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STORIE DAL MONDO. CAOS LIBIA. Il terrore alle porte di casa
Presentazione e proiezione del reportage di Gian Micalessin, Regista. Produzione: GM News & C. – Gli occhi della guerra. Partecipa l’Autore; Introduce Roberto Fontolan, Direttore Centro Internazionale di Comunione e Liberazione.
ROBERTO FONTOLAN:
Bene, buonasera, io mi devo scusare con Gian perché nelle due sere precedenti non sono potuto essere qui con lui a presentare la nostra consueta tradizione di documentari.
GIAN MICALESSIN:
Ma c’era un sacco di gente, eh!
ROBERTO FONTOLAN:
Sì, sì, non ho dubbi, lo so! Ma ci tenevo particolarmente a presentare personalmente il lavoro di questa sera. Noi ci incontriamo molto spesso, abitiamo anche molto vicini a Roma, e negli ultimi tempi mi chiedevo: dov’è? Non lo vedo, non vedo le finestre di casa aperte. Dov’è? E’ in Libia. Poi tornava, mi raccontava cose della Libia e poi mi diceva: “No, ma la settima prossima ritorno in Libia”. E’ andata avanti così per un po’ di mesi questa storia con i suoi continui viaggi, le frequentazioni con una terra in questo momento sottoposta a una terribile situazione. E’ l’esito di questo lavoro, che è proprio un lavoro all’impronta, sul campo, il lavoro vero del reporter, del giornalista di guerra. Come sempre, vedremo il lavoro, il documentario, e poi avremo l’occasione, anche con un certo agio, di parlare con lui. Se avrete delle domande, data la disposizione della sala, preparatele ma dovrete venire qui al podio a farle perché non abbiamo la possibilità di avere i microfoni in giro per la sala. Allora, Gian, volevo chiederti: introduci brevemente questo lavoro che hai fatto sulla Libia.
GIAN MICALESSIN:
Sì, brevissimamente, questo è un viaggio in Libia e al montaggio ho cercato di strutturarlo per il Meeting come un viaggio. Quindi vi porto per mano in diverse situazioni, vi porto a vedere i territori controllati dall’Isis, vi porto a vedere i territori controllati dalla coalizione islamista che è al potere a Tripoli, vi porto dentro i centri di accoglienza e dentro i depositi di uomini dove si ammassano i profughi, vi porto sulle spiagge da dove partono i profughi. Insomma, cerchiamo di capire quel caos incredibile che sta prendendo il posto di una nazione, che ha preso ormai il posto di una nazione e che rischia purtroppo di regalare una nuova porzione del territorio al Califfato e di trasformare la nostra Italia, la prima nazione confinante, nella prima nazione europea confinante direttamente con il Califfato. Un Califfato che ormai è a 400 km dalle nostre coste. Buona visione.
Proiezione del filmato.
ROBERTO FONTOLAN:
Allora, come dicevo prima, in questi nostri appuntamenti c’è sempre la possibilità di porre qualche domanda, qualche commento, qualche osservazione. Qui c’è l’autore di questo lavoro drammatico ed emozionante, perciò chi vuole si deve accomodare qui. Prego.
DOMANDA:
Buonasera. Ho assistito anche l’altra sera alla proiezione del documentario sul Medio Oriente. Ho una domanda da farti circa l’Isis. Nessuno ce ne parla. Vediamo le distruzioni, ma nessuno ci dice cos’è l’Isis, come è nata. Qualcuno ci ha detto che ci sono ex-generali iracheni. Gli americani sono andati via e non si sono accorti che c’era l’Isis che si stava formando?
