STORIE DAL MONDO. «IO SONO QUI». LA REALTÀ È SEMPRE POSITIVA

Rassegna di reportages internazionali a cura di Roberto Fontolan e Gian Micalessin.
Presentazione del reportage di Emmanuel Exitu, Regista e Sceneggiatore. Edizione: San Paolo. Partecipano: l’Autore; Renato Farina, Deputato al Parlamento Italiano, PdL; Mario Melazzini, Presidente di AISLA.

 

STORIE DAL MONDO. «IO SONO QUI». LA REALTÀ È SEMPRE POSITIVA
Ore: 21.45 Sala Neri GE

ROBERTO FONTOLAN:
Bene, una brevissima introduzione per vedere questo bellissimo lavoro di Emmanuel Exitu che è qui con noi, che ha per protagonista il dottor Mario Melazzini che voglio veramente ringraziare per la ulteriore fatica che gli abbiamo chiesto di essere qui con noi in questa serata. Con Gian, come sapete, curiamo questa rassegna e ci eravamo detti, quando avevamo pensato a questa cosa, che questa occasione era veramente bella e interessante. Tra l’altro, dicevo al dottor Melazzini poco fa che nel documentario precedente abbiamo avuto come un pendant per introdurre questa serata.

GIAN MICALESSIN:
Tra l’altro, avevo vissuto anche la genesi di questo documentario perché il regista aveva affrontato con noi cinque anni fa un altro documentario memorabile e mi aveva raccontato di quel desiderio di fare questa storia. Quindi, era imperdibile l’occasione di vederlo, di averlo qui.

ROBERTO FONTOLAN:
Bene, allora come sempre vediamo e poi avremo la possibilità, soprattutto voi del pubblico avrete la possibilità, di fare delle domande ai veri protagonisti: è una delle poche occasioni del Meeting in cui spettatori ed ascoltatori, ci mescoliamo tutti. Grazie e a tra poco.

Video

ROBERTO FONTOLAN:
Bene, possiamo passare qualche minuto assieme con Mario Melazzini e con Emmanuel, penso che l’applauso fosse anche per lui che ha fatto questo bellissimo lavoro, così appassionante, così emozionante. Ora dialogheremo insieme, ma prima volevo chiedere a Renato Farina, che abbiamo inviato qui come inviato speciale, un breve commento: è un po’ il suo vecchio mestiere da giornalista, insieme per tanti anni abbiamo condiviso tante storie ed era anche un po’ la mia idea, la nostra idea, di osservatore speciale di questa cosa. Dopo, vorrei che foste voi a dialogare con i nostri ospiti, i nostri protagonisti.

