STORIE DAL MONDO. OUT OF TEHERAN

Rassegna di reportages internazionali a cura di Roberto Fontolan e Gian Micalessin.
Presentazione del reportage di Monica Maggioni, Giornalista. Produzione: Mediakite, Rai Cinema. Partecipano: l’Autrice; Massimo Ilardo, Direttore di Aiuto alla Chiesa che soffre, Italia.

 

Tre ragazzi e un professore incrociano le loro storie di fuggiaschi dall’Iran. I loro diari minimi, l’intreccio dei ricordi spaventosi di chi ha subito la tortura e dei malinconici sogni di chi vorrebbe solo tornare costituiscono un tremendo atto di accusa contro un regime di violenza e repressione.

GIAN MICALESSIN:
Buonasera, siete tantissimi, grazie per la vostra fedeltà che non sappiamo di meritare. Roberto Fontolan stasera ci ha lasciati perché ha un altro impegno, ma è qui in spirito. In cambio, abbiamo Monica Maggioni, che vedo conoscete, e Massimo Ilardo, di Aiuto alla Chiesa che soffre. Presenza importante, quella di Massimo, perché stasera tocchiamo un argomento dolente: andiamo in Iran, raccontando le storie, le sofferenze, non solamente fisiche, patite sotto la tortura, anche le sofferenze psicologiche, dell’animo di chi non accetta quel regime ormai trentennale che ha preso il potere nel 1979. Giovani che fuggono, giovani e anziani che sono costretti a lasciare il loro Paese in mille modi rocamboleschi: Monica Maggioni è andata a incontrarli, molto spesso lontani dal proprio Paese o alle frontiere di quel Paese, frontiere che hanno passato rischiando la vita. Un documentario che è iniziato chiacchierando intorno a un tavolo, quando raccontavo a Monica Maggioni la storia di un iraniano qualunque che un giorno, durante una manifestazione nel 1998, aveva raccolto la maglietta intrisa di sangue di un amico che era stato bastonato dalla polizia, e l’aveva alzata al cielo. Quella maglietta era stata fotografata ed era finita su tutti i giornali del mondo. Per quel gesto innocente, lui era diventato un simbolo della voglia di ribellione. Era finito in carcere per 5, 6 anni, ha subito torture, sofferenze indicibili, e poi è riuscito a scappare negli Stati Uniti. E pur essendo riuscito a scappare da quella sofferenza, viveva un’altra sofferenza, quella di un animo lontano dal proprio Paese, un animo che non riusciva a riconciliarsi con quella lontananza.
Il documentario di Monica cerca di raccontare questo: non soltanto la voglia di ribellione al regime ma anche la sofferenza e il dolore di chi, pur cercando di opporsi al regime, avendo lasciato l’Iran, continua a soffrire e continua ad amare il proprio Paese.

“Video”

GIAN MICALESSIN:
Monica, un documentario sofferto, questo sull’Iran. L’Iran è sofferenza, anche e soprattutto per chi si oppone. Solo decidere di opporsi a questa dittatura è sofferenza, perché significa un po’ rompere il legame con il proprio Paese, con la propria anima. Perché l’Iran è un paese strano: anch’io, per esempio, che non riesco ad avere più il visto dal 2009, soffro di non vederlo. Perché l’Iran è un Paese estremamente interessante, dove il pensiero, l’animo delle persone è molto più articolato che non in altri Paesi mediorientali, proprio perché respiri una civiltà antica, quella persiana. Un modo di riflettere, un modo di vedere il mondo che è complesso, profondo. E anche opporsi a quel regime diventa un’esperienza profonda. E per questo c’era l’esigenza di raccontarlo anche in una maniera profonda che scavasse nell’animo e nelle sofferenze di chi decide di opporsi a questo regime. Un regime contro il quale la vera opposizione globale, tra i più giovani, inizia quando sale al potere Ahmadinejad, quando viene rieletto, perché per molti il primo periodo di Ahmadinejad è solo un passaggio: quattro anni, si dicono in molti, poi finirà e tutto tornerà come prima, cioè un regime autoritario ma che comunque lasciava degli spazi individuali. Poi invece torna Ahmadinejad nel 2009, e per molti quel ritorno è la fine di qualsiasi spazio individuale che la popolazione iraniana si era ritagliata all’interno delle proprie case, dove la gente continuava a dare feste, a vedere amici, a vivere una certa libertà di pensiero e anche religiosa. Perché hai scelto di farlo così, andando a scavare nell’animo?

