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Storie dalla evangelizzazione dell’America
Ha partecipato: Jean Dumont, Ricercatore e Studioso. Moderatore: Giancarlo Cesana.
Dumont: L’evangelizzazione dell’America nei secoli XV, XVI, XVII ed anche XVIII, ebbe aspetti molto variegati nel tempo e nello spazio. Però l’albero non deve nascondere la foresta: questa evangelizzazione ha avuto delle peculiarità generali, ma sempre una realtà direttrice dietro, che tenteremo qui di esporre.
Giovanni Paolo II l’ha detto già nel ‘79, in occasione della sua prima visita a Santo Domingo, nucleo di insediamento di Cristoforo Colombo in America, da dove partì una vasta impresa di evangelizzazione, che merita tutta la nostra ammirazione e riconoscenza. Poi l’ha ripetuto il 1 gennaio 1992, in S. Pietro a Roma, dicendo: “Fu una splendida realtà che non può essere sottovalutata e cioè l’introduzione della fede nel continente americano, la proclamazione e la diffusione del messaggio evangelico”. Splendore misconosciuto dagli stessi cattolici e calunniato come pochi altri. Ci furono ombre certo, come in tutte le conquiste dalla storia, ma nulla di più. Così come lo diceva recentemente un messicano molto indio, recente premio Nobel: Ottavio Paz. Eppure queste ombre sono sempre sottolineate, evidenziate in buona parte per colpevolizzare la Chiesa ed i cattolici, con la stampa, la televisione, o persino dai preti cattolici, ancora più masochisti dei progressisti, in modo che vengono nascoste non le ombre, bensì le luci.
Parlerò innanzitutto dell’evangelizzazione dell’America di cui Isabella la cattolica ed i successori non vollero lasciare l’esclusiva alla Spagna, cosa che si ignora oggi. Questa evangelizzazione fu opera delle grandi Chiese di Spagna, di Francia, delle Fiandre, alla fine dei secoli XVI e XVII in piena riforma cattolica, chiese splendenti di santi e di nuovi ordini religiosi. Come, mi chiedo, queste chiese avrebbero potuto smettere di essere ammirevoli semplicemente per il fatto che all’epoca attraversavano l’Atlantico? E quei frati spagnoli di san Giovanni di Dio, questi primi campioni della carità, che gestirono gli ospedali per gli indios delle miniere peruviane? I primi evangelizzatori delle Antille furono frati francescani venuti dalla Francia e dalla Borgogna, nominati, su chiamata diretta, da Isabella la Cattolica.
L’evangelizzazione dell’America fu dapprima la grande avventura, la grande testimonianza e la grande modernità di un cristianesimo senza frontiere, ben prima che lo diventi nella nostra Europa di oggi. Ed è l’impareggiabile Isabella la Cattolica, regina di Castiglia, che mise subito sul piatto della bilancia tutto il peso del potere a garanzia dell’autentica programmazione e diffusione del messaggio evangelico nei confronti degli indiani: priorità dell’amore, esigenza di buoni trattamenti e garanzia della libertà e, come agli spagnoli, rifiuto della costrizione per i battesimi. Fin dal 1493, qualche mese soltanto dopo la scoperta, Isabella chiede nelle sue istruzioni a Cristoforo Colombo che gli indios siano trattati con amore, “amorosamente”, dice il testo spagnolo originale del 1501; precisa anzi che è in qualità di uomini liberi quali sono, e non come schiavi, che devono essere evangelizzati, “senza esercitare su di essi nessuna costrizione”. Aggiunge nel 1503 che si tratta di agire in modo che gli indiani vivano e “siano come gli altri abitanti del nostro reame”.