GIAN MICALESSIN:
La genesi dell’Isis: cominciamo dalla Libia, perché è interessante capire. Forse ricorderete le immagini di al-Zarqawi, il primo decapitatore, quello che tagliò la testa a un ragazzino americano che era andato in Iraq: questo accadeva nel 2004. Quello che oggi si chiama Isis a quel tempo si chiamava Al-Qaeda Iraq, poi, tra decapitazioni e uccisioni di vari leader come al-Zarqawi, si è chiamata Califfato o Stato islamico. E’ la stessa organizzazione. Ma quello che è interessante è che nel 2006 gli americani scoprirono una base di Al-Qaeda in Iraq e scoprirono questa base con tutti i documenti dei militanti provenienti dall’estero, soprattutto dai Paesi Arabi. Esaminarono questi documenti che vennero messi nel database del Centro Studi sul terrorismo di West Point. Gli americani scoprirono con grande sorpresa che la Regione che mandava più terroristi a combattere in Iraq con Al-Qaeda era la Libia. La massima concentrazione dei terroristi arrivava esattamente da Bengasi e da Derna, le due zone dove oggi si è insediato l’Isis. Cosa ci insegna questo? Ci insegna che purtroppo quella predizione che ricorderete di Gheddafi, che prima di venire eliminato disse: “Dopo di me voi farete i conti con Al-Qaeda”, in questo caso con lo Stato islamico, era purtroppo dannatamente vera. Noi non ci siamo accorti che la Libia, già al tempo di Gheddafi, era un crogiuolo del fanatismo jihadista, che i gruppi che hanno fatto poi la rivoluzione erano gli stessi gruppi che hanno combattuto negli anni ’80 in Afghanistan e nel 2000 in Iraq, in quella che era la cosiddetta insurrezione irachena. E’ un unico filo rosso che univa la Libia all’Iraq. Poi questi gruppi sono rientrati in Libia nell’ottobre 2014. Sono gli stessi gruppi che in Siria hanno occupato i pozzi petroliferi; sono comandati da un vice di al-Baghdadi, il leader supremo del Califfato. Si sono impossessati prima di Derna e poi di Sirte e hanno costituito anche lì un Califfato. Un Califfato che, come dicevo prima, è oggi a 400 chilometri dalle nostre coste e rappresenta purtroppo il maggiore pericolo per la Libia. Uno stato di instabilità permanente in una nazione divisa tra due governi, di cui tra l’altro uno è formato da una coalizione islamista. Abbiamo visto in questi giorni che c’è stata una sorta di insurrezione contro l’Isis a Sirte, dove l’Isis non ha avuto difficoltà ad avere la meglio, a decapitare i nemici e a imporre con ancora più determinazione il proprio potere. Quindi, il grosso rischio è questo: che nello sfacelo dello Stato, nello sfacelo della nazione libica, l’Isis emerga come forza preponderante.
DOMANDA:
Dobbiamo ringraziare Micalessin per le sue imprese rischiose, per come cerca di informare su un argomento in cui nessuno sa bene come stiano le cose. Tu cerchi di dosare tutte le componenti: politiche, religiose, militari, crimini, ecc. Io vorrei chiederti una cosa molto semplice. Questa gente che arriva lì: sono bistrattati, a volte anche derubati, qualcuno massacrato, alcuni si ammalano. Come fanno a resistere? Si dice paghino 800 dollari oppure 1.600. Eppure sappiamo che a volte sono derubati, quindi non sono chiare le regole del gioco. Dicono: “Là morivamo e quindi rischiamo il mare”. Quanto rischiano in questa attesa? Non dico che bisognerebbe mandare una legione romana a pacificare la Libia, perché nessuno sa bene come è la situazione. Però qualcuno chiede di aiutarli dove sono, perché non sappiamo – qualcuno dice che ci sono 2000 morti in mare – quante migliaia di morti avvengono in Africa. Grazie
GIAN MICALESSIN:
Perfetto. E’ una domanda importante, questa. Quello che non sappiamo purtroppo è quella enorme distesa di tombe che è il Sahara, quello che non vediamo. Noi vediamo le migliaia di morti che affondano nel Mediterraneo ma non ci rendiamo conto che purtroppo la tragedia di queste popolazioni incomincia molto prima, incomincia in quel Sahara che avete sentito. Attraversano in furgoni in cui sono affollati, premuti, schiacciati uno sull’altro, esattamente come nei barconi che noi vediamo. Il problema è che di quello che succede nel Sahara non sappiamo nulla, ma un numero equivalente di morti costella probabilmente le distese del Sahara del Sudan. Questo è il grande dramma. Noi assistiamo a un dramma che pensiamo sia indotto dalla povertà, dalla disgrazia: nei nostri sensi di colpa, pensiamo sia anche figlio del disinteresse dell’Europa per l’Africa. Ma ricordiamoci che questo dramma enorme è soprattutto il frutto delle grandi organizzazioni criminali che arrivano a prospettare il sogno di un viaggio in Europa fin nelle parti più lontane del mondo. Fino in Pakistan, Bangladesh. Io mi ricordo nel 2014, quando è iniziato: ero a Tripoli e c’erano gli uomini dell’intelligence del nostro Ministero dell’Interno. Era iniziata da 3 mesi l’operazione Mare Nostrum e mi dicevano: “Guarda che fra pochi mesi non sapremo più come arrestare questa ondata, perché qui s’è diffusa la voce che noi li salviamo”. Con questa operazione, abbiamo creato una calamita tremenda, rischiamo di creare migliaia di morti, perché le organizzazioni criminali hanno incominciato a portare persone da tutto il mondo, anche da zone da cui non arrivavano mai, tradizionalmente. E’ questo il grande problema di cui dobbiamo renderci conto, che purtroppo il soccorso dei migranti è necessario ma è un’arma a doppio taglio, perché quando li soccorri, incentivi anche l’arrivo e la morte di tantissimi che muoiono ben prima di arrivare sulle coste del nostro Mediterraneo. Ecco, ricordiamo che soprattutto questo è il frutto della mancanza di uno Stato libico, di un Governo libico. Nel 2012 e nel 2013, quando c’era ancora una vaga entità statale che governava il Paese e controllava in qualche maniera le frontiere meridionali, il totale degli arrivi è stato di 50 mila profughi: oggi arrivano in meno di 6 mesi in Italia. Di questo dobbiamo renderci conto, il problema principale non è l’Africa, l’instabilità, è il grande affare del commercio di uomini. E’ questo che muove purtroppo centinaia di migliaia di persone e le sposta dal cuore dell’Africa fino alle coste del Mediterraneo. Certamente, c’è anche la guerra, ma ci sono le organizzazioni clandestine che muovono questi uomini. E quindi, la prima cosa da fare è garantire un Governo stabile alla Libia, un Governo che sia in grado di chiudere quelle frontiere meridionali, che sono ormai teatro di scorrerie e di commerci per le milizie islamiste, che si arricchiscono e lucrano su questi uomini allo sbando. Perché quando arrivano alle frontiere meridionali della Libia, questi uomini vengono di fatto consegnati alle milizie islamiste che ormai controllano gran parte delle frontiere meridionali e sono le milizie islamiste che si preoccupano di portarli a Nord e di gestire il lucroso traffico chiedendo appunto soldi, denaro per portare queste masse di uomini verso il Nord.
