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STORIE DAL MONDO. Rassegna di reportages internazionali. A cura di Roberto Fontolan e Gian Micalessin.
50 Italiani di Flaminia Lubin. Produzione: Francesco Pamphili Film Kairos. Cinquanta tra ufficiali e diplomatici dell’Italia fascista hanno salvato più di 50.000 Ebrei. Perché? E come? Partecipa: Marino Bastianini, figlio dell’Ambasciatore Giuseppe Bastianini.
ROBERTO FONTOLAN:
Vi prego di prendere posto, come sempre due brevissime parole per presentare il lavoro di questa sera che si intitola: Cinquanta italiani. E’ frutto di un lunghissimo lavoro di ricerca e di documentazione storica condotta in diversi Paesi, ed è stata trasmessa dalla Rai nello scorso febbraio, narra una storia poco conosciuta, la vedremo come sempre, perché non voglio anticipare niente, è un racconto molto affascinante, molto trascinante di un periodo storico che ci riguarda ancora molto da vicino, non solo per gli aspetti storiografici di queste vicende narrate ma anche per tutto il complesso di interrogativi morali e umani che suscitano le storie che vedremo insieme. Quindi buona visione, come sempre subito dopo avremo un po’ di minuti per scambiare osservazioni e fare domande. Grazie.
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GIAN MICALESSIN:
Bene, siamo qui con il figlio di una delle personalità che contribuì a permettere che questi italiani salvassero questi ebrei. Questo documentario è importante perché c’è stato un momento in cui la storiografia ha cercato di mettere sullo stesso piano il modo in cui si comportò l’Italia e la Germania, e invece da questo documentario emerge che per quanto l’abominio delle leggi razziali ci fu, l’Italia poi dal punto di vista dei suoi cittadini, dei suoi funzionari, anche dei suoi gerarchi fascisti, reagì in maniera diversa. Lei che è stato figlio di una persona che contribuì in maniera notevole a permettere che questo avvenisse, che cosa ricorda di suo padre?
MARINO BASTIANINI:
Devo premettere che quando questi fatti accaddero io ero piuttosto piccolo, avevo sei anni, e quindi ho dei ricordi flash, che poi ho riunito in una certa maniera e poi ho completato quando ho avuto modo di passare più tempo con mio padre gli anni successivi. Questi fatti suscitano non poca emozione e non poca sorpresa, anche perché se ne è parlato poco, ma in realtà si sono verificati, come il documentario dice, con frequenza e ai più diversi livelli di responsabilità politica, perché quello che deve essere chiaro a ciascuno di noi è che vennero questi interventi di salvataggio effettuati nei limiti delle responsabilità e delle possibilità di intervento che ciascuno aveva, indipendentemente dal fatto che chi eseguiva questi interventi condividesse l’ideologia fascista o meno. Quindi io devo dirvi con molta franchezza, perché non voglio nascondere a voi le cose come stanno -, storicamente, mio padre era fascista ed era un convinto fascista. Fu vicesegretario del partito fascista a 21 anni, nel 1922. Poi fece tutta la sua carriera diplomatica conservando questa sua convinzione, fu due volte sottosegretario agli Esteri, la seconda volta con Mussolini che quando si occupava di altre cose lasciava a lui la piena responsabilità del Ministero degli Esteri. E per il suo intervento sulla Francia, si guadagnò anche la qualifica di ebreo onorario, che Ribbentropp gli dette e che è rimasto e che si trova su certi libri di storia, qualifica che per la verità lui mai mi disse che gli fosse dispiaciuta. Debbo dirvi che questi interventi vennero fatti sostanzialmente per quattro ragioni. Diciamo che le motivazioni interne che spinsero queste persone ad effettuare questi interventi ai limiti delle loro possibilità erano quattro: la prima che era propria del livello più elevato di responsabilità politica, era una fondamentale antipatia nei confronti dell’alleato tedesco. L’alleanza con i tedeschi, l’entrata in guerra a fianco dei tedeschi, fu una cosa che incontrò la forte, ma inutile, opposizione di tutta una serie di politici di alto livello. che cercarono inutilmente nell’anno in cui questa decisione venne gradualmente presa da Mussolini, di fargli cambiare idea. Quindi, questo già è un elemento che riduceva l’inclinazione a dar seguito alle imposizioni tedesche. Vi era un secondo elemento, era quello della Convenzione, soprattutto dopo l’incontro di Wansee, nel gennaio 1942, quando iniziò in maniera sistematica l’eliminazione nei campi di concentramento tedeschi degli ebrei, ma non soltanto degli ebrei. Quando si cominciò quindi a conoscere prima per sentito dire, poi in maniera più dettagliata cosa stava accadendo in quei tremendi campi, ci fu