Non sono solo parole perché gli atti confermano ciò. Isabella fa rimandare nelle Antille, liberi, gli schiavi indios che Colombo aveva mandato in Europa per esservi venduti e destituisce Colombo. Così Isabella, in un colpo solo, fin dai primi anni della conquista, crea la libertà temporale e la libertà spirituale degli indios. E’ il vero scopritore dell’America nella fede e nell’amore. Las Casas stesso farà sempre riferimento a lei, ricordando tra l’altro: “Sua altezza non si stancava di chiedere che gli indiani fossero trattati con dolcezza, e che tutti i mezzi fossero utilizzati e messi in opera per renderli felici”. Nel 1504 Isabella dice perfino che il primo intento della colonizzazione è di “portare questi popoli alla nostra santa fede cattolica”. Quest’ultima frase, tratta dal suo testamento, fu la regola che ispirò non solamente un Las Casas, Vasco de Quiroga, l’apostolo del Messico, ma anche i discendenti di Isabella, cominciando da suo nipote Carlo V. E sempre in modo molto concreto perché la monarchia spagnola pagò tutte le spese dell’evangelizzazione, i viaggi e il mantenimento completo dei missionari, dalla creazione delle diocesi alla costruzione di chiese e di conventi. Ed è così che, fatto poco conosciuto, i gesuiti delle riduzioni del Paraguay (le riduzioni sono i villaggi cristiani dell’epoca) ricevevano dal re di Spagna un salario generoso ed erano finanziati nelle loro spese che assicuravano, per esempio, il costo degli addobbi sacerdotali, le campane ed altro ancora. Vari studiosi hanno sottolineato che in ogni decennio queste enormi spese avrebbero, col tempo, potuto finanziare un’altra “invincibile armata” in Europa. Invece furono dedicate ad altro dalla Spagna, un pesante fardello cristiano sopportato coscientemente e con gioia per tre secoli.
L’intervento di Isabella e dei suoi successori, come il dono delle chiese di Spagna, di Francia e delle Fiandre, furono provvidenziali, perché la Roma dei papi del rinascimento, quella di Alessandro Borgia, del papa in corazza, di Giulio II, invischiata nelle sue corruzioni, si preoccupò ben poco della evangelizzazione americana e non apportò nessun apporto diretto. Il primo intervento in materia, provocato d’altra parte da religiosi spagnoli d’America, avrà luogo nel 1537 soltanto, con le bolle di Paolo III, tra cui la Sublimis Deus, che non fecero altro che imitare ciò che aveva fatto Isabella. Ed è il vero e proprio vicariato apostolico affidato dalla Chiesa alla monarchia dei discendenti di Isabella, fin dal 1508, che assicurò la scelta dei missionari, dei vescovi e il lavoro di amore spirituale nei confronti degli indios e anche degli schiavi neri. Questo lavoro fu di tutto un popolo cristiano, dei religiosi ovviamente, con una miriade di figure notevoli, un San Francesco Solano, francescano, lanciato alla ricerca di indios col suo violino, attraversando le tremende selve del Paraguay, oppure quest’altro profilo angelico, San Luis Bertran, domenicano, evangelizzatore e servitore degli indiani di Colombia, oppure San Pierre Claver, gesuita, che per quarant’anni si è fatto protettore degli schiavi neri dei Caraibi, di cui, si dice, baciava le piaghe. Verrà promosso dalla Chiesa patrono delle missioni presso i neri, ciò che ci ricorda che l’evangelizzazione dell’America fu il modello di tutte le missioni. Un altro modello ci verrà dai gesuiti delle riduzioni del Paraguay e di altrove, spesso al prezzo di una vera schiavitù che subivano per servire, per vivere al servizio degli indios che avevano radunato. Le lettere alla famiglia dell’ultimo provinciale gesuita del Paraguay mostrano che non potevano nemmeno rispettare il riposo della domenica, dovendo egli dedicare tutti i pomeriggi di festa a tagliare i vestiti per gli indios, a fabbricare saponi, oppure alla concia delle pelli. Ma questo lavoro di travaglio e di amore spirituale fu anche affare del clero secolare e dei vescovi contrariamente a ciò che si scrive troppo spesso. Un Girolamo di Loyasa, primo arcivescovo di Lima, fece restituire dai conquistadores, sotto pena di rifiutare loro l’assoluzione, tutto quello che avevano strappato agli indios fino ad indicare in questi i loro eredi universali. E trascorse i dieci ultimi anni della propria vita in un ospedale, che egli stesso aveva costruito per gli indios, dove si mise al servizio loro e dove morì. Citiamo anche San Turibio de Mogrouejo, secondo arcivescovo di Lima, che morì sul duro cammino di 14 anni di visite, praticamente ininterrotte nella sua diocesi, a dorso di mulo o a piedi, fino alle capanne più sperdute, dove instancabilmente faceva il catechismo, cresimava e dava tutto agli indios, anche la propria camicia.