DOMANDA:
Sono Agnese di Milano. Avevo due domande un po’ più personali. La prima: come fai a tornare da un Paese così? Cioè, cosa cambia nella tua vita a livello di coscienza dopo aver visto quelle cose? La seconda riguarda invece me. Sono una studentessa liceale e le persone che vedo in questo video, che adesso mi fanno compassione, sono le stesse persone che vedo per strada a Milano, che mi fanno paura. Per una ragazza della mia età che gira per le strade da sola, sono le persone da evitare, ti “educano” a evitarle. Mi spiace dirlo però sono le prime che magari ti fischiano. Come posso cambiare lo sguardo, avere quello sguardo sulle persone che arrivano in Italia? Perché alla fine sono le stesse.
DOMANDA:
Buona sera, io sono Lucia da Udine. Avevo due domande. La prima: che ruolo ha l’Isis nello scontro regionale tra l’Iran, cioè gli sciiti, e l’Arabia Saudita, cioè i sunniti? Perché quando hanno dato fastidio alla Giordania, ho visto che la Giordania li ha messi a posto senza tanti problemi. Se è riuscito a farlo l’esercito giordano, mi chiedo cosa potrebbero fare gli Stati Arabi se si mettessero veramente in testa di soffocare l’Isis. Ho come il presentimento che ci sia in gioco anche il braccio di ferro tra queste due anime dell’Islam. E la seconda cosa: mi chiedo se gli occidentali sanno fare i conti con i propri errori. Voglio dire: questa guerra è stata voluta dalla Francia, che ci impartisce volentieri tante lezioni di democrazia. Noi non la volevamo per molti motivi: non ci conveniva farla. Io mi chiedo: cosa è successo? Noi avevamo molto legami con i militari libici che fanno spesso l’accademia militare da noi. Credo che avessimo delle fonti, in passato l’Italia ha saputo mediare, fare una politica mediterranea. Ora invece abbiamo fatto la guerra, sono a rischio le nostre basi petrolifere e ci teniamo gli immigrati. Riusciamo a fare i conti con questi errori, a dare una chiave di lettura o i tuoi documentari continueranno ad andare dall’1.30 alle 3.00 di mattina?
DOMANDA:
Sono Matteo da Torino e sono anch’io uno studente. Ho una domanda che mi è venuta vedendo il video anche dell’altra sera, proprio sulla struttura del Califfato. Anche l’altra sera si sono viste molte città che, dopo il passaggio del Califfato, hai ritratto deserte, città fantasma. Ma anche dalle immagini che semplicemente noi vediamo, ci sono intere milizie che si muovono, ovviamente a macchia d’olio, per espandere il Califfato. Tu che hai avuto anche un’esperienza diretta, c’è un’organizzazione basata sul terrore? E come si rapporta con la popolazione che c’era prima, non solo con i cristiani ma anche con i musulmani?