MONICA MAGGIONI:
Innanzitutto, grazie per essere così tanti, mi fa impressione che questo argomento attiri, ma è un po’ la magia del Meeting, ormai ho imparato a capirlo. Perché ho scelto di farlo così? Perché quando tu mi hai raccontato la storia del ragazzo con la maglietta, mi è sembrato che solo in un posto complesso e sofisticato come l’Iran i simboli avessero ancora un valore, più che altrove. In Iran non c’è niente di ovvio, ed è forse la ragione per cui poi ne è uscito un racconto che comunque è complesso, e a tratti mi rendo conto che è persino faticoso da seguire. E’ un racconto complesso perché quello è un Paese che secondo me va guardato e affrontato in modo complesso. E’ un’attenzione che dobbiamo prima di tutto agli iraniani: cercare di non leggere quello che accade in quel Paese con le categorie semplici, manichee, del giusto, dello sbagliato, del bianco e del nero e basta. Lo avete sentito, avete incrociato le storie di questi ragazzi, di queste persone che sono in fuga da questo posto: l’unica cosa che hanno in mente è il loro Paese, il loro orgoglio, la loro storia, le loro relazioni, è lì tutto il loro essere. Ed è diventato un racconto così, proprio perché da quel nostro scambio e da quel nostro ragionamento iniziale, poi le persone che mano a mano ho incontrato e incontravo dopo questa fase di inizio erano sempre più profonde e sempre più complesse ed era difficile raccontarle solo per azioni semplici: è giusto, è sbagliato, si stanno opponendo, sono scappati, raccontami la tua storia. Mi sono resa conto che era una storia che bisognava raccontare attraverso le sfumature, le sensazioni, la psicologia delle persone. Certo, abbiamo raccontato di torture fisiche, anche molto violente, eppure quello che uno, secondo me, si sente addosso, è la violenza psicologica, tutto quello che di non detto c’è dentro le storie di queste persone. E quindi è diventato un racconto complesso di quanto la sofferenza possa assumere volti diversi, sfumature diverse.
Ibrahim, che ha subito la peggiore delle torture in carcere, era rotto dentro, nell’animo, e non sai più se quello che ti sta raccontando è successo o non è successo, ma non è importante perché capisci che hai di fronte una persona spezzata. Narghes, la ragazza che ci ha condotto con il suo filo lungo il racconto, è il personaggio più sorprendente. Devo dire che ancora una volta devo dire grazie a te, Gian, perché forse tu non lo ricorderai ma eri in Libia quando ti è venuto in mente il nome di quella ragazza. Lei è la figlia di quello che è stato la voce del regime per anni, perché ogni volta che si andava in Iran, ed era già l’epoca di Ahmadinejad, Calhor, il padre di Narghes, era il portavoce. Sua figlia fa un documentario sui diritti umani, viene a presentarlo in Europa e mi racconta – con molto pudore, non ha voluto raccontarla nel documentario, ma ha una storia che poi ci ha affidato, in qualche modo – che è arrivata a Norimberga per presentare il film ed era convinta di tornare a casa. Ha 23 anni, il giorno in cui lascia l’Iran. Mentre presenta il film a Norimberga, le arriva la telefonata di sua madre che le dice: “Narghes, non tornare perché a questo punto moriresti”. E lei si trova, a 23 anni, con una borsa fatta per stare due giorni a Norimberga, a dover chiedere asilo politico. Oggi Narghes, ve lo voglio dire subito, studia cinematografia all’università di Monaco. La Germania, da questo punto di vista, è un Paese molto, molto civile. Non dimentichiamolo quando facciamo i nostri bianchi e neri su chi ci è simpatico e chi ci è antipatico tra i Paesi del mondo: adesso Narghes sta rimettendo insieme i pezzi di questa esistenza. Una lunga risposta per dire che erano storie complesse.