Ma il lavoro di amore spirituale fu anche fatto dai laici. Dapprima quello del primo dei laici, il re di Spagna. Va detto, per esempio, che i villaggi gesuiti del Paraguay non sono nati su iniziativa dei gesuiti, bensì di Filippo III, che chiese la loro creazione nel 1609, al governatore del Paraguay, cui proibì da allora in poi la conquista del Paraguay. E poi i laici del potere coloniale, come il vicere del Perù, Toledo, che in ogni parrocchia indiana creò un ospedale e una scuola di musica e che assicurò agli indios diritti di sfruttamento minerario uguali a quelli degli Spagnoli. Il viceré del Messico, Mendoza, tutti i mercoledì riceveva personalmente le lamentele degli indios e aiutò fino in fondo gli evangelizzatori. Oppure ancora, un ministro del governo spagnolo del Messico, Vasco de Quiroga, che prima di Mendoza accolse i bambini indios abbandonati e che dedicò il proprio salario ed oltre, per finanziare i suoi ospedali indiani della santa fede, che è un rinnovo delle comunità dei primi cristiani che egli stesso andò ad evangelizzare: compiti che allargherà ad una intera provincia, Mitchuacan, quando sarà nominato vescovo, direttamente vescovo da laico che era.
Una fonte di progresso economico e sociale fu l’avvio dell’artigianato e la fondazione di collegi (analogamente sta facendo oggi l’Unesco nei paesi del Terzo Mondo). In Perù si ebbero anche, caso unico nella storia della Chiesa, quattro dei sei apostoli canonizzati, del secolo religioso che seguì la conquista. Erano semplici laici, Santa Rosa di Lima, San Martino da Porres, san Giovanni Macias, e santa Mariana da Quito. Il fatto è che ovunque i laici, organizzati in terzi ordini potenti e confraternite ancora più potenti, ebbero un ruolo capitale nella cristianizzazione della società indiana e creola dell’epoca. Questo lavoro di amore spirituale fu anche opera dei conquistadores stessi, contrariamente ad un pregiudizio radicato ancora oggi. Cortez, conquistador del Messico, che i francescani chiameranno il nuovo Mosè e gli umanisti spagnoli nuovo San Paolo, sarà il primo organizzatore dell’evangelizzazione sul continente americano da parte del mini concilio che si radunò nel 1524 e fu il fondatore del primo ospedale a Mexico. Pizzarro fu talmente attento all’evangelizzazione che, nel dicembre ultimo scorso, i laici universitari spagnoli dei gruppi di appoggio missionario “Giovanni Paolo II”, intenti a rievangelizzare il Perù, ci hanno detto di prenderlo a modello. Ricordiamo inoltre, alla fine del XVI secolo, un centurione spagnolo, uscito dal rango, il conquistador Rodrigue de Rio, che guiderà un’ammirevole conquista pacifica e cristiana del nord del Messico.
E’ spesso impossibile distinguere i conquistadores dagli evangelizzatori; infatti gli uni e gli altri appartengono allo stesso popolo cristiano, frequentemente alle stesse famiglie cristiane. In Perù, l’evangelizzatore più amato dagli indiani, perché parla molto bene le loro lingue, è il gesuita Martin Pizzarro, nipote del conquistador. In Messico il conquistador Rodrigue de Rio ha un fratello francescano, morto martire dell’evangelizzazione a suo fianco.