RENATO FARINA:
Grazie. Sono tranquillo anche perché qualsiasi stupidaggine possa dire non riuscirei a rovinare quello che è accaduto prima, che è accaduto in noi grazie a questo film, grazie a questo documentario: questo mi tranquillizza. Io ho visto questo documentario già in passato e adesso ho la stessa sensazione di allora. Perché, dopo aver visto questo film, siamo contenti? Perché mentre vedevamo quelle immagini, pur immagini di dolore, anche fisico, perché si vedono, non nasconde niente, Emmanuel, perché eravamo contenti? Almeno lo sono io ma anche ciascuno di voi, perché ciascuno di noi, insieme a tante domande che questo film, che questo documentario ha fatto emergere, in cuor suo ha come una risposta, e questa risposta non ha bisogno di esprimersi in parole ma è come una lieve gioia, perché si capisce che la vita ha un senso, ha un senso pieno ed è per il bene, è positiva, in qualsiasi condizione essa ci trovi, in qualsiasi condizione essa ci immerga. Non c’è bisogno di stancarsi in discorsi sul perché la vita è positiva, il perché l’abbiamo visto in azione. Si manifesta come realtà, bisogna faticare per mentire. Allora siamo contenti e bisogna dire alcuni grazie. Uno è all’autore del film, a Exitu: egli è un poeta, io ne sono sicuro, l’ho già visto in altri film, perché ha un modo di cogliere i particolari, di guardarli, che li mette, inevitabilmente, senza nessuno sforzo intellettuale, in relazione con le stelle, come direbbe don Giussani. Bisogna avere gli occhi bene aperti per vedere le realtà invisibili che sono più reali ancora di quelle visibili, di cui peraltro queste ultime sono un segno. E credo che questo film sia stato la documentazione di questo. Melazzini, ecco, grazie, Mario. La prima volta che lo vidi, al teatro Manzoni dove era stato chiamato in una serata di beneficenza, mi fece un’impressione pazzesca. Io mi sono convinto di una cosa: che in realtà egli sia un attore. Che non sia affatto costretto a stare su una sedia a rotelle ma che in realtà sia un angelo mandato qui con il compito di difenderci dal non senso, dal nichilismo, e persino dall’alito cattivo della malattia e della solitudine. Tra l’altro, ho notato questo, che a me sembra parli meglio, stia meglio adesso di quando l’ho sentito la prima volta, 5 o 6 anni fa al teatro Manzoni. Vuole dire che la malattia neurodegenerativa, in realtà, se c’è dentro il senso della vita, se è immersa nel senso della vita, che poi si chiama amore, non ha un altro nome, un po’ si arrende, cioè non è lei che comanda il gioco. L’abbiamo visto in pratica, oltre alle parole che ha detto lui. Non c’è nulla che la malattia riesca a rendere meno umano. L’umano non è l’assenza di dolore, altrimenti non esisterebbe l’umano. A un certo punto mi sembra che ci sia questa frase: “Di inguaribile, c’è solo la mia voglia di vivere”. Allora non è solo voglia di vivere, è qualche cosa di più sostanziale, è la voglia di totale verità, non solo di sé ma di tutte le cose, di tutta la comunità di persone, di tutto l’essere, ecco. Per cui la vita si palesa come amore-relazione-scopo-comunione, ed è una cosa così vera che non è un caso isolato, è una cosa eccezionale ma è l’eccezionale che ci rende presente il vero che vale per tutti, è sempre così. Cioè, è stata una presenza eccezionale come quella di Cristo in Palestina 2000 anni fa, che ha fatto scoprire qual è la verità di ogni uomo. Così mi è capitato proprio ieri di assistere alla testimonianza dell’Abate Lepori, che ha raccontato del Vescovo Corecco che anch’io conoscevo bene, il quale scoprì, durante la malattia, la verità del salmo 62: “La Tua grazia vale più della vita”. La grazia è più importante della vita. Il problema è questo: che se la grazia non ci trova vivi, non può neanche dimostrare di essere più importante della vita, occorre tenere dentro ogni circostanza il cuore battente, e anche questo è grazia. La grazia, l’ho scritto perché se no le parole non mi stanno in bocca, è l’amore che è sempre amore di Dio, e questa consapevolezza chiama alla responsabilità e al sacrificio che non è affatto un perdere qualcosa ma un mettersi nelle mani di chi inonda di amore tutto, come abbiamo visto dal primo all’ultimo fotogramma
(non so se ci sono ancora i fotogrammi), dal primo all’ultimo istante. Questa testimonianza ci impone di inchinarci alla fonte della vita. Io mi fermo qui, spero di non aver sciupato questa cosa che abbiamo dentro tutti adesso e che spero conserviamo.

ROBERTO FONTOLAN:
Bene, grazie di questa lettura. Ora, se ci sono interventi o osservazioni, soprattutto domande… Loro hanno parlato tanto attraverso il documentario ma forse c’è qualcuno di voi che vuole interloquire direttamente. Naturalmente questo comprende anche noi, perciò avremo qualche minuto da passare insieme: non faremo tardi, ma se qualcuno vuole intervenire, alzi la mano e gli assistenti di sala correranno prontamente con il microfono. Prego.