GIAN MICALESSIN:
Comincio da Agnese che mi ha fatto una domanda molto interessante: in effetti è la stessa che mi pongo io, perché quando vai lì dentro, quando vai in quei depositi di uomini, non puoi non avere un trasporto umano per queste persone che sono lì in attesa. Ti dicono: “Siamo pronti a morire perché non vogliamo e non possiamo tornare indietro, dove andiamo?”. Però poi c’è anche l’altro aspetto della medaglia, quello che dicevi giustamente tu, Agnese: “Perché quegli uomini mi fanno paura quando li vedo nelle strade a Milano?”. Esprimono un mondo diverso e sono soprattutto uomini che rischiano, proprio per aver subito una tragica delusione rispetto alle loro aspettative, di essere diversi anche loro rispetto a quelli che sono nelle prigioni o nei centri di raccolta. Ed è questo il dramma dell’accoglienza, dell’immigrazione e soprattutto di una immigrazione che non è indotta dal vero bisogno, perché non tutti partono perché spinti da un vero bisogno. Tra questi, ci sono molti senegalesi, ci sono molti nigeriani non cristiani, musulmani delle zone Sud del Paese dove non c’è la guerra, ci sono abitanti del Bangladesh, dove c’è sicuramente una situazione di povertà ma non una situazione impellente. Vengono molto spesso indotti a partire perché attirati da questo specchio delle allodole dell’Occidente, per avere una vita migliore. Tant’è vero che raccolgono tanti soldi, perché costa tanti soldi questa traversata. Quindi, la prima cosa da fare è combattere queste organizzazioni che sono responsabili del traffico di uomini. E’ la prima cosa da fare, e dobbiamo combatterle anche sul suolo libico: dovevamo impedire prima che una coalizione islamista prendesse il potere a Tripoli, perché la coalizione islamista che è al potere a Tripoli ha un diretto collegamento con le milizie islamiste che controllano il Sud. E poi pensate che una di quelle barche che vediamo galleggiare davanti alle coste libiche porta molto spesso 700 uomini. Se considerate che ognuno di quegli uomini ha pagato 1600 dollari, significa che ognuna di quelle barche garantisce un fatturato di 900 mila euro. Provate a pensare cosa siano tutte quelle barche in termini di flusso di denaro che arriva nel Nord della Libia, dove non ci sono più commerci, dove anche il petrolio scarseggia. Ecco, gli immigrati sono diventati il nuovo petrolio della coalizione islamista che è al potere a Tripoli. Quindi, la prima cosa da stroncare è questo commercio immondo di uomini che porta verso le nostre coste anche persone che vengono da dove si rifugge dalla guerra. Fuggono gli eritrei, fuggono sicuramente i somali dalla guerra, fuggono i siriani, anche se è molto strana la rotta che prendono dalla Siria, perché molti dei siriani che arrivano in Libia fuggono non dalla Siria direttamente ma dall’Egitto. La loro è una storia complessa, ancora diversa, sono ex-sostenitori dei Fratelli Musulmani che erano passati in Egitto e oggi non possono più stare in Egitto e quindi scappano in Libia. Ecco, bisogna guardare con molta attenzione a questi problemi, perché, allora sì, bisogna fare arrivare gli eritrei che sono in buona parte anche figli nostri, perché erano una nostra colonia. In Eritrea, dove c’è al potere un folle che ha cercato di reimporre una sorta di dittatura di stampo maoista; in Eritrea dove addirittura non puoi uscire dal quartiere in cui vivi senza avvisare il capo quartiere, una cosa da Cambogia rossa; o dove, a 16 anni, si veste la divisa e non la si sveste più fino a 55. Ecco, allora sì, in quelle zone, il Governo italiano dovrebbe fare qualcosa per non raccogliere gli eritrei davanti alle nostre coste ma per andare a raccoglierli in Eritrea, per garantire a chi vuole scappare una via di fuga. Ecco, a mio avviso non possiamo accogliere indiscriminatamente tutti. Dovremmo accogliere i cristiani che fuggono: i cristiani non possono passare attraverso la Libia, perché fanno la fine di quei copti che avete visto decapitati, degli etiopi che finiscono decapitati. Allora, mi chiedo se non sarebbe forse una funzione del Governo italiano darsi da fare per garantire una via di fuga ai cristiani di Siria, ai cristiani dell’Iraq, ai cristiani della Nigeria che vengono sterminati nelle loro case. Perché anche nel bisogno occorre a mio avviso saper scegliere e capire chi devi e chi puoi aiutare. Non puoi aiutare tutti indiscriminatamente: questo mi sembra di aver capito dai miei viaggi. Quanto Agnese mi chiede sulla mia esperienza personale: purtroppo rispondo, Agnese, che noi giornalisti siamo come i medici. I medici non possono commuoversi per ogni paziente che passa sotto i loro occhi, perché purtroppo a un certo punto devi farci la scorza. Però, certamente, quando sei lì sei un po’ come il medico che opera, che guarda asetticamente da dietro la mascherina quello che gli passa sotto gli occhi. Poi, quando torni indietro, quando monti questi filmati, allora quelle immagini che ritornano sono nuovamente uomini, allora incominci a pensare: ecco, ma forse questo mio lavoro serve ad aiutare le persone. Ma quando sei lì non fai niente? Eh, un po’ di senso di colpa a volte c’è, in effetti. Almeno incominci a sentirlo ogni tanto, torna nei segni ogni tanto, tornano le persone che non sai