Infine l’evangelizzazione è opera degli indios stessi. Si registrano vere e proprie migrazioni apostoliche, intere famiglie in prima linea nell’evangelizzazione, a mille chilometri da casa, e questo per venire in aiuto al conquistador evangelizzatore Rodrigue de Rio. Questo avvenne in Messico, ma anche in Perù, là dove uno dei più efficaci evangelizzatori sarà il principe inca Paolo, fratello dell’imperatore inca Uascar che aprirà quattro scuole di catechismo di cui una a Cincia, con oltre 500 indiani. Ce n’è abbastanza per dire che l’evangelizzazione degli indios non fu una evangelizzazione forzata e nemmeno superficiale, come si è troppo spesso scritto. Popoli indios interi e di primaria importanza abbracciarono subito autonomamente la fede cristiana.
Va detto che, grazie all’estrema fecondità missionaria della Chiesa spagnola, si ebbe in Perù una missione con annessa scuola per mille persone affinché i missionari potessero tenere i bambini indios tutto il giorno per allevarli nella fede cristiana. Tutto ciò si faceva in piena libertà. Il primo concilio d’America, quello di Lima, nel 1552, stabilì: “Ordiniamo che nessuno battezzi indios di oltre 8 anni di età, senza verificare che venga volontariamente battezzato e per amore a quanto richiede e riceve, e capisca il sacramento. Non si dovranno battezzare bambini indios prima dell’età di ragione, oppure contro la volontà dei genitori o di coloro che ne hanno la carica”. Se avvennero distruzioni di idoli o di templi pagani, come al tempo delle missioni di San Martino e di San Bonifacio, in Gallia o nella Germania post romana, fu in ragione dei sacrifici umani che spesso alimentavano in America questi idoli e questi templi. Sacrifici umani e antropofagia, un rituale che nemmeno oggi accetteremmo, almeno in nome dei diritti dell’uomo e del diritto di intervento per garantirli. Però ci furono avvertimenti in tal senso, come quello del concilio di Lima, sempre nel 1552, che stabilì: “La Chiesa non sia autorizzata a distruggere i templi e gli idoli nei villaggi di infedeli”.
Sicché in Perù, un gran numero di templi incaici rimasero in piedi durante il primo secolo dell’evangelizzazione. Di più, ci fu una profonda alleanza dell’evangelizzazione con il meglio delle culture native. In Perù la cultura Chetchua, per esempio, divenne e rimane ancora oggi una cultura profondamente cristiana. Grazie alle scuole di musica e alle capacità letterarie degli evangelizzatori del secolo d’oro spagnolo, l’insieme delle preghiere, parabole, inni Chetchua sono cattolici, appartengono alla letteratura Chetchua, come i canti e i miti folcloristici, e questo è stato scritto dallo specialista José Maria Ardeguas, un non cattolico.
Tutta la liturgia e l’evangelizzazione avvennero nelle lingue indigene di cui le cattedre erano state moltiplicate. Il re di Spagna, infatti, responsabile del patronato ecclesiastico, stabilì “che si dovevano ordinare sacerdoti, e non riceveva licenza di esercitare tale sacerdozio nessuna persona che non sapesse la lingua indios”. Così l’evangelizzazione non fu affatto una cieca europeizzazione e nemmeno la nuova Chiesa d’America una chiesa di importazione, bensì una scuola e una chiesa veramente indiana come ha osservato lo storico della teologia della liberazione, Enric Dussel. Ovunque in America, ed in particolare in Messico, ci fu simbiosi tra l’arte cristiana e le arti precolombiane, in quella colossale testimonianza che è l’arte indiocristiana del XVI secolo, di cui lo specialista messicano Costantino Reyes Valerio ha pubblicato un primo bilancio. Soltanto in Messico si possono contare 120 monumenti e decine di migliaia di metri quadrati di pittura e di affreschi; quest’arte indiocristiana manifesta la potenza artistica dell’evangelizzazione americana. Il protestante inglese Toynbee, nella sua opera La religione vista da uno storico, celebra il modello mondiale della felice fusione di due civiltà.