GIAN MICALESSIN:
Grazie, Monica. Massimo, parlavamo della complessità dell’Iran, un Paese che è complesso anche dal punto di vista religioso. Spesso noi abbiamo l’idea di un monolite, perché è stato il Paese dove c’è stata la prima rivoluzione islamica, ma nel ’79 non c’era stata. Lì nasce l’esempio che poi diventa il paradigma per tutte le sollevazioni islamiche, anche se è una sollevazione sciita, anche se è una rivolta che non ha niente a che fare con il mondo sunnita, però resta il simbolo del primo Paese dove l’Islam diventa Stato, religione di Stato. Cambia le regole del mondo, cambia le regole del secolo scorso, con gli strascichi che ci sono ancora oggi. Però, per esempio, io a Teheran ho scoperto con stupore il persistere di una comunità ebraica. Ho partecipato alle feste degli armeni, dove gli armeni continuano a fare il vino. Cos’è questo collage etnico e religioso che si nasconde sotto l’apparente uniformità e l’apparente monolite della Repubblica islamica?

MASSIMO ILARDO:
E’ un grande fermento. Ma prima di ampliare questo argomento, volevo ringraziare il direttore Roberto Fontolan per questo invito, anche a nome della sezione italiana di Aiuto alla Chiesa che soffre. Volevo intanto complimentarmi con la Maggioni: mi ha toccato molto il suo privilegiare i primi piani nella narrazione. E’ stato toccante per renderci conto di quanto queste persone vengano annientate psicologicamente e a livello fisico. Noi di Aiuto alla Chiesa che soffre conosciamo molto bene queste situazioni. Forse qualcuno di voi ricorderà che nel 1999 Padre Werenfried van Straaten venne qui a parlare della nostra opera: disse che, nonostante tutto, gli uomini sono migliori di quanto si pensi. Ebbene, io credo che quelle minoranze, chiamiamole così, che vivono in Iran, siano minoranze che, nell’oppressione, nei loro limiti, hanno una forza interiore straordinaria, che potrebbe essere di esempio anche a noi. Vi voglio citare solamente un articolo della Costituzione iraniana, per darvi l’idea di quanto possa essere forte questa oppressione. La Costituzione iraniana stabilisce che l’Islam è la religione di Stato e all’articolo 4 si legge che tutte le leggi civili, penali, finanziarie, economiche, amministrative, culturali, militari, politiche e di altro tipo, tutte le normative, devono essere fondate su precetti islamici. Come diceva il nostro amico, le minoranze che vengono riconosciute sono tre: il cristianesimo, l’ebraismo, che è una comunità molto sostanziosa nel Medio Oriente dopo Israele, e lo zoroastrismo. Continuo a leggere. Ai fedeli è concesso di osservare il proprio credo a patto – si legge nell’art. 14 – che si astengano da ogni cospirazione contro l’Islam o la Repubblica islamica. Ci sono altre minoranze, ci sono i Bahai, che sono una minoranza ritenuta strumentalizzata dagli israeliani, poi ci sono i musulmani amadi, un’altra minoranza ritenuta strumentalizzata da poteri stranieri, poi ci sono i sunniti, nel Balukistan e nel Kurdistan, che si ritiene siano manovrati dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti, poi ci sono i buddisti e gli indù: anche loro non vengono esplicitamente oppressi ma vivono una precarietà giuridica. E poi ci sono gli sciiti: e abbiamo visto nel filmato come, all’interno del Paese, ci siano persone che, per far rispettare la purezza della loro religione islamica, tendono a sopprimere quei giovani che, influenzati dalla globalizzazione, imitano modelli occidentali, per esempio nell’ascolto della musica, nel vestire, nell’utilizzo dei media. E quindi accade quello che Monica ci ha presentato. Questo è un po’ il panorama.

GIAN MICALESSIN:
Ma quanto conta la volontà di ribellarsi al regime e quanto invece la volontà di fare una vita diversa, più vicina a quella dei giovani del resto del mondo? Quanto li influenza il contatto con Internet, con la rete, quanto è resistenza politica e quanto è semplicemente desiderio di avere uno spazio di libertà autonoma, di voler vivere in maniera diversa da quella codificata dal regime?