che fine hanno fatto, ti chiedi un pochino: ma io li ho lasciati lì e sono tornato indietro. Sì, però sono anche i dubbi e le incognite di un medico che purtroppo non può sempre salvare i pazienti. Io dico che posso solo raccontare la loro storia, non posso fare di più, sono impotente a fare di più, purtroppo. Bisogna anche in questo accettare i propri limiti, se no non puoi fare questo lavoro. Lucia, io penso che come dobbiamo scegliere chi aiutare, chi salvare, dobbiamo saper scegliere molto meglio anche i nostri alleati. Noi abbiamo degli alleati molto infidi e molto ambigui. Nel marzo del 2014, prima che venisse alla luce la realtà drammatica dell’Isis, dello Stato islamico che occupava Mosul, che occupava il Nord Iraq, che prendeva in schiavitù gli asili, che cacciava i cristiani dalle loro case e le segnava con quella N di Nazareno, beh, il Sottosegretario al Tesoro americano intervenne con una relazione al Senato. Chiaramente, la maggior parte dei finanziamenti allo Stato islamico che già combatteva in Siria, arriva dal Qatar e dal Kuwait, quindi da due degli Stati che vengono considerati principali alleati. Il Qatar, che ci piace tanto perché possiede squadre di calcio, perché investe in Sardegna, in proprietà di lusso, perché investe nei grandi magazzini Harrods a Londra, perché è l’emblema di questa ricchezza scintillante che piace tanto all’Occidente: ma dietro il Qatar, questo nostro alleato, c’è forse uno dei peggiori fondamentalismi, un Paese dove non si è mai votato. E anche dal Kuwait, arrivano quei soldi, e sono arrivati dall’Arabia Saudita, che adesso ha capito che avere alleati così è un rischio anche per lei. Ma soprattutto, ed è ancora peggiore, la Turchia che ha appoggiato l’ISIS, che ha lasciato che lo Stato islamico transitasse per i suoi territori: lo hanno denunciato gli stessi giornalisti turchi che hanno messo su Internet i video delle armi portate dai servizi segreti turchi allo Stato islamico in territorio siriano. Non dimentichiamoci che la Turchia è all’interno della NATO, è teoricamente un alleato degli Stati Uniti, dell’Europa, dell’Italia. Ma, ancora peggiore forse, è il ruolo che sta giocando in questi giorni la Turchia: 135 mila profughi siriani tracimati al confine turco, 3000 al giorno, oggi. Ecco, io ho l’impressione che in questo caso non siamo più di fronte a una fuga ma a un’altra forma di invasione, un’altra forma di guerra, perché quella stessa Turchia che è abilissima a sigillare le frontiere per impedire che arrivino gli aiuti ai curdi che combattono contro lo Stato islamico, non riesce a fermare i siriani, gli afgani e tutti quei rifugiati che sono nei suoi campi profughi, ma che sono soprattutto il frutto di una guerra, la guerra in Siria che è stata fomentata e alimentata dalla Turchia. Ecco, ho l’impressione che questo nuovo esodo che non passa più dalla Libia ma dalla Turchia, sia il frutto purtroppo di una nuova guerra dove i miserabili, dove i disgraziati, i profughi, vengono usati come un’arma che sicuramente alimenta il caos in Europa, alimenta l’instabilità in Europa, alimenta la paura nelle nostre città. Ecco, io ho la paura che qui non siamo di fronte semplicemente a una tragedia ma all’inizio di una nuova guerra, combattuta con armi e mezzi diversi.
ROBERTO FONTOLAN:
E’ vero che non siamo in una serata di diplomazia. Adesso deve rispondere alla domanda sugli errori occidentali.
GIAN MICALESSIN:
Gli errori occidentali più tremendi li abbiamo fatti a dismisura. Immaginiamoci soltanto quello che abbiamo fatto in Iraq dove abbiamo cacciato e fatto uccidere Saddam Hussein per non lasciare alle spalle null’altro che il terreno su cui è cresciuto poi il Califfato. L’errore più grave, l’errore più tragico, più drammatico è sicuramente quello della Libia, è davanti ai nostri occhi: uno Stato che è stato distrutto. Gheddafi era sicuramente un dittatore, era sicuramente un uomo che non poteva essere concepito come un democratico, ma purtroppo avete visto il filmato, avete sentito Yara. Yara era una ragazza che aveva 18 anni quando c’è stata la rivoluzione e dice: “A tre anni dalla rivoluzione, quelle cose minime che avevamo con Gheddafi le abbiamo perse”. Oggi Yara è dovuta fuggire in Egitto perché l’hanno minacciata, hanno minacciato lei e la sua famiglia come migliaia di altri libici. Leggevo alcune delle mail emerse dai computer di Hillary Clinton che era Segretario di Stato. Da quelle mail, emerge chiaramente che Hillary Clinton sapeva benissimo che gran parte dei gruppi cosiddetti rivoluzionari che combattevano contro Gheddafi, erano componenti di quel gruppo combattente libico affiliato da Al-Qaeda che combatteva in Iraq. Si sono illusi per qualche strana presunzione americana di riuscire ad educarli, di trasformarli in sinceri democratici, di creare attraverso di loro un Governo liberale: queste sono le follie dell’Occidente, queste sono le follie a cui ci ha costretto la Francia che pensava, attraverso il Qatar, di costruire un’alternativa in Libia alla nostra Eni, di portare via il nostro petrolio, di portare via il nostro gas, perché questa è la partita che si è giocata in Libia, una partita che purtroppo ha invece prodotto disordine e caos per tutti quanti. Poi c’era Matteo.