una sorta di ribellione del Foro interno in queste persone, che sentivano che non si poteva coinvolgere l’Italia in dei crimini di questo genere. C’era quindi la sensazione che, qualunque cosa l’Italia avesse fatto, collaborare direttamente o indirettamente in queste azioni avrebbe rappresentato per il Paese una ferita che non si sarebbe mai più rimarginata nel futuro. C’era poi un terzo elemento che era proprio la coscienza personale di ciascuno. Io vi posso solo dire quello che capii e compresi da mio padre. Mio padre era un uomo indipendente, la sua indipendenza veniva dalla sua consapevolezza del suo status di essere umano e degli obblighi che questo comporta, al di là e ben al di là dell’obbligo di fedeltà ad un’ideologia che si era scelto. Lui aveva una coscienza umanistica da questo punto di vista. Una coscienza che non muoveva dall’obbligo di eseguire, dal dovere di eseguire l’ordine dell’autorità indipendentemente del suo contenuto, ma dalla consapevolezza che lui avrebbe dovuto rispondere dei suoi comportamenti non all’autorità in quanto tale, bensì al mondo a cui apparteneva in quanto essere umano, quindi c’era in lui una contraddizione tra la sua scelta politica e la sua scelta che faceva come essere umano, e che però componeva con la consapevolezza che questo era l’atteggiamento giusto e corretto che lui doveva prendere nei confronti del mondo. Queste sono le ragioni che hanno mosso tutte queste persone. Dunque, mio padre parlava molto poco volentieri di questo episodio. Credo che il conflitto interiore che queste vicende ebbero in lui fosse grande. Non ne sono sicuro, io traggo delle conclusioni da delle riflessioni mie, di figlio, nei confronti di un padre che quando si toccava questo argomento preferiva non parlarne. Certamente non lo considerava come un merito che gli doveva essere accreditato, certamente lo considerava come una prova che lui doveva fare e che in quanto tale rientrava in un certo tipo di normalità. Lui era stato condannato a morte da Mussolini perché aveva firmato l’ordine del giorno Grandi che portò alla caduta del Fascismo, scampò alla fucilazione del processo di Verona solo perché si rifugiò nel Chianti insieme a tutta la famiglia. Per la verità non parlava volentieri di tutto questo, dell’alleanza tedesco-italiana, credo che ancora per lunghi anni sino alla sua morte tutto questo rappresentasse per lui un ricordo tragico, drammatico.
GIAN MICALESSIN:
Ringrazio molto l’avvocato Bastianini perché queste parole mi colpiscono per una riflessione che mi ha colpito quando ho visto il film la prima volta, presentato al Festival di Roma e cioè il grande tema morale: l’uomo, anche nelle condizioni più difficili, anche nelle condizioni più proibitive, può compiere una scelta. Di questo tema della possibilità della scelta si è scritto moltissimo, si è ragionato tantissimo. Mi viene in mente il libro che io considero il libro del Novecento che ripropone al fondo questo grande tema morale dell’uomo e che è Vita e Destino di V. Grossmann, che è un’epopea grandiosa di tutta la storia del Novecento e ci sono dei passaggi in questo documentario che mi ricordano questo grande tema morale. Per quanto sia grave, proibitiva la condizione, quando anche tutta la storia, l’ambiente ti dice che devi compiere un gesto malvagio, puoi fare qualcosa per non compierlo e anzi fare qualcosa per il bene, in fondo suo padre come gli altri protagonisti, questi 50 italiani che hanno inventato i marchingegni più fantasiosi, si sono sottoposti alle umiliazioni e alle mortificazioni nel rapporto coi nazisti, in quel periodo sono riusciti a dare questo senso, ci insegnano questa cosa: l’uomo può fare qualcosa di bene anche nelle peggiori condizioni, ed è un grande tema anche del libro di Grossmann. Come sempre se c’è qualcuno che vuole fare qualche osservazione o domanda la possiamo fare qui con questo nostro graditissimo ospite che è venuto da Milano per questa serata. Purtroppo l’autrice, Flaminia Lubin, non è potuta partire da New York per un impedimento grave di famiglia e quindi ad alcune domande che magari qualcuno voleva sapere, non siamo in grado di rispondere. Volevo sottolineare questo punto. Io direi però che non è solamente una questione di scelta; è sicuramente la scelta di una persona, suo padre; ma suo padre è un po’ a capo di un’istituzione che dirama ordini precisi; cioè qui c’è una scelta politica. C’è un scelta umana ma c’è anche una scelta politica; vediamo che i tedeschi dicono: Nizza o la Costa Azzurra è diventata la terra promessa degli ebrei. Quindi vediamo tutta una serie di documenti, dispacci…Quindi fanno capire che surrettiziamente l’Italia non collabora.