GIAN MICALESSIN:
Faccio io una domanda perché quello che mi ha colpito più di tutto sono le cose su cui rifletti sempre durante la vita, inevitabilmente. Quando lui è arrivato davanti al medico che dice: “Lei ha la SLA e io mi fermo qui…”. Quello mi ha colpito è l’atteggiamento che molti di noi abbiamo di fronte alla malattia, sia degli altri, sia la nostra. Faccio un lavoro per cui molto spesso ho pensato: cosa farei se restassi senza gambe… Però, quando un medico che ha il dovere non solamente di curarti – perché le cure sono un incrocio di chimica ma forse la cura è qualcos’altro -, come molti medici, si ferma lì, come è possibile che non sia in grado di pensare che il suo compito è quello di andare un po’ avanti, oltre le medicine? Penso che sia una cosa a cui ha riflettuto anche lei.

MARIO MELAZZINI:
La professione, anzi, oserei dire, la missione del medico è qualcosa di meraviglioso, ci vuole molto coraggio e il coraggio non è solo legato solo alla conoscenza, all’expertise, alla professionalità tecnico-scientifica pura. Ma significa ammettere che la medicina può avere un limite. Laddove la scienza, però, non può arrivare, ci può arrivare l’uomo con quello sguardo, con quella capacità di prendersi cura, con quella capacità di ammettere non tanto che ha fallito come professionista ma che c’è sempre la disponibilità ad essere pronto all’ascolto. Ecco, spesso noi medici – in questo momento parlo per me – siamo molto focalizzati su quanto riusciamo a fare, riusciamo ad offrire, e la scienza medica offre tanto. Ma ci sono condizioni in cui molto spesso la presunzione e l’arroganza ti mettono paura, ti mettono in difficoltà e ti portano, come questa persona che io ancora stimo moltissimo come un grande professionista, uno scienziato, ad allargare le braccia e a dire: “Io mi fermo qui”. Se ci pensate, è drammatico per chiunque, indipendentemente dal fatto che uno sia medico, impiegato, operaio, casalinga. Trovarsi di fronte a una persona dalla quale dipendi, perché in quel momento sei totalmente vulnerabile e stai aspettando una sua parola, che ti dà una sentenza così: “Hai una malattia e io non ti posso dare nulla di più”, nulla di più inteso come farmaco, procedura, è drammatico. Pensate che io, come medico, mi ero fatta una ipotesi diagnostica, nel mio piccolo. La prima cosa che ho detto, che ho pensato, dopo essermi chiuso in silenzio per qualche ora, è stato: di questa malattia si muore. E sono stato preso da una rabbia: che cosa faccio adesso? Per dire questa presunzione che abbiamo: io che faccio ai pazienti trapianto di cellule staminali, io che offro non solo speranze certe di cura e di guarigione per malattie molto importanti, l’unica parola certa che mi era venuta era questa: capita a me, e io muoio. Mi sono reso conto proprio di quello che è questa cultura che aleggia: siamo tutti molto bravi nell’ipotizzare e anche nell’avere compassione nel senso vero, di condividere il dolore anche con l’altro che soffre. Ma quando a soffrire sei direttamente tu, questa visione ti si rovescia a 360°. Personalmente, pensavo di essere in grado di curare, di accogliere le persone, e mi sono reso conto che forse non era proprio così e quello che immaginavo come percorso di vita non era proprio come me lo ero immaginato. E’ la prima volta che, durante una proiezione – ne abbiamo fatte parecchie, con Emmanuel -, mi fermo in sala a guardare, perché mi costa molta sofferenza. Dietro quel percorso che lì è stato montato benissimo, queste montagne, questa solitudine che è durata diversi mesi, c’è stato un dolore incredibile. Non ho vergogna a dirlo, ho pianto adesso che l’ho rivisto, ma ho pianto di gioia perché ho ripercorso questo cammino che è stato di una grandezza incredibile. E’ difficile spiegarlo, è più semplice dirlo: sei sofferente, sei malato, sei disabile, hai capito tutto della vita. Prevale ciò che, in questo momento, mi dà sofferenza e fatica, perché è vero, farò anche l’attore, ma alla sera sono un attore stanco e tutto diventa molto difficile. Però, è talmente tanto, è talmente bello, quello sguardo, che, davanti al tema di quest’anno del Meeting ho ripensato effettivamente che è questo sguardo che volge all’infinito che ti dà la carica, questa carica incredibile che consiste nel non volere esorcizzare la malattia. Non faccio le cose per dire: almeno dimentico, no. Significa apprezzare veramente con gioia quel dono meraviglioso che abbiamo, che è la vita, ma soprattutto la consapevolezza di quel Mistero che ci circonda. E’ questo che mi ha dato la forza ed è questo che mi permette di superare anche un momento come quello che ho raccontato, di uno che ti dice: “Io mi fermo qui”. Sto cercando e ho cercato, con i miei collaboratori, con i miei colleghi, con tutti, di dire proprio che non ci si ferma mai, perché l’uomo può sempre continuare, può fare molto di più di quanto la medicina possa. E di questo ho la presunzione di essere certo.