MONICA MAGGIONI:
Beh, è una domanda che ha già la risposta dentro. E la risposta è in quello che abbiamo visto. La dimensione strettamente politica esiste ma come naturale conseguenza del fatto che loro, tutto sommato, vorrebbero una vita normale. Lo dice Narghes: in Iran non si possono più fare le cose normali. Ecco, la mia sensazione molto spesso è che siano proprio le cose normali che diventano il limite di che cosa è possibile fare e cosa no. Penso proprio che persone come Ibrahim, come Narghes, in fondo chiedessero di stare all’interno di quelli che noi reputeremmo degli standard. Secondo me, se vivessero da noi non li considereremmo nemmeno persone che fanno politica ma persone che fanno una vita da ragazzi qualsiasi. E invece, è questa normalità che fa capire che c’è un regime e una mancanza di libertà, perché è come se la sbarra delle cose che si possono fare e non si possono fare fosse stata spostata verso il basso, per cui semplicemente esprimersi diventa impossibile. Ed è la ragione per cui nelle foto sfogliate in fondo al documentario c’erano così tanti giornalisti, artisti, fotografi, registi, c’era anche la foto di Panahi: perché poi, chi va in crisi? Chi è giovane e dice le cose come le pensa, chi scrive, chi si esprime con l’arte, con le parole, nelle varie forme possibili: è lì che il rapporto con il regime va in crisi. La chiamiamo politica? Sì, ma è sicuramente la politica nella sua accezione più larga, di fatto è vita normale ed è espressione normale.

GIAN MICALESSIN:
Poi, invece, da altre parti, abbiamo l’impressione che ci sia una libertà di religione, no? Perché abbiamo gli ebrei con il loro culto, le sinagoghe funzionano, abbiamo le chiese cristiane, però il problema è che quella libertà ha dei limiti ben precisi e molto rischiosi da superare: se uno decide nell’ambito di quella libertà di cambiare la propria religione, di abbracciare un altro credo, allora lì incomincia a rischiare la vita.

MASSIMO ILARDO:
E’ un po’ il nostro argomento: siamo nati nel ’47, proprio perché Padre Werenfried iniziò ad aiutare le persone del vecchio blocco comunista oltre la cortina di ferro, e in tutti i modi cercò di affrontare questo tipo di persecuzioni che spesso mi ricordano i lager, una serie di circostanze simili. Oggi, chiaramente, la cortina di ferro non c’è più, il mondo è cambiato estremamente, da 65 anni a questa parte. Però ci sono altre cortine di ferro che provocano ancora persecuzioni: ACS si trova di fronte a queste persecuzioni in Nigeria, per esempio, in Pakistan, noi continuiamo ad aiutare circa 145 Paesi nel mondo, dalla Cina all’Africa, tenendo un occhio attento al Medio Oriente, e non dimentichiamo il Sudamerica: le persecuzioni non sono solo violente e cruente ma anche subdole e meschine. E accade molto spesso, in Occidente, per esempio, il concetto della libertà religiosa viene come svuotato da un processo laicista. Ora, il discorso è molto importante, il nostro logo continua ad essere, purtroppo, forse, molto importante, perché ha un significato ben preciso: il rosso rappresenta il sangue dei martiri, dei perseguitati, che allora come oggi continuano ad essere fedeli a Cristo e a perdere la vita; la linea verticale rappresenta la cortina di ferro, e ce ne sono ancora altre; e poi la freccia, la freccia siamo noi che cerchiamo di aiutare con tutte le forze e pensate che la nostra opera, stranamente, ha un’economia piuttosto particolare. Noi prendiamo degli impegni senza sapere quanti soldi abbiamo in cassa. Diciamo a tutti di sì: era la filosofia del Padre Werenfried, di non fare quello che possiamo fare ma di fare realmente quello che dobbiamo fare. In Iran, dove c’è una oppressione di pensiero politico, per i cristiani c’è anche una oppressione religiosa. E ci sono diverse difficoltà: ad esempio, le famiglie cristiane non possono esprimersi liberamente nel contesto sociale perché il rapporto uomo-donna è alla pari. Ci sono difficoltà per i giovani, la possibilità di ascoltare la musica in un certo modo, l’informazione, i media. Tutto viene ridotto ad un comportamento ristretto. La percezione che abbiamo qui in Italia è che sia una realtà diversa, che non possiamo immaginare. Piccoli ghetti, dove il 99% della popolazione è musulmana, 100mila sono i cristiani, 81mila i protestanti, circa 20.000 i cattolici, tra cui armeni e caldei. Tra loro ci sono diplomatici, studenti. Il problema più spinoso è il problema dei convertiti. La conversione nell’Islam si paga cara. Spesso i cristiani convertiti dall’Islam, per motivi di matrimonio o figli di coppie islamo-cristiane, qualora sentano il bisogno di ritornare alla loro origine, alla loro fede, debbono privarsi di manifestare questo amore anche ai propri parenti: si vive in una solitudine estrema. Questo è un po’ il problema. A volte, le pene vengono modificate nel carcere ma questa è la condizione di base che gli islamici convertiti tendono a portare avanti.