Tutto questo fin dal 1531 ricevette la ratifica dall’alto, con l’apparizione della Vergine al povero portatore indiano Juan Diego a Guadalupe, in Messico. Un’apparizione il cui racconto, Nican Mopohua, scritto in lingua azteca, il Nahuatl e in caratteri latini da parte di un indios, risale al 1540 e non è altro se non l’altissima testimonianza indiana e cristiana, il primo testo letterario azteco mai scritto fino ad ora. Infatti gli aztechi ignoravano la scrittura e questo ce lo ha fatto osservare l’accademico spagnolo Luca de Tema. A proposito dell’immagine che la Vergine volle lasciare sul mantello di Juan Diego, il papa Benedetto XIV noterà secondo il salmo: “Dio non fece nulla di simile per nessun’altra nazione”. Allo stesso modo fu culturalmente indiana l’apparizione di Guadalupe, secondo la formula dello storico messicano Miguel Leon Portilla. In Perù anche culturalmente indiani furono senza nessun intervento europeo i grandi santuari di Copacabana e di Cocciardas; nel primo santuario, la Vergine fu scolpita nel 1583 da un indio del luogo, Tito Iupanchi, nel secondo una copia della stessa Vergine indiana fu innalzata da uno dei suoi miracolati, lo storpio indiano Chimici che per lunghi anni mendicò per raccogliere il denaro necessario ad innalzare questo santuario alla Vergine.
Così si compie pienamente questa splendida realtà dell’evangelizzazione americana, di cui ci parla Giovanni Paolo II. Una splendida realtà la cui storia successiva sarà abbondantemente confermata. In Perù, la cristianizzazione degli indios sarà talmente profonda che la grande rivolta contro il potere coloniale, voglio parlare di quella di Topak Amaru, alla fine del XVIII secolo, si farà in nome del cristianesimo, in un totale rovesciamento dei riferimenti religiosi degli indios, rispetto alle loro origini arcaiche, come scrive Nathan Vashtel, lo storico della visione dei vinti. In Messico, dal 1925 al 1930, sarà il cattolicesimo indios che si opporrà con resistenza eroica all’impresa di scristianizzazione violenta dei senza Dio giacobini e bolscevichi.
L’evangelizzazione delle Americhe null’altro è stata se non la realizzazione del disegno di Dio, di cui ha saputo mostrarsi degna. I popoli d’America sconosciuti dagli europei erano conosciuti da Dio dall’eternità e da lui protetti da quella paternità che il figlio ha rivelato nella pienezza del tempo, come leggiamo in Galati 4,9. Mai le parole di Paolo hanno risuonato più giuste; coloro che erano asserviti agli elementi del mondo, a degli dei che non erano degli dei, videro conferire l’adozione filiale come figli e come eredi. A coloro i quali, più per ignoranza che per maligna ideologia, sorridessero di queste affermazioni a dispetto di immensi archivi e testimonianze, e a dispetto del profondo cristianesimo indiano stesso, rispondiamo con l’immagine del primissimo insediamento cristiano in America, l’isola di Haiti, Santo Domingo, dei primissimi anni della scoperta e dell’evangelizzazione, cioè degli anni 1500.