ROBERTO FONTOLAN:
Vieni pure, intanto che risponde telegraficamente alla domanda sulla struttura del Califfato, così ti prepari bene la domanda. Venite su perché dobbiamo un po’ accelerare.
GIAN MICALESSIN:
La struttura del Califfato. Alcuni di voi ricorderanno forse cosa è successo in Afghanistan, quando i talebani andarono al potere nel 1997. Una cosa molto simile succede in alcune parti della Siria dove, dopo anni di guerra, arriva il Califfato. E le popolazioni, stremate dalla guerra dalla disorganizzazione e dalla crudeltà dei ribelli, delle altre fazioni ribelli che combattono ugualmente contro il Califfato, o stremate dai bombardamenti governativi, dicono: “Bene, accettiamo il Califfato, lasciamolo arrivare perché almeno imporranno l’ordine”. E il Califfato gioca sicuramente su questo effetto. Ma poi ho sentito cosa significhi vivere nelle terre che vengono conquistate dal Califfato. Ho incontrato donne che sono dovute fuggire perché dicevano cose paradossali, che sono quasi difficili da credere. Dicevano: “Questi uomini armati in mezzo alla città non avevano per la testa altro che il sesso, ci importunavano continuamente per le strade, c’erano continuamente decapitazioni nel centro della città”. Ecco, sicuramente da una parte c’è un ordine sociale. Se leggete Dabiq, la rivista dello Stato islamico che esce regolarmente su Internet, loro invitano chiaramente gli ingegneri tunisini ad andare nelle città controllate in Siria, per far ritornare in moto le centrali elettriche. Invitano gli esperti di agricoltura ad andare a vivere lì; adesso hanno fatto addirittura dei video in cui promuovono il turismo in Siria, nella terra del Califfato. Ma poi c’è l’altro aspetto, l’altro aspetto terrificante delle donne che vengono prese a sprangate per strada se non portano i guanti, perché la donna deve essere totalmente coperta. Questa donna che ho incontrato all’interno del vescovato di Aleppo che mi raccontava: “Sono dovuta scappare perché mi sono rotta un braccio e all’ospedale non c’erano più medici per noi donne, perché noi possiamo essere curate solo da donne ma le altre donne erano scappate”. Non c’erano donne infermiere, non c’erano donne medici. Abbiamo assistito per giorni a questi spettacoli, abbiamo visto le teste infilzate sulle ringhiere intorno al giardino della città: questa è la vita, faccia a faccia con l’orrore.
DOMANDA:
Una domanda molto semplice, perfino banale: si dice che gli Stati intervengano quando hanno un interesse da difendere. Qual è l’interesse che spinge l’Europa a non intervenire in una situazione come la Libia, in cui c’è tutto da perdere nell’avere l’ISIS a 400 km., nell’avere le fonti energetiche tagliate, nell’essere sotto ricatto continuo dell’emigrazione? La seconda, forse più complicata. Ho letto un articolo di un demografo, il prof. Blanciardo, Presidente dell’ISMU. Lui ha fatto un conto molto rapido: ci sono nell’Africa Sud sahariana 300 milioni di persone fra i 20 e i 40 anni che vedono l’Europa come soluzione del loro problema di vita. 300 milioni sono un numero importante, come ci si può porre di fronte a questo problema?
DOMANDA:
Io sono un cristiano. Gesù Cristo mi insegna a dare la vita per il prossimo. Qualche sera fa c’era qui Padre Ibrahim. Come si fa a fermare questa gente? E’ abbastanza, l’amore? Questa domanda volevo farla l’altro giorno, quando c’era la moglie del Presidente dell’Afghanistan.
DOMANDA:
Sono Guido da Milano. Grazie, Gian, per le tue testimonianze che ci mettono di fronte a delle persone, ognuna delle quali ha una storia terribile, una storia personale, ognuna delle quali effettivamente, realmente, merita accoglienza. Di fronte a questo fatto, la nostra responsabilità è chiamata in prima persona. Che cosa possiamo fare a cominciare da noi personalmente, con la nostra responsabilità, e i nostri governi e forse sicuramente l’Europa, le Nazioni Unite, a cominciare dalle nostre frontiere, la Libia, andando giù nei Paesi da dove si originano questi flussi, per riuscire ad aiutare nel modo migliore, per evitare che ci siano tutte queste storie, per far finire poco a poco, magari, questo dramma? Grazie.
DOMANDA:
La mia domanda riguarda il mondo dell’informazione italiano e occidentale in genere, perché sulle responsabilità della Francia e anche della Gran Bretagna nel crollo del regime libico, qualcosa mi sembra fosse stato detto all’epoca della rivoluzione. Ma da anni mi sembra che non dica più niente nessuno, anche sulle responsabilità dell’Arabia Saudita nel finanziare i terroristi. Poi all’improvviso il re si accorge che sono pericolosi. E’ stato detto ma facendo il paragone – con un’insistenza che dà la nausea che ha il nostro mondo dell’informazione su certe notizie – con il funerale dei Casamonica, che ormai mi esce dalle orecchie. La Francia ha provocato il disastro in Libia, sembra che non si dica quasi niente: c’è una qualche forma di censura anche da noi, nel nostro mondo dell’informazione? C’è qualche ragione per cui non si insiste su queste cose? Mi associo alla domanda di chi mi ha preceduto: mi chiedo come sia possibile andare a combattere le organizzazioni criminali là dove operano. Grazie.