GIAN MICALESSIN:
Monica, invece tu avevi visto in Iran anche la rivolta nell’università. Hai incontrato alcuni….

MONICA MAGGIONI:
Sì, è stata anche l’ultima volta che ho potuto mettere piede in Iran.

GIAN MICALESSIN:
Ecco, cosa è successo quella volta?

MONICA MAGGIONI:
E’ successo che c’era la rivolta dentro il Politecnico, una delle università chiave di Teheran. Era stato fatto un grande affronto ad Ahmadinejad, che era stato contestato apertamente dagli studenti ed era stato costretto ad andare via, senza nemmeno poter entrare all’assemblea: gli studenti avevano trovato la forza di contestare il regime apertamente. Uno dei capi della rivolta aveva deciso di raccontarmi come era andata, con i dettagli di come portavano avanti la protesta anche attraverso Internet. Gian diceva prima che gli iraniani sono un popolo estremamente sofisticato, complesso. Sì, sono un popolo coltissimo e molto alfabetizzato, anche tecnologicamente, per cui, avendo un profondo gusto per la satira, gli iraniani combattono anche attraverso la satira. Gli studenti avevano preso tutti i siti dei Basiji, che sono milizie paramilitari mascherate da studenti, in realtà picchiatori del regime, e li avevano alterati tutti. Babach, durante questa intervista, aveva deciso di mostrarmi che cosa avevano fatto. Ho cercato di non metterla in onda mentre ero lì, tentando di ridurre al massimo i danni per lui, ma lui mi aveva detto che voleva assolutamente che questa intervista fosse resa pubblica. E dopo che è andata in onda, sono iniziate a succedere strane cose, per cui Babach, che parlava pochissime parole di inglese, riceveva strane telefonate. La faccio breve. Babach era in carcere e altre persone, spacciandosi per lui, continuavano a chiamarmi. Da allora non sono più potuta rientrare in Iran, cosa che rifarei anche domani, molto volentieri, perché sono profondamente convinta che la società iraniana sia assai più complessa di come la stiamo rappresentando. Ma da quel momento è scesa una ulteriore cortina, da quando ci si è resi conto che questi studenti, questa gente che continuava a parlare con l’Occidente, con i giornalisti, stava tirando fuori una realtà che non doveva uscire dall’Iran.

GIAN MICALESSIN:
Voi, invece, dal punto di vista religioso, cosa cercate di fare per chi cerca di esprimere la propria libertà religiosa in Iran? Cosa si può fare, ma, soprattutto, perché l’Occidente si emoziona così tanto per le primavere arabe e così poco per quello che succede in Iran?

MASSIMO ILARDO:
Non vorrei rispondere direttamente ma una delle cose che, secondo me, fa Aiuto alla Chiesa che soffre fa, è la promozione del dialogo interreligioso, che credo sia una delle strade da percorrere. La seconda cosa è sostenere diversi progetti in Iran: aiutiamo molti sacerdoti cattolici con le sante intenzioni nella messa, che permettono loro di vivere una vita dignitosa e continuare a fare, per quanto è possibile, una azione pastorale. In più, abbiamo attivato una serie di progetti di ristrutturazione di chiese e di edifici religiosi. Sosteniamo da circa 16 anni una emittente satellitare chiamata SAT7, che agisce dall’isola di Cipro e riesce a trasmettere i suoi programmi in Turchia, in Iran e nel mondo arabo. Che cosa è importante in questo momento? Una cosa che il cardinale Tauran disse in una visita di circa dieci anni fa. La voglio leggere così come lui la preannunziò alla radio Vaticana: “La Chiesa gode quindi di libertà di culto ma non di libertà religiosa. Ci auguriamo che in questo Paese, come in altri, si possa finalmente passare dalla dimensione puramente liturgica alla dimensione sociale della fede”. Fu profetico. Noi ci muoviamo in questo contesto, con il Rapporto sulla libertà religiosa: molti di voi ci conoscono per questo Rapporto, unico nel suo genere, che non si occupa solamente dei cattolici o dei cristiani ma cerca di dare voce all’insopprimibile anelito di ogni essere umano, a qualsiasi fede o religione appartenga, a esercitare liberamente il diritto alla libertà religiosa.
Ora vorrei rispondere alla tua domanda. Probabilmente la gente si interessa di più alla primavera araba perché quelle informazioni sono un po’ sfuggite al controllo del Paese, mentre ancora le vere informazioni dall’Iran non arrivano complete, come la nostra amica ci accennava. A ottobre presenteremo il nuovo rapporto 2012, l’undicesima edizione. Pensate, quindici anni fa parlare di libertà religiosa era una follia, la gente ti diceva: ma che cos’è? Oggi, invece, grazie anche a Benedetto XVI, c’è stato un forte annuncio generale. Noi abbiamo pensato di mandare un piccolo spot, che dura nemmeno 30 secondi, che ci riguarda da vicino. Vorrei cogliere l’occasione per dirvi di guardarlo con il cuore, perché il film documento che Monica ci ha dato la fortuna di vedere è stato toccante. Noi abbiamo cercato di essere vicini a questa realtà, vi invito ad essere vicini anche voi con la preghiera, perché una delle domande fondamentali che dobbiamo porci è: quanto costa essere cristiani in Italia? E quanto costa essere cristiani in Pakistan, che prezzo ha quando spesso ci vergogniamo di farci il segno della croce? Io, che posto occupo nella Chiesa?
Grazie della vostra attenzione.