All’epoca gli edifici sono molto leggeri, di paglia (come poi lo sarà il celebre convento domenicano da dove si alzerà nel 1511, il sermone di difesa degli indiani da parte del domenicano Montesino, precursore di Las Casas) salvo un edificio, uno stupendo edificio di pietra, con le volte gotiche secondo la rivisitazione del rinascimento, le cui rovine esistono ancora a Santo Domingo dopo la parziale distruzione del 1911. Si trattava forse di una chiesa trionfalista, del palazzo di un governatore, della caserma dei conquistadores andando a confermare ciò che certuni osano chiamare “l’oppressione cristiana dell’America?”. Questa unica, impareggiabile, grande costruzione di pietra di Santo Domingo è un ospedale, l’ospedale San Nicola di Bari. Il modello è italiano perché si è ispirato al grande ospedale romano del Santo Spirito di Sassia, creato dai laici italiani dell’ordine ospedaliero del Santo Spirito, il cui esempio si era esteso all’intera cristianità europea, da Parigi a San Giacomo di Compostella. L’iniziativa di questa ammirevole costruzione è stata ancora una volta di Isabella la Cattolica. Fin dal 1503, Isabella diede ordine al governatore Ovando, che “crei nelle agglomerazioni e nei villaggi dove lo giudicherà necessario, degli ospedali dove verranno accolti e curati i poveri indios e cristiani”. Se questo edificio è così ampio e così bello, contrariamente ai luoghi comuni così radicati sulle abominazioni compiute dai primi cristiani venuti in America, lo si deve ai doni generosi degli abitanti della città, del municipio e per gran parte dall’isabellino Ovando, col proprio patrimonio. Ovando innalzò due altri ospedali per indios e cristiani, nella stessa isola. Questi ospedali ospizi furono forse un’isolata buona azione? Rapidamente dimenticata? Niente di tutto ciò. Nel 1509 Ferdinando il cattolico (Isabella era morta nel 1504) ordinò al governatore Diego Colon, successore di Ovando, di fare una corretta manutenzione e di incrementare questi ospizi. Non appena i conquistadores si insediano sul continente americano vero e proprio, cioè a Panama, immediatamente innalzano un ospedale ospizio (1513), prototipo dei numerosissimi ospedali che andranno a popolare l’America ispanica, tra l’altro gli ospedali per indios, su iniziativa di un ordine ospedaliero americano, l’ordine dei betlemiti, animato anch’esso dai conquistadores e da alti funzionari e anch’esso finanziato dai coloni. Così fin dall’inizio del 1500, i primi grandi edifici europei in America sono stati eretti a San Domingo e non furono quelli dell’oppressione, bensì monumenti della carità, dell’amore cristiano, seguiti da altri monumenti, immortali testimonianze e modelli ancora oggi.
L’evangelizzazione, nel suo insieme, costituisce un modello per la nuova evangelizzazione, alla quale il papa Giovanni Paolo II ci chiama tutti con impegno effettivo, instancabile, generoso come fecero allora laici e religiosi di ogni ceppo fatti veramente apostoli.
Cesana: Questo è l’unico incontro a cui avrei desiderato partecipasse più gente perché non è giusto cercare solo emozioni e quanto è giusto un sano antiintellettualismo, tanto è sbagliato che non si cerchi di capire come stanno le cose. Jean Dumont ci ha fatto veramente capire come siamo ignoranti della storia e come abbiamo bisogno di conoscere la storia, soprattutto la storia della Chiesa, che è la storia del nostro popolo.
Il suo intervento mi faceva venire in mente una discussione che mi è stata riportata avvenuta durante un convegno di preti statunitensi. Un prete progressista aveva fatto una filippica contro la colonizzazione, la conquista e le violenze in America latina. Un altro prete gli ha fatto notare che in America Latina questo dissenso c’era, perché i latino americani lì sono sempre esistiti, mentre in America del nord li han fatti fuori. Io credo che proprio questa osservazione ci aiuti a capire come la documentazione che ci è stata data oggi sia significativa perché in America Latina il meticciato, cioè il fatto che la popolazione dei conquistadores e degli spagnoli si sia mischiata con la popolazione locale, è un fatto molto diffuso e le riserve non ci sono, mentre nell’America del Nord non ci sono più indiani. Però l’America del Sud è stata conquistata, diciamo così, da cattolici retrogradi, quella del Nord invece sembra sia stata liberata.
Pensiamo a queste cose e cerchiamo veramente di capire come va il mondo.