MARINO BASTIANINI:
Qui tocchiamo un argomento che è stato molto dibattuto dagli storici del periodo. Quello che posso dire è, per averlo vissuto in prima persona, attraverso mio padre, che si fece da parte anche dei più convinti fascisti della prima ora una netta separazione tra quello che venne chiamato da loro “fascismo storico” e quella che fu poi l’attitudine di Mussolini dopo la dichiarazione dell’impero e che portò sostanzialmente ad un cambiamento del suo atteggiamento nella direzione peggiore, cioè di un cesarismo totale e incondizionato. Fu quello in cui certi atteggiamenti cambiarono; la dichiarazione della guerra poi portò evidentemente a tutta una serie di crisi di coscienza, ripensamenti, di verifiche di situazioni personali, di possibilità di interventi, che poi sono quelle che sfociarono nel 25 luglio; troppo tardi, inutili, ma insomma per dare una ragione (se si vuol dare una ragione) a certi comportamenti o a certe decisioni, quando venne votato l’ordine del giorno Grandi che pose fine al fascismo mussoliniano, questo era l’epilogo di un processo di differenziazione che si era formato negli anni precedenti. Su questo però molti storici non sono d’accordo.
ROBERTO FONTOLAN:
Bene, io vorrei ringraziare moltissimo questo nostro ospite, l’Avvocato Bastianini; ribadirgli tutta la stima anche per quello che ha raccontato, questi ricordi, seppure così da giovane, ma anche per le parole che ha detto prima della scelta compiuta al di là della condizione politica o delle scelte politiche; c’era un dovere umano che suo padre sentiva, un dovere immediatamente umano e questo era normale, non si sentiva particolarmente eroico per questo, né ha mai voluto gli fosse attestato alcun riconoscimento. Come mai? Perché considerava normale, così in conclusione, questo atto per il quale comunque occorreva anche del coraggio in quel contesto storico.
MARINO BASTIANINI:
Io credo che lui lo considerasse normale: in primo luogo perché lui si era confrontato con la sua coscienza e si era trovato in accordo con se stesso in queste decisioni. Poi mio padre era un uomo che aveva una profonda fede; credo che anche questo abbia evidentemente, nella composizione degli elementi che costituirono questo tipo di coscienza, giocato un ruolo molto importante.
GIAN MICALESSIN:
Diciamo che suo padre non parlò, ma dopo la guerra rischiò di venire processato; quindi si tenne dentro…
MARINO BASTIANINI:
Mio padre si trovò, come si dice, ostile a Dio e ai suoi nemici. Nel senso che venne prima processato dai fascisti e poi ricercato dai fascisti di Salò per la condanna a morte; poi si ritrovò ricercato, dopo la caduta definitiva del fascismo, da nuovo sistema politico che si era venuto creando, perché vi erano i cosiddetti processi di “defascistizzazione” che riguardavano i principali collaboratori di Mussolini, dei quali si volevano identificare le responsabilità in ordini a decisioni prese, alla guerra e ad altro. Subì il processo, venne assolto, venne riammesso alla carriera diplomatica; poi si verificò un caso assolutamente straordinario: cioè essendo lui divenuto diplomatico giovanissimo (all’età di 30 anni), rientrando in carriera nel 1948-49, lui diventava ambasciatore decano, il che lo avrebbe messo da un punto di vista protocollare in una posizione particolare che sembrava o era anacronistica, visto il suo percorso precedente. Quindi lui ancora una volta, senza che nessuno glielo chiedesse, comprese che era una situazione che non poteva essere rispettata e si dimise, chiese di essere messo a riposo, ma autonomamente.
ROBERTO FONTOLAN:
Bene, anche con questo ricordo della statura di un uomo che ha saputo fare scelte così importanti, vi ringrazio tutti, ringrazio l’Avvocato Bastianini. Domani sera il nostro ciclo si conclude con un reportage firmato dal nostro Gian Micalessin e da Monica Maggioni, che sarà qui con noi, che sarà intitolato: Cristiani in Iraq; è un’anteprima assoluta, perché è un lavoro prodotto per la RAI che non lo ha ancora trasmesso. Grazie e buona serata.
(Trascrizione non rivista dai relatori)