“Video”

GIAN MICALESSIN:
Ti ringraziamo per questo spot. Adesso Monica concluderà con un ultimo intervento e subito dopo, se vi interessa, potrete fare delle domande, sia a Monica sia a Massimo Ilardo: è un’occasione abbastanza unica. Non abbiamo molto tempo.

MONICA MAGGIONI:
Io volevo solo dire una cosa, proprio perché in questi anni ci è capitato spesso di fare anche lavori sul discorso dei cristiani perseguitati ed è sicuramente un pezzo importante rispetto all’Iran. Massimo ci ricordava prima questo articolo della Costituzione, però io sento un dovere di chiarezza, lo devo a me stessa, al mestiere che faccio e a quel Paese: la situazione in Iran non è così perché loro sono musulmani. La situazione in Iran in questo momento è così perché lì c’è un regime feroce che interpreta la sharìa nella sua accezione più completa, e quindi ha spostato completamente l’asse dalla religione alla gestione del potere attraverso la religione. La precisazione che Massimo ha fatto prima, secondo me molto importante, che rende così profondamente importante quello che Aiuto alla Chiesa che soffre fa, è che il Rapporto sulla libertà religiosa è rapporto sulla libertà religiosa, cioè la libertà di ogni essere umano di professare la sua religione. Quando poi la cosa si sposta sul piano del dialogo, è il dialogo tra due liberi. Quello che non c’è in Iran è proprio questo, la possibilità di postare il piano del dialogo tra due libertà. C’è un problema di potere, di oppressione e di regime, che utilizza sapientemente nel suo modo peggiore, da genio del male, tutte le regole e tutti i nodi legati appunto alla sharìa.

MASSIMO ILARDO:
Volevo dire una cosa. Giovanni Paolo II, a tal proposito, disse che il rispetto della libertà religiosa è la cartina di tornasole per comprendere quanto i diritti in un Paese vengano rispettati.

MONICA MAGGIONI:
Disse che il grado di democrazia di un Paese si misura dalla libertà religiosa.

GIAN MICALESSIN:
Bene, se c’è qualche domanda…

DOMANDA:
Sono Lucia Comelli e insegno storia e filosofia in un liceo di Udine. Volevo chiedere, intanto, se fosse possibile disporre di questi documentari, perché li vedo molto interessanti anche all’interno di una assemblea di istituto, all’interno di un discorso tenuto durante alcune lezioni, ecc. La seconda cosa: mi chiedo come mai in questo regime, dove un altro orrore è quello che colpisce le donne – ho appena letto Leggere Lolita a Teheran, che è un libro splendido, scritto da una nota scrittrice esule anche lei da Teheran – il personale è politico. Cioè, quando tu vedi tua figlia che torna a casa piangendo perché è stata sottoposta alle solite ispezioni a cui le donne vengono sottoposte, è stata mandata dal preside perché aveva le unghie di qualche micro millimetro troppo lunghe, per cui il preside gliele ha tagliate a forza e le sanguinano le mani, tu capisci che la distinzione tra personale e politico non è più tale. E quindi, si tratta solo di riuscire a vivere. Poi mi chiedo da dove nasca questo appeal, nel senso che è un regime che ha fallito, non solo presso gli intellettuali ma presso i giovani, che lì sono la stragrande maggioranza. Eppure, gode di questo fascino, e non solo presso gli sciiti. Anche quell’uso grazioso di farsi saltare per aria dei kamikaze, è invalso a partire dall’Iran.

MONICA MAGGIONI:
No, dal Libano.

GIAN MICALESSIN:
Alla domanda più semplice rispondo io. Per i filmati, purtroppo non abbiamo i diritti di distribuzione, abbiamo la possibilità di farveli vedere, quindi, di volta in volta dovete chiedere all’autore, in questo caso a Monica Maggioni che è qui con noi. Io e Roberto Fontolan ci limitiamo a selezionarli e a proporveli.

MONICA MAGGIONI:
Però hanno tutte le e-mail e i contatti, nel senso che hanno il modo di mettervi in contatto con tutti.

GIAN MICALESSIN:
Però poi c’è una difficoltà oggettiva per ragioni di diritti. Alle altre due domande, penso che Monica possa rispondere molto facilmente.

MONICA MAGGIONI:
Ma sì, innanzitutto ovviamente tutte le scuole che vogliono vederlo lo vedranno, perché mi sembra importante. Detto questo, non è che i regimi stanno in piedi perché hanno appeal, stanno in piedi perché usano la forza e gli strumenti coercitivi. Non è che in Arabia Saudita si stia meglio, solo che dell’Arabia Saudita parliamo assai meno, ma non è un posto dove consiglierei delle gite a Ferragosto in maniche corte. Il vero problema è che i regimi stanno in piedi perché usano la violenza, la repressione, la chiusura, l’impossibilità di esprimere il proprio pensiero e utilizzano tutti codici classici dell’autoritarismo. Le donne in Iran subiscono esattamente quello che si racconta in Leggere Lolita a Teheran, paradossalmente, in certi casi stanno meno peggio di come stanno in altri pezzi di mondo perché comunque, all’interno dei sistemi di potere, esistono anche le donne. Non dimentichiamo che, nelle università iraniane, il 67, 70% sono donne. Questa è già una cosa straordinariamente avanzata, rispetto ad altri mondi. Non è sufficiente, però, ancora una volta, occorre riportare tutto sul piano della complessità, che serve nel momento in cui si va ad analizzare questo Paese e questo tipo di realtà.

GIAN MICALESSIN:
Dal punto di vista paradossale, noi vediamo sempre l’Iran come l’inferno delle donne, però paradossalmente, fra molti dei Paesi musulmani governati da una dittatura, è forse il Paese dove la donna ha maggiore libertà, per lo meno fino a quattro anni fa, fino a quando è andato al potere per la seconda volta Ahmadinejad. Allora c’è stato un giro di vite notevole anche per le donne, che però hanno la possibilità di lavorare, hanno la possibilità di partecipare alla vita sociale, cosa che invece è completamente negata in alcuni regimi sunniti, come l’Arabia Saudita, per esempio, o lo Yemen.

MASSIMO ILARDO:
E’ un regime che, come tutti i regimi, usa i mezzi forti per mantenere il potere. Però l’informazione che ha dato Monica è molto importante. Il predecessore di Ahmadinejad è stato un premier molto aperto. Ha perso il posto anche perché fu presente ai funerali di Giovanni Paolo II: tenete presente che le celebrazioni in Iran non possono essere fatte nella lingua iraniana, il farsi, mentre in Iran furono fatte una serie di funzioni, con lettura delle Scritture in farsi, una cosa che poi non è stata più ripetuta.

GIAN MICALESSIN:
Bene, mi dicono che dobbiamo chiudere perché la sala tra cinque minuti passa in altre mani, quindi vi saluto anche da parte di Roberto Fontolan che domani sera ci sarà. Domani siete fregati perché vi tocca un mio reportage, che è praticamente la primavera araba un anno dopo. Un anno prima avevo fatto un reportage in Libia per MTV, in cui raccontavo cosa i giovani pensavano, cosa speravano, cosa sognavano. Un anno dopo sono tornato, sempre per MTV, a cercare di raccontare cosa è successo di questa primavera araba, quanti di quei sogni si sono realizzati, quanti sono pura illusione: è girato in Egitto, Libia, Tunisia, e ci saranno anche la direttrice di MTV, Francesca Ulivi, e Roberto Fontolan. Grazie a voi.

Data

20 Agosto 2012

Ora

19:00

Edizione

2012

Luogo

Sala Neri GE
Categoria
Testi & Contesti