GIAN MICALESSIN:
Bene, cerco di riassumere tutto. Partiamo dagli interessi dell’Europa, che è forse la domanda più interessante perché dall’interesse dell’Europa e del resto del mondo sulla situazione libica deriva un po’ tutto il resto. Vediamo innanzitutto per chi non è interessante la Libia: non è interessante per gli Stati Uniti, non lo è mai stata. Non sono interessati a quel tipo di petrolio e alle ricchezze della Libia, non sono interessati a quello che succede in questo angolo del Nord Africa perché lo considerano poco importante strategicamente, poco importante economicamente. Dall’altra parte, c’è un’Europa che purtroppo, come abbiamo visto, non è una grande potenza, non è neanche un coacervo di Stati, è un caos: vediamo come ci dividiamo sull’immigrazione. Noi siamo, all’interno dell’Europa, quelli che hanno un interesse prevalente in Libia, ma da soli non possiamo fare nulla, non abbiamo un esercito in grado di controllare. Se anche volessimo fare la follia di un intervento, potremmo mandare al massimo 10 mila uomini con cui controlleremmo a stento la zona intorno a Tripoli. Quindi, è chiaramente impensabile un intervento militare. E chiaramente, non interessando questa cosa al nostro grande alleato, gli Stati Uniti, che oggi è concentrato su altri fronti – sull’Ucraina, sulla zona di influenza dello Stato islamico, quindi Siria, il Nord Iraq -, la Libia diventa inevitabilmente una zona grigia in cui l’Europa non è in grado di prendere iniziative e l’Italia ancora meno. Ricordiamoci che quando avevamo la presidenza europea, un anno fa, nell’agosto 2014, siamo rimasti a guardare, senza promuovere alcuna iniziativa politica, alla caduta di Tripoli nella mani delle milizie islamistiche e alla cacciata del legittimo Governo che si trovava a Tripoli. Da lì nasce la catena del disordine, la catena del caos, da quel nostro ultimo errore nasce la divisione della Libia in due, la Libia che non si governa più, la Libia che non controlla più neppure una minima parte dei propri confini meridionali ed è in balia di quelle stesse milizie islamistiche che governano Tripoli. Ricordiamoci un’altra cosa: adesso è in ballo una missione europea per combattere contro i trafficanti di uomini, ma perché quella missione parta c’è bisogno di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Quella risoluzione del Consiglio di Sicurezza dipende da una mozione che dovrà venire scritta dall’Inghilterra, perché l’Inghilterra è un membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. E quindi, noi italiani, che abbiamo bisogno disperato di quella missione, dobbiamo aspettare che gli inglesi, che hanno interessi completamente divergenti rispetto ai nostri in Libia, scrivano per noi la mozione che verrà presentata al Consiglio di Sicurezza. Capite che è un meccanismo che non può funzionare: questo meccanismo ci porterà al collasso, resteremo inerti ad osservare, come stiamo osservando da due anni, l’invasione dei profughi, come stiamo osservando la marea umana che sale dalla Turchia. Ecco, questo è il problema. E poi c’è il problema dell’Africa. Certo, ci sono sicuramente 300 milioni di persone che soffrono in Africa, ma c’è anche un altro punto di vista, non dobbiamo abbandonarci ai soliti sensi di colpa post colonialisti per cui siamo sempre e solo noi i responsabili dei drammi e delle tragedie dell’Africa. Signori, l’Occidente ha donato all’Africa 500 miliardi di dollari negli ultimi 60 anni, miliardi che sono stati letteralmente dilapidati da dittatori, capi tribali, governi corrotti. Oggi quegli stessi governi, quegli stessi dittatori, quegli stessi capi tribali dicono: “I vostri soldi non ci interessano più perché voi ci chiedete forme politiche come democrazia, uguaglianza. I soldi vostri non li vogliamo più, non ci interessa. Noi i soldi li prendiamo dalla Cina, che in cambio ci chiede soltanto di dargli zinco, rame, gas, fosfati. E glieli daremo per 20, 30 anni”. E’ questo il nuovo colonialismo dell’Africa, non è più il nostro. E’ a quella stessa Cina che sconvolge i nostri mercati che noi oggi dobbiamo chiedere delle azioni per il disordine dell’Africa, un’Africa spogliata dalle sue risorse per soldi e finanziamenti che entrano direttamente nelle casse dei dittatori e dei governi, senza che a questi dittatori venga chiesta la minima riforma in cambio, che è quel poco che facevamo noi negli anni ’80 e ’90. Questo è il grande male dell’Africa, che spinge le popolazioni a fuggire dalle campagne abbandonate e a cercare nelle città quello che non