ROBERTO FONTOLAN:
Mani alzate, se ci sono. Ecco qui.

DOMANDA:
Intanto la ringrazio, ti ringrazio, sono un collega anch’io, è stata un’emozione da “pelle d’oca”. Mentre dicevi questa cosa del “Io mi fermo qui”, dicevo con mia moglie che è una collega anche lei, mi ricordavo di una cosa che ho letto del professor Murri che, se non sbaglio nel 1911 parlando ai laureati in medicina che sarebbero andati a fare il loro lavoro, disse: “Adesso vi siete laureati in medicina, andate e se potete guarite, se non potete guarire lenite, se non potete lenire consolate”. Ecco, son già tre passi di più di quel “io mi fermo qui” e tu ce ne hai dato una ampia dimostrazione. Grazie.

ROBERTO FONTOLAN:
Intanto voglio dare anch’io una piccola informazione riguardo al film che giustamente è il caso di fare un po’ di promozione perché il lavoro di Emmanuel e di Mario Melazzini è in distribuzione perché è stato realizzato un DVD che viene distribuito dalla San Paolo se non sbaglio e so che attraverso il passaparola ha già un successo molto grande quindi un caso, diciamo editoriale, video-editoriale che si sta affermando in Italia grazi a questa presenza, però è un invito a sostenere questa cosa e a farne oggetto magari di regali per amici che hanno senz’altro bisogno di avere una parola, una testimonianza come questa. Allora se ci sono altre domande vi prego di alzare la mano, non vogliamo fare troppo tardi.

DOMANDA:
Volevo solamente ringraziare il collega Melazzini: la sensazione che ho provato, e penso l’abbiano provata in tanti, è il dispiacere di essere da solo, senza i miei familiari. Perché questo film ci dà una visione alternativa di quello che uno crede quando sta bene, quando è in un’altra categoria, la categoria della persona sana. Immaginando una situazione di malattia come la SLA, ma anche altre malattie importanti con esiti infausti, uno non riesce ad immaginare la possibilità di un’alternativa, a vedere la malattia anche in un’altra ottica. Spesso si dice: una cosa è parlare della morte, una cosa è morire. Qui il discorso è invertito, quello che uno può immaginare di tragico, trova un significato al di là di un discorso di fede. La cosa che criticamente mi veniva da porre è vedere in questa situazione una malattia grave ma supportata dalla tecnologia, da persone che sono vicine a chi soffre. Io sono un collega, ho visto diverse persone morire di SLA e molto spesso mi sono trovato in situazioni diverse. Forse allora manca un po’ di obiettività: per le possibilità economiche ma soprattutto culturali, fondamentalmente si vive la malattia in solitudine. Soprattutto nei casi di malattie neoplastiche, molto spesso gli amici, per paura o per disagio, si allontanano e fanno sentire il paziente ancora più solo. Grazie.

ROBERTO FONTOLAN:
Il tema della solitudine, quindi, e anche, credo, in generale, del sostegno pubblico alla sofferenza.

