso c’è anche nella libreria del Meeting; se ci vediamo allo stand è l’occasione per rimanere in barca, come diceva, insieme tutto l’anno e quindi per condividere insieme questa splendida avventura.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

22 Agosto 2010

Ora

19:00

Edizione

2010

Luogo

Sala Tiglio A6
Categoria
Focus