trovano e le spinge ancora avanti, in questa folle corsa nomade verso il Mediterraneo, in cui fuggono e affondano. Ecco, non cerchiamo sempre la colpa in noi, cerchiamo anche altre colpe perché sono altre, le grandi colpe in Africa. E poi, come si fa a fermare questa gente? Io penso che non ci possa essere una risposta per fermare tutta questa gente, non possiamo fermare la guerra in Siria, non siamo riusciti a fermare la guerra in Siria in questi 5 anni. Purtroppo, da lì dobbiamo incominciare, dalle aree destabilizzate, dobbiamo incominciare dalla Somalia che è lo specchio di quello che diventerà la Libia, eppure io sono andato in Somalia, tre anni fa. La popolazione mi diceva: “Ma voi italiani, dove siete? Perché non siete più venuti? Perché non ci avete più cercato? Siamo i vostri figli, eravamo la vostra colonia, adesso qui abbiamo i turchi e voi non avete neanche aperto un’ambasciata”. Ecco, l’Italia forse deve avere un altro sguardo al mondo, uno sguardo più ampio, uno sguardo di politica estera che sia un vero sguardo verso i propri interessi, perché non è soltanto una questione di potere, di ampliare la propria sfera di potere, è anche una questione di meri interessi, essere presenti in Somalia con una ambasciata che non siamo ancora riusciti ad aprire. Questo ci aiuterebbe forse a capire chi salvare, a stringere dei rapporti con quel dittatore tremendo – ma la pace la si fa con i propri nemici – che sta al potere in Eritrea, a cercare di salvare un po’ di persone, evitando loro quelle traversate drammatiche del Sahara. Queste sono le piccole cose che possiamo fare. E ancora, lo ripeto, salvare i cristiani, perché senza cristiani il Medio Oriente sarà un altro Medio Oriente, sempre più alla deriva, sempre più allo sbando. E poi, la responsabilità di noi giornalisti, che è anche la mia, è purtroppo quella di esserci illusi che Internet, la grande rete, ci desse maggiori fonti di informazione. Abbiamo tutti l’illusione di sapere tutto e leggiamo sempre la stessa notizia: è questo che ha imprigionato l’informazione. L’informazione era molto più dettagliata, era molto più libera, era molto più ampia dieci, venti anni fa, quando i giornalisti andavano sul posto. Oggi abbiamo l’illusione di premere un bottone, lanciare un comando dal nostro computer e scoprire quello che succede. Per questo le notizie sono così veloci da dimenticarle immediatamente un attimo dopo. Abbiamo parlato della Francia che ha costretto Gheddafi ad abbandonare il potere e morire, ma un minuto dopo ce ne siamo dimenticati, siamo in un nuovo scenario. Tutto quello che c’era prima non conta più, è nella schermata precedente del computer. E questo purtroppo è anche il dramma dell’informazione, l’informazione che è diventata veloce, immediata, ma estremamente labile e senza memoria.
ROBERTO FONTOLAN:
Io vorrei dire una cosa in conclusione, aggiungo un mio piccolo commento. E’ un ringraziamento a Gian perché in tutti questi anni ci ha aiutato a percorrere questo scenario, questo contesto, a capire di più, a sapere di più cosa vuol dire “la terza Guerra Mondiale a pezzi”, con la famosa espressione di Papa Francesco che è stata ripresa poi nel messaggio del Presidente della Repubblica all’inaugurazione del Meeting. E tante volte la soluzione non c’è, non c’è nella politica, non c’è nell’ONU, non c’è nei grandi poteri, non c’è nei piccoli poteri. Padre Pizzaballa, in uno degli interventi di alcuni anni fa al Meeting, mi sorprese perché disse: “Noi razionalisti, europei, persone dotate di buon senso, di storia, pensiamo che i problemi si possano risolvere. Ci sono problemi che non si risolvono”. Allora, come si fa a vivere dentro un problema che non si risolve, i cui meccanismi sono così giganteschi da rendere impossibile una soluzione? Naturalmente uno si augura che le soluzioni ci siano e lavora, si impegna per questo. Ma il Vescovo Martinelli, che abbiamo visto, vive lì e il motivo della sua presenza lì, del suo stare lì non è perché ci sarà domani la soluzione, è perché oggi non c’è una soluzione. Allora, pensare questo punto di vista diverso, questa sua presenza diversa lì, che non ha l’idea di cosa sarà domani, è qualcosa che può aiutare anche noi a capire come si sta al mondo in un posto, in una giornata, in un istante, in un’ora dove la soluzione non c’è, ma io ci sono. Di questo lavoro di questa sera, di cui veramente ringrazio Gian, è la cosa che mi porto dentro. Allora ci rivediamo l’anno prossimo, spero.
GIAN MICALESSIN:
Spero di sì, grazie a voi, soprattutto.