MARIO MELAZZINI:
Qualsiasi tipo di malattia non è la malattia del singolo ma è la malattia della famiglia. La solitudine che si viene a creare è legata anche ad amici, ad amicizie forti, magari decennali, legati però dalla angoscia della malattia, nel dispiacere di vedere l’amico ammalato ma anche nell’incapacità di affrontare la questione, perché si ha una immagine speculare della malattia su di sé. Quante volte io mi sono sentito dire: per fortuna che è capitata a te che hai la forza di sopportarla! Nessuno ha la forza di sopportarla se è solo, soprattutto se non fa un percorso, se non ha il supporto della famiglia: vale per qualsiasi tipo di queste malattie così ingravescenti, indipendentemente dal nome, per tutte le gravi disabilità. Nelle famiglie con familiari ammalati, con bambini che nascono con problemi particolari o disabilità che vengono acquisite, molto spesso sentiamo dire che quelle condizioni non sono degne di essere vissute. A volte ci sono persino appelli a interrompere la vita ma sono dettati dalle condizioni di abbandono, non sono appelli veri, sono richieste di aiuto. L’istituzione deve comprendere che, anche in determinate condizioni, le persone sono risorse e non solo costi. Questa è una cosa estremamente importante, dettata dalla non conoscenza ma soprattutto da quella cultura per cui tutto viene rapportato a una condizione per cui una vita degna di rispetto viene rapportata alla qualità della vita. Quando io ero determinato a morire, era anche una sfida: non decide la malattia, decido io, quando morire, perché tanto so che non potrò vivere. Se allora mi pensavo con un buco nello stomaco, con questo e quell’altro, mi sembrava una cosa drammatica, tremenda, proprio perché c’è questa concezione di cosa sia la qualità della vita. Ma solo il fatto che ci siamo è una qualità di vita incredibile, così come la dignità della vita ha un carattere ontologico, nostro, intrinseco, non può essere rapportata o misurata con la qualità della vita. Tutto questo porta alla solitudine, e la solitudine è forse uno dei nemici da combattere ma la si combatte facendo conoscenza, facendo sensibilizzazione, avendo il coraggio di mettersi in discussione, avendo il coraggio di accettare il nostro limite: questi sono percorsi che possiamo fare tutti, non bisogna avere la malattia, la disabilità. La sofferenza molto spesso è più che altro psicologica. Quando dico che sono fortunato, mi dicono che sono matto. No, sono fortunato, perché riuscire a sfruttare questa opportunità come cambiamento, come valore aggiunto, chiunque di noi lo può fare.

ROBERTO FONTOLAN:
Posso fare una brevissima domanda e chiedo anche una breve risposta, non vogliamo fare troppo tardi. Non ti sei sentito indiscreto ed invasivo nel vivere una settimana – forse più di una settimana, non so quanto è durata la lavorazione, immagino molto – con questa realtà, con questa persona, con la sua sofferenza, con la sua anche privacy?

EMMANUEL EXITU:
Faccio rispondere a Mario perché Mario mi ha sorpreso una volta, dopo due anni che ci conoscevamo: ha detto una cosa dalla quale mi sono sentito molto descritto.

MARIO MELAZZINI:
E’ stata una bella lotta, chi conosce Emmanuel sa che è una persona abbastanza invadente. Però, siccome quello che fa, lo fa con una passione e con una determinatezza incredibili, la sua invadenza è direttamente proporzionata alla delicatezza con cui mi metteva a mio agio. Io non lo vedevo, non lo sentivo, c’era: questa è stata una sorpresa anche per me, ma è stata una sorpresa utile. E’ brutto dirlo, ma Emmanuel mi ha fatto fare un percorso particolare. Perché non faccio l’attore ma, rivedendomi, mi sono reso conto che ciò che vivo è vero: e questo gli è riuscito grazie alla sua invadenza, perché vi posso garantire che avercelo dietro dappertutto, dal bagno al letto, va bene che io di privacy non ne ho più, ma a volte era un po’ fastidioso. Però quel fastidio era annullato dalla sua delicatezza e da quella degli operatori che hanno permesso di cogliere questa verità, ecco, questa realtà più che verità.

DOMANDA:
Io ho una domanda per Emmanuel. Con questo film mi hai spostato lo sguardo, perché io ho un collega in carrozza, in ufficio, ma lo guardo dall’alto verso il basso. Con questo film mi hai costretto ad abbassarmi e a guardare tutti all’altezza della carrozzina, che è l’altezza di un bambino: e quando vedevo Monica che spinge Mario, la vedevo dal basso verso l’alto. Ti volevo chiedere questo: perché hai scelto di farmi abbassare lo sguardo?

EMMANUEL EXITU:
Ho provato a stare in carrozzina un po’, e la mia prima indicazione agli operatori era di tenere la camera così, perché è la posizione che hai quando sei seduto. Volevo che il punto di vista del racconto fosse di uno seduto su una carrozza: la percezione del mondo cambia, se pensi di stare seduto tutta la giornata, cambia la percezione che hai degli altri. Volevo mettermi dal punto di vista di Mario. Questo era importante per cercare di avere sempre un punto di vista il più vicino possibile a quello che Mario mi aveva fatto vedere nei mesi precedenti in cui sono stato con lui per capire, studiare di cosa stavo parlando.

GIAN MICALESSIN:
Però, Emmanuel, non è solo una questione di punto di vista, guardare il mondo dal basso è anche un modo di percepire la realtà, di considerare la realtà. Per anni siamo stati abituati dalla vulgata dell’informazione a considerare la SLA solamente dal punto di vista di un caso drammatico, famoso, legittimatissimo dalla sua fine, Welby, e forse questo ci ha oscurato. Questa è un’altra faccia della realtà della SLA, che noi non avevamo mai visto, su cui avevamo chiuso gli occhi e su cui l’intera opinione pubblica italiana aveva chiuso gli occhi. Non pensi che questo tuo lavoro ci dia anche un altro chiaroscuro, un altro punto di vista su questa malattia?

EMMANUEL EXITU:
Sì, diciamo che la prima volta che ho visto Mario Melazzini è stato sul Tg2: non ho sentito assolutamente niente di quello che diceva perché mio figlio faceva casino. Ho sentito soltanto: “Ringraziamo il professor Melazzini, arrivederci e grazie”. La questione di Welby mi ha fatto molto arrabbiare, l’ho vissuta come una grandissima ingiustizia, soprattutto per una questione tanto cara agli amici Radicali, una questione di democrazia, se vogliamo usare questo termine. Quando ho cominciato a studiare, ho visto che è una malattia rara ma sono comunque 5.000, in Italia. Benissimo, diciamo che uno ha chiesto di farsi ammazzare e ce l’ha fatta, un altro ci sta pensando, un altro ancora sta cercando di fare questa battaglia: ma ci sono sempre altri 4.997 che non chiedono di essere ammazzati, che chiedono di poter vivere. Lo dico io, così è sotto la mia responsabilità. Napolitano ha risposto a Welby subito. Invece, all’appello Liberi di morire, quando Mario con i suoi 4.997 amici gli ha chiesto di avere un appoggio dal punto di vista istituzionale perché c’era anche un’altra parte di cittadini italiani che chiedevano una cosa diversa, lui non ha risposto. Nessuno ha parlato di questo aspetto e io ero molto arrabbiato. Non volevo cadere nel vizio opposto, dove Mario veniva venduto – scusa, Mario – come l’anti Welby. Quando ho cominciato a conoscerlo, a capire, lui giocava questo ruolo e la cosa non mi tornava. Perciò, quello che ho cercato di trasmettere è che lui aveva una sua originalità, soprattutto non emergeva questo aspetto della montagna, emergeva una persona molto interessante, che diceva delle cose per cui ti chiedevi come mai le dicesse, come mai si comporta in questo modo. Però io volevo che fosse Mario: infatti, il primo titolo, che poi è stato cambiato, per colpa di Mario, sarebbe stato “Io sono Mario”, perché volevo che venisse fuori che era lui, indipendentemente dal resto. Era una persona che aveva fatto un certo percorso, che dice che non può vivere però non vuole neanche morire, entra nel casino e dice: però questo casino lo voglio capire, mi faccio portare in montagna, e descrive quella cosa che per me è stata come dire: ok, lo scritturo, è il mio attore, gli faccio firmare il contratto per fare il film perché quella montagna che lui ha scalato mille volte, la conosceva benissimo, l’ha sempre vista. Non è che è andato sull’Himalaya e ha visto chissà che, era una montagna che conosceva. Quel giorno però ha detto: questa montagna è bella, e questo è stato il suo punto di rimbalzo fondamentale. Tanto che una volta, Mario, mi hai detto che sono stato l’unico che ti ha rotto le scatole così tanto su questa benedetta montagna. Sembra qualcosa di assolutamente impalpabile, perché magari uno pensa che crede in Dio, che ha dei valori, non so. Puoi pensare a migliaia di spiegazioni faticosissime, come diceva giustamente Renato prima, mentre quello che ha fatto il punto di rimbalzo per cui Mario è passato dal dire “ho la SLA, non c’è più niente da fare” a “ho la SLA, fatemi strada perché ho un sacco di roba da fare”, è stato l’accorgersi che la realtà è bella ed è per me. E’ bella questa realtà, è positiva, c’è qualcosa per me, qui dentro, c’è una situazione assolutamente misteriosa, che nessuno si augura, di malattia, però questa cosa è bella, questa realtà è bella ed è per me. Io volevo che fosse questo il contraddittorio, se così vogliamo definirlo, non sono un pro life, come dico sempre, io sono life. Volevo che venisse fuori la vita di Mario.

ROBERTO FONTOLAN:
Andiamo verso la conclusione, se c’è ancora una domanda la possiamo raccogliere, anche perché le giornate del Meeting sono molto intense, come tutti sapete. L’ultima persona, poi chiedo una battuta a Renato e ho una ultimissima domanda, molto veloce, per il professor Melazzini, per chiudere. Là in fondo c’è una mano alzata.

DOMANDA:
La mia non è una domanda, voglio solo testimoniare quello che è successo al marito di mia sorella, che è morto di SLA due anni e mezzo fa. Era il periodo delle Eluana Englaro, io mi ricordo che anche lui, dopo la disperazione seguita alla diagnosi, quando gli hanno detto che non c’era nessuna speranza, che non doveva fare nessun viaggio per andarsi a cercare delle cure, ha pensato: vado in Svizzera e me la concludo da solo, la mia vita. Dopo quel passaggio, la sua malattia è andata molto veloce: man mano perdeva i piedi, le mani, le gambe, le braccia. Nonostante nei momenti di rabbia lui dicesse: “Dovete lasciarmi libero, lasciatemi in pace, se mi voglio uccidere, lasciatemi uccidere”, ogni volta che perdeva dei pezzi, diceva anche: “Vale ancora la pena, vale ancora la pena”. E’ arrivato fino in fondo dicendo: “Vi chiedo solo di essermi vicino, vi chiedo solo di darmi le cose per farmi sentire un benessere piuttosto che un malessere”. E riusciva anche ad essere spiritoso. Quando lo tiravamo su, lui diceva: “Mi tirate su come il manzo del macellaio”. Ovviamente, nessuno se lo va a cercare: però devo dire, testimoniare che, nonostante il dolore, nonostante la fatica, anche perché è una cosa grande e tremenda la SLA, lui ogni volta diceva veramente: “Voglio vivere”.

RENATO FARINA:
Sono stato costretto, come tutti voi, a vedere come la natura dell’uomo sia rapporto con l’infinito. Siamo stati costretti, non c’è bisogno di esercitare molta libertà, siamo stati costretti. E c’è un punto di questo documentario – che però io voglio chiamare film, l’ho già chiamato tante volte film perché lo vedo come poesia della realtà – per cui c’è più Dio nella parola Dior che se questo avesse invocato Dio. Perché Dio era in quel particolare, in quel rispetto per gli altri che fa sì che uno che è in quelle condizioni si profumi. Anche il rispetto di se stesso – e Dio era Dior – è l’infinito che entra nella storia e diventa persino un logo.

ROBERTO FONTOLAN:
Mi piace molto quello che dice Renato, l’ho sempre invidiato per questa sua grande abilità di entrare nelle parole e rimuoverle in questo modo, in fondo non ho mai accettato che fosse diventato un politico, ho sempre voluto che rimanesse un grande giornalista. Ho
un’ultima domanda, dottor Melazzini: questo giro delle carrozze, non ho capito, adesso questa qui funziona, va bene, è quella giusta?

MARIO MELAZZINI:
La permuta l’abbiamo fatta, è arrivata la carrozza giusta, questa è quella giusta. La cosa più bella è invece un regalo meraviglioso che non ho ricevuto, ma è una opportunità, a proposito della carrozza della permuta: non me l’hanno messa sotto carica, le batterie sono andate a farsi benedire, solo che era venerdì 7 agosto e dovevamo partire per andare in montagna. Per fortuna, c’è una bravissima persona che è sempre disponibile: è venuta venerdì sera alle sette a casa mia, a portarmi le batterie di ricambio. E parlando mi dice: “Per lei che ama così tanto la montagna, che ci va, guardi che ho una carrozza australiana, ne abbiamo portate in Italia tre, se vuole gliene porto su in montagna una da provare, non riusciamo a venderle”. E’ micidiale, ho proprio scalato: me l’ha portata da provare e io ero felice, sono felice quando sono nelle mie montagne, perché è meraviglioso. Ho scalato con Monica al fianco anziché avercela dietro, quindi, lei non faceva fatica ma soprattutto potevamo parlare, questa è una cosa bellissima. Ho provato una gioia immensa, quindi adesso ho la terza carrozza, però bisogna trovare i fondi perché, essendo tre le carrozzine… Prima viaggiavo parecchio, quando andavo in giro dai malati: il fatto che venisse assegnata alla persona una carrozza qualsiasi non andava bene. La carrozza è un vestito, deve essere personalizzata, come il ventilatore di Saverio. Ci sono ventilatori che sono grossi come delle borsettine, delle pochette da donna, che durano anche 10 ore, per i pazienti tracheotomizzati. Sapete cosa vuol dire andare in giro, andare a camminare? E’ una cosa meravigliosa. Molto spesso non c’è conoscenza di queste cose, oppure c’è solo l’arroganza di alcuni specialisti che si occupano di questo ma dicono: “Cosa te ne fai? Tanto, stai a letto”. La presunzione di sapere che in determinate condizioni la vita deve andare in quel senso! A partire dalla carrozza – che per me era importantissima, era diventata fobica, quasi, arriva la carrozza, non arriva più, ecc. -, fino al bimbo che scopre qualcosa di meraviglioso, un regalo, questa è la vita. La vita è quel dono meraviglioso che abbiamo, anche se mi è costato tantino, dal punto di vista fisico, essere qui stasera. Io voglio ringraziare Fontolan, Micalessin, soprattutto ringraziare Emmanuel perché, io dico sempre, lo dico ai colleghi, lo sguardo è uno strumento di cura, uno strumento di speranza incredibile. Lui mi ha insegnato, anche con la sua vicinanza, che con uno sguardo un altro riesce a farti capire quanto sia importante esserci senza poter fare determinare cose. Quindi, grazie Emmanuel.

ROBERTO FONTOLAN:
Grazie, ricordo che il DVD di Io sono qui è in distribuzione da San Paolo, non ci sono altre cosa da aggiungere, buona notte, grazie a tutti e grazie soprattutto al dottor Melazzini, per lo sforzo che ha fatto per essere qui anche stasera, e poi grazie a Monica, che vedo lì ed è un piacere poter avere con noi.

Data

21 Agosto 2012

Ora

21:45

Edizione

2012

Luogo

Sala Neri GE
Categoria
